Eleonora Duse torna sulla scena
Roberto De Monticelli, «Corriere della Sera»
Improvvisamente ritorna all’attenzione del pubblico, sui giornali e alla televisione, l’immagine di Eleonora Duse. Perché? Non ricorre in questi giorni alcun anniversario, nessuna particolare occasione celebrativa è prevista. Che succede? Da quale soprassalto della memoria collettiva scaturisce una volta di più questo fantasma inquietante? Per iniziativa dell’Ente Festival di Asolo una mostra sulla ‘divina’ si è inaugurata in questi giorni a Palazzo Venezia, ideata e ordinata da quel grande specialista dusiano che è Gerardo Guerrieri; due libri, che hanno avuto l’alloro del premio Curcio sono usciti contemporaneamente il mese scorso: L’attrice divina di Cesare Molinari (Bulzoni editore) e Eleonora Duse di William Weaver (Bompiani), esaurientissima biografia, già apparsa, nel 1984, a Londra.
Queste sono le occasioni di cronaca, ma esse non possono bastare ai nostri interrogativi. In realtà c’è in questi anni, negli studi italiani sul teatro, un recupero della figura del grande attore pre-novecentesco, quasi un ritorno ai padri. Ma forse, al di là di questo interesse scientifico, c’è anche, sollecitata dai documenti che sempre più numerosi affiorano (benemerite in questo senso l’attività del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, diretto da Sandra D’Amico e le ricerche di quella puntigliosa rivista che è «Quaderni di teatro»), una fascinazione del tempo perduto, quasi lo sciogliersi d’un grumo di memorie inconsce, che del teatro, arte che vive lo spazio d’una sera, immagine che si fa subito assenza, è il residuo, il colaticcio si vorrebbe dire, più doloroso e tenace.
Questo, poi, con l’immagine della Duse è quasi inevitabile. Si riassume in lei il senso di un tempo e di un teatro, in quell’Italia post-risorgimentale. E la sua solitudine in quel mondo – la solitudine del precursore – e le sue due grandi vicende sentimentali, prima con Boito poi con D’Annunzio, la condanna al nomadismo, i pubblici in delirio per lei dalla profonda Russia alla New York pionieristica di fine Ottocento, la malattia, le lettere in cui versò a sussulti la storia quasi quotidiana della sua anima, i grandi scrittori, da Shaw a Hofmannsthal a Rilke, che le dedicarono pagine entusiaste o estatiche, l’esilio ad Asolo, il ritorno al teatro nel 1921, l’ultima tournée in America, fino a quella sosta sotto la pioggia gelata, davanti alla porta chiusa d’un palcoscenico a Pittsburg: tutto ciò si compone, nella nostra memoria inconscia, come un nodo d’angoscia, la macchia d’un rimorso che non si essicca. Perciò scrissi una volta: con la Duse siamo giunti al dunque, basta con le lacrime. Come dire che è arrivata l’ora della risistemazione critica, definitiva, che bisogna mettersi a lavorare, su quanto ci resta di lei, non più per rievocare ma per ragionare.
Tutti i segni dell’attuale revival dusiano sembrano andare in questa direzione. La mostra ideata da Gerardo Guerrieri non è una mostra di cimeli. Il cimelio in bacheca spreme inevitabilmente un certo patetismo per il fatto d’aver appartenuto, oggetto o scrittura, alla persona scomparsa. Qui di veri e propri cimeli dusiani non ci sono che alcune vesti da camera, offerte da Sister Mary Mark, la nipote di Eleonora, la figlia di sua figlia Enrichetta, che è suora domenicana in un convento inglese; l’unica discendente dell’attrice: e dava una certa emozione vederla aggirarsi per quelle sale di palazzo Venezia o seguire, su un video, le immagini di Cenere, il solo film interpretato – e praticamente diretto – dalla Duse.
l cimeli naturalmente ci sono (lettere, fotografie, articoli di giornali, manifesti) ma vengono proiettati su schermi e intanto voci registrate rendono vive memorie, testimonianze, racconti (c’è per esempio, a interpretare alcune lettere della Duse, la voce di Valeria Moriconi). Insomma, vuol essere, almeno nelle intenzioni, una mostra-spettacolo; ma una mostra-spettacolo che si attiene a criteri rigorosamente storico-critici. Guerrieri sostiene che la vicenda e la stessa arte della Duse non si possono ripercorrere che rifacendosi alla letteratura.
