Il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena
Simone Sormani, «Proscenio»
Jon Fosse, Premio Nobel per la Letteratura, e il suo rapporto con il palcoscenico e la drammaturgia
Non era di certo tra gli autori più conosciuti in Italia, Jon Fosse. Almeno fino al 5 ottobre scorso, quando è stato proclamato vincitore del Nobel per la Letteratura 2023. Quel giorno le richieste di suoi volumi alla Cue Press sono schizzate da circa uno o due all’anno a duemila cinquecento in un’ora. Lo ha detto alla giornalista Katia Ippaso – su Il Venerdì di Repubblica – Mattia Visani, direttore della piccola casa editrice che di Fosse ha in catalogo Caldo, Saggi gnostici e Teatro. In passato le sue opere sono state proposte anche da Fandango, Editoria & Spettacolo e Titivillus, e ora da La nave di Teseo e da Einaudi ma, pur essendo la sua produzione letteraria sterminata, solo da poco è entrato nei circuiti dei grandi colossi dell’editoria nazionale. Tutto ciò accresce ancora di più il mistero che aleggia intorno a questo autore norvegese nato nel 1959 ad Haugesund, nel Sudovest della Terra dei Fiordi, e che oggi vive ad Oslo in una residenza onoraria concessagli dalla Corona. Insieme al carattere schivo, che lo porta a stare lontano dai riflettori; all’aspetto vagamente esistenzialista – capelli lunghi, barba, veste spesso di scuro- ; alla scelta di comporre in nynorsk, una variante minoritaria del norvegese; al misticismo che lo pervade e a cui dice di essere approdato attraverso la scrittura – passando da una gioventù rockettara e pacatamente atea al protestantesimo e poi al cattolicesimo.
Del resto, ha raccolto le proprie riflessioni teoriche e filosofiche in un volume intitolato Saggi gnostici, dove afferma che ‘il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena’. E se pensiamo all’angelo quale ‘messaggero’ tra l’umano e il divino, capiamo subito come la sua scrittura più che sul pensiero si fondi sull’ascolto di messaggi interiori, di quel groviglio di sentimenti e stati d’animo che, altrimenti, sarebbero destinati a rimanere nell’«indicibile». Una ricerca di una dimensione intimistica che sta tra due grandi stagioni: quella di ieri, il Novecento, dove tutto era politica e ideologia e l’ansia di indagare il rapporto tra individuo, società e i grandi movimenti e mutamenti di massa schiacciava prepotentemente le ragioni dell’Io; e quella di oggi e di domani, dove si palesa il pericolo del dominio di una tecnologia che si propone di pensare e agire al posto dell’uomo pur non avendo nulla di umano, alcuna capacità di sentire ed empatizzare. Senza voler tralasciare la narrativa – tra cui in traduzione italiana Melancholia (prima edizione Fandango 2009), romanzo che nel 1995 lo impose all’attenzione del mondo letterario, Mattino e sera e la poderosa opera in sette volumi Settologia (pubblicati da La nave di Teseo tra il 2019 e il 2023) – è proprio nei testi teatrali di Fosse che si avverte fortemente la centralità di un rapporto senziente con gli altri, tra gli altri e con il mondo, di ponti emotivi ed esperienziali, tradotti in una drammaturgia fortemente innovativa. A partire da spazi atemporali, indefiniti, dove le azioni non sempre hanno linearità cronologica e possono accadere contemporaneamente cose solo apparentemente sconnesse tra loro, ma in realtà legate da nodi inestricabili, e i personaggi guardarsi attraverso ricordi, pensieri, premonizioni. Dialoghi brevi, minimali, ricchi di ripetizioni, rappresentano il segno distintivo di una narrazione il cui senso diventa, talvolta, sfuggente e ambiguo. Sono le pause, in realtà, i non detti, i gesti e gli sguardi – tutti descritti attentamente nelle didascalie – a prevalere sulla parola. È lì, nei silenzi comunicativi, che si coglie il flusso di emozioni, che le battute acquistano tutta la loro pienezza di senso e le trame consistenza nel raccontare inquietudini e drammi del quotidiano, conflitti generazionali e precarietà dei rapporti familiari e di coppia.
Fosse così «scardina le tradizionali forme e strutture drammaturgiche, frantuma le abilità attoriche e le certezze intellettuali dei registi, ci fa nuovamente posare i piedi sulle irregolarità della terra. Nel suo teatro, in poche parole, cade l’illusione di potersi cullare e adagiare nella placida società del benessere», scrive la traduttrice Vanda Monaco Westersthal nella prefazione alla raccolta Teatro che contiene E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome. Proprio Qualcuno verrà, con la regia di Sandro Mabellini, è stata la prima opera di Fosse ad essere rappresentata in Italia nel lontano 2001 alle Scuderie del Palazzo Farnese di Caprarola, in occasione del Festival Quartieri dell’Arte organizzato da Gian Maria Cervo. Numerose le messe in scena di Valerio Binasco – ancora Qualcuno verrà e poi E la notte canta, Un giorno d’estate, Sonno e Sogno d’autunno e l’ultima La ragazza sul divano (debutto nazionale al Carignano di Torino dal 5 al 24 marzo, produzione Teatro Stabile di Torino e Teatro Biondo di Palermo, nel cast Pamela Villoresi e Isabella Ferrari). Hanno contribuito a diffonderne la conoscenza sui nostri palcoscenici anche Valter Malosti con Inverno nel 2003; Alessandro Machia – che da anni conduce studi e seminari di approfondimento sulla sua drammaturgia – con Caldo nel 2017; Thea Dellavalle, Alessandro Greco e Vincenzo Manna con il Trittico Fosse (presentato al Teatro India di Roma nel 2015). Ma il premio Nobel norvegese resta, nonostante tutto, per una parte del pubblico italiano ancora un ‘oggetto misterioso’, e ciò renderà ancora più interessante e affascinante continuare, nei prossimi anni, il viaggio alla sua scoperta.
Anno IX, aprile-maggio 2024