Jon Fosse: l’uomo che prega
Mauro Covacich, «Corriere della Sera»
Il 10 dicembre il norvegese riceverà il Nobel. Della sua letteratura parliamo qui
In quasi tutti i libri di Jon Fosse c’è un uomo che prega. Quasi sempre quest’uomo fa il pittore, o meglio, è un pittore che crede in Dio, un credente la cui fede però attiene a qualcosa di più di una religione, direi piuttosto a un sentimento panico nei confronti dell’esistente. Questo artista, tutt’altro che famoso, ma abbastanza noto da sopravvivere grazie ai suoi quadri, ogni volta che può sgrana un rosario a cui di fatto si aggrappa come a minuscolo salvagente. Inspira e recita qualche verso del Padre Nostro, espira e recita qualche verso del Salve Regina. Non è un cattolico, o meglio, lo è in una forma molto eterodossa, qualcosa che ha a che vedere, senza citarlo, con il ‘cristianesimo adulto’ di teologi protestanti come Bonhoeffer, o forse addirittura con una forma di paganesimo ancestrale. Il suo è un afflato verso un Dio tutt’altro che onnipotente, un Dio che non ha creato il cielo e la terra e noi umani secondo un disegno imperscrutabile, ma è sceso accanto a noi, si è abbassato indossando le nostre sembianze e la nostra carne per condividere il dolore e la gioia (poca) di quest’avventura terrestre.
Il protagonista dei romanzi di Fosse in genere non è un uomo particolarmente disperato, è solo consapevole, in ogni istante, dell’intrinseca fragilità che scorre nelle vene del mondo, nelle cose che ci circondano e nei rapporti che ci legano gli uni agli altri. Il suo Dio non può promettere nessun risarcimento, nessuna prospettiva compensativa alla sofferenza terrena, nessun aldilà da vagheggiare, ma neppure si sottrae, anzi, il Dio pregato da Fosse è sempre presente e non nasconde la sua impotenza di fronte al male che ci vessa. Questo, alla fin fine, è il suo modo di amarci: l’amore di Dio sta nel vivere con noi lo sbigottimento di fronte alla malattia incurabile di un bambino, ad esempio, e a tutte le altre sciagure che ci fanno sentire la vita, questa unica sola vita, come profondamente ingiusta. Solo sotto questo profilo Dio è infinito, lo è cioè in quanto infinitamente amorevole.
Sono partito da qui, nel modo più dritto, perché mi sembra anche il più adeguato per restituire la caratteristica a mio avviso principale dell’opera di Fosse: la frontalità. Lo scrittore norvegese si getta nelle questioni capitali dell’esistenza già dalla prima frase e continua praticamente fino all’ultima, assecondando un flusso di pensieri che sgorga senza un vero inizio né una vera fine dentro una storia con pochi personaggi, quasi sempre gli stessi, che si avvitano e si sdoppiano in destini pieni di specchi fino a diventare il borborigmo che accompagna il lettore, la sua stessa voce interiore. Proprio perché dalle prime parole del libro si precipita in medias res, tutto ciò che viene raccontato, le azioni dei personaggi, i dialoghi, l’ambiente che li circonda (una Norvegia abbozzata eppure folgorante), tutto è fagocitato da un monologo ininterrotto che si priva di pause e punti fermi.
Da quanto detto si distingue in parte Melancholia, un dittico che esce ora in un unico volume presso la Nave di Teseo, un doppio romanzo del 1995, dove la punteggiatura è ancora governata da un narratore tutto sommato affidabile (ma già sulla via del delirio), identificato nella prima parte con il pittore protagonista, in questo caso un artista realmente vissuto, Lars Hertervig, uno dei più grandi paesaggisti dell’800, qui colto nell’estenuante ruminazione della sua vicenda umana, osservata dal letto del suo ultimo giorno, quello che precederà il suicidio.