Dopo un proemio, Ricordi familiari; dal nonno Giacometto allo zio Enrico, ecco il capitolo Napoli 1879, cioè la città e l’anno in cui la allora giovanissima attrice (ventunenne) si rivelò, recitando accanto a Giovanni Emanuel e a Giacinta Pezzana e dove ebbe la nota disavventura amorosa con Martino Cafiero, il galante direttore del «Corriere del Mattino» (c’è un gustosissimo, tra malinconico e cinico, ritratto di questo seduttore, firmato da un altro noto giornalista di quel tempo, Ferdinando Verdinois). Poi la sezione intitolata Arrigo e Lenor, dedicata al rapporto fra la Duse e Boito e a quel loro enorme romanzo epistolare pubblicato cinque anni fa dal Saggiatore, a cura di Raul Radice.
Boito – dice Guerrieri – in fondo tentava di sottrarla al teatro. Il teatro, per lui, era la causa dei suoi mali, il tarlo che la corrodeva: quelle opere cui sei condannata, le diceva, basse, volgari. I successi ottenuti a prezzo della salute, della vita. La nausea del teatro, la fuga verso un avvenire di verde serenità fu il leitmotiv del loro rapporto. Segue la sezione dedicata al capitolo centrale, il più drammatico, di quella che fu davvero una vita inimitabile: il capitolo D’Annunzio. Poi la ripresa disperata del vagabondaggio, più sola ma anche più forte, la grande fase ibseniana, il ritiro dal 1909 al 1921, le testimonianze dell’ultimo viaggio in America, fra le quali un emozionante articolo di Charlie Chaplin che la vide ne La Porta chiusa di Praga, due mesi prima della sua morte: «Evidentemente, è una donna molto vecchia e non fa nulla per nasconderlo ma c’è qualcosa in lei che fa pensare a un bambino, un bambino dolente…»
A parte, in un’altra saletta, il momento cinematografico della Duse, quello che ci diede il suo unico film, Cenere. E qui è buona l’idea di mettere a confronto, su tre video uno accanto all’altro, le magre, già neorealistiche sequenze di Cenere con il floreale e il melodrammatico dei film di Francesca Bertini, Maria Jacobini, Pina Menichelli, la produzione cinematografica italiana di quegli anni, da una parte; e, dall’altra, il linguaggio nuovo di David Griffith, dal quale, nel 1915, la Duse ebbe un’offerta per un film e forse si trattava di Intolerance.
«E vedi – dice Guerrieri – come, da Cenere e poi nei tre anni di ritorno al teatro, dal 1921 fino alla morte, la Duse non abbia interpretato, prevalentemente, che ruoli di madre. Cosi, come in gioventù aveva assunto su di sé, per darle voce e volto la nevrosi della donna di fine secolo, quella scontentezza, quel pianto o quell’allegria stralunata e febbrile, ecco che da vecchia si fa interprete di tutte le materne gramaglie del mondo su cui era passata la guerra.
Forse è per questo che gli studi su questa attrice si sono sviluppati per sessant’anni soprattutto lungo il solco della sua vicenda esistenziale, trascurando di approfondire, salvo eccezioni, al di là delle citazioni d’obbligo (gli scritti di chi la vide sulla scena) una vera analisi, certo a posteriori, certo un po’ alla cieca, sui suoi modi interpretativi. Il fatto è che davvero, con lei, è difficile distinguere l’arte dalla vita.
Il libro di Cesare Molinari ha questo indubbio merito. È un’indagine che cerca, penetrando nella selva delle testimonianze e mettendole a confronto anche con le rare contraddizioni e modifiche successive (perché la Duse cambiava di continuo le proprie interpretazioni), d’estrarne il profilo dell’attrice più che il madido ritratto della donna. In questo senso ci interessa più della pur aggiornatissima biografia dell’italianista americano William Weaver, che è ricca di notizie e documenti inediti, specialmente sulle tournées dell’attrice negli Stati Uniti.
Ma nel libro del Molinari c’è un capitolo, La polemica dello stile, che è a nostro parere un apporto notevole negli studi dusiani. La polemica dello stile fu quella dei contemporanei che, sconcertati dalla novità di quella recitazione, non è che si adeguarono tutti nelle lodi. Ci furono, specialmente sul principio, oppositori accaniti che a quella spezzettata e nevrotica della Duse preferivano la recitazione limpidamente classica e vibrante delle ‘prime donne’ tradizionali, Adelaide Tessera, Virginia Marini, Giacinta Pezzana.
In fondo, la accusavano di aver distrutto il ruolo, accusa che non era poi infondata ché la Duse, apparentemente (in realtà non era vero), sovrapponeva se stessa al personaggio. E degli stilemi che, secondo le convenzioni correnti, il ruolo esigeva si era sbarazzata, a giudizio di quei critici, perché non era dotata dei mezzi necessari ad esprimerli: una voce che si arrochiva e si rompeva se appena forzata (la voce esile e svuotata dei tisici, uno ebbe la delicatezza di scrivere); un gesto frammentato, privo d’una linea armoniosa, che indugiava stranamente sugli oggetti sfiorandoli, carezzandoli; o, come a prendere forza, cercava contatti ripetuti e fuggevoli col volto, con le spalle del partner, alterando ogni misura di composizione scenica, turbando la geometria degli spazi e l’ottica degli spettatori (e quel suo incedere non mai propriamente eretto, sempre un po’ curvo in avanti o pencolante o all’indietro, correlativo gestico di una insicurezza, di uno squilibrio; quel passarsi le mani sul viso e sui capelli).
Di tutti questi sparsi elementi, del resto in fase di continua trasformazione fino a che si composero nell’essenzialità ascetica degli ultimi anni (la voce nuda e la chioma bianca di Ellida, La donna del mare) Molinari riesce a tramare lo sconvolgente concerto dusiano, ritracciando la lunga linea di quella sofferenza istrionica che attraversò mezzo secolo di teatralità italiana; e ancora è lì, come una ferita non medicata.
E un’altra novità importante c’è in questo libro: per la prima volta l’analisi del Fuoco, il romanzo dannunziano ispirato dalla relazione fra il poeta e l’attrice, che tanto scandalo fece quando uscì (1900), ma non dal punto di vista letterario, proprio come studio di quel rapporto, di quello che Eleonora definiva, in una lettera amara, «il segreto donato alla folla».
D’Annunzio, forse, con il suo teatro, non giovò alla Duse come attrice; la costrinse a indossare il manto rigido, faticoso e fastoso delle sue parole mentre lei era un’altra cosa, quel soffio intermesso, quell’angoscia spezzata, quella verità allibita e inerme. Non le giovò nel teatro (quantunque è dal loro incontro che per la prima volta ebbe diritto di circolazione in Italia un’idea più nobile e alta di quest’arte). Ma nessuno capì la donna e l’attrice come lui. Nelle pagine del Fuoco (e questo acuto saggista ce lo dimostra) Foscarina, cioè Eleonora, è la «donna in cui si incarna la sostanza primordiale e mitica, ideale e biologica della femminilità». Per questo essa realizza la simbiosi conturbante con l’attrice.
«Non c’è distinzione possibile fra le due cose: la donna è sempre attrice, e l’attrice è sempre la donna nell’inesauribile molteplicità delle sue fenomenologie…» Davvero in questo romanzo fosco e barocco, battuto dallo scirocco d’una Venezia crepuscolare, D’Annunzio toccò uno dei miti profondi del teatro, la fenditura della sua vita più intima; e in pari tempo «una donna non più giovane, dalle tempie inumidite, dalle palpebre simili alle violette» ci diede il ritratto segreto, l’unico che ci sia giunto, di colei che fu, debole, malata, disperata e fortissima, la più grande attrice di tutti i tempi.