Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

3 Dicembre 2023

Jon Fosse: l’uomo che prega

Mauro Covacich, «Corriere della Sera»

In quasi tutti i libri di Jon Fosse c’è un uomo che prega. Quasi sempre quest’uomo fa il pittore, o meglio, è un pittore che crede in Dio, un credente la cui fede però attiene a qualcosa di più di una religione, direi piuttosto a un sentimento panico nei confronti dell’esistente. Questo artista, tutt’altro che famoso, ma abbastanza noto da sopravvivere grazie ai suoi quadri, ogni volta che può sgrana un rosario a cui di fatto si aggrappa come a minuscolo salvagente. Inspira e recita qualche verso del Padre Nostro, espira e recita qualche verso del Salve Regina. Non è un cattolico, o meglio, lo è in una forma molto eterodossa, qualcosa che ha a che vedere, senza citarlo, con il ‘cristianesimo adulto’ di teologi protestanti come Bonhoeffer, o forse addirittura con una forma di paganesimo ancestrale. Il suo è un afflato verso un Dio tutt’altro che onnipotente, un Dio che non ha creato il cielo e la terra e noi umani secondo un disegno imperscrutabile, ma è sceso accanto a noi, si è abbassato indossando le nostre sembianze e la nostra carne per condividere il dolore e la gioia (poca) di quest’avventura terrestre.

Il protagonista dei romanzi di Fosse in genere non è un uomo particolarmente disperato, è solo consapevole, in ogni istante, dell’intrinseca fragilità che scorre nelle vene del mondo, nelle cose che ci circondano e nei rapporti che ci legano gli uni agli altri. Il suo Dio non può promettere nessun risarcimento, nessuna prospettiva compensativa alla sofferenza terrena, nessun aldilà da vagheggiare, ma neppure si sottrae, anzi, il Dio pregato da Fosse è sempre presente e non nasconde la sua impotenza di fronte al male che ci vessa. Questo, alla fin fine, è il suo modo di amarci: l’amore di Dio sta nel vivere con noi lo sbigottimento di fronte alla malattia incurabile di un bambino, ad esempio, e a tutte le altre sciagure che ci fanno sentire la vita, questa unica sola vita, come profondamente ingiusta. Solo sotto questo profilo Dio è infinito, lo è cioè in quanto infinitamente amorevole.

Sono partito da qui, nel modo più dritto, perché mi sembra anche il più adeguato per restituire la caratteristica a mio avviso principale dell’opera di Fosse: la frontalità. Lo scrittore norvegese si getta nelle questioni capitali dell’esistenza già dalla prima frase e continua praticamente fino all’ultima, assecondando un flusso di pensieri che sgorga senza un vero inizio né una vera fine dentro una storia con pochi personaggi, quasi sempre gli stessi, che si avvitano e si sdoppiano in destini pieni di specchi fino a diventare il borborigmo che accompagna il lettore, la sua stessa voce interiore. Proprio perché dalle prime parole del libro si precipita in medias res, tutto ciò che viene raccontato, le azioni dei personaggi, i dialoghi, l’ambiente che li circonda (una Norvegia abbozzata eppure folgorante), tutto è fagocitato da un monologo ininterrotto che si priva di pause e punti fermi.

Da quanto detto si distingue in parte Melancholia, un dittico che esce ora in un unico volume presso la Nave di Teseo, un doppio romanzo del 1995, dove la punteggiatura è ancora governata da un narratore tutto sommato affidabile (ma già sulla via del delirio), identificato nella prima parte con il pittore protagonista, in questo caso un artista realmente vissuto, Lars Hertervig, uno dei più grandi paesaggisti dell’800, qui colto nell’estenuante ruminazione della sua vicenda umana, osservata dal letto del suo ultimo giorno, quello che precederà il suicidio.

Il pittore di Melancholia è un derelitto segnato dalla follia, un uomo vissuto di elemosina finché non è stato rinchiuso in manicomio, ma non per questo manca della lucida franchezza, della frontalità di cui sono dotati i protagonisti dei romanzi successivi. Una franchezza che richiama anche Hertervig alla religiosità delle cose ultime: la bellezza di un cielo o di un seno femminile, l’eleganza di una giacca color malva e anche sì, sempre, la tentazione della carne. Tutte verità che sprizzano, ad esempio, dai dialoghi memorabili di Hertervig con il sorvegliante Hauge. Nella seconda parte compare Vidme, scrittore fallito — secondo la voce narrante, a tratti in terza persona — per non aver colto la possibilità di riscattarsi scrivendo un libro su Hertervig, colui che ha saputo «cavar fuori alcuni segreti umani che si nascondono nelle nuvole». Vidme è uno dei primi alter-ego che poi affolleranno l’opera di Fosse, un trentenne che detesta la chiesa norvegese eppure si sente costretto a cercare un prete (e finisce per trovarne uno, donna). Poi, d’un tratto, ecco che prende la parola la sorella del pittore pazzo, in un monologo di un centinaio di pagine che da solo vale il Nobel.

A differenza dei romanzi successivi, dove trionferanno le sigarette, in Melancholia c’è anche una pipa, oggetto di culto, forse simbolo alchemico, come la bilancia nella famosa incisione di Dürer. Ma per il resto questo romanzo è in piena continuità con le opere che seguiranno, mi riferisco soprattutto ai tre volumi di Settologia, dove il pittore Asle, stavolta a noi contemporaneo e frutto dell’immaginazione dell’autore, passa in rassegna la sua vita mentre la vive, cucendo in una spirale di pensieri presente e passato, vivi e morti, piccole gioie del quotidiano insieme alla frustrazione e al rancore per i giorni che non torneranno.

