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Ikisaki intervista: Giacomo Calorio
12 Novembre 2023

Ikisaki intervista: Giacomo Calorio

Lorenzo di Giuseppe, «Associazione Ikisaki»

Ikisaki intervista Giacomo Calorio in occasione dell’uscita nel 2023 del suo libro Ruggiti e silenzi: Mifune Toshirō per Cue Press.

Giacomo Calorio, dottore di ricerca in Digital Humanities (Università di Genova), è attualmente ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione R. Massa dell’Università di Milano-Bicocca, CdS in Comunicazione Interculturale. I suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente intorno al cinema giapponese. Sull’argomento ha pubblicato, oltre ad articoli, saggi e recensioni, le monografie Horror dal Giappone e dal resto dell’Asia (2005), Mondi che cadono – Il cinema di Kurosawa Kiyoshi (2007) e To the Digital Observer – Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor (2019). Parallelamente svolge l’attività di traduttore di manga dal 2004.

Nella premessa di Ruggiti e silenzi: Mifune Toshirō scrivi che «questo libro parte da un altro libro, ma non è quel libro», riferendoti alla tua prima pubblicazione cartacea sull’argomento, Toshirō Mifune (2011).
Come e perché è nato l’interesse nella figura di Mifune all’epoca e in quale modo si è sviluppato fino a prendere forma nel tuo primo libro?

Kurosawa e Mifune sono stati per me, come per mezzo mondo qualche decennio prima, le due figure attraverso le quali, da adolescente, ho conosciuto il cinema giapponese e mi ci sono appassionato, e per questo motivo occuperanno per sempre un posto privilegiato nel mio cuore di cinefilo.
Detto ciò, devo ammettere che la prima versione del libro non fu affatto una mia idea: in realtà mi fu proposto, perché avrebbe dovuto essere il primo anello di un’ambiziosa collana sugli attori e le attrici del cinema asiatico curata da Dario Tomasi ed edita da L’Epos. Il progetto era intrigante, ma in un primo momento mi spaventò: non avevo idea di cosa scrivere a proposito di un attore, e ancor meno di come farlo, e l’idea di lavorare su un nome così grande mi sembrò una responsabilità che non sapevo se ero in grado di sostenere. Presto comunque mi appassionai davvero all’idea, e man mano che mi documentavo e che scoprivo o riguardavo i suoi film, il libro prese forma da sé. La struttura del resto era abbastanza semplice, anche se, nella prima versione, un po’ sbilenca, a causa del ruolo importante assunto dallo stesso Kurosawa nella carriera dell’attore e della mancanza di alcuni tasselli importanti della filmografia di quest’ultimo; che, coi mezzi e il tempo a disposizione di appena una dozzina d’anni fa, non ero riuscito a reperire: non solo film importanti di registi che con Mifune avevano instaurato relazioni proficue, come Taniguchi Senkichi, Inagaki Hiroshi e Kumai Kei, ma anche di veri e propri maestri della storia del cinema quali Naruse Mikio e Kinoshita Keisuke, più alcune perle a sé stanti come Kettō kagiya no tsuji (Vendetta for a samurai) di Mori Kazuo e Bakurō ichidai (Life of a Horse Trader) di Kimura Keigo, che molto ci dicono del Mifune dei primi anni Cinquanta nei due ambiti del jidaigeki e del gendaigeki. Negli anni, queste mancanze, insieme a quelle sul versante bibliografico, hanno fatto nascere in me un crescente senso di insoddisfazione che ha poi portato alla nascita di Ruggiti e silenzi.

Concentrandoci specificatamente su Ruggiti e silenzi, da lettore, appassionato e ricercatore-indipendente-alle-prime-armi, ho apprezzato particolarmente la struttura del libro, molto chiara, precisa e analitica nel delineare una figura complessa su cui si è scritto tanto.
Come è stato il processo di riscrittura e ri-progettazione del libro?

