Fosse, il Nobel venuto dai fiordi
Stefano Gallerani, «Il Mattino»
Come spesso accade, anche stavolta i telefoni delle librerie impazziranno e le rotatorie delle case editrici faranno gli straordinari per rimpinguare la non straordinaria presenza editoriale nel nostro paese di Jon Fosse (classe 1959), fresco vincitore del centosedicesimo premio Nobel per la letteratura. Fortuna che – dimostrando buon fiuto – da qualche anno a questa parte La Nave di Teseo abbia cominciato a pubblicare brani significativi dell’opera in prosa di un autore che il pubblico italiano conosce più come drammaturgo che come narratore: nel 2019 è toccato alla novella Mattino e sera mentre due anni più tardi è stata la volta di L’altro nome, che raccoglieva i primi due capitoli della Settologia romanzesca di cui martedì prossimo usciranno, sotto l’intestazione rimbaudiana di Io è un altro, le parti da tre a cinque (come le altre tradotte da Margherita Podestà Heir). Nel 2009 era stata invece Fandango a stampare per noi Melancholia, struggente dittico monologante che ha come protagonista il pittore ottocentesco Lars Hertvig. Quattro testi, insomma, che, al netto delle pubblicazioni teatrali (per Titivillus, Cue Press e i tipi di Editoria e Spettacolo) e della raccolta teorica di Saggi gnostici, rappresentano un buon viatico per un artista che vanta, in originale, oltre cinquanta titoli tra drammi, romanzi e poesie, e di cui l’Accademia svedese ha riconosciuto – così nella motivazione – la capacità di «dare voce all’indicibile».
Nella loro estrema concisione, i savi di Stoccolma hanno efficacemente colto un punto che solo all’apparenza si risolve in un facile ossimoro. Già, perché se c’è una qualità che salta all’occhio sin dal primo incontro con la scrittura di Fosse è che il suo campo d’elezione è quel lembo di realtà in cui la riconoscibilità (di luoghi, situazioni e dinamiche) non ha altro scopo che velare, ma non del tutto, quella dimensione spirituale che difficilmente trova spazio nell’equivoco realista. Il quotidiano diventa, in questo modo, assoluto, così come i personaggi finiscono per rappresentare nient’altro che lo specchio di un unico «sé». Non a caso, tra i nomi che ora si tirano in ballo per rendere più potabile questo neolaureato dallo stile asciutto e vagamente sperimentale (se così si intende qualsiasi cosa esca appena fuori dal seminato della grammatica più convenzionale), quello in pole position è senz’altro Samuel Beckett (altro Nobel conteso tra pagina e palcoscenico). Pure, per quanto nobile, l’ascendenza con l’irlandese rischia di diventare equivoca, se non limitativa, tanto ingombra il giudizio – e il pregiudizio – che grava sull’autore di Murphy e Aspettando Godot. Ben più interessante è, invece, capire quali siano i punti di distanza e quelli di contatto tra Fosse e il connazionale Ibsen, che con il primo condivide il primato di essere il drammaturgo norvegese più rappresentato al mondo. Di sicuro, ad accomunarli è lo stigma ibseniano per antonomasia: quegli «spettri» attraverso cui le ombre del passato si manifestano nell’esistenza per conferirle una prospettiva e una profondità inedite.
Distante appare, invece, la dinamica del conflitto, laddove la spietatezza di Ibsen – e per essa, in grado superiore, l’odio – è un detonatore assente (o quantomeno depotenziato) dalle pagine di Fosse. Non a caso – è stato lui stesso a confessarlo in più di un’occasione – i suoi personaggi cercano né più né meno che nell’amore una ragione per vivere e sopravvivere. Di che tipo di amore si tratti, poi, è tutt’altra e ben più complessa ragione. Una ragione, anzi, che Jon Fosse rimette in quasi tutta la sua interezza nelle mani del lettore, interlocutore imprescindibile di figure che, su carta, non hanno mai – o quasi – nome. Per Fosse, infatti, il nome costringe l’essere umano in un ruolo sociale, spogliandolo della sua umanità. Esemplare in tal senso, tra i molti, il dramma Io sono il vento (allestito in Italia nel 2013 per la regia di Alessandro Greco), i cui personaggi, abbandonati su una nave in balia del mare sono, semplicemente, «l’uno» e «l’altro»: figure speculari che agiscono su un piano che, anche temporalmente, ha poco a che fare con la sequenza cronologica di passato e presente. Di loro si sa poco, né si conosce esattamente il legame che li costringe in quell’isolamento forzato. Se «l’uno» sia il padre de «l’altro», se siano solo amici (così come potevano esserlo i Vladimiro e Estragone beckettiani) o se tra di loro esista un rapporto di sangue – ma, anche, se addirittura siano contemporanei – non è dato sapere. Pure, nell’astratto furore immaginativo di Fosse, ogni loro parola e ogni loro frase hanno un’esatta, per quanto enigmatica, luminosità. Sta qui, probabilmente, la misura «universale» di Fosse – il quarto scrittore del suo paese a ricevere il più prestigioso premio letterario del mondo dopo Bjørnstierne Bjørnson (1903), Knut Hamsun (1920) e Sigrid Undset (1928). Sta in quest’apertura di senso la forza di una scrittura che, come sempre la grande letteratura, coinvolge chi legge in un agire di segno uguale e contrario a quello di chi scrive. Una forza, insomma, che vale un Nobel.