Il pittore di Melancholia è un derelitto segnato dalla follia, un uomo vissuto di elemosina finché non è stato rinchiuso in manicomio, ma non per questo manca della lucida franchezza, della frontalità di cui sono dotati i protagonisti dei romanzi successivi. Una franchezza che richiama anche Hertervig alla religiosità delle cose ultime: la bellezza di un cielo o di un seno femminile, l’eleganza di una giacca color malva e anche sì, sempre, la tentazione della carne. Tutte verità che sprizzano, ad esempio, dai dialoghi memorabili di Hertervig con il sorvegliante Hauge. Nella seconda parte compare Vidme, scrittore fallito — secondo la voce narrante, a tratti in terza persona — per non aver colto la possibilità di riscattarsi scrivendo un libro su Hertervig, colui che ha saputo «cavar fuori alcuni segreti umani che si nascondono nelle nuvole». Vidme è uno dei primi alter-ego che poi affolleranno l’opera di Fosse, un trentenne che detesta la chiesa norvegese eppure si sente costretto a cercare un prete (e finisce per trovarne uno, donna). Poi, d’un tratto, ecco che prende la parola la sorella del pittore pazzo, in un monologo di un centinaio di pagine che da solo vale il Nobel.
A differenza dei romanzi successivi, dove trionferanno le sigarette, in Melancholia c’è anche una pipa, oggetto di culto, forse simbolo alchemico, come la bilancia nella famosa incisione di Dürer. Ma per il resto questo romanzo è in piena continuità con le opere che seguiranno, mi riferisco soprattutto ai tre volumi di Settologia, dove il pittore Asle, stavolta a noi contemporaneo e frutto dell’immaginazione dell’autore, passa in rassegna la sua vita mentre la vive, cucendo in una spirale di pensieri presente e passato, vivi e morti, piccole gioie del quotidiano insieme alla frustrazione e al rancore per i giorni che non torneranno.
Sono tante le continuità nei romanzi di Fosse. Una è la quotidianità spartana dei protagonisti. La stanza in affitto, la mensa frugale, il dialogo perpetuo con il proprio sé alienato in una figura autonoma, un alter-ego sbalzato sulla superficie della pagina come un bizzarro altorilievo, un sosia uscito dallo specchio e messosi in cammino tra le cose per conto proprio. Un’altra continuità è la mancanza, il dolore di un’assenza e la sua sempre incompleta elaborazione: i protagonisti di Fosse sono vedovi o comunque sono stati lasciati dalla donna che amavano. Una terza continuità è l’immanenza dei morti — come non pensare ai Dublinesi di Joyce? — presenze di cui avvertiamo il respiro, a cui non smettiamo di parlare accontentandoci delle loro risposte silenziose.
Ma Asle è attanagliato da un’accidia che si rivela paradossalmente creativa, se non altro per garantirgli una produzione piuttosto costante di quadri informali dotati di una malia irresistibile sia per l’amico gallerista che per gli acquirenti. Anche Asle è triste come Hertervig, ma tutt’altro che pazzo. Il melanconico è triste perché vede più lontano. Il nero che oscura la sua visione, è in realtà un prisma ottico che gli consente di osservare la vita senza ornamenti. Il melanconico è una figura alata apparentemente prigioniera della sua depressione. A guardarlo bene, è più libero del più scatenato degli ottimisti. Asle, Hertervig, Vidme — per non parlare del vecchio di Mattino e sera — sono tutti personaggi a servizio della frontalità poetica e brutale che caratterizza la scrittura di Fosse. È uno scontro a viso aperto con la vita. Una vita ridotta all’osso, al punto che la giornata di un artista è pressoché indistinguibile da quella dei suoi compaesani — pescatori, vecchie sorelle, docili vicini di casa. Per questo, forse, i romanzi di Fosse sembrano opere corali benché siano vorticosi flussi di voci monologanti.
Inutile perderci in trame troppo sofisticate, sembra dirci l’autore, visto che l’unica cosa che ci preme è questa: perché siamo vivi e poi a un certo punto non lo siamo più. Da qui nasce una prosa che, nel suo canto alla ripetizione, si offre al lettore come una sterminata preghiera, un’incessante variazione sul tema che fa pensare ai vortici ossessivi e calcolatissimi delle composizioni di Steve Reich o Philip Glass, ma anche alla missione di un Hokusai della scrittura, un artista che non teme la ripetizione, ma anzi, sa che solo attraverso quell’inanellamento infinito di prove la verità piano piano accetterà di concedersi nei tratti del mondo materiale: un’onda, un vulcano, un pittore che a mattina inoltrata non è ancora riuscito ad alzarsi dal letto.