La leggenda del West
Roberto De Gaetano, «Fata Morgana Web»
Attualità del western
I generi sono quelle forme capaci di raccontare la vita activa delle persone per quanto di generale ogni singola vita contiene. E tale racconto si sviluppa in un’architettura narrativa che chiamiamo intreccio. Aristotele lo chiama mythos e ci dice che è tale solo in quanto «imitazione dell’azione». I generi sono le forme determinate attraverso le quali viene restituito il senso della prassi, e si articolano nella macro distinzione tra tragedia e commedia: la prima – come dice Dante nella Lettera a Cangrande – inizia bene per finire male, la seconda, all’opposto, inizia con problemi e si chiude con un happy end. Sia tragedia che commedia ci restituiscono l’immagine di un rapporto tra individuo e comunità: la prima attraverso un isolamento irreversibile del personaggio dal contesto sociale per colpe commesse, volontariamente o meno; la seconda attraverso l’inclusione sociale finale intorno al formarsi di una nuova coppia. Oltre i due grandi generi, abbiamo l’epica come racconto di comunità senza fratture, guidata pienamente dall’eroe. L’antichità classica ha presentato tutte e tre queste categorie generiche. La modernità a questo ha aggiunto il romanzo, dove il soggetto isolato non ha un destino assegnato di esclusione (tragedia) o inclusione (commedia), e tanto meno rappresenta la comunità (epica). L’erranza dell’eroe romanzesco, il suo carattere problematico, rimandano ad una forma strutturalmente aperta e non prevedibile.
Che cos’è il western e dove si colloca? Che cosa mette in gioco di profondo tale genere? La riproposizione recente di un grande classico degli studi sul genere, Il western, a cura di Raymond Bellour, così come l’omaggio del Torino Film Festival a John Wayne, confermando un rinnovato interesse per il genere permettono di porre tali interrogativi. Proviamo ad ipotizzarne la risposta. Se il western è un racconto dell’America, questa è l’America dei pionieri. Lo spostamento verso Ovest, il mito della frontiera, il viaggio verso ciò che ancora non si conosce, definiscono uno movimento esplorativo verso l’ignoto. L’Ovest ha rappresentato l’America nell’America, l’America per l’America, quella dell’Est. Il “Go west, young man, and grow up with the country.” di Horace Greeley nel 1837 non era solo «un rimedio di fronte alle crisi economiche» (Tailleur in Bellour, p. 22) era qualcosa di più.
In gioco non erano solo allevatori, coltivatori, cacciatori, cioè le declinazioni di ruoli e di economie che il West attivava alleggerendo l’East. In gioco c’era il pioniere. Cioè l’uomo orientato verso la scoperta del nuovo con tutto il rischio che accompagnava tale scoperta. Per il pioniere c’è solo la frontiera, che esiste per essere superata, e sempre di nuovo superata. E una volta giunti all’ultima frontiera, al Pacifico, c’è un ulteriore passaggio, verso l’India: «When Lewis and Clark reached the shore of the Pacific in 1804 they reactived the oldest of all ideas associated with America – that of passage to India» (Smith 1978, p. 22).
Nel pioniere che oltrepassa la frontiera e apre il passaggio c’è l’immagine epica del movimento di una intera comunità che seguirà il pioniere per la creazione di un nuovo “inizio”, e che porterà traccia e memoria del primo inizio, del “nuovo mondo” scoperto dai coloni europei nel loro approdo ad Est. Il West è la sua leggenda, qualcosa che sostituisce la storia. Nella trasformazione leggendaria di un paesaggio e delle figure che lo popolano, la figura dell’Uomo del West, il Westerner come lo chiama Robert Warshow, è decisiva. Lo è nel senso che ciò che lo caratterizza non sono tanto gli obiettivi che si prefigge, né il suo status morale ma il fatto, che connota sempre un eroe tragico, di non poter fa altro che ciò che fa. Come viene detto con splendida sintesi in Winchester 73 di Anthony Mann: «Some things a man has to do, so he does ’em». Da dove l’uso della violenza e delle pistole, inseparabili dai cinturoni, dalle posture e dal gesto di sparare, cioè di estrarre la pistola dalla fondina. Lo stile del Westerner è molto più importante degli effetti dei colpi di pistola, della serie di morti senza sangue che i western ci mostrano: «It’s not violence at all which is the “point” of the Western movie, but a certain image of man, a style, which expresses itself most clearly in violence» (Warshow 2002, p. 123).
L’eroe del western conta dunque per i suoi gesti più che per le sue azioni. I primi testimoniano di una intransitività che lo attraversa, segno di qualcosa che lo trascende e alla quale tragicamente deve corrispondere. Quando il Westerner perde il suo stile degenera nel mero bandito, dove mitragliatrici che sparano all’impazzata, schizzi di sangue, e ralenti, soppiantano lo stile dei gesti, come in Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah.
