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Sul «per ora e per sempre»
15 Gennaio 2023

Sul «per ora e per sempre»

Simona Busni, «Fata Morgana Web»

«Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, come il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare. […] Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone. […] Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì» (Friedrich W. Nietzsche).

Che la ricerca della felicità sia un «diritto inalienabile» – insieme alla vita e alla libertà – ce lo insegna il testo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Che esso possa riguardare altresì il cinema e la commedia ce lo insegna un filosofo, Stanley Cavell, colui che ha, di fatto, incontestabilmente trasformato la filosofia in un qualcosa di americano, e lo ha fatto (anche) attraverso i film. Uso il verbo «insegnare» al presente, nonostante il libro in questione, Pursuits of Happiness. The Hollywood Comedy of Remarriage, risalga al 1981, per due motivi: il primo è l’occorrenza legata alla pubblicazione di una nuova edizione italiana dell’opera, curata da Piergiorgio Donatelli (Cue Press 2022); il secondo concerne il valore etico inestimabile della sua eredità teorica negli studi sul cinema, il quale merita, oggi più che mai, a quattro anni dalla scomparsa dell’autore, di essere ancora pienamente riscoperto e riaffermato.

Curioso constatare che, in italiano, c’è sempre di mezzo un «ri-» quando si parla di Cavell, a partire dall’eccentrico neologismo «rimatrimonio», ormai normalizzato dal lessico specialistico, che il suo inventore, Emiliano Morreale, ripristina con fierezza in questa (ri)traduzione, definita nella nota, maggiormente «anfibia rispetto a quella realizzata per Einaudi nel 1999 perché ispirata talvolta ‘[…] a criteri di scioltezza per non perdere del tutto il contatto con lo stile di Cavell’, più spesso attenta alla lettera del testo» (Morreale 2022, p. 21). Al di là degli aspetti più tecnici – seppure evidentemente imprescindibili, essendo Cavell un filosofo del linguaggio ordinario che «parla al filosofo il linguaggio del cinema e al cinefilo il linguaggio della filosofia» (ibidem) – tutto ciò che richiama il senso della «ripetizione» ha nel pensiero cavelliano un valore molto preciso, che dalle altezze teoretiche prefigurate dalle visioni di autori come Platone, Kierkeegard, Nietzsche e Freud (tra gli altri), si innesta nell’impianto retorico dei generi cinematografici, creando un ibrido critico portentoso, estremamente dinamico e versatile. Ecco, allora, qual è un’altra cosa che continua a insegnarci Cavell: a riconoscere un certo tipo di commedia quando la vediamo al cinema.

«Il film […] pone una questione riguardante la convalida del matrimonio, la realtà del suo legame, nel modo in cui tale questione è posta nel genere della commedia del rimatrimonio. La sua risposta partecipa (o contribuisce con la sua particolare tonalità) alla risposta che tale struttura fornisce: che la validità del matrimonio esige la disponibilità [willingness] alla ripetizione, la disponibilità al rimatrimonio. L’obiettivo della conclusione è far tornare i due a un particolare momento della loro passata vita comune. Non è richiesta una nuova risoluzione, ma soltanto la ripresa di un’azione che è stata, per così dire, interrotta; non si deve ricominciare da capo, ma ricominciare un’altra volta, trovando il filo e riprendendolo» (Cavell 2022, p. 133).

Sette film soltanto, accuratamente selezionati tra le cosiddette screwball comedy degli anni Trenta e Quaranta – perché l’atto critico, sostiene Cavell, è sempre arrogante. Di generazione in rigenerazione, queste commedie incorporano nell’impasto ontologico del cinema classico sostanze drammatiche di matrice shakespeariana, addizionate al succo che il filosofo estrae direttamente dalla riflessione sullo scetticismo (e dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein). Dietro ai sofisticati rimatrimoni tra Katherine Hepburn e Cary Grant, tra Barbara Stanwyck e Peter Fonda, tra Claudette Colbert e Clarke Gable – senza dimenticare gli incroci trasversali con James Stewart, Spencer Tracy, Irene Dunne e Rosalind Russel – magistralmente orchestrati dal genio di registi come Howard Hawks, George Cukor, Preston Sturges, Frank Capra e Leo McCarey, si spalanca un ventaglio di questioni enormi riguardanti l’identità, l’uguaglianza, il limite e la trasgressione, l’educazione, la separatezza, il dubbio, il rischio dell’elusione reciproca, il narcisismo, il peso delle scelte, il ruolo dei figli, la condivisione del tempo, l’avventura, l’importanza della conversazione, l’uso delle parole in relazione al contesto, la redenzione del quotidiano, le prime volte, la battaglia dei sessi.

Accadde una notte, certo, ma Cavell ci assicura che può accadere ancora. Forse per il lettore contemporaneo potrebbe essere stimolante accogliere una nuova sfida critica e tentare di rispondere al quesito che si pone lo stesso autore nell’introduzione di Alla ricerca della felicità in merito all’ipotetico esaurimento del genere. Vale a dire, è possibile girare al giorno d’oggi altre commedie del rimatrimonio in un contesto storico-culturale-produttivo completamente diverso? A seguire, Cavell segnala alcuni titoli più «recenti» di film che iniziano con un divorzio e poi riflettono sul matrimonio: Una donna tutta sola (An Unmarried Woman, P. Mazursky, 1978), E ora: punto e a capo (Starting Over, A. J. Pakula, 1979) e Kramer contro Kramer (Kramer vs. Kramer, R. Benton, 1980). Certo, le premesse sono altre; molti passaggi topici non sussistono, ma il critico motivato (e arrogante!) può giocare a ridefinire la categoria, motivando eventuali divergenze e introducendo nuove proprietà.