Da lettore amo la chiarezza, quindi cerco di scrivere cose che io per primo sarei in grado di comprendere. Per certi versi, la struttura complessiva del nuovo libro rispecchia quella del vecchio, ma l’ampliamento del primo e degli ultimi due capitoli mi ha permesso di accorpare i due che avevo dedicato a Kurosawa in uno solo. Questo, credo, rende la struttura di Ruggiti e silenzi più logica e sensata, ma soprattutto più equilibrata a livello di contenuti, prima eccessivamente sbilanciati sul versante del grande mentore.
La riscrittura si è basata innanzitutto sull’utilizzo delle fonti giapponesi, assenti nel libro del 2011, che mi sono state utili sia per integrare il testo con nuove e preziose testimonianze e prospettive critiche, sia per colmare almeno in parte, attraverso informazioni di seconda mano, pochi buchi tuttora rimasti rispetto ai film realmente visti e analizzati di persona. Negli ultimi due capitoli del nuovo libro compaiono quindi non solo intere sezioni dedicate ai film che all’epoca non ero riuscito ad analizzare – peraltro tutti di considerevole interesse per un motivo o per l’altro, e che nel tempo intercorso ho rimediato, guardato e studiato – ma anche informazioni più dettagliate relativamente a film tuttora irreperibili. Per le stesse ragioni, anche la filmografia finale è molto più completa e precisa. Non si tratta però solo di semplici aggiunte, perché tutte queste nuove informazioni mi hanno spinto anche a rivedere a livello più generale l’immagine che mi ero fatto di Mifune e delle evoluzioni della sua carriera, costringendomi a operare a livello più sistemico, rivedendo diversi passaggi o ri-orientandone il senso. Infine, col passare degli anni, anche i miei gusti rispetto alla scrittura sono cambiati, quindi i due libri risultano un po’ diversi anche sul piano stilistico.

Ritieni che il rapporto con Kurosawa Akira – visto nella sua totalità – sia una sorta di unicum all’interno del cinema giapponese o pensi che sussistano altre «coppie» regista-attore di questo tipo?
A me vengono in mente quella Kurosawa Kiyoshi-Yakusho Kōji e quella Kitano Takeshi-Ōsugi Ren, ma forse non hanno la stessa forza mediatica dei primi due…

Il cinema giapponese è ricco di collaborazioni solide e longeve tra un regista e uno o più attori. Lo stesso Mifune, come scrivo nel libro, instaurò relazioni proficue anche con altri cineasti, e in realtà il regista con cui lavorò di più fu Inagaki, non Kurosawa. Viceversa, quest’ultimo instaurò relazioni importanti e durature anche con altri interpreti: penso ovviamente a Shimura Takashi. Sull’altro versante, esistono senz’altro coppie regista-interprete altrettanto iconiche nella ricca storia di questa cinematografia: su due piedi penso a quella di Ozu con Hara Setsuko e Ryū Chishū, a quella di Naruse e Kinoshita con Takamine Hideko, a quella di Mizoguchi con Tanaka Kinuyo e Yamada Isuzu, a quella di Masumura con Wakao Ayako, a quella di Shindō con Otowa Nobuko, a quella di Kobayashi con Nakadai Tatsuya, a quella di Yoshida con Okada Mariko, a quella di Suzuki con Shishido Joe… e via dicendo, fino ad arrivare ai contemporanei che tu citi, ai quali aggiungerei forse anche i ruoli – non molti ma pregnanti – di Kiki Kirin per Koreeda. Detto questo, un po’ per le circostanze storiche a cui accennavo all’inizio, un po’ per l’effettiva estensione, la continuità, la solidità, la varietà, l’esposizione mediatica internazionale, ma anche per l’intensità e la caratura dei ruoli di quelle sedici collaborazioni, la coppia Mifune-Kurosawa rappresenta in effetti davvero una sorta di unicum, e non per niente i due sono associati sin dal titolo in più pubblicazioni monografiche incentrate sulla loro relazione, sia di lingua giapponese che inglese.

Oltre alle illuminanti intuizioni sulla filmografia kurosawaiana di Mifune, molto interessante risultano le parti dedicati ai jidaigeki oltre Kurosawa e i film ad ambientazione contemporanea.
Se ti dicessi di consigliare 3 film meno conosciuti al pubblico in cui Mifune è protagonista, quali sceglieresti e perché?