Ma se l’epica e il tragico ritrovano nel western una loro evidente riattualizzazione – come evidenziano i saggi di Dort e di Glucksman (in Bellour, pp. 37-54) – più complicata sembra la commedia, che passa in primis per la presenza e la parola femminile. Ma abbiamo alcuni esempi significativi, il massimo dei quali è forse il finale di Ombre rosse (1937) di John Ford. Dopo che Ringo (John Wayne) è stato prima un eroe epico, capace di difendere la piccola comunità dei passeggeri della diligenza dall’attacco degli indiani, poi un eroe tragico nel non poter far altro che affrontare in duello, con stile e rispetto delle regole, i tre fratelli che lo avevano mandato ingiustamente in galera, nell’happy end finale diviene un personaggio tipico della commedia, che convolerà a nozze con l’amata Dallas, e andrà a vivere con gli auspici augurali del Marshall e del Dottore (a rappresentare l’intera comunità) che lo lasciano libero di andare oltre frontiera, in Messico, a iniziare una nuova vita nel suo ranch, “al di fuori delle delizie della civiltà”. Ma il western è stato capace di sposare anche la modernità romanzesca. Gli esempi sono diversi, ma il più felice rimane L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford. Il flashback con cui il film è condotto, la fine dell’epoca epico-tragica rappresentata da Tom Doniphon (un John Wayne splendidamente decaduto, a rappresentare il declino di un genere e di un mondo che nessuno meglio di lui aveva rappresentato), il passaggio alla alfabetizzazione e soprattutto alla Legge dell’Est rappresentata da Ransom Stoddard (James Stewart) chiudono definitivamente con l’età dell’oro degli eroi per aprire al “prosaico” di una civiltà che va compiendosi nelle aule parlamentari.
Ma se l’età dell’oro si è chiusa, potrà comunque continuare ad alimentare la vita civile e il suo carattere non più eroico, né epico né tragico, facendosi leggenda, come il giornalista nel finale del film ben sintetizza: “Qui siamo nel West dove se la leggenda diventa realtà vince la leggenda”. Perché sono le leggende a fare la storia, cioè a spiegare e a correggere il passato per meglio sopportare il presente: «Le leggende presentavano [l’uomo] come l’artefice di quanto non aveva compiuto, e gli attribuivano la capacità di sistemare quel che in realtà non si poteva disfare. In questo senso, esse non sono soltanto fra i primi ricordi dell’umanità, ma anche l’autentico inizio della sua storia» (Arendt 2009, p. 290). E il West è in primo luogo una leggenda, prima di essere una storia. Non lo testimonia solo il cinema dalle origini alla contemporaneità (fino al recente meraviglioso Killers of the Flower Moon di Scorsese), ma anche la letteratura di ieri e di oggi, e perfino gli spettacoli sul selvaggio west, i Buffalo Bill Show, che hanno contributo alla invenzione di una tradizione (cfr. Rydell, Kroes 2006).
Il western è dunque molto più di un genere. È la messa in atto dell’intera ontologia occidentale e dei suoi modi di rappresentazione (dall’epico al tragico, perfino al commedico, fino al romanzesco), nonché l’immagine più prossima al costituirsi di una civiltà e alla invenzione di una tradizione. Ma resta ancora una domanda: perché oggi il western sembra tornare ad una rinnovata centralità? L’eroe western è un pioniere e un fondatore, un uomo d’azione capace di prendere le distanze dall’azione stessa, posto al confine tra wilderness e civiltà, vita e morte, sospensione e vigenza della legge. È un avventuriero e un creatore di mondi, dunque è qualcuno che non svolge il ruolo di mediatore: più che mediare costruisce passaggi e apre orizzonti. E quando questo non accade ha il coraggio di guardare in faccia la sua condizione mortale e la sua stessa fine. Rappresenta dunque una immagine di vita che non elude la vita stessa, che l’attraversa alternando il passo lento della camminata e la cavalcata veloce.
L’uomo d’oggi ridotto a mediatore di dispositivi che pretende di controllare e da cui è invece controllato, smarrito in una prosaicità che ha perso ogni traccia epico-tragica e che non riesce ad essere commedica, trova nell’eroe western e nella sua scoperta eroica di mondi non tanto la nostalgia di un passato mai vissuto, quanto l’immagine di una possibilità di vita ancora da venire, dove il soggetto possa ancora, o meglio per la prima volta, essere protagonista della sua propria vita, avventurosa e imprevedibile. E soprattutto vissuta con stile.
Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.
B. Cartosio, Verso ovest. Storia e mitologia del Far West, Feltrinelli, Milano 2018.
R. W. Rydell, R. Kroes, Buffalo Bill Show, Donzelli, Roma 2006.
H.N. Smith, Virgin Land. The American West as Symbol and Myth, Harvard University Press, Cambridge 1978.
R. Warshow, The Immediate Experience, Harvard University Press, Cambridge 2002.
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