Cavell si ferma qui, anche se in alcuni saggi, scritti tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila (tra cui, Cavell 1999 e 2005), timidamente ci riprova e abbozza una nuova lista di film eredi: Stregata dalla luna (Moonstruck, N. Jewison, 1987), Tootsie (id., S. Pollack, 1982), Insonnia d’amore (Sleepless in Seattle, N. Ephron, 1992), Ragazze a Beverly Hills (Clueless, A. Heckerling, 1996), Ricomincio da capo (Groundhog Day, H. Ramis, 1992), Joe contro il vulcano (Joe vs. the Volcano, J. P. Shanley, 1990), Mr. Crocodile Dundee (Crocodile Dundee, P. Faiman, 1986), Una donna in carriera (Working Girl, M. Nichols, 1988), Qualcuno da amare (Untamed Heart, T. Bill, 1993), Innocenza infranta (Inventing the Abbots, P. O’Connor, 1997), Quattro matrimoni e un funerale (Four Weddings and a Funeral, M. Newell, 1994), Il matrimonio del mio migliore amico (My Best Friend’s Wedding, J. P. Hogan, 1997), Tutti dicono I love you (Everyone Says I Love You, W. Allen, 1996), La Fortuna di Cookie (Cookie’s Fortune, R. Altman, 1999) Qualcosa è cambiato (As Good As It Gets, J. L. Brooks, 1997).

A questo primo blocco, Cavell aggiunge un trittico di film tutti interpretati dall’attore John Cusack, la cui sensibilità fisica si imporrebbe nella contemporaneità cinematografica, ricalcando in qualche maniera la tipologia attoriale classica dello star-system hollywoodiano alla Cary Grant: Sacco a pelo a tre piazze (The Sure Thing, R. Reiner, 1985), Non per soldi… ma per amore (Say Anything, C. Crowe, 1989) e L’ultimo contratto (Grosse Point Blank, G. Armitage, 1997). Senza approfondire l’argomento, Cavell sottolinea il fatto che esistono almeno due differenze eclatanti tra le coppie delle commedie del rimatrimonio e quelle delle «nuove commedie»: prima di tutto, le nuove coppie (tranne in qualche caso) sono più giovani, meno sofisticate; secondo, persiste l’impressione che vi sia un’incapacità di immaginare e desiderare il futuro da parte di questi giovani protagonisti.

Non è questa la sede appropriata per un’indagine sulle nuove commedie, ma chi scrive ha la netta impressione che il modello di Cavell non abbia mai realmente esaurito la sua carica ermeneutica e che al cinema i rimatrimoni continuino a essere celebrati. Si prenda un film recentissimo come Ticket to Paradise (O. Parker, 2022) con George Clooney e Julia Roberts, attrice già presente in almeno tre pellicole della sopracitata lista, a cui se ne può aggiungere un’altra, a impianto incontestabilmente rimatrimoniale, come Se scappi ti sposo (Runaway Bride, G. Marshall, 1999). Gli ex coniugi, David e Georgia Cotton, si ritrovano insieme in occasione del matrimonio «a sorpresa» della loro unica figlia Lily nello scenario esotico dell’isola di Bali; un mondo verde in piena regola, per citare una delle strutture più note della commedia cavelliana (mutuata da Anatomia della critica di Northrop Frye), la quale prevede un passaggio obbligato da parte della coppia protagonista attraverso un luogo diverso, per certi versi magico, ameno, un paradiso perduto in cui diventa possibile conquistare una prospettiva rinnovata sulle cose (il più delle volte, si tratta del Connecticut).

David e Georgia non si sopportano, fanno fatica perfino a stare seduti vicini, ma decidono comunque di allearsi per sabotare le nozze della figlia, mettendo in pratica l’infallibile tattica del «cavallo di Troia». Non vogliono che lei commetta il loro stesso errore. In cosa consista realmente quell’errore i due non sono in grado di spiegarlo, così come non riescono a sostenere una conversazione senza litigare, rivangando vecchie questioni irrisolte. Perché non si sono mai capiti e ognuno ha nutrito le proprie convinzioni con la grammatica assurda di un linguaggio privato. Alla fine del film scatta il miracolo: di fronte al «per ora e per sempre» pronunciato dalla coppia giovane, anche gli adulti finalmente si riconoscono e accettano di dare la loro benedizione. Pertanto, decidono di ri-scommettere sulla loro unione, concedendosi quell’agognato nuovo inizio che riavvolge il tempo intorno alla nudità assordante dell’unica risposta che conta davvero: sì. Sì alle domande poste con il giusto tempismo, al presente che non smette mai di accadere, alla realtà dell’altro/a e dei suoi pensieri più reconditi, a un atteggiamento comune da abitare, al sogno di una vita possibile.

Se Julia Roberts sia o meno l’erede di Katherine Hepburn o se queste nuove commedie possano lontanamente reggere il confronto con i testi filmici analizzati in Alla ricerca della felicità, non sta a noi stabilirlo. Limitiamoci a incorporare la verità della grande lezione promossa dalla filosofia del cinema di Cavell, una verità che suona quasi come una benedizione. Tutto, prima o poi, ritorna: i miti, i generi, i racconti, le star, i vecchi amori, le (seconde) possibilità. Ma, soprattutto, ritornano le parole. Sta a noi essere in grado di riconoscere ciò che abbiamo davanti agli occhi.

Riferimenti Bibliografici

S. Cavell, “The Good of Film”, in Cavell on Film, a cura di W. Rothman, State University of New York Press Cavell, New York 2005.
Id., Les comédies du remariage: une histoire du lien conjugal, in “Esprit”, n. 252, 1999.
N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 2000.

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