Faccio sempre difficoltà quando si tratta di scegliere. A ogni modo, volendo operare una scelta ragionata (per quanto estemporanea) basandomi su un titolo per categoria, direi innanzitutto, tra quelli di ambientazione contemporanea, il suo primo film, Ginrei no hate (Snow Trail) di Taniguchi, in cui Mifune offre un’interpretazione senz’altro acerba ma selvaggia che lascia ben intuire come mai l’attore si impose subito come un nuovo tipo di star nel clima dell’immediato dopoguerra. Tra i jidai-geki mi trovo parecchio indeciso ma, senza nulla togliere a quelli di certo più significativi e in linea coi tempi, diretti negli stessi anni da Kobayashi e Okamoto, mi sento di consigliare Furin kazan (Samurai Banners) di Inagaki, un kolossal di impostazione piuttosto classica ma importante perché rappresenta il canto del cigno sia del cinema del regista, sia della Mifune Productions, la casa di produzione fondata dall’attore. È un film da cui traspare un grande amore per una stagione del cinema (e di un genere) ormai al tramonto, girato e interpretato con una passione e un trasporto contagiosi – almeno per me.
Tra i film girati all’estero, infine, consiglierei senza il minimo dubbio Animas Trujano (The Important Man) di Ismael Rodriguez, il primo film girato da Mifune all’estero e quello di cui più andava giustamente orgoglioso. Il ruolo di quest’antieroe messicano ingenuo, alcolizzato e brutale gli calza addosso alla perfezione, e anche se per ovvie ragioni l’attore giapponese fu doppiato, resta la sua interpretazione migliore fuori dal suo paese (tra le poche davvero significative, a dirla tutta).
Se posso aggiungere un quarto titolo, direi Tōkyō no koibit (Tokyo Sweetheart) di Chiba Yasuki, una commedia romantica che fa emergere un Mifune, qui al fianco di Hara Setsuko, meno rude, selvaggio e granitico di quanto siamo soliti immaginare, ma che rispecchia effettivamente altri ruoli simili interpretati nella prima metà degli anni Cinquanta.

All’interno del panorama cinematografico dinamico e digitale attuale, che hai benissimo descritto nel tuo precedente libro To the Digital Observer: il cinema giapponese contemporaneo (2019), sembra che Ruggiti e silenzi sia una sorta di manifesto teso a indagare il cinema del passato e l’importanza di studiarlo per comprendere il presente, dentro e fuori lo schermo.
È così oppure c’è dell’altro?

Ti ringrazio per la fiducia, ma in tutta onestà questo libro non nasconde ambizioni tanto grandi. La genesi è quella che ti ho raccontato, ed è semplicemente un testo la cui stesura mi ha progressivamente appassionato. Allo stesso tempo, però, mentre lo scrivevo mi sono reso conto che le testimonianze e le considerazioni su Mifune in esso contenute raccontano, seppur indirettamente e a sprazzi, anche diverse cose del mondo in cui egli emerse e si mosse. Quindi, in effetti, ho pensato che poteva essere un tassello utile a conoscere non solo qualcosa sull’uomo, l’attore e il divo, ma anche su ciò che gli stava intorno (registi, colleghi, produttori, sceneggiatori, studi cinematografici, il clima e la mentalità del Giappone dell’epoca, i metodi di lavorazione, le evoluzioni del cinema – o almeno di una sua parte -, i suoi rapporti con gli altri media…). Ecco, se potesse servire anche a questo e interessare non solo i fan di Mifune e Kurosawa, mi farebbe senz’altro piacere.

Guardando alla schiera di ottimi interpreti maschili che il Giappone ha portato alla luce negli ultimi anni, anche globalmente, (Yakusho Kōji, Asano Tadanobu, Abe Hiroshi, Matsuda Ryūhei, ecc.), secondo te Mifune ha lasciato degli eredi a livello di tecnica interpretativa, carisma e attitudine?
Se sì, chi e perché?
Se no, pensi possa succedere?

Il cinema giapponese ha avuto e ha tuttora una schiera invidiabile di attrici e attori straordinari.
Mifune è stato per certi versi l’interprete ideale di un preciso periodo storico, e in effetti un po’ ha fatto scuola nei decenni immediatamente successivi al suo esordio nel delineare un nuovo tipo di eroe dinamico e selvaggio prima, più riflessivo poi, e un tipo di recitazione spontanea, istintiva e per certi versi dilettantesca (unita però a una dedizione e a una professionalità quasi ossessive). Nel suo caso sono in particolare il personaggio di Sanjūrō e la sua caratterizzazione a essere serviti da modello per tanti altri spadaccini erranti dagli anni Sessanta in avanti. Onestamente non so dire se oggi possano ripetersi le stesse circostanze, perché è il cinema stesso (giapponese e non) a essere radicalmente cambiato, così come la società e il mondo circostanti. Anche la storia personale di Mifune, come quella di molti attori che hanno vissuto la guerra, le ristrettezze postbelliche e il successivo boom economico, non trova paralleli nel mondo di oggi. Sicuramente si produrranno altre e diverse alchimie in futuro che porteranno alla ribalta dello scenario internazionale un determinato attore o una determinata attrice giapponese.
Il caso di Asano a cavallo dei due millenni presenta senz’altro dei punti in comune con quello di Mifune, anche se in un contesto più cult e meno esteso, mentre Yakusho, un interprete molto diverso, occupa certamente un posto altrettanto grande nel cinema giapponese degli ultimi trent’anni.
Aggiungerei alla lista dei nomi da te citati anche quello di Sanada Hiroyuki per via delle sue numerose interpretazioni all’estero. Il punto è che ognuno di essi rappresenta solo una diversa parte di ciò che Mifune rappresentò invece nella sua totalità. Ma questo, credo, è dovuto unicamente alle circostanze, non alla indiscussa bravura degli attori citati. Il futuro non so cosa possa riservarci, però se penso ad attrici emerse in questo millennio che hanno dato vita ad alcune interpretazioni particolarmente ruvide e intense, quali Andō Sakura (Love Exposure, 100 Yen Love…), Kishii Yukino (Small, Slow but Steady) e Miura Tōko (Drive My Car)… chissà, forse saranno loro a raccogliere il testimone?

Cosa consiglieresti a chi oggi vuole scrivere di cinema giapponese?

Io per primo sono in cerca di consigli che ricavo leggendo i libri scritti dagli altri, e non sono abbastanza sicuro e soddisfatto di ciò che faccio per poter rispondere a questa domanda, quindi mi limito a qualche considerazione. Scrivere di cinema giapponese oggi è per certi versi più semplice di un tempo perché la mole di opere, informazioni, testi e nuovi approcci disponibili, e la facilità con cui tutto ciò si può raggiungere, consente di farsi un’idea più completa del tutto. Ci sono anche più opportunità per studiare la lingua (o farsi aiutare dalla tecnologia, che evolverà sempre più) e andare sul posto, e quindi avere informazioni di prima mano. Chi scrive oggi può e deve approfittarne, senz’altro, e questa è una responsabilità in più rispetto a un tempo, perché potenzialmente consente di scrivere cose migliori e quindi ci sono meno «scusanti», diciamo. Ma il rovescio della medaglia è che la stessa sovrabbondanza di materia prima può scoraggiare e distrarre, quindi magari finisce che non approfittiamo di tutto ciò. E infatti ho qualche dubbio sul fatto che oggi scriviamo davvero cose migliori. Siamo umani, abbiamo dei limiti e dobbiamo trovare il tempo e la concentrazione per focalizzarci su una cosa e svilupparla con cura, precisione e chiarezza nonostante tutto, tenendo al contempo in considerazione il contesto più ampio che la circonda.
Lasciando invece i consigli a voci più autorevoli della mia, e quindi prendendoli come suggerimenti rivolti a me stesso, penso da un lato a André Bazin che, in riferimento a Rashōmon, ribadiva l’universalità del linguaggio cinematografico, ammettendo tuttavia con estrema umiltà di non avere gli strumenti per cogliere alcune specificità culturali dell’opera; dall’altro a Yomota Inuhiko che, parafrasando, in tempi più recenti ha evidenziato come, per capire appieno il binomio «cinema giapponese», si debbano conoscere sia «il cinema» che «il Giappone». Credo che si possa tranquillamente scrivere di cinema giapponese conoscendo solo uno dei due poli della locuzione, e anche ricavarne articoli o libri interessanti.
Per farlo davvero con cognizione di causa e non incorrere in equivoci sarebbe però meglio avere una minima conoscenza di entrambi. Altrimenti si rischia, da un lato, di scrivere di cinema con scarsa proprietà di linguaggio e in maniera approssimativa, senza sapere cosa esso è realmente e come funziona un film (e quindi cosa esprime la sua grammatica), né come contestualizzarlo nella storia del cinema mondiale (non dimentichiamo che la storia del cinema giapponese è improntata all’ibridismo dalla sua nascita sino a oggi, e non ha mai davvero viaggiato da sola). Viceversa, senza una minima conoscenza del Giappone si rischia di scrivere di un oggetto che nasce in seno a una cultura specifica (attenzione, non unica né isolata: specifica), senza comprenderne i riferimenti (estetici, sociali, intra- e intermediali, eccetera), e anche questo può portare ad approssimazioni, esagerazioni, esotismi vari, interpretazioni errate. È una banalità ma, come dicevo, più che un consiglio è un proposito.

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