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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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15 Gennaio 2024

Grotowski e il suo «teatro povero», definito anche crudele, perchè sapeva di monastero. Eppure entrò nella leggenda

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Tra il 1965 e il 1975, il teatro internazionale ha vissuto e ha fatto vivere uno dei momenti più straordinari e irripetibili. Parecchi di noi ricordano ancora, avendoci fatto provare delle emozioni, fino alla commozione, Il Principe Costante di Grotowski, I giganti della montagna di Strehler, Orlando furioso di Ronconi, La Trilogia Testoriana di Andrée Ruth Shammah, La classe morta di Kantor.

Su Grotowski esiste, in Italia, una vasta letteratura, anche se il libro, al quale abbiamo attinto, per conoscere il maestro polacco, è stato Per un teatro povero, edito da Bulzoni nel 1970, con la prefazione di Peter Brook, che gli riconosceva di avere apportato all’arte della recitazione qualcosa che sapeva di monastero, ovvero di dedizione assoluta, e, in un certo senso, anche un po’ crudele, come aveva sentenziato Artaud. Entrambi, in fondo, erano convinti che il teatro non fosse solo un modo di vivere, ma anche per vivere. Dalla crudeltà alla povertà il tragitto era breve perché, essere poveri, è la cosa più crudele che possa esistere, solo che l’uso dei due termini, nel loro teatro, aveva un valore diverso, essendo attribuito alla recitazione che, se ben realizzata, contiene qualcosa di crudele che, a sua volta, può avere a che fare con la povertà, da intendere come fuga dagli effetti, da ogni forma di ibridismo e di superfluo.

L’editore Cue Press ha appena pubblicato il libro che ritengo fondamentale per conoscere il pianeta Grotowski, poiché contiene l’analisi di tutti i testi realizzati prima del Principe Costante, messi in scena al Teatro delle 13 file di Oslo, che diventerà il Teatro Laboratorio, detto così per il numero delle file che conteneva, si tratta di Il teatro di Jerzy Grotowski. Le rappresentazioni al Teatro delle 13 File, di Dariusz Kosinski e Wanda Swiatkowska, due docenti universitari che hanno potuto avere accesso a documenti primari, ovvero copioni, recensioni, commenti, discussioni, varianti, materiale fotografico, oltre che video, che hanno dato la possibilità, ai due studiosi, di scrivere dei saggi che, se letti attentamente, aiutano a tirar fuori Grotowski dalla leggenda in cui era stato confinato.

I titoli degli spettacoli esaminati, che vanno dal 1959 al 1968, erano noti anche a noi, non certo le ricostruzioni fatte dai due autori che, oggi, ci permettono di capire meglio il metodo di lavoro del regista che ha qualcosa di soprannaturale, anche se i modelli da cui è nato, secondo le sue stesse affermazioni, sono da ricercare in Stanislavskij, Dullin, Mejerchol’d, dai quali si allontana per una sua virata verso la performance e l’attività laboratoriale, durante la quale permette alla drammatizzazione di diventare un momento organizzativo in funzione del rapporto attore-spettatore, considerato, fin dagli esordi, l’elemento che contraddistinse il lavoro di Grotowski, che attribuì, allo spettatore, lo status di attore, oltre che di invitato, come a un ricevimento o a una cena.

Gli spettacoli presi in esame sono: Orfeo di Cocteau, Caino di Byron, Mistero Buffo di Majakovskij, Sakuntala secondo Kalidasa, Gli Avi di Adam Mickiewicz, Kordian di Slowacki, Akropolis di Wyspianski, La tragica istoria del Dottor Faust di Marlowe, Gli Amleti di Grotowski. La profondità dei saggi permette al lettore di entrare nel laboratorio del regista, di conoscerne le origini, di capire in che modo rivoluzionò l’arte delle recitazione, partendo dalla convinzione che l’attore potesse realizzarsi meglio nel paradigma performativo, dentro il quale, poteva trovare se stesso e prepararsi, grazie all’esercizio del training e della ricerca della propria interiorità, all’incontro col personaggio, con l’utilizzo ulteriore di una Liturgia Ateologica, i cui antenati sono da ricercare nei miti del passato e nei comportamenti pre-espressivi che stavano a base del teatro delle origini, persino quello delle aree tribali con le loro tradizioni collettive. Tutto questo sta a base di quella antropologia teatrale che sarà teorizzata dal suo allievo Eugenio Barba.

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Theodoros terzopoulos
10 Gennaio 2024

Theodoros Terzopoulos: Scena, mondo infinito

Valeria Ottolenghi, «Gazzetta di Parma»

Theodoros Terzopoulos: era stato Michalis Traitsis, regista di valore che lavora tra Venezia e Ferrara, a raccontare, durante un incontro di studiosi diversi anni fa, di questo maestro/artista greco riconosciuto tra i più grandi d’Europa. Come spesso accade in tali situazioni si avverte un senso di disagio per quelle lacune che sembrano non permettere un’adeguata visione d’insieme di uno specifico ambito culturale, creativo. Indispensabile l’aggiornamento! Presto la conferma: un vero capolavoro la messa in scena, all’aperto, dell’opera di Euripide Le troiane a Delfi, ormai più di una decina di anni fa, simbolismo e tensione emotiva stilizzata e potente nei gesti, nell’espressività dei protagonisti. A cui erano seguite, con E.R.T., Emilia Romagna Teatri, alcune ospitalità italiane.

E nella primavera del ‘22 era stato possibile incontrare, con il Piccolo Teatro di Milano, due opere di Terzopoulos diversissime tra loro, ma ugualmente dense di pensiero, affascinanti, dai lunghi, profondi echi, Nora da Casa di Bambola di Ibsen e Io, una performance scritta da Etel Adnan, in scena, in una sorta di dialogo complesso, quasi a singhiozzo, Aglaia Pappas e lo stesso Terzopoulos: nel primo sembra prosciugarsi l’aspetto psicologico dei tre personaggi principali, con una sorta di perenne azione tra pannelli mobili bianchi ruotanti; nel secondo quel titolo, Io, è insieme della divinità perseguitata dal dolore e della donna in scena, vasti, densi e complessi anche i rispecchiamenti metateatrali, parole tra un’attrice e il suo regista, un’opera a più strati di senso, dedicata alla memoria di Jannis Kounellis.

Era stato allora, nel maggio di due anni fa, che si erano incontrati tutti insieme, nel cortile dello storico Piccolo di via Rovello, con Theodoros Terzopoulos e Michalis Traitsis, anche Enzo Vetrano e Stefano Randisi, meravigliosi autori/attori, indimenticabile ogni loro creazione, amatissimi e pluripremiati. E lì, con grande gioia, si era appresa l’eccitante notizia, non del tutto ancora rivelabile, che Vetrano & Randisi sarebbero stati diretti proprio da Terzopoulos per Aspettando Godot. Quante volte era stato detto loro che sembravano perfetti per Beckett? Un appuntamento atteso. Giunto infine con un regista tanto grande!

Ma se si scrive qui di Theodoros Terzopoulos non è solo per la presenza nel nostro territorio proprio di Aspettando Godot, al Teatro Magnani di Fidenza sabato, ma per intrecciare le informazioni su questo grande regista europeo con Il ritorno di Dionysos, testo edito da Cue Press, dedicato proprio al metodo di Terzopoulos, nel cui lavoro, scrive sin nelle prime righe della prefazione Konstantinos Arvanitakis, «c’è qualcosa di innegabilmente rivoluzionario», sottolineando quindi, con il corpo come dimora di Dionysos, la volontà «di risvegliare il dio narcotizzato e liberare la sua energia vitale, erotica e creativa, repressa» e l’orgia della vita s’intreccia con le forze oscure della morte «per il rinnovamento dell’arte». La Grecia, l’origine della tragedia, il rapporto con le stesse strutture del teatro antico, la ricerca di quello spirito contraddittorio rappresentato da Dionysos, corrente vitale carica di energie ambigue ed essenziali, elemento che permane nella persona anche più razionale, insieme di pulsioni del subconscio, amalgama di distruzione e creatività, questo e molto altro sono rintracciabili nella ricerca di Terzopoulos, ma se sono riconosciute nel dio del titolo infiniti caratteri differenti, mai conclusi gli studi, le interpretazioni degli innumerevoli miti che lo vedono protagonista, l’attenzione, la cura principale del regista è rivolta verso l’attore, la sua formazione, profonda, radicale. Nel libro edito da Cue Press, curato da Michalis Traitsis, che ha anche seguito il percorso creativo di Aspettando Godot, questi i titoli di alcuni capitoli: corpo, respirazione, energia, decontrazione, ritmo, improvvisazione infinita, senso, tempo

Fondamentale la domanda, «Tornerà Dionysos?», con cui si chiudono le pagine dedicate all’attore che, nelle parole di Terzopoulos, deve restare al centro dell’azione teatrale, «con autocoscienza, conoscenza e combattività. La coltivazione del corpo, tempio delle situazioni, degli istinti e dei sensi, è una straziante chiamata nei nostri tempi», ma prezioso, imprescindibile è anche lo sguardo dello spettatore, la sua sensibilità, che si diversifica nel tempo, specie nel rapporto con i classici. Seguono gli esercizi e alcune significative immagini tratte da regie di Terzopoulos, tragedie di Euripide, Eschilo, Sofocle, realizzate ad Atene, Delfi, ma anche in città della Germania e della Russia e testi di Müller, Materiali per Medea, Quartett, Strindberg, La signorina Giulia, Beckett, Rockaby, e dello stesso regista. Sì, corretta quella lontana prima informazione di Michalis Traitsis: Terzopoulos tra i maggiori artisti, vero maestro di teatro.

Una rosa per samuel beckett
22 Dicembre 2023

Una rosa per Sam

Antonio Borriello, «SamuelBeckett.it»

Una rosa per ricordare il mio amatissimo Samuel Beckett, morto il 22 dicembre del 1989 a Parigi, premio Nobel per la Letteratura nel 1969. Autore di opere ritenute ormai dei classici come Aspettando Godot e Finale di partita, mutò l’ordinario in straordinario, il Nulla e l’Attesa in Speranza. Oggi più che mai il grande dubliner di Parigi, si presta ad ulteriori studi volti a raggiungere le più segrete pieghe dell’Anima. Non a caso di recente in Italia sono apparse diverse ed importanti pubblicazioni, come Romanzi, Teatro e Televisione, il Meridiano Mondadori curato e tradotto magistralmente da Gabriele Frasca (2023), un volume di straordinaria importanza per avere a portata di mano i testi narrativi, le pièce teatrali, nonché i testi per la radio e la televisione. E ancora i quaderni di regia e i testi riveduti pubblicati dalla Cue Press a cura di Luca Scarlini tra il 2021 e il 2022: Aspettando Godot (edizione critica di James Knowlson e Douglas McMillan), Finale di Partita (edizione critica di Stanley Gontarski) e L’ultimo nastro di Krapp (edizione critica di James Knowlson).

Anche il cinema e perfino la narrativa hanno prestato notevole attenzione al Maestro dell’Assurdo con ben tre film e un romanzo: Dance First, regia James Marsh, Regno Unito 2022; Grazie ragazzi, regia Riccardo Milani, Italia 2022; Un Triomphe, regia Emmanuel Courcol, Francia 2020; pubblicato da Voland nel 2022, L’ultimo atto del signor Beckett di Maylis Besserie, in cui la scrittrice immagina gli ultimi giorni di vita di Beckett trascorsi nella casa di riposo di Tiers-Temps a Parigi.

Viepiù. La casa editrice Cue Press già preannuncia per il 2024 di «lanciare un attacco beckettiano di proporzioni cosmiche: il quarto Quaderno e il meglio della teatrologia mondiale sull’argomento». Di sicuro Beckett, persona felicemente pigra, di un’inerzia accostabile a quell’otium letterario più che a quell’indolenza ancestrale del suo beneamato Belacqua dantesco, mai avrebbe immaginato tanto interesse per il suo lavoro. A riprova del suo essere un drammaturgo insensibile al successo e alla notorietà, ricordo che alla sua dipartita, il mondo seppe della sua morte dopo tre giorni a sepoltura avvenuta. Nel 1959, a seguito dell’insistenza della moglie Suzanne, si recò a Sorrento: in occasione del Prix Italia, quando lo invitarono a ritirare il Premio per la migliore opera radiofonica Embers (Ceneri, trad. it., nella preziosa pubblicazione Samuel Beckett, Teatro completo. Drammi, Sceneggiature, Radiodrammi, Pièces televisive, Torino-Parigi, Einaudi-Gallimard, 1994). Beckett in quell’occasione visitò fugacemente Capri ed altri luoghi della costiera amalfitana per ritornare subito a Ussy. E ancora ricordo che Beckett seguì personalmente le riprese di Film, con un impeccabile ed ossequente

Buster Keaton, recandosi a New York suo malgrado. Temeva, infatti, che le riprese sarebbero state eccessivamente chiassose, con inutili cocktail party a cui partecipare con troppe e indesiderate interviste da rilasciare. A questo sceglieva la quiete dell’appagante rifugio di campagna a Ussy-sur-Marne. L’umile genio del secolo scorso, attraverso le sue disarmanti creature, benché poste in una perenne penitenza purgatoriale, ha saputo offrirci spunti di salvezza per loro, per noi, per il futuro dell’umanità. Quanta tenerezza in Vladimiro, Estragone, Pozzo, Lucky, Hamm, Clov, Nagg, Nell, Winnie, Willie, Krapp, Flo, Vi, Ru, Mercier, Camier, Murphy, Molloy, Malone, Watt, Joe, Bam, Bem, Bim, Bom, Oc, Og e l’innominabile che, nonostante il loro tormento, eternamente cantano…

«Giorni felici», anzi dicono sempre di altri «giorni divini», un po’ come nelle opere di Leopardi o di Pascoli, in cui emerge lo stupore del fanciullino per le piccole, ma preziose cose del quotidiano. Quanta poesia ed esaltazione della vita e dell’intelligenza dell’uomo traboccano in quei vecchi, dignitosi e colti clochard, in quelle pagine, battuta dopo battuta, si intravede un barlume di Speranza, nonostante il diffuso senso di vuoto, nonostante la nostra fragilità e tristezza. Tante le sue profetiche visioni che si stanno, purtroppo, avverando: solitudine urbana, feti buttati nelle discariche, smarrimento di sé, diffusa incomunicabilità, insoddisfazione e noia, aumento dei senza tetto e dei poveri, catastrofi imminenti, minaccia di un nemico invisibile, di una incombente desertificazione, di una possibile terza guerra mondiale, con attacchi nucleari. Un panorama agghiacciante, ma effettivo, su cui l’uomo dovrebbe agire subito, pena lo scenario da day after di Finale di partita o di L’ultimo nastro di Krapp, dove «… la Terra potrebbe essere disabitata».

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3 Dicembre 2023

Parla il silenzio – Il suo teatro delle vite intime

Laura Zangarini, «Corriere della Sera»

Il Nobel, assegnato a Jon Fosse per le sue «opere teatrali innovative e per la prosa che danno voce all’indicibile», corona una carriera straordinariamente produttiva e pluripremiata: 40 opere teatrali, romanzi, racconti, libri per bambini, poesie e saggi. Lo stile minimalista di Fosse è spesso paragonato a quello di Samuel Beckett (1906-1989), verso il quale il drammaturgo e scrittore norvegese ha espresso la sua ammirazione descrivendolo come «un pittore per il teatro più che un vero autore».

La drammaturgia di Fosse, l’autore norvegese più rappresentato sui palcoscenici di tutto il mondo dopo Ibsen, è caratterizzata da un lessico scarno e minimale, in cui dominano lunghi silenzi, linee temporali fratturate, circonvoluzioni. La sua è una scrittura ritmica, dove la trama è quasi assente, il cui focus è la vita interiore di personaggi piuttosto solitari, che spesso non hanno un nome ma sono chiamati «L’Uno» e «L’Altro», oppure «La Donna», «Il Ragazzo», «L’Uomo Più Anziano». I personaggi di Fosse non parlano molto «Il silenzio, ciò che non viene detto è più importante di ciò che viene detto». Uno dei temi centrali che riecheggia costantemente in tutto il suo lavoro è l’esplorazione universale ma profondamente personale della solitudine, della mortalità e della ricerca di significato.

Per saperne di più sull’opera (non solo drammaturgica) del Nobel per la letteratura, sono imprescindibili i libri di Cue Press, casa editrice imolese diretta da Mattia Visani. Saggi gnostici (2018), raccolta di testi teorici tradotti e curati da Franco Perrelli, apre un varco sulla fabbrica dell’arte dell’autore norvegese; Caldo (2019), pièce teatrale del 2004, è incentrata su un triangolo erotico. Due i volumi pubblicati quest’anno, entrambi a cura di Vanda Monaco Westerståhl: Quel buio luminoso è un saggio scritto nel 2006 dal critico teatrale svedese Leif Zern, tra i maggiori studiosi del teatro del Novecento europeo, con l’intento di accompagnare il lettore nella drammaturgia dell’autore norvegese; Teatro raccoglie invece i primi lavori di Jon Fosse: E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome.

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3 Dicembre 2023

Jon Fosse: l’uomo che prega

Mauro Covacich, «Corriere della Sera»

In quasi tutti i libri di Jon Fosse c’è un uomo che prega. Quasi sempre quest’uomo fa il pittore, o meglio, è un pittore che crede in Dio, un credente la cui fede però attiene a qualcosa di più di una religione, direi piuttosto a un sentimento panico nei confronti dell’esistente. Questo artista, tutt’altro che famoso, ma abbastanza noto da sopravvivere grazie ai suoi quadri, ogni volta che può sgrana un rosario a cui di fatto si aggrappa come a minuscolo salvagente. Inspira e recita qualche verso del Padre Nostro, espira e recita qualche verso del Salve Regina. Non è un cattolico, o meglio, lo è in una forma molto eterodossa, qualcosa che ha a che vedere, senza citarlo, con il ‘cristianesimo adulto’ di teologi protestanti come Bonhoeffer, o forse addirittura con una forma di paganesimo ancestrale. Il suo è un afflato verso un Dio tutt’altro che onnipotente, un Dio che non ha creato il cielo e la terra e noi umani secondo un disegno imperscrutabile, ma è sceso accanto a noi, si è abbassato indossando le nostre sembianze e la nostra carne per condividere il dolore e la gioia (poca) di quest’avventura terrestre.

Il protagonista dei romanzi di Fosse in genere non è un uomo particolarmente disperato, è solo consapevole, in ogni istante, dell’intrinseca fragilità che scorre nelle vene del mondo, nelle cose che ci circondano e nei rapporti che ci legano gli uni agli altri. Il suo Dio non può promettere nessun risarcimento, nessuna prospettiva compensativa alla sofferenza terrena, nessun aldilà da vagheggiare, ma neppure si sottrae, anzi, il Dio pregato da Fosse è sempre presente e non nasconde la sua impotenza di fronte al male che ci vessa. Questo, alla fin fine, è il suo modo di amarci: l’amore di Dio sta nel vivere con noi lo sbigottimento di fronte alla malattia incurabile di un bambino, ad esempio, e a tutte le altre sciagure che ci fanno sentire la vita, questa unica sola vita, come profondamente ingiusta. Solo sotto questo profilo Dio è infinito, lo è cioè in quanto infinitamente amorevole.

Sono partito da qui, nel modo più dritto, perché mi sembra anche il più adeguato per restituire la caratteristica a mio avviso principale dell’opera di Fosse: la frontalità. Lo scrittore norvegese si getta nelle questioni capitali dell’esistenza già dalla prima frase e continua praticamente fino all’ultima, assecondando un flusso di pensieri che sgorga senza un vero inizio né una vera fine dentro una storia con pochi personaggi, quasi sempre gli stessi, che si avvitano e si sdoppiano in destini pieni di specchi fino a diventare il borborigmo che accompagna il lettore, la sua stessa voce interiore. Proprio perché dalle prime parole del libro si precipita in medias res, tutto ciò che viene raccontato, le azioni dei personaggi, i dialoghi, l’ambiente che li circonda (una Norvegia abbozzata eppure folgorante), tutto è fagocitato da un monologo ininterrotto che si priva di pause e punti fermi.

Da quanto detto si distingue in parte Melancholia, un dittico che esce ora in un unico volume presso la Nave di Teseo, un doppio romanzo del 1995, dove la punteggiatura è ancora governata da un narratore tutto sommato affidabile (ma già sulla via del delirio), identificato nella prima parte con il pittore protagonista, in questo caso un artista realmente vissuto, Lars Hertervig, uno dei più grandi paesaggisti dell’800, qui colto nell’estenuante ruminazione della sua vicenda umana, osservata dal letto del suo ultimo giorno, quello che precederà il suicidio.

Il pittore di Melancholia è un derelitto segnato dalla follia, un uomo vissuto di elemosina finché non è stato rinchiuso in manicomio, ma non per questo manca della lucida franchezza, della frontalità di cui sono dotati i protagonisti dei romanzi successivi. Una franchezza che richiama anche Hertervig alla religiosità delle cose ultime: la bellezza di un cielo o di un seno femminile, l’eleganza di una giacca color malva e anche sì, sempre, la tentazione della carne. Tutte verità che sprizzano, ad esempio, dai dialoghi memorabili di Hertervig con il sorvegliante Hauge. Nella seconda parte compare Vidme, scrittore fallito — secondo la voce narrante, a tratti in terza persona — per non aver colto la possibilità di riscattarsi scrivendo un libro su Hertervig, colui che ha saputo «cavar fuori alcuni segreti umani che si nascondono nelle nuvole». Vidme è uno dei primi alter-ego che poi affolleranno l’opera di Fosse, un trentenne che detesta la chiesa norvegese eppure si sente costretto a cercare un prete (e finisce per trovarne uno, donna). Poi, d’un tratto, ecco che prende la parola la sorella del pittore pazzo, in un monologo di un centinaio di pagine che da solo vale il Nobel.

A differenza dei romanzi successivi, dove trionferanno le sigarette, in Melancholia c’è anche una pipa, oggetto di culto, forse simbolo alchemico, come la bilancia nella famosa incisione di Dürer. Ma per il resto questo romanzo è in piena continuità con le opere che seguiranno, mi riferisco soprattutto ai tre volumi di Settologia, dove il pittore Asle, stavolta a noi contemporaneo e frutto dell’immaginazione dell’autore, passa in rassegna la sua vita mentre la vive, cucendo in una spirale di pensieri presente e passato, vivi e morti, piccole gioie del quotidiano insieme alla frustrazione e al rancore per i giorni che non torneranno.

Sono tante le continuità nei romanzi di Fosse. Una è la quotidianità spartana dei protagonisti. La stanza in affitto, la mensa frugale, il dialogo perpetuo con il proprio sé alienato in una figura autonoma, un alter-ego sbalzato sulla superficie della pagina come un bizzarro altorilievo, un sosia uscito dallo specchio e messosi in cammino tra le cose per conto proprio. Un’altra continuità è la mancanza, il dolore di un’assenza e la sua sempre incompleta elaborazione: i protagonisti di Fosse sono vedovi o comunque sono stati lasciati dalla donna che amavano. Una terza continuità è l’immanenza dei morti — come non pensare ai Dublinesi di Joyce? — presenze di cui avvertiamo il respiro, a cui non smettiamo di parlare accontentandoci delle loro risposte silenziose.

Ma Asle è attanagliato da un’accidia che si rivela paradossalmente creativa, se non altro per garantirgli una produzione piuttosto costante di quadri informali dotati di una malia irresistibile sia per l’amico gallerista che per gli acquirenti. Anche Asle è triste come Hertervig, ma tutt’altro che pazzo. Il melanconico è triste perché vede più lontano. Il nero che oscura la sua visione, è in realtà un prisma ottico che gli consente di osservare la vita senza ornamenti. Il melanconico è una figura alata apparentemente prigioniera della sua depressione. A guardarlo bene, è più libero del più scatenato degli ottimisti. Asle, Hertervig, Vidme — per non parlare del vecchio di Mattino e sera — sono tutti personaggi a servizio della frontalità poetica e brutale che caratterizza la scrittura di Fosse. È uno scontro a viso aperto con la vita. Una vita ridotta all’osso, al punto che la giornata di un artista è pressoché indistinguibile da quella dei suoi compaesani — pescatori, vecchie sorelle, docili vicini di casa. Per questo, forse, i romanzi di Fosse sembrano opere corali benché siano vorticosi flussi di voci monologanti.

Inutile perderci in trame troppo sofisticate, sembra dirci l’autore, visto che l’unica cosa che ci preme è questa: perché siamo vivi e poi a un certo punto non lo siamo più. Da qui nasce una prosa che, nel suo canto alla ripetizione, si offre al lettore come una sterminata preghiera, un’incessante variazione sul tema che fa pensare ai vortici ossessivi e calcolatissimi delle composizioni di Steve Reich o Philip Glass, ma anche alla missione di un Hokusai della scrittura, un artista che non teme la ripetizione, ma anzi, sa che solo attraverso quell’inanellamento infinito di prove la verità piano piano accetterà di concedersi nei tratti del mondo materiale: un’onda, un vulcano, un pittore che a mattina inoltrata non è ancora riuscito ad alzarsi dal letto.

Martinelli
2 Dicembre 2023

«Il coro è il segreto del teatro». Intervista a Marco Martinelli

Matteo Brighenti, «Pane Acqua Culture»

Scena e società, adolescenti e classici, nel segno del divenire uno in molti, attraverso il coro. «Ci sta a cuore il teatro solo quando è insieme lo specchio dell’io, la psiche individuale profonda, e del noi, ovvero il mondo». Un mistero e insieme una pratica che Marco Martinelli ha racchiuso ora in un libro intitolato semplicemente Coro, e uscito per i tipi di AkropolisLibri, il progetto editoriale di Teatro Akropolis di Genova.

Dopo Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti (Cue Press), il fondatore del Teatro delle Albe / Ravenna Teatro riflette sulla trentennale esperienza che ha segnato i suoi processi creativi tra palco, non-scuola e laboratori in giro per il mondo, consegnandoci una possibile mappa in 35 punti del viaggio per cui, attraverso il teatro, Dioniso si incarna in quell’«io sono noi» che lo manifesta. «Il coro di cui stiamo parlando è un coro scenico. Ma se il teatro lo separiamo da tutto ciò che ci riguarda – l’aria, le piante, gli animali, i sogni che facciamo la notte, i desideri e le paure, le storture della politica e dell’economia criminale, eccetera – smette di interessarci».

Dalla carta, poi, le parole di Martinelli sono tornate al palcoscenico durante l’ultima edizione Testimonianze Ricerca Azioni, che ne ha ospitato la prima lettura pubblica nel novembre scorso. D’altronde, sono stati proprio i due direttori artistici del festival genovese, Clemente Tafuri e David Beronio, nella loro Prefazione al libro, a sottolineare come Coro non tratti di una storia, ma di «un cantare, come un’ottava di Boiardo, come ciò che esiste solo nel momento in cui è detto, che affiora come luogo di transito di mille altri racconti, di mille altri pensieri». Afferma Martinelli: «Nello scrivere, io penso sempre ad alta voce, ho necessità di figurarmi un interlocutore a cui parlare. La scrittura torna così alla sua matrice, l’oralità. Se ne nutre».

Adesso che riattraverso domande, risposte e silenzi per comporre questa intervista, mi rendo conto che quando andiamo a teatro accediamo, in un modo o nell’altro, a un coro. Il teatro è esso stesso un coro. «Così dovrebbe essere. Il coro è Dioniso, il coro è il segreto del teatro: se lo perdiamo, perdiamo l’essenza».

Per questo, è sempre al presente, anche per chi è ormai solo nel passato. Chi non è più con noi, come Vincenzo Del Gaudio, il giovane professore di teatro e spettacolo all’Università degli Studi della Tuscia alla cui luminosa memoria Coro è dedicato.

Qual è stato il tuo primo, primissimo coro?

Non me lo ricordo. Non posso ricordarmelo. È il fantasma che ha fondato tutti i cori successivi, concreti e materici, brulicanti di corpi. Il fondamento è sempre invisibile, e se ti metti in grado di ascoltarne la voce, ti guida.

Chi sei tu nel coro?

La miccia che accende il fuoco. Al tempo stesso, la guida che nell’ascolto si fa guidare, il vaso concavo che riceve con gioia tutta l’energia del gruppo, la rilancia, se la fa ributtare addosso, la riprende e la rilancia di nuovo. Un poker dionisiaco.

Nel coro si entra o, piuttosto, si accede? Si tratta di intraprendere un moto a luogo oppure di trovare un’anima a luogo, cioè una disposizione a varcare una soglia che è prima di tutto dentro di sé?

Certo, la prima soglia è dentro di sé. È un’apertura, gioiosa, al possibile. Al farsi noi dell’io. A valicare le frontiere che ci dividono: non solo dagli altri esseri umani, ma dall’aria, dalle piante, dagli animali, dalla Creazione tutta.

Cosa cerchi e cosa trovi nel coro e con il coro?

Nel coro si cerca Dioniso, la «paroletta presa a prestito dai Greci», come scriveva Nietzsche. In altri luoghi del pianeta assume altri nomi ma non è mai una questione di nomi, è questione di sostanze: Dioniso è il dio sepolto che resuscita ogni volta che viene evocato con cuore puro. È il fuoco che ci con-fonde. Che sovverte le gerarchie, abbatte i muri. Che fa ricchi i poveri, forti i fragili. Che infonde coraggio. Che dal fango fa emergere l’oro. Nel cerchio dei viventi posso convocare i morti, gli antenati che lo hanno servito con devozione, i cui versi brillano della presenza del dio: Aristofane, Dante e Beatrice, Emily Dickinson, Vladimir Majakovskij, e tante altre e altri.

Qual è il legame tra il coro e la non-scuola? Sono nati insieme oppure è nato prima l’uno e poi l’altra?

Il coro è prima della non-scuola. Il coro è stato fin dall’inizio un’ossessione delle Albe. Essere in due, io e Ermanna, litigare per un’idea, accordarsi su un’impresa, incontrarsi e scontrarsi, comprendersi nelle differenze, amarsi nelle differenze: già questo, agli esordi, significava essere coro. Che poi, etimologicamente, è parola che significa danza. Danzare in due, danzare in duemila: è solo una differenza di quantità. Certo, la non-scuola e poi le «chiamate pubbliche» con centinaia di cittadini di tutte generazioni, ci hanno mostrato negli anni un modo preciso di cavar fuori l’armonia dall’indifferenziato, ma l’origine è albesca.

Come è nata l’esigenza di mettere per iscritto questa pratica? E cosa vuol dire, per te, essere pubblicato da AkropolisLibri?

Vari soggetti me l’avevano chiesto, soprattutto dopo aver letto Farsi luogo: come si fa a creare il coro? Ho provato a raccontarlo, sapendo che la mia è solo una strada tra le altre. A tutte le guide che ho formato nella non-scuola, ravennate e non, ho sempre detto: non imitatemi. Rubate quel che potete da quello che faccio, come io ho rubato a chi mi ha preceduto, usatemi come veicolo, così come io ho usato i veicoli di altri: ma poi scendete e andate a piedi, i vostri piedi, e con quelli segnate il cammino.
Per quel che riguarda Akropolis, è una gioia essere pubblicato da loro, per la passione e la raffinatezza con cui intrecciano teatro ed editoria, ed è un onore – che spero di meritare – il saggio introduttivo di Clemente Tafuri e David Beronio.

In che rapporto sta l’azione della scrittura con quella del coro?

Quando scrivo non sono mai solo, sono già in mezzo al cerchio: «io sono un condominio», mi ha detto Ermanna quando ci siamo conosciuti, «io sono noi», dice un proverbio senegalese imparato anni dopo. Il concetto è lo stesso. Io sono noi qui e ora, nel cerchio del coro, perché i nostri corpi sono vicini, si guardano, si toccano, si annusano, non si giudicano, si trasformano insieme nel saltare e cantare ma io sono noi anche quando mi ritrovo solo, a tremare davanti alla pagina bianca, perché in me si affollano i vivi e i morti, le epoche passate e la presente, e i tanti «coinquilini» che in me scalpitano e chiedono udienza, chiedono voce.

Prima che a Genova, hai fatto una lettura in pubblico al Teatro Rasi di Ravenna nell’ottobre 2022 in occasione degli Stati Generali della non-scuola. Coro è dunque anche un libro su una comunità di pensiero?

Allora il testo non era ancora stato pubblicato. Volevo prima leggerlo a tante amiche e amici, mosso dal desiderio di sapere cosa ne pensassero, se poteva essere utile, non come metodo da imitare ma come ispirazione per il proprio fare. E queste amiche e amici sono artisti e gruppi che, dal sud al nord della penisola, intendono il teatro in sintonia con le Albe, ognuno con la sua fisionomia, la sua poetica, ma accomunati dalla stessa pulsione dionisiaca, dentro e fuori la scena, un teatro che sul palco cerca cose antiche e sempre nuove, verità e bellezza, rovesciamenti e graffi, la «sacra materia» per dirla con Teilhard de Chardin, o con Pavel Florenski, e alla fine non si accontenta del palco, e svaglia nella città. È termine un po’ antico, si dice del fiume che rompe gli argini.

Tra loro, mi piace ricordare colui al quale il libro è dedicato: il professor Vincenzo Del Gaudio.

Vincenzo, giovane studioso, era lì in mezzo a noi per aver dedicato tanta attenzione all’argomento, apparentemente anacronistico, del coro. La sua scomparsa ci ha molto amareggiato. Il coro è la danza dei vivi e dei morti, di noi che custodiamo coloro che invisibili ci custodiscono. Vincenzo continuerà a danzare nella memoria.

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Fosse
1 Dicembre 2023

Jon Fosse: sussurri e grida di un Nobel

Katia Ippaso, « Il Venerdì di Repubblica»

«Il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena».

È un’immagine rivelatoria del modo di sentire di Jon Fosse, premio Nobel per la Letteratura 2023. Un piccolo segreto, contenuto in uno scrigno che, sotto il titolo di Saggi gnostici (testo del 1999), raccoglie altri segreti, chiavi d’accesso al mondo interiore dello scrittore norvegese, fortemente segnato dalla religione (il puritanesimo dei quaccheri), dalla filosofia (Wittgenstein, Heidegger, Derrida) e dalla musica. «Io sono arrivato alla scrittura dal rock. Un tipo di transizione quasi impercettibile, dalla chitarra alla macchina da scrivere».

Curato da Franco Perrelli, Saggi gnostici è il primo volume che la Cue Press ha dedicato a Fosse. Era il 2018 e, come ci racconta oggi Mattia Visani, che di questa piccola casa editrice è il direttore: «Già allora Perrelli e io andavamo fantasticando sulla possibilità che questo scrittore immenso, minimale ed evocativo, potesse aspirare al più grande riconoscimento».

La notizia del Nobel a Jon Fosse, un autore che ha pervaso di misticismo (un misticismo alimentato dalla ‘via negativa’ di Meister Eckart) ogni sua creazione, dal romanzo alla poesia fino all’opera teatrale, ha prodotto una scossa salutare anche in Italia. «Il 5 ottobre, nel giro di un’ora, ho ricevuto 2.500 richieste. E stiamo parlando di un autore di cui riuscivo a vendere una o due copie all’anno».

Continua Visani, che in questi dieci anni di attività editoriale è andato ostinatamente a disseppellire opere di «perdenti, invisibili o dimenticati» spesso fuori catalogo, dai grandi maestri della regia russa (Stanislavskij, Mejerchord, Tairov) fino ai drammaturghi italiani che nessuno (ancora) conosce. Un’attività che ha portato alla Cue Press anche il premio 2023 dell’Associazione nazionale critici di teatro.

Fosse dice di aver cominciato a scrivere teatro perché aveva bisogno di soldi. Ma, nel tempo, questa forma di scrittura è diventata la sua più compiuta dimora, «la disciplina» più amata, perché più vicina «all’estasi rock», al «sussurro nella tenebra». Il suo primo dramma, E non ci separeremo mai, del 1992, apre il volume Teatro che la Cue Press ha pubblicato all’inizio del 2023. Mentre Quel buio luminoso (2006), il folgorante saggio critico di Leif Zern sulla drammaturgia di Jon Fosse (curato, come l’antologia teatrale, da Vanda Monaco Westerstahl), è uscito subito dopo il prestigioso riconoscimento rivolto a chi, con «la sua drammaturgia e la sua prosa innovative, ha dato voce all’indicibile». Nel 2019, Cue Press aveva anche pubblicato, con la cura di Perrelli, un altro testo teatrale, Caldo (2005), rappresentato in Italia da Alessandro Machia nel 2017. Quattro testi che offrono, nella loro interezza, la possibilità di indagare le strutture profonde del teatro di Jon Fosse, la cui vita sui palcoscenici italiani si lega essenzialmente ad alcuni nomi: oltre allo stesso Machia (che da anni conduce seminari d’approfondimento sull’anima e le forme dello scrittore norvegese), Valerio Binasco (dopo aver messo in scena Qualcuno arriverà, E la notte canta, Un giorno d’estate, Sonno e Sogno d’autunno, a marzo allestirà a Torino La ragazza sul divano, testo che era entrato anche nel repertorio di Thomas Ostermeier), Valter Malosti (ricordiamo la sua versione di Inverno), Gian Maria Cervo (ai Quartieri dell’arte di Viterbo ospitò nel 2003 la prima italiana di Variazioni di morte) e i più giovani Thea Dellavalle, Alessandro Greco e Vincenzo Manna (i registi del Trittico Fosse presentato al Teatro India di Roma nel 2015).

La lettura di tre opere scritte negli anni Novanta e raccolte nel volume TeatroNon ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome – ci fa entrare nelle stanze in cui Fosse drammaturgo (raffinato conoscitore di Ibsen, Bernhard e Beckett) deposita le sue anime in pena, esponendole agli effetti mai perdonati delle loro stesse azioni. Una moglie apparecchia per l’uomo che oggi le sfugge perché attratto da una donna più giovane, che a sua volta non potrà evitare di avere paura nel momento in cui ‘vede’ ciò che non dovrebbe. Una coppia che si è appena trasferita in una casa fredda, lontana dal mondo, si sente minacciata dalla presenza di un altro uomo. Due ragazzi si presentano dai genitori di lei per annunciare che nascerà un bambino, ma non sarà il padre a dargli il nome. Sono le creature raminghe che abitano una scena dolorosa, dove memorie, presagi e presentimenti si fissano su parole e silenzi, trattati come fossero rocce, alberi, oggetti della casa. In una terra siderale, scolpita dal vento e dalle onde del mare, i personaggi entrano e escono dalle loro dimore atemporali senza chiedere permesso. Una materia esistenziale che ci pone in quella soglia che solo una scrittura affilata, concepita dall’autore norvegese come «un atto di preghiera», può varcare. Jon Fosse lo scrisse chiaramente anche in forma di poesia: «Si può dire per esempio/ che quello che separa noi vivi da noi morti/ è una cabina telefonica/ oppure un albero di prugne».

Cue
29 Novembre 2023

A Cagliari per parlare di teatro e editoria

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali»

Teatro e editoria: un bel binomio. Storicamente scena e libri hanno sempre colloquiato. A volte discusso, altre bisticciato, ma è più o meno da Gutenberg che si parlano. Rapporto conflittuale, ma necessario, insomma. E che cambia di stagione in stagione. Così ha fatto bene la storica del teatro Roberta Ferraresi, assieme al giornalista e critico Walter Porcedda (ben noto ai lettori di queste pagine e non solo), con l’impeccabile organizzazione del Crogiuolo, nell’ambito del festival Mondo Eco, a chiamare a raccolta studiosi, critici, artisti e editori per fare il punto su questa storia infinita. Versus, si intitolava il convegno, e già l’approccio poneva la questione in una prospettiva dialettica e non pacifica. Così, all’Università di Cagliari, in una sala affollata da operatori, teatranti e studenti si è discusso una giornata su tendenze, cogenze, e mancanze del settore.

«Gutenberg era uno stampatore! Noi dovremmo pensare piuttosto a Aldo Manuzio! Lui sì che era un editore!» Così ha tuonato Luca Sossella – fondatore e anima dell’omonima casa editrice – rivendicato la passione della scelta come motore per far vivere davvero l’editoria teatrale. Ma già Ferraresi, aprendo i lavori dell’appassionante convegno, aveva rivendicato: «Quel legame indissolubile e antico che muove dalla lettura dei testi classici. E la rivoluzione teatrale del Novecento ha specificato quanto e come il teatro non sia contro il testo, anzi: le grandi avanguardie sono state aiutate proprio dal testo, dalle parole, dai libri». Evocando gli studi di Fabrizio Cruciani, Ferraresi ha ricordato che «le mutazioni sceniche non sarebbero esistite senza studiosi, editori, scrittori [e critici, N.d.R.], perché la trasmissione del sapere avviene attraverso la parola scritta». Arrivando all’oggi, Roberta Ferraresi ha chiarito come esistano «nuove alleanze e rapporti» tra libro e teatro, e se pure l’azione di entrambi è evidentemente marginale rispetto alla società, «proprio dai margini – ha concluso la studiosa – si possono rilanciare gli elementi cardine di questo rapporto».

È entrato poi nel merito dell’ «editoria scientifica» il professore Guido di Palma, della Sapienza di Roma. Storico del teatro, Di Palma ha preso come esempio un’importante rivista di settore, Biblioteca Teatrale, edita proprio dall’ateneo romano. Partendo da una suggestione poetica, ossia l’invito all’ascolto – pratica fondante il teatro stesso – Di Palma ha poi ricostruito l’evoluzione degli studi accademici, evidenziando criticità e contraddittorietà. Dito puntato sui cosiddetti criteri scientifici oggi in auge che, se rapportati al passato recente, avrebbero impedito l’impetuoso sviluppo degli studi storico-antropologico-teatrali degli anni Settanta. Un sistema kafkiano, quello attuale, che per Di Palma rischia di portare al «pensiero unico», che esclude non solo eventuali ‘eretici’ (la definizione è mia) ma anche innovazione e sviluppo.

È intervenuta poi Debora Pietrobono, attualmente capo ufficio stampa di Ert-Emilia Romagna Teatro, e con una carriera brillantissima alle spalle che l’ha vista protagonista di innumerevoli iniziative di portata nazionale e internazionale. Ripercorrendo il suo viaggio nel teatro, a partire dal lavoro come organizzatrice a fianco di Ascanio Celestini; poi come motore di quella esperienza formativo-creativa davvero unica che fu Punta Corsara, nel quartiere di Scampia, a Napoli; e infine, tra tanti altri incarichi, l’approdo a Ert, Pietrobono ha sottolineato quanto sia importante che un Teatro Nazionale si faccia carico anche di una attività editoriale adeguata: pubblicazione dei testi (messi in scena o meno), quaderni critici, materiali che possano non solo testimoniare quanto accade ma essere anche preziosi strumenti di formazione e discussione per il pubblico.

È stata poi la volta di Clemente Tafuri e David Beronio, della compagnia genovese Akropolis, artefici del potente festival Testimonianza ricerca azione, da sempre impegnati sul doppio fronte della ricerca storico-filosofica da un lato (che si concretizza in corpose e interessantissime pubblicazioni), la scena e il cinema dall’altro. Nei loro interventi si sono soffermati, in particolare, su due concetti cardine dello spettacolo: l’incomunicabilità e l’incompletezza. Ha detto Tafuri: «Nel Teatro resta sempre qualcosa di occulto, di irrappresentabile che può essere rievocato tramite i libri e la scrittura, tessere in più di un complesso mosaico, che non completano ma affiancano l’Opera».

E siamo tornati ad Aldo Manuzio: nel suo intervento, Luca Sossella invita tutti ad «eliminare la ‘competizione’ e dedicarsi alle ‘competenze’», e per questo serve l’esempio di Manuzio, come stimolo a creare alleanze di pensiero e di azioni, ad elaborare visioni ben oltre il reale. Conclude Sossella: «Si tratta di andare oltre la frustrazione di fare solo quel che si può, e di andare più avanti, agire con pre-veggenza».

Alla visionarietà militante di Sossella, risponde con consapevole concretezza Mattia Visani, ideatore, fondatore e direttore della casa editrice Cue Press (tra l’altro, quella che pubblica il premio Nobel Jon Fosse da prima che fosse Nobel). Attacca Visani: «La produzione culturale è troppo spesso un hobby per ricchi. Noi vogliamo e dobbiamo ragionare in termini di ‘impresa’ perché l’editoria è il nostro lavoro, è quel che ci dà da vivere. Non vogliamo essere marginali, anzi: vogliamo prendere il mercato con scelte giuste, basate sulla qualità e la competenza. Cue Press dimostra che è possibile farlo».

E proprio dalla dialettica marginalità-centralità ha preso spunto il critico Alessandro Toppi, parlando dell’esperienza bella e importante di una rivista di settore come La Falena, creata da quattro critici militanti e sostenuta dal Teatro Metastasio di Prato. Parlando delle condizioni di lavoro nel settore, troppo spesso condizioni capestro, Toppi ha portato l’attenzione di tutti gli astanti sulle feroci contraddizioni di un sistema che vede troppi professionisti lavorare sottopagati o addirittura gratuitamente. Il convegno è proseguito poi con tre presentazioni di libri. Il primo è la nuova edizione di Teatro contemporaneo in Sardegna, curato con attenzione e passione da Mario Faticoni, protagonista sulla scena d’avanguardia sarda già negli anni Sessanta e Settanta. Nel racconto, fatto con pudore non scevro da ironia, Faticoni ha ricostruito le prime avvincenti prove del «nuovo teatro» isolano, in una terra da sempre attenta a quanto accade a livello internazionale. A seguire, il regista Alessandro Serra, uno dei talenti che l’Italia sta facendo conoscere in tutto il mondo, ha presentato il volume La tempesta: dal testo alla scrittura di scena (Luca Sossella editore). Incalzato dalle domande di Alessandro Toppi, Serra ha non solo ricostruito il suo allestimento del testo shakespeariano, ma ha anche spaziato in analisi aguzze sulla scena contemporanea.

Infine, a chiudere la lunga giornata di convegno, è stato Marco Martinelli, maestro indiscusso del teatro italiano che ha presentato il libro Coro (Akropolis Libri), affascinante viaggio sulle tracce di Dioniso attraverso quell’elemento nodale della tragedia greca che era per l’appunto il coro, diventato sempre più connotante delle ultime produzioni del Teatro delle Albe. Poi, a dare concretizzazione visiva di quel che il coro può essere per Martinelli, è arrivata la proiezione del film Il cielo sopra Kibera, commovente documentario che racconta il lavoro fatto dal regista nello slum di Kibera, in Kenia, alle prese con centinaia di ragazzini e la Divina Commedia di Dante Alighieri. Soddisfatti i relatori e le relatrici, contento e stremato il pubblico degli astanti, il convegno cagliaritano si è chiuso con l’invito a tessere davvero quelle reti di collaborazione tra scena e libri auspicate da tutti, di rilanciare quel dialogo e far continuare quella lunga storia di relazioni, tra vicinanze e lontananze, che da sempre legano teatro e editoria.

E, a complemento del meritevole incontro, c’è stato anche il tempo per una visita al museo di Is Mascareddas, storica e attivissima compagnia di teatro di figura, fondata nel 1980 da Antonio Murru e Donatella Pau: amati in tutto il mondo eppure poco conosciuti in Italia (per quanto sia appena arrivata la candidatura al Premio Ubu 2023). Un patrimonio di artigianato e sapienza, di invenzione e tradizione che merita davvero attenzione: burattini, marionette, oggetti raccontano un teatro meraviglioso.

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Gabriele f
28 Novembre 2023

Ritratto dell’artista senza tempo

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

Dopo quindici anni torno a intervistare Gabriele Frasca – scrittore, traduttore e docente di letteratura, ma soprattutto infaticabile promotore beckettiano.
Il Meridiano dedicato a Beckett, da lui tradotto e curato, rappresenta se non il punto d’arrivo quanto meno una pietra miliare sulla strada – sulla quale Frasca sta procedendo da anni – del rilancio di questo autore.

Samuel Beckett. Uno dei classici del Novecento con il quale, però, gli editori italiani – almeno da un certo momento in poi – sembravano quasi non saper cosa fare. E adesso, invece, la «consacrazione» in un Meridiano di cui firmi integralmente cura e traduzioni. Le prime domande che mi vengono in mente sono: come ti sei sentito ad affrontare una simile impresa? E soprattutto: come sei riuscito a convincere Mondadori?

Non credo di aver durato particolare fatica a convincere Mondadori.
Anzi, penso persino che accarezzassero l’idea prima che entrassero in contatto con me, più o meno verso la primavera del ’17. In realtà Elisabetta Risari mi telefonò un giorno per organizzare un incontro, con lei e Luigi Belmonte. Chiacchierammo di diverse cose per l’occasione, e soprattutto della straordinaria impresa di Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni che stavano portando a compimento la traduzione del Finnegans Wake. Fu un modo per conoscersi e capire cosa avremmo potuto fare insieme, suppongo. Io ero fresco di un corso di Media Comparati – disciplina che ho fatto nascere da un bel po’ di anni dalla costola delle ben più riconosciute Letterature Comparate – che avevo dedicato al primo quindicennio di cinematografia sovietica. Era del resto il centenario della Rivoluzione Bolscevica.
Ne approfittai così per lamentarmi del fatto che mentre la Penguin aveva per la ricorrenza pubblicato una bellissima nuova edizione della Storia della rivoluzione russa di Lev Trockij, qui da noi nessuno aveva avuto l’idea di tornare a fare circolare questo capolavoro della storiografia. Perché lo è. E quando mi risposero che lo avrebbero fatto senz’altro loro, a patto che io firmassi l’introduzione – consegna che ho poi rispettato con grande entusiasmo –, capii che mi avevano contattato per un progetto di più ampio respiro. Non si accetta una proposta quasi estemporanea se non si ha in mente qualcos’altro.
Così di tanto in tanto cominciai ad andare a Segrate, soprattutto per incontrare Elisabetta e Luigi, ma poi anche Renata Colorni, quando fra le tante ipotesi di lavoro emerse per l’appunto il Meridiano Beckett.
Che non fu nemmeno l’unico Meridiano possibile su cui discutemmo, ma di sicuro quello che pareva a tutti il più impellente da realizzare. Probabilmente sarò stato io a introdurre la questione, ma ho l’impressione che non aspettassero altro.
Quanto a me, naturalmente puntavo sui due volumi delle opere complete, e la prima scheda che inviai loro andava in quella direzione. Ma mi spiegarono che non erano nelle condizioni di poter intraprendere lo sforzo economico per un doppio volume, perché Beckett in Italia assicura vendite modeste. Temo che sia vero. O quanto meno che lo sia stato negli ultimi decenni. Quando mi chiesero di fare dunque una scelta, in un primo momento rifiutai. L’idea stessa di mettere arbitrariamente mano a un’opera così straordinariamente coesa, mi faceva rabbrividire. Ma l’argomento che mi convinse l’usò per l’occasione Luigi Belmonte. Mi disse semplicemente che dovevo «autorizzarmi» a scegliere le opere necessarie a rilanciare Beckett in Italia. Gli devo questa assunzione di coraggio. Quanto all’impresa in sé, cioè circa cinque anni di lavoro, per me era un debito da pagare. E spero di averlo saldato.

Come hai proceduto per la selezione delle opere? Se da un lato non mi sembra una grande perdita rinunciare ai vari rough for theatre mi sembra invece un peccato che la categoria dei radiodrammi sia rappresentata dal solo Parole e Musica e che non vi siano Ceneri e Tutti quelli che cadono.

Per non parlare dell’altro radiomelodramma, Cascando… e dell’esilarante camera della tortura di Pochade radiophonique! Proverò allora a rendere ragione dei criteri che ho adottato per le mie scelte, che ho cercato di rendere quanto meno arbitrarie possibili. Da questo punto di vista ho proceduto secondo due direzioni che ho cercato poi di far convergere. Come prima cosa, difatti, mi sono affidato alle volontà stesse dell’autore, escludendo a priori le opere alla cui pubblicazione Beckett si era sempre opposto, e che sono apparse difatti solo postume: mi riferisco ovviamente al romanzo giovanile Dream of Fair to Middling Women e alla prima opera teatrale in francese, Eleutheria. Forte poi di quante volte l’autore nel suo epistolario avesse nel corso del tempo assegnato al romanzo Murphy il ruolo d’inizio della sua intera produzione, ho rinunciato – a malincuore – anche alle novelle di More Pricks than Kicks, lasciando che si delineasse così una delle due colonne portanti su cui si regge questa scelta, quella per l’appunto romanzesca, che da quella prima prova edita in inglese giunge – con la sola espunzione di Mercier et Camier, testo a sua volta in un primo momento rifiutato, e recuperato da Beckett solo dopo il Nobel per compiacere i suoi editori – alle strutture narrative condensate e compresse di Compagnia, Mal visto mal detto e Peggio tutta.
Una volta delineato il privilegio accordato alla forma romanzo, è stato dunque inevitabile escludere dal volume quella serie di testi, per quanto formidabili, che vanno dalle prime novelle in francese dell’immediato dopoguerra ai Testi per nulla, per proseguire poi coi frammenti in inglese di From an Abandoned Work e All Strange Away, e con le fulminanti strutture narrative in francese che Minuit raccolse nel volumetto Têtes-mortes, e non solo. Di tutte queste opere apparentemente residuali, ma che costituiscono il semenzaio dell’intera produzione beckettiana dai primi anni Cinquanta ai Settanta del secolo scorso, ho accolto, a rappresentarle tutte, quello che sembrerebbe essere un vero e proprio aborto di romanzo, Lo spopolatore. «Una volta delineato il privilegio accordato alla forma romanzo, è stato dunque inevitabile escludere dal volume quella serie di testi, per quanto formidabili […] che costituiscono il semenzaio dell’intera produzione beckettiana dai primi anni Cinquanta ai Settanta del secolo scorso».
Dal momento che la seconda direzione che avevo deciso di perseguire era la stessa ipotesi critica che ho posto alla base della scelta, vale a dire l’emersione della televisione come mezzo specifico dell’estetica beckettiana, è risultato relativamente più semplice sacrificare la certo non continua, ma comunque fondamentale produzione poetica dell’autore irlandese. Avendo nel 1999 provveduto a curare per Einaudi un’edizione delle poesie – che andrebbe magari aggiornata coi pochi ritrovamenti degli ultimi anni, e ovviamente ripubblicata –, è stato per me meno doloroso ridurre la presenza delle strutture versali al solo testo conclusivo, con tutta l’ambiguità formale che lo circonda.
La produzione teatrale è stata al contrario riportata quasi nella sua interezza, escludendo solo pochi testi brevi – i due mimi intitolati entrambi Acte sans paroles, e poi Va e vieni, Respiro, Un pezzo di monologo e Ohio Impromptu – e i rari frammenti di pièce abbandonate e recuperate in un secondo momento.
Estremamente sofferta è stata l’esclusione proprio dei radiodrammi, con la sola eccezione che ricordavi, dal momento che li ho sempre ritenuti fra i testi più significativi dell’opera beckettiana.
Perché è quasi una regola: quando si è costretti a effettuare una scelta fra le opere di un autore, e lo si fa affidandosi non al gusto ma a una tesi critica, si finisce prima o poi con l’escludere lavori che in un primo momento sarebbero apparsi intoccabili. Ma a lenire il senso di amarezza che si è rinnovato a ogni dolorosa rinuncia, c’è stata se non altro la certezza di fornire per le opere prescelte un apparato di note abbastanza cospicuo, in grado di tenere conto delle questioni di traduzione, di esplicitare alcuni rimandi forse per il lettore italiano opachi, e al contempo di chiarire alcuni snodi critici e tracciare una sia pur rapida storia genetica dei singoli testi.
Fortunatamente a gennaio l’ottima Cue Press di Mattia Visani, che sta pubblicando i quaderni di regia beckettiani curati da Luca Scarlini, e che editerà a giorni due testi fondamentali di critica, come quelli di Ruby Cohn e Alan Astro affidati alle cure rispettivamente di Enzo Mansueto e Tommaso Gennaro – oltre a ripubblicare la biografia di James Knowlson –, darà alle stampe il mio libro d’accompagnamento (o «compagnonevole», per dirla con Company) di tutta l’opera di Beckett, non solo dei testi apparsi in Romanzi, teatro e televisione. S’intitolerà Il dolce stil no, e almeno per quello che mi riguarda sarà la quadratura del cerchio.

Fa una certa impressione rileggere Com’è, la cui ultima edizione italiana risaliva a quasi sessanta anni fa. Immagino che in questo caso il lavoro di traduzione sia stato particolarmente impegnativo. O forse per un traduttore è più difficile accostarsi a testi più semplici dal punto di vista linguistico, ma considerati «mostri sacri» (come può essere ad esempio Aspettando Godot)?

Com’è, romanzo scritto in prima battuta in francese, è stato un vero tour de force. Tradurre quel testo significa prima di tutto identificare, nell’andamento orale di ogni singola lassa, dove far cadere le pause di respiro. Già, proprio quel respiro che la voce del testo, la «voce quaqua», dice di sentire costantemente. Un libro che «ascolta» i suoi lettori non si è mai dato. Com’è lo fa. E come se non bastasse in lingue diverse. Ogni lingua ha il suo sistema di pause, per nulla sovrapponibile a quello di un’altra… come mostra la traduzione in inglese dello stesso Beckett, disposta a tradire la lettera del testo pur di preservare il suo chicco di senape di reale, la presa di respiro. Il che vuol dire una cosa sola: che in quel testo non si può eludere la questione del ritmo. Forse nella fattispecie mi ha aiutato la frequentazione della poesia, e l’abitudine consolidata nel corso del tempo a «respirare» Dante.
Anche Beckett lo faceva, lo ha sempre fatto: per lui la metrica della Commedia dantesca non era un «gargarismo estetico», ma l’indicazione precisa su come impostare la propria voce per slatentizzare il testo. È lì che un traduttore italiano può incontrare Beckett, per sua fortuna. Ma hai ragione tu: è più difficile tradurre i presunti testi «semplici», perché risultano pieni d’insidie. Luoghi comuni della traduzione che vanno evitati come la peste. Con uno scrittore equilingue, poi, c’è poco da scherzare, bisogna imparare a procedere strabici, o stereofonici. Ma innanzitutto bisogna decidere quale siano le ultime volontà dell’autore rispetto al testo in questione. Quale sia l’edizione rivista fino alla fine, quale sia la lingua che conserva l’ultima mano di vernice. Soprattutto per i testi teatrali – che Beckett non solo ha scritto e tradotto ma ha anche diretto – di vere e proprie varianti adiafore, come direbbe un bravo filologo, ce ne sono a chili. Aspettando Godot da questo punto di vista è un bel nodo di questioni.
A partire persino da dove mettere a sedere Estragone in prima scena… Fortunatamente ho avuto la possibilità nelle schede dei singoli testi di render conto di tutte le mie scelte.

Quali sono i testi che ti rendono più orgoglioso di questo Meridiano, sia dal punto di vista della riuscita del tuo lavoro di curatore e traduttore sia per la consapevolezza di proporre qualcosa di importante al lettore?

Dovrò essere banale: tutti. E per il metodo dichiaratamente filologico che ho adottato. La filologia significa mettersi al servizio dei testi, soprattutto quando a tramandarceli sono, diciamo così, due o più rami diversi della tradizione. Con uno scrittore equilingue si può essere solo filologi, o rinunciare. E non c’è testo beckettiano che non faccia da questo punto di vista storia a sé; per due motivi, che nel corso del tempo hanno finito persino con l’intrecciarsi. Innanzitutto Beckett si accorse assai per tempo di quanto il testo teatrale fosse per l’appunto per sua natura decisamente meno tetragono di quello narrativo, che diviene sostanzialmente immutabile, fatte salve eventuali successive edizioni, una volta licenziata l’ultima bozza. E in tutte le occasioni in cui gli capitò, come per Aspettando Godot, di dare alle stampe una pièce prim’ancora del suo allestimento, non poté che pentirsene. La prova della scena finì rapidamente con l’imporsi alle ragioni in sé concluse del testo, non solo convalidando o meno l’efficacia stessa delle battute, ma anche e soprattutto saggiando l’adeguatezza delle indicazioni contenute nelle didascalie, il cui statuto autoriale, trattandosi in realtà di istruzioni per la messa in scena, si sa bene quanto sia di suo attenuato. Una didascalia, nell’economia autoriale di un testo, ha meno peso di una battuta; ma in quella dell’eventuale regista acquista tutto il suo senso.
La questione in sé non desterebbe scalpore, se ci dovessimo limitare a seguire le peripezie di un autore di teatro nel continuo gioco dialettico fra i vari allestimenti e le successive edizioni di una stessa opera. Ma dal momento che la seconda apparizione tipografica dello stesso testo per Beckett ha sempre significato la pubblicazione dell’opera da lui stessa tradotta nell’altra lingua, quale che fosse quella d’origine, ci troviamo il più delle volte nelle condizioni di ritrovare il testo della pièce da ritenere fededegno ovviamente nella lingua d’origine, e reperire invece quello più attendibile, per quanto riguarda le indicazioni di regia contenute nelle didascalie, senza alcun dubbio nella lingua di traduzione. Insomma: le didascalie delle sue pièce tradotte derivano direttamente dalla prova della scena, e a non tenerne conto si falsa il destino teatrale del testo.

Del suo continuo tradursi, Beckett ha fatto una sorta d’insegna di bottega. Per quanto sia ovvio partire dalla lingua di prima stesura, appare altrettanto evidente che il testo nell’altra lingua prosegue la storia genetica del testo. È come se avessimo a che fare con due testimoni di un originale che non c’è.

Per non parlare di quanto l’intera questione divenne più complessa quando la pratica equilingue s’instaurò in Beckett persino nel processo di composizione. Perché il vero problema resta ineludibile. Come tenere difatti conto del paradossale sistema a doppio originale messo in campo da un autore che del suo continuo tradursi – e persino mettersi in scena, che nel caso di Beckett ha sempre significato piegare il testo alle esigenze di regia, e dunque senz’altro modificarlo – ha nel corso del tempo fatto una sorta d’insegna di bottega? Perché per quanto sia ovvio che occorra partire dalla lingua di prima stesura, appare altrettanto evidente che il testo nell’altra lingua – sempre innovativo, perché Beckett limava, modificava, aggiungeva – non può essere utilizzato solo come mera riprova, dal momento che a suo modo prosegue la storia genetica del testo. È come se, in qualche modo, avessimo a che fare con due testimoni di un originale che non c’è, con tanto di varianti per l’appunto adiafore; situazione che i filologi conoscono bene, e che non si augurano mai, perché senza il terzo, testimone o ramo della tradizione, occorre operare una scelta, motivarla con iudicium, avrebbe detto un filologo come Giorgio Pasquali, aprendo così la strada a quella nebulosa delle scelte opinabili nella quale – attenzione! – solo un critico si può addentrare. Ovvio che ogni testo abbia dunque avuto una storia a sé, e abbia posto ciascuno i suoi specifici problemi di traduzione. Ed è per questo che non riesco a scegliere fra loro.

Nella prefazione al volume sollevi la questione della controversa notorietà di Beckett, di un autore che tutti «conoscono» (le virgolette sono d’obbligo) ma le cui opere non sono mai state dei best-seller, né in libreria né al botteghino. Dici, giustamente, che spiegare la peculiare natura di questa notorietà al lettore del nuovo millennio è il compito più difficile. A me sembra intanto una buona notizia che ci siano ancora lettori di Beckett nel nuovo millennio. Ma poi, pensavo, forse Beckett è riuscito a diventare un’icona pop (la definizione è tua) proprio perché ha creato opere al tempo stesso attraenti e respingenti, difficili ma irresistibili…

Beckett, sulla scorta di Joyce, si è sempre definito «artista», non «scrittore». Il discrimine se vuoi è questo. Le sue opere sono irresistibili perché hanno la forza dell’arte, e l’arte fortunatamente non dà scampo. Sono fresco della visione della mostra di Rothko a Parigi, e posso dichiararlo con certezza: sfido chiunque a passeggiare per quelle sale, anche a digiuno dei più elementari rudimenti di storia dell’arte contemporanea, e non sentire la potenza assoluta che sprigiona dalle tele. Ho cercato lo sguardo dei tanti visitatori, e ne sono certo. Brillava qualcosa in ciascuno di loro, per quanto distratti potessero apparire. Per questo l’arte deve sempre essere messa a disposizione di tutti, perché non ha bisogno di tante chiacchiere: ti viene a cercare, e se è il caso ti modifica una volta per tutte. Beckett questo effetto lo sappiamo che lo suscita, come l’hanno sempre suscitato tutti quegli autori che un tempo si chiamavano «classici». E sarà questo il motivo per cui in tante altre nazioni, se entri in libreria, le opere di Beckett le trovi a banco. È così in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, nelle grandi città americane. Ciò non vuol dire che in questi Paesi le opere di Beckett si vendano come il pane, anzi. In Francia, in Gran Bretagna, in Germania, in America, in ogni angolo del mondo se vuoi, a furoreggiare è soltanto la letteratura d’intrattenimento, com’è sempre avvenuto del resto. Era così anche ai tempi di Flaubert. È sempre stato così, e per il semplice fatto che la letteratura nasce proprio per questo, per intrattenere.
La letteratura è intrattenimento. L’arte invece è un solvente, qualcosa che vuole slegare. Insomma: in tutto il mondo ancora alfabetizzato, si legge per passare il tempo, e si cercano quei libri che sono nati proprio con l’intento di occupare – talvolta militarmente, come nel caso dei bestseller – quel po’ di ozio concesso a un’umanità condannata a produrre a ritmi sempre più vertiginosi, per il breve tratto di esistenza a ciascuno concesso. Ora, l’unica differenza con l’Italia è questa: nelle altre nazioni, anche dopo la nascita delle grandi concentrazioni editoriali avvenuta negli anni Ottanta del secolo scorso, se è vero che si legge in maniera intensiva solo letteratura d’intrattenimento, lo è altrettanto che si riserva sempre un posto nelle librerie per le opere dei grandi artefici – o artificieri, per dirla con Joyce – del discorso. Si lascia insomma la possibilità a chi vuole d’incontrare l’arte, e il suo costante invito a vivere oltre i propri mezzi. In Italia, non so perché – o forse lo so, ma non è il caso di parlarne qui –, questo non avviene più da tempo. Non trovi più Beckett in libreria? Ma se persino di Pirandello non riesci a intercettare che una manciata di titoli multicolori, e manca persino un’edizione curata come si deve e facilmente accessibile di un monumento come Maschere nude… E parliamo di un autore altrettanto pop, e che dovrebbe far parte del nostro patrimonio letterario.

In passato mi è capitato di paragonare Beckett a una di quelle sonde Voyager che continuano a inviarci segnali dai punti più remoti della galassia. Al pari di quelle sonde anche Beckett a un certo punto smetterà di “funzionare”. La domanda allora è: cosa ci racconta, ancora oggi, nel 2023, Samuel Beckett? Come dobbiamo accostarci alla sua opera? Come a un monumento da guardare con soggezione o come a un manuale di istruzioni per la vita?

Direi senz’altro la seconda. Anche quando il Voyager Beckett sarà ancora più lontano nel tempo, continuerà a funzionare sempre e solo nella direzione di farci vivere oltre noi stessi. Perché se l’arte sopravvive, è per il fatto che ci fa sopravvivere. La letteratura (d’intrattenimento) ha un solo senso, e va a senso unico. L’arte invece si fonda su un’implicazione reciproca. E quanto a ciò che racconta oggi Beckett: beh, pensa soltanto che ho trascorso il lockdown della primavera del 2020 traducendo… Finale di partita. Tanto di ciò che si replica nell’opera di Beckett, è ancora sul punto di compiersi.

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