Sono tante le continuità nei romanzi di Fosse. Una è la quotidianità spartana dei protagonisti. La stanza in affitto, la mensa frugale, il dialogo perpetuo con il proprio sé alienato in una figura autonoma, un alter-ego sbalzato sulla superficie della pagina come un bizzarro altorilievo, un sosia uscito dallo specchio e messosi in cammino tra le cose per conto proprio. Un’altra continuità è la mancanza, il dolore di un’assenza e la sua sempre incompleta elaborazione: i protagonisti di Fosse sono vedovi o comunque sono stati lasciati dalla donna che amavano. Una terza continuità è l’immanenza dei morti — come non pensare ai Dublinesi di Joyce? — presenze di cui avvertiamo il respiro, a cui non smettiamo di parlare accontentandoci delle loro risposte silenziose.

Ma Asle è attanagliato da un’accidia che si rivela paradossalmente creativa, se non altro per garantirgli una produzione piuttosto costante di quadri informali dotati di una malia irresistibile sia per l’amico gallerista che per gli acquirenti. Anche Asle è triste come Hertervig, ma tutt’altro che pazzo. Il melanconico è triste perché vede più lontano. Il nero che oscura la sua visione, è in realtà un prisma ottico che gli consente di osservare la vita senza ornamenti. Il melanconico è una figura alata apparentemente prigioniera della sua depressione. A guardarlo bene, è più libero del più scatenato degli ottimisti. Asle, Hertervig, Vidme — per non parlare del vecchio di Mattino e sera — sono tutti personaggi a servizio della frontalità poetica e brutale che caratterizza la scrittura di Fosse. È uno scontro a viso aperto con la vita. Una vita ridotta all’osso, al punto che la giornata di un artista è pressoché indistinguibile da quella dei suoi compaesani — pescatori, vecchie sorelle, docili vicini di casa. Per questo, forse, i romanzi di Fosse sembrano opere corali benché siano vorticosi flussi di voci monologanti.

Inutile perderci in trame troppo sofisticate, sembra dirci l’autore, visto che l’unica cosa che ci preme è questa: perché siamo vivi e poi a un certo punto non lo siamo più. Da qui nasce una prosa che, nel suo canto alla ripetizione, si offre al lettore come una sterminata preghiera, un’incessante variazione sul tema che fa pensare ai vortici ossessivi e calcolatissimi delle composizioni di Steve Reich o Philip Glass, ma anche alla missione di un Hokusai della scrittura, un artista che non teme la ripetizione, ma anzi, sa che solo attraverso quell’inanellamento infinito di prove la verità piano piano accetterà di concedersi nei tratti del mondo materiale: un’onda, un vulcano, un pittore che a mattina inoltrata non è ancora riuscito ad alzarsi dal letto.

2 Dicembre 2023

«Il coro è il segreto del teatro». Intervista a Marco Martinelli

Matteo Brighenti, «Pane Acqua Culture»

Scena e società, adolescenti e classici, nel segno del divenire uno in molti, attraverso il coro. «Ci sta a cuore il teatro solo quando è insieme lo specchio dell’io, la psiche individuale profonda, e del noi, ovvero il mondo». Un mistero e insieme una pratica che Marco Martinelli ha racchiuso ora in un libro intitolato semplicemente Coro, e uscito per i tipi di AkropolisLibri, il progetto editoriale di Teatro Akropolis di Genova.

Dopo Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti (Cue Press), il fondatore del Teatro delle Albe / Ravenna Teatro riflette sulla trentennale esperienza che ha segnato i suoi processi creativi tra palco, non-scuola e laboratori in giro per il mondo, consegnandoci una possibile mappa in 35 punti del viaggio per cui, attraverso il teatro, Dioniso si incarna in quell’«io sono noi» che lo manifesta. «Il coro di cui stiamo parlando è un coro scenico. Ma se il teatro lo separiamo da tutto ciò che ci riguarda – l’aria, le piante, gli animali, i sogni che facciamo la notte, i desideri e le paure, le storture della politica e dell’economia criminale, eccetera – smette di interessarci».

Dalla carta, poi, le parole di Martinelli sono tornate al palcoscenico durante l’ultima edizione Testimonianze Ricerca Azioni, che ne ha ospitato la prima lettura pubblica nel novembre scorso. D’altronde, sono stati proprio i due direttori artistici del festival genovese, Clemente Tafuri e David Beronio, nella loro Prefazione al libro, a sottolineare come Coro non tratti di una storia, ma di «un cantare, come un’ottava di Boiardo, come ciò che esiste solo nel momento in cui è detto, che affiora come luogo di transito di mille altri racconti, di mille altri pensieri». Afferma Martinelli: «Nello scrivere, io penso sempre ad alta voce, ho necessità di figurarmi un interlocutore a cui parlare. La scrittura torna così alla sua matrice, l’oralità. Se ne nutre».

Adesso che riattraverso domande, risposte e silenzi per comporre questa intervista, mi rendo conto che quando andiamo a teatro accediamo, in un modo o nell’altro, a un coro. Il teatro è esso stesso un coro. «Così dovrebbe essere. Il coro è Dioniso, il coro è il segreto del teatro: se lo perdiamo, perdiamo l’essenza».

Per questo, è sempre al presente, anche per chi è ormai solo nel passato. Chi non è più con noi, come Vincenzo Del Gaudio, il giovane professore di teatro e spettacolo all’Università degli Studi della Tuscia alla cui luminosa memoria Coro è dedicato.

Qual è stato il tuo primo, primissimo coro?

Non me lo ricordo. Non posso ricordarmelo. È il fantasma che ha fondato tutti i cori successivi, concreti e materici, brulicanti di corpi. Il fondamento è sempre invisibile, e se ti metti in grado di ascoltarne la voce, ti guida.

Chi sei tu nel coro?

La miccia che accende il fuoco. Al tempo stesso, la guida che nell’ascolto si fa guidare, il vaso concavo che riceve con gioia tutta l’energia del gruppo, la rilancia, se la fa ributtare addosso, la riprende e la rilancia di nuovo. Un poker dionisiaco.

Nel coro si entra o, piuttosto, si accede? Si tratta di intraprendere un moto a luogo oppure di trovare un’anima a luogo, cioè una disposizione a varcare una soglia che è prima di tutto dentro di sé?

Certo, la prima soglia è dentro di sé. È un’apertura, gioiosa, al possibile. Al farsi noi dell’io. A valicare le frontiere che ci dividono: non solo dagli altri esseri umani, ma dall’aria, dalle piante, dagli animali, dalla Creazione tutta.

Cosa cerchi e cosa trovi nel coro e con il coro?

Nel coro si cerca Dioniso, la «paroletta presa a prestito dai Greci», come scriveva Nietzsche. In altri luoghi del pianeta assume altri nomi ma non è mai una questione di nomi, è questione di sostanze: Dioniso è il dio sepolto che resuscita ogni volta che viene evocato con cuore puro. È il fuoco che ci con-fonde. Che sovverte le gerarchie, abbatte i muri. Che fa ricchi i poveri, forti i fragili. Che infonde coraggio. Che dal fango fa emergere l’oro. Nel cerchio dei viventi posso convocare i morti, gli antenati che lo hanno servito con devozione, i cui versi brillano della presenza del dio: Aristofane, Dante e Beatrice, Emily Dickinson, Vladimir Majakovskij, e tante altre e altri.

Qual è il legame tra il coro e la non-scuola? Sono nati insieme oppure è nato prima l’uno e poi l’altra?

Il coro è prima della non-scuola. Il coro è stato fin dall’inizio un’ossessione delle Albe. Essere in due, io e Ermanna, litigare per un’idea, accordarsi su un’impresa, incontrarsi e scontrarsi, comprendersi nelle differenze, amarsi nelle differenze: già questo, agli esordi, significava essere coro. Che poi, etimologicamente, è parola che significa danza. Danzare in due, danzare in duemila: è solo una differenza di quantità. Certo, la non-scuola e poi le «chiamate pubbliche» con centinaia di cittadini di tutte generazioni, ci hanno mostrato negli anni un modo preciso di cavar fuori l’armonia dall’indifferenziato, ma l’origine è albesca.

Come è nata l’esigenza di mettere per iscritto questa pratica? E cosa vuol dire, per te, essere pubblicato da AkropolisLibri?

Vari soggetti me l’avevano chiesto, soprattutto dopo aver letto Farsi luogo: come si fa a creare il coro? Ho provato a raccontarlo, sapendo che la mia è solo una strada tra le altre. A tutte le guide che ho formato nella non-scuola, ravennate e non, ho sempre detto: non imitatemi. Rubate quel che potete da quello che faccio, come io ho rubato a chi mi ha preceduto, usatemi come veicolo, così come io ho usato i veicoli di altri: ma poi scendete e andate a piedi, i vostri piedi, e con quelli segnate il cammino.
Per quel che riguarda Akropolis, è una gioia essere pubblicato da loro, per la passione e la raffinatezza con cui intrecciano teatro ed editoria, ed è un onore – che spero di meritare – il saggio introduttivo di Clemente Tafuri e David Beronio.

In che rapporto sta l’azione della scrittura con quella del coro?

Quando scrivo non sono mai solo, sono già in mezzo al cerchio: «io sono un condominio», mi ha detto Ermanna quando ci siamo conosciuti, «io sono noi», dice un proverbio senegalese imparato anni dopo. Il concetto è lo stesso. Io sono noi qui e ora, nel cerchio del coro, perché i nostri corpi sono vicini, si guardano, si toccano, si annusano, non si giudicano, si trasformano insieme nel saltare e cantare ma io sono noi anche quando mi ritrovo solo, a tremare davanti alla pagina bianca, perché in me si affollano i vivi e i morti, le epoche passate e la presente, e i tanti «coinquilini» che in me scalpitano e chiedono udienza, chiedono voce.

Prima che a Genova, hai fatto una lettura in pubblico al Teatro Rasi di Ravenna nell’ottobre 2022 in occasione degli Stati Generali della non-scuola. Coro è dunque anche un libro su una comunità di pensiero?

Allora il testo non era ancora stato pubblicato. Volevo prima leggerlo a tante amiche e amici, mosso dal desiderio di sapere cosa ne pensassero, se poteva essere utile, non come metodo da imitare ma come ispirazione per il proprio fare. E queste amiche e amici sono artisti e gruppi che, dal sud al nord della penisola, intendono il teatro in sintonia con le Albe, ognuno con la sua fisionomia, la sua poetica, ma accomunati dalla stessa pulsione dionisiaca, dentro e fuori la scena, un teatro che sul palco cerca cose antiche e sempre nuove, verità e bellezza, rovesciamenti e graffi, la «sacra materia» per dirla con Teilhard de Chardin, o con Pavel Florenski, e alla fine non si accontenta del palco, e svaglia nella città. È termine un po’ antico, si dice del fiume che rompe gli argini.

Tra loro, mi piace ricordare colui al quale il libro è dedicato: il professor Vincenzo Del Gaudio.

Vincenzo, giovane studioso, era lì in mezzo a noi per aver dedicato tanta attenzione all’argomento, apparentemente anacronistico, del coro. La sua scomparsa ci ha molto amareggiato. Il coro è la danza dei vivi e dei morti, di noi che custodiamo coloro che invisibili ci custodiscono. Vincenzo continuerà a danzare nella memoria.

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1 Dicembre 2023

Jon Fosse: sussurri e grida di un Nobel

Katia Ippaso, « Il Venerdì di Repubblica»

«Il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena».

È un’immagine rivelatoria del modo di sentire di Jon Fosse, premio Nobel per la Letteratura 2023. Un piccolo segreto, contenuto in uno scrigno che, sotto il titolo di Saggi gnostici (testo del 1999), raccoglie altri segreti, chiavi d’accesso al mondo interiore dello scrittore norvegese, fortemente segnato dalla religione (il puritanesimo dei quaccheri), dalla filosofia (Wittgenstein, Heidegger, Derrida) e dalla musica. «Io sono arrivato alla scrittura dal rock. Un tipo di transizione quasi impercettibile, dalla chitarra alla macchina da scrivere».

Curato da Franco Perrelli, Saggi gnostici è il primo volume che la Cue Press ha dedicato a Fosse. Era il 2018 e, come ci racconta oggi Mattia Visani, che di questa piccola casa editrice è il direttore: «Già allora Perrelli e io andavamo fantasticando sulla possibilità che questo scrittore immenso, minimale ed evocativo, potesse aspirare al più grande riconoscimento».

La notizia del Nobel a Jon Fosse, un autore che ha pervaso di misticismo (un misticismo alimentato dalla ‘via negativa’ di Meister Eckart) ogni sua creazione, dal romanzo alla poesia fino all’opera teatrale, ha prodotto una scossa salutare anche in Italia. «Il 5 ottobre, nel giro di un’ora, ho ricevuto 2.500 richieste. E stiamo parlando di un autore di cui riuscivo a vendere una o due copie all’anno».

Continua Visani, che in questi dieci anni di attività editoriale è andato ostinatamente a disseppellire opere di «perdenti, invisibili o dimenticati» spesso fuori catalogo, dai grandi maestri della regia russa (Stanislavskij, Mejerchord, Tairov) fino ai drammaturghi italiani che nessuno (ancora) conosce. Un’attività che ha portato alla Cue Press anche il premio 2023 dell’Associazione nazionale critici di teatro.

Fosse dice di aver cominciato a scrivere teatro perché aveva bisogno di soldi. Ma, nel tempo, questa forma di scrittura è diventata la sua più compiuta dimora, «la disciplina» più amata, perché più vicina «all’estasi rock», al «sussurro nella tenebra». Il suo primo dramma, E non ci separeremo mai, del 1992, apre il volume Teatro che la Cue Press ha pubblicato all’inizio del 2023. Mentre Quel buio luminoso (2006), il folgorante saggio critico di Leif Zern sulla drammaturgia di Jon Fosse (curato, come l’antologia teatrale, da Vanda Monaco Westerstahl), è uscito subito dopo il prestigioso riconoscimento rivolto a chi, con «la sua drammaturgia e la sua prosa innovative, ha dato voce all’indicibile». Nel 2019, Cue Press aveva anche pubblicato, con la cura di Perrelli, un altro testo teatrale, Caldo (2005), rappresentato in Italia da Alessandro Machia nel 2017. Quattro testi che offrono, nella loro interezza, la possibilità di indagare le strutture profonde del teatro di Jon Fosse, la cui vita sui palcoscenici italiani si lega essenzialmente ad alcuni nomi: oltre allo stesso Machia (che da anni conduce seminari d’approfondimento sull’anima e le forme dello scrittore norvegese), Valerio Binasco (dopo aver messo in scena Qualcuno arriverà, E la notte canta, Un giorno d’estate, Sonno e Sogno d’autunno, a marzo allestirà a Torino La ragazza sul divano, testo che era entrato anche nel repertorio di Thomas Ostermeier), Valter Malosti (ricordiamo la sua versione di Inverno), Gian Maria Cervo (ai Quartieri dell’arte di Viterbo ospitò nel 2003 la prima italiana di Variazioni di morte) e i più giovani Thea Dellavalle, Alessandro Greco e Vincenzo Manna (i registi del Trittico Fosse presentato al Teatro India di Roma nel 2015).

La lettura di tre opere scritte negli anni Novanta e raccolte nel volume TeatroNon ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome – ci fa entrare nelle stanze in cui Fosse drammaturgo (raffinato conoscitore di Ibsen, Bernhard e Beckett) deposita le sue anime in pena, esponendole agli effetti mai perdonati delle loro stesse azioni. Una moglie apparecchia per l’uomo che oggi le sfugge perché attratto da una donna più giovane, che a sua volta non potrà evitare di avere paura nel momento in cui ‘vede’ ciò che non dovrebbe. Una coppia che si è appena trasferita in una casa fredda, lontana dal mondo, si sente minacciata dalla presenza di un altro uomo. Due ragazzi si presentano dai genitori di lei per annunciare che nascerà un bambino, ma non sarà il padre a dargli il nome. Sono le creature raminghe che abitano una scena dolorosa, dove memorie, presagi e presentimenti si fissano su parole e silenzi, trattati come fossero rocce, alberi, oggetti della casa. In una terra siderale, scolpita dal vento e dalle onde del mare, i personaggi entrano e escono dalle loro dimore atemporali senza chiedere permesso. Una materia esistenziale che ci pone in quella soglia che solo una scrittura affilata, concepita dall’autore norvegese come «un atto di preghiera», può varcare. Jon Fosse lo scrisse chiaramente anche in forma di poesia: «Si può dire per esempio/ che quello che separa noi vivi da noi morti/ è una cabina telefonica/ oppure un albero di prugne».

29 Novembre 2023

A Cagliari per parlare di teatro e editoria

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali»

Teatro e editoria: un bel binomio. Storicamente scena e libri hanno sempre colloquiato. A volte discusso, altre bisticciato, ma è più o meno da Gutenberg che si parlano. Rapporto conflittuale, ma necessario, insomma. E che cambia di stagione in stagione. Così ha fatto bene la storica del teatro Roberta Ferraresi, assieme al giornalista e critico Walter Porcedda (ben noto ai lettori di queste pagine e non solo), con l’impeccabile organizzazione del Crogiuolo, nell’ambito del festival Mondo Eco, a chiamare a raccolta studiosi, critici, artisti e editori per fare il punto su questa storia infinita. Versus, si intitolava il convegno, e già l’approccio poneva la questione in una prospettiva dialettica e non pacifica. Così, all’Università di Cagliari, in una sala affollata da operatori, teatranti e studenti si è discusso una giornata su tendenze, cogenze, e mancanze del settore.

«Gutenberg era uno stampatore! Noi dovremmo pensare piuttosto a Aldo Manuzio! Lui sì che era un editore!» Così ha tuonato Luca Sossella – fondatore e anima dell’omonima casa editrice – rivendicato la passione della scelta come motore per far vivere davvero l’editoria teatrale. Ma già Ferraresi, aprendo i lavori dell’appassionante convegno, aveva rivendicato: «Quel legame indissolubile e antico che muove dalla lettura dei testi classici. E la rivoluzione teatrale del Novecento ha specificato quanto e come il teatro non sia contro il testo, anzi: le grandi avanguardie sono state aiutate proprio dal testo, dalle parole, dai libri». Evocando gli studi di Fabrizio Cruciani, Ferraresi ha ricordato che «le mutazioni sceniche non sarebbero esistite senza studiosi, editori, scrittori [e critici, N.d.R.], perché la trasmissione del sapere avviene attraverso la parola scritta». Arrivando all’oggi, Roberta Ferraresi ha chiarito come esistano «nuove alleanze e rapporti» tra libro e teatro, e se pure l’azione di entrambi è evidentemente marginale rispetto alla società, «proprio dai margini – ha concluso la studiosa – si possono rilanciare gli elementi cardine di questo rapporto».

È entrato poi nel merito dell’ «editoria scientifica» il professore Guido di Palma, della Sapienza di Roma. Storico del teatro, Di Palma ha preso come esempio un’importante rivista di settore, Biblioteca Teatrale, edita proprio dall’ateneo romano. Partendo da una suggestione poetica, ossia l’invito all’ascolto – pratica fondante il teatro stesso – Di Palma ha poi ricostruito l’evoluzione degli studi accademici, evidenziando criticità e contraddittorietà. Dito puntato sui cosiddetti criteri scientifici oggi in auge che, se rapportati al passato recente, avrebbero impedito l’impetuoso sviluppo degli studi storico-antropologico-teatrali degli anni Settanta. Un sistema kafkiano, quello attuale, che per Di Palma rischia di portare al «pensiero unico», che esclude non solo eventuali ‘eretici’ (la definizione è mia) ma anche innovazione e sviluppo.

È intervenuta poi Debora Pietrobono, attualmente capo ufficio stampa di Ert-Emilia Romagna Teatro, e con una carriera brillantissima alle spalle che l’ha vista protagonista di innumerevoli iniziative di portata nazionale e internazionale. Ripercorrendo il suo viaggio nel teatro, a partire dal lavoro come organizzatrice a fianco di Ascanio Celestini; poi come motore di quella esperienza formativo-creativa davvero unica che fu Punta Corsara, nel quartiere di Scampia, a Napoli; e infine, tra tanti altri incarichi, l’approdo a Ert, Pietrobono ha sottolineato quanto sia importante che un Teatro Nazionale si faccia carico anche di una attività editoriale adeguata: pubblicazione dei testi (messi in scena o meno), quaderni critici, materiali che possano non solo testimoniare quanto accade ma essere anche preziosi strumenti di formazione e discussione per il pubblico.

È stata poi la volta di Clemente Tafuri e David Beronio, della compagnia genovese Akropolis, artefici del potente festival Testimonianza ricerca azione, da sempre impegnati sul doppio fronte della ricerca storico-filosofica da un lato (che si concretizza in corpose e interessantissime pubblicazioni), la scena e il cinema dall’altro. Nei loro interventi si sono soffermati, in particolare, su due concetti cardine dello spettacolo: l’incomunicabilità e l’incompletezza. Ha detto Tafuri: «Nel Teatro resta sempre qualcosa di occulto, di irrappresentabile che può essere rievocato tramite i libri e la scrittura, tessere in più di un complesso mosaico, che non completano ma affiancano l’Opera».

E siamo tornati ad Aldo Manuzio: nel suo intervento, Luca Sossella invita tutti ad «eliminare la ‘competizione’ e dedicarsi alle ‘competenze’», e per questo serve l’esempio di Manuzio, come stimolo a creare alleanze di pensiero e di azioni, ad elaborare visioni ben oltre il reale. Conclude Sossella: «Si tratta di andare oltre la frustrazione di fare solo quel che si può, e di andare più avanti, agire con pre-veggenza».

Alla visionarietà militante di Sossella, risponde con consapevole concretezza Mattia Visani, ideatore, fondatore e direttore della casa editrice Cue Press (tra l’altro, quella che pubblica il premio Nobel Jon Fosse da prima che fosse Nobel). Attacca Visani: «La produzione culturale è troppo spesso un hobby per ricchi. Noi vogliamo e dobbiamo ragionare in termini di ‘impresa’ perché l’editoria è il nostro lavoro, è quel che ci dà da vivere. Non vogliamo essere marginali, anzi: vogliamo prendere il mercato con scelte giuste, basate sulla qualità e la competenza. Cue Press dimostra che è possibile farlo».

E proprio dalla dialettica marginalità-centralità ha preso spunto il critico Alessandro Toppi, parlando dell’esperienza bella e importante di una rivista di settore come La Falena, creata da quattro critici militanti e sostenuta dal Teatro Metastasio di Prato. Parlando delle condizioni di lavoro nel settore, troppo spesso condizioni capestro, Toppi ha portato l’attenzione di tutti gli astanti sulle feroci contraddizioni di un sistema che vede troppi professionisti lavorare sottopagati o addirittura gratuitamente. Il convegno è proseguito poi con tre presentazioni di libri. Il primo è la nuova edizione di Teatro contemporaneo in Sardegna, curato con attenzione e passione da Mario Faticoni, protagonista sulla scena d’avanguardia sarda già negli anni Sessanta e Settanta. Nel racconto, fatto con pudore non scevro da ironia, Faticoni ha ricostruito le prime avvincenti prove del «nuovo teatro» isolano, in una terra da sempre attenta a quanto accade a livello internazionale. A seguire, il regista Alessandro Serra, uno dei talenti che l’Italia sta facendo conoscere in tutto il mondo, ha presentato il volume La tempesta: dal testo alla scrittura di scena (Luca Sossella editore). Incalzato dalle domande di Alessandro Toppi, Serra ha non solo ricostruito il suo allestimento del testo shakespeariano, ma ha anche spaziato in analisi aguzze sulla scena contemporanea.

Infine, a chiudere la lunga giornata di convegno, è stato Marco Martinelli, maestro indiscusso del teatro italiano che ha presentato il libro Coro (Akropolis Libri), affascinante viaggio sulle tracce di Dioniso attraverso quell’elemento nodale della tragedia greca che era per l’appunto il coro, diventato sempre più connotante delle ultime produzioni del Teatro delle Albe. Poi, a dare concretizzazione visiva di quel che il coro può essere per Martinelli, è arrivata la proiezione del film Il cielo sopra Kibera, commovente documentario che racconta il lavoro fatto dal regista nello slum di Kibera, in Kenia, alle prese con centinaia di ragazzini e la Divina Commedia di Dante Alighieri. Soddisfatti i relatori e le relatrici, contento e stremato il pubblico degli astanti, il convegno cagliaritano si è chiuso con l’invito a tessere davvero quelle reti di collaborazione tra scena e libri auspicate da tutti, di rilanciare quel dialogo e far continuare quella lunga storia di relazioni, tra vicinanze e lontananze, che da sempre legano teatro e editoria.

E, a complemento del meritevole incontro, c’è stato anche il tempo per una visita al museo di Is Mascareddas, storica e attivissima compagnia di teatro di figura, fondata nel 1980 da Antonio Murru e Donatella Pau: amati in tutto il mondo eppure poco conosciuti in Italia (per quanto sia appena arrivata la candidatura al Premio Ubu 2023). Un patrimonio di artigianato e sapienza, di invenzione e tradizione che merita davvero attenzione: burattini, marionette, oggetti raccontano un teatro meraviglioso.

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28 Novembre 2023

Ritratto dell’artista senza tempo

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

Dopo quindici anni torno a intervistare Gabriele Frasca – scrittore, traduttore e docente di letteratura, ma soprattutto infaticabile promotore beckettiano.
Il Meridiano dedicato a Beckett, da lui tradotto e curato, rappresenta se non il punto d’arrivo quanto meno una pietra miliare sulla strada – sulla quale Frasca sta procedendo da anni – del rilancio di questo autore.

Samuel Beckett. Uno dei classici del Novecento con il quale, però, gli editori italiani – almeno da un certo momento in poi – sembravano quasi non saper cosa fare. E adesso, invece, la «consacrazione» in un Meridiano di cui firmi integralmente cura e traduzioni. Le prime domande che mi vengono in mente sono: come ti sei sentito ad affrontare una simile impresa? E soprattutto: come sei riuscito a convincere Mondadori?

Non credo di aver durato particolare fatica a convincere Mondadori.
Anzi, penso persino che accarezzassero l’idea prima che entrassero in contatto con me, più o meno verso la primavera del ’17. In realtà Elisabetta Risari mi telefonò un giorno per organizzare un incontro, con lei e Luigi Belmonte. Chiacchierammo di diverse cose per l’occasione, e soprattutto della straordinaria impresa di Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni che stavano portando a compimento la traduzione del Finnegans Wake. Fu un modo per conoscersi e capire cosa avremmo potuto fare insieme, suppongo. Io ero fresco di un corso di Media Comparati – disciplina che ho fatto nascere da un bel po’ di anni dalla costola delle ben più riconosciute Letterature Comparate – che avevo dedicato al primo quindicennio di cinematografia sovietica. Era del resto il centenario della Rivoluzione Bolscevica.
Ne approfittai così per lamentarmi del fatto che mentre la Penguin aveva per la ricorrenza pubblicato una bellissima nuova edizione della Storia della rivoluzione russa di Lev Trockij, qui da noi nessuno aveva avuto l’idea di tornare a fare circolare questo capolavoro della storiografia. Perché lo è. E quando mi risposero che lo avrebbero fatto senz’altro loro, a patto che io firmassi l’introduzione – consegna che ho poi rispettato con grande entusiasmo –, capii che mi avevano contattato per un progetto di più ampio respiro. Non si accetta una proposta quasi estemporanea se non si ha in mente qualcos’altro.
Così di tanto in tanto cominciai ad andare a Segrate, soprattutto per incontrare Elisabetta e Luigi, ma poi anche Renata Colorni, quando fra le tante ipotesi di lavoro emerse per l’appunto il Meridiano Beckett.
Che non fu nemmeno l’unico Meridiano possibile su cui discutemmo, ma di sicuro quello che pareva a tutti il più impellente da realizzare. Probabilmente sarò stato io a introdurre la questione, ma ho l’impressione che non aspettassero altro.
Quanto a me, naturalmente puntavo sui due volumi delle opere complete, e la prima scheda che inviai loro andava in quella direzione. Ma mi spiegarono che non erano nelle condizioni di poter intraprendere lo sforzo economico per un doppio volume, perché Beckett in Italia assicura vendite modeste. Temo che sia vero. O quanto meno che lo sia stato negli ultimi decenni. Quando mi chiesero di fare dunque una scelta, in un primo momento rifiutai. L’idea stessa di mettere arbitrariamente mano a un’opera così straordinariamente coesa, mi faceva rabbrividire. Ma l’argomento che mi convinse l’usò per l’occasione Luigi Belmonte. Mi disse semplicemente che dovevo «autorizzarmi» a scegliere le opere necessarie a rilanciare Beckett in Italia. Gli devo questa assunzione di coraggio. Quanto all’impresa in sé, cioè circa cinque anni di lavoro, per me era un debito da pagare. E spero di averlo saldato.

Come hai proceduto per la selezione delle opere? Se da un lato non mi sembra una grande perdita rinunciare ai vari rough for theatre mi sembra invece un peccato che la categoria dei radiodrammi sia rappresentata dal solo Parole e Musica e che non vi siano Ceneri e Tutti quelli che cadono.

Per non parlare dell’altro radiomelodramma, Cascando… e dell’esilarante camera della tortura di Pochade radiophonique! Proverò allora a rendere ragione dei criteri che ho adottato per le mie scelte, che ho cercato di rendere quanto meno arbitrarie possibili. Da questo punto di vista ho proceduto secondo due direzioni che ho cercato poi di far convergere. Come prima cosa, difatti, mi sono affidato alle volontà stesse dell’autore, escludendo a priori le opere alla cui pubblicazione Beckett si era sempre opposto, e che sono apparse difatti solo postume: mi riferisco ovviamente al romanzo giovanile Dream of Fair to Middling Women e alla prima opera teatrale in francese, Eleutheria. Forte poi di quante volte l’autore nel suo epistolario avesse nel corso del tempo assegnato al romanzo Murphy il ruolo d’inizio della sua intera produzione, ho rinunciato – a malincuore – anche alle novelle di More Pricks than Kicks, lasciando che si delineasse così una delle due colonne portanti su cui si regge questa scelta, quella per l’appunto romanzesca, che da quella prima prova edita in inglese giunge – con la sola espunzione di Mercier et Camier, testo a sua volta in un primo momento rifiutato, e recuperato da Beckett solo dopo il Nobel per compiacere i suoi editori – alle strutture narrative condensate e compresse di Compagnia, Mal visto mal detto e Peggio tutta.
Una volta delineato il privilegio accordato alla forma romanzo, è stato dunque inevitabile escludere dal volume quella serie di testi, per quanto formidabili, che vanno dalle prime novelle in francese dell’immediato dopoguerra ai Testi per nulla, per proseguire poi coi frammenti in inglese di From an Abandoned Work e All Strange Away, e con le fulminanti strutture narrative in francese che Minuit raccolse nel volumetto Têtes-mortes, e non solo. Di tutte queste opere apparentemente residuali, ma che costituiscono il semenzaio dell’intera produzione beckettiana dai primi anni Cinquanta ai Settanta del secolo scorso, ho accolto, a rappresentarle tutte, quello che sembrerebbe essere un vero e proprio aborto di romanzo, Lo spopolatore. «Una volta delineato il privilegio accordato alla forma romanzo, è stato dunque inevitabile escludere dal volume quella serie di testi, per quanto formidabili […] che costituiscono il semenzaio dell’intera produzione beckettiana dai primi anni Cinquanta ai Settanta del secolo scorso».
Dal momento che la seconda direzione che avevo deciso di perseguire era la stessa ipotesi critica che ho posto alla base della scelta, vale a dire l’emersione della televisione come mezzo specifico dell’estetica beckettiana, è risultato relativamente più semplice sacrificare la certo non continua, ma comunque fondamentale produzione poetica dell’autore irlandese. Avendo nel 1999 provveduto a curare per Einaudi un’edizione delle poesie – che andrebbe magari aggiornata coi pochi ritrovamenti degli ultimi anni, e ovviamente ripubblicata –, è stato per me meno doloroso ridurre la presenza delle strutture versali al solo testo conclusivo, con tutta l’ambiguità formale che lo circonda.
La produzione teatrale è stata al contrario riportata quasi nella sua interezza, escludendo solo pochi testi brevi – i due mimi intitolati entrambi Acte sans paroles, e poi Va e vieni, Respiro, Un pezzo di monologo e Ohio Impromptu – e i rari frammenti di pièce abbandonate e recuperate in un secondo momento.
Estremamente sofferta è stata l’esclusione proprio dei radiodrammi, con la sola eccezione che ricordavi, dal momento che li ho sempre ritenuti fra i testi più significativi dell’opera beckettiana.
Perché è quasi una regola: quando si è costretti a effettuare una scelta fra le opere di un autore, e lo si fa affidandosi non al gusto ma a una tesi critica, si finisce prima o poi con l’escludere lavori che in un primo momento sarebbero apparsi intoccabili. Ma a lenire il senso di amarezza che si è rinnovato a ogni dolorosa rinuncia, c’è stata se non altro la certezza di fornire per le opere prescelte un apparato di note abbastanza cospicuo, in grado di tenere conto delle questioni di traduzione, di esplicitare alcuni rimandi forse per il lettore italiano opachi, e al contempo di chiarire alcuni snodi critici e tracciare una sia pur rapida storia genetica dei singoli testi.
Fortunatamente a gennaio l’ottima Cue Press di Mattia Visani, che sta pubblicando i quaderni di regia beckettiani curati da Luca Scarlini, e che editerà a giorni due testi fondamentali di critica, come quelli di Ruby Cohn e Alan Astro affidati alle cure rispettivamente di Enzo Mansueto e Tommaso Gennaro – oltre a ripubblicare la biografia di James Knowlson –, darà alle stampe il mio libro d’accompagnamento (o «compagnonevole», per dirla con Company) di tutta l’opera di Beckett, non solo dei testi apparsi in Romanzi, teatro e televisione. S’intitolerà Il dolce stil no, e almeno per quello che mi riguarda sarà la quadratura del cerchio.

Fa una certa impressione rileggere Com’è, la cui ultima edizione italiana risaliva a quasi sessanta anni fa. Immagino che in questo caso il lavoro di traduzione sia stato particolarmente impegnativo. O forse per un traduttore è più difficile accostarsi a testi più semplici dal punto di vista linguistico, ma considerati «mostri sacri» (come può essere ad esempio Aspettando Godot)?

Com’è, romanzo scritto in prima battuta in francese, è stato un vero tour de force. Tradurre quel testo significa prima di tutto identificare, nell’andamento orale di ogni singola lassa, dove far cadere le pause di respiro. Già, proprio quel respiro che la voce del testo, la «voce quaqua», dice di sentire costantemente. Un libro che «ascolta» i suoi lettori non si è mai dato. Com’è lo fa. E come se non bastasse in lingue diverse. Ogni lingua ha il suo sistema di pause, per nulla sovrapponibile a quello di un’altra… come mostra la traduzione in inglese dello stesso Beckett, disposta a tradire la lettera del testo pur di preservare il suo chicco di senape di reale, la presa di respiro. Il che vuol dire una cosa sola: che in quel testo non si può eludere la questione del ritmo. Forse nella fattispecie mi ha aiutato la frequentazione della poesia, e l’abitudine consolidata nel corso del tempo a «respirare» Dante.
Anche Beckett lo faceva, lo ha sempre fatto: per lui la metrica della Commedia dantesca non era un «gargarismo estetico», ma l’indicazione precisa su come impostare la propria voce per slatentizzare il testo. È lì che un traduttore italiano può incontrare Beckett, per sua fortuna. Ma hai ragione tu: è più difficile tradurre i presunti testi «semplici», perché risultano pieni d’insidie. Luoghi comuni della traduzione che vanno evitati come la peste. Con uno scrittore equilingue, poi, c’è poco da scherzare, bisogna imparare a procedere strabici, o stereofonici. Ma innanzitutto bisogna decidere quale siano le ultime volontà dell’autore rispetto al testo in questione. Quale sia l’edizione rivista fino alla fine, quale sia la lingua che conserva l’ultima mano di vernice. Soprattutto per i testi teatrali – che Beckett non solo ha scritto e tradotto ma ha anche diretto – di vere e proprie varianti adiafore, come direbbe un bravo filologo, ce ne sono a chili. Aspettando Godot da questo punto di vista è un bel nodo di questioni.
A partire persino da dove mettere a sedere Estragone in prima scena… Fortunatamente ho avuto la possibilità nelle schede dei singoli testi di render conto di tutte le mie scelte.

Quali sono i testi che ti rendono più orgoglioso di questo Meridiano, sia dal punto di vista della riuscita del tuo lavoro di curatore e traduttore sia per la consapevolezza di proporre qualcosa di importante al lettore?

Dovrò essere banale: tutti. E per il metodo dichiaratamente filologico che ho adottato. La filologia significa mettersi al servizio dei testi, soprattutto quando a tramandarceli sono, diciamo così, due o più rami diversi della tradizione. Con uno scrittore equilingue si può essere solo filologi, o rinunciare. E non c’è testo beckettiano che non faccia da questo punto di vista storia a sé; per due motivi, che nel corso del tempo hanno finito persino con l’intrecciarsi. Innanzitutto Beckett si accorse assai per tempo di quanto il testo teatrale fosse per l’appunto per sua natura decisamente meno tetragono di quello narrativo, che diviene sostanzialmente immutabile, fatte salve eventuali successive edizioni, una volta licenziata l’ultima bozza. E in tutte le occasioni in cui gli capitò, come per Aspettando Godot, di dare alle stampe una pièce prim’ancora del suo allestimento, non poté che pentirsene. La prova della scena finì rapidamente con l’imporsi alle ragioni in sé concluse del testo, non solo convalidando o meno l’efficacia stessa delle battute, ma anche e soprattutto saggiando l’adeguatezza delle indicazioni contenute nelle didascalie, il cui statuto autoriale, trattandosi in realtà di istruzioni per la messa in scena, si sa bene quanto sia di suo attenuato. Una didascalia, nell’economia autoriale di un testo, ha meno peso di una battuta; ma in quella dell’eventuale regista acquista tutto il suo senso.
La questione in sé non desterebbe scalpore, se ci dovessimo limitare a seguire le peripezie di un autore di teatro nel continuo gioco dialettico fra i vari allestimenti e le successive edizioni di una stessa opera. Ma dal momento che la seconda apparizione tipografica dello stesso testo per Beckett ha sempre significato la pubblicazione dell’opera da lui stessa tradotta nell’altra lingua, quale che fosse quella d’origine, ci troviamo il più delle volte nelle condizioni di ritrovare il testo della pièce da ritenere fededegno ovviamente nella lingua d’origine, e reperire invece quello più attendibile, per quanto riguarda le indicazioni di regia contenute nelle didascalie, senza alcun dubbio nella lingua di traduzione. Insomma: le didascalie delle sue pièce tradotte derivano direttamente dalla prova della scena, e a non tenerne conto si falsa il destino teatrale del testo.

Del suo continuo tradursi, Beckett ha fatto una sorta d’insegna di bottega. Per quanto sia ovvio partire dalla lingua di prima stesura, appare altrettanto evidente che il testo nell’altra lingua prosegue la storia genetica del testo. È come se avessimo a che fare con due testimoni di un originale che non c’è.

Per non parlare di quanto l’intera questione divenne più complessa quando la pratica equilingue s’instaurò in Beckett persino nel processo di composizione. Perché il vero problema resta ineludibile. Come tenere difatti conto del paradossale sistema a doppio originale messo in campo da un autore che del suo continuo tradursi – e persino mettersi in scena, che nel caso di Beckett ha sempre significato piegare il testo alle esigenze di regia, e dunque senz’altro modificarlo – ha nel corso del tempo fatto una sorta d’insegna di bottega? Perché per quanto sia ovvio che occorra partire dalla lingua di prima stesura, appare altrettanto evidente che il testo nell’altra lingua – sempre innovativo, perché Beckett limava, modificava, aggiungeva – non può essere utilizzato solo come mera riprova, dal momento che a suo modo prosegue la storia genetica del testo. È come se, in qualche modo, avessimo a che fare con due testimoni di un originale che non c’è, con tanto di varianti per l’appunto adiafore; situazione che i filologi conoscono bene, e che non si augurano mai, perché senza il terzo, testimone o ramo della tradizione, occorre operare una scelta, motivarla con iudicium, avrebbe detto un filologo come Giorgio Pasquali, aprendo così la strada a quella nebulosa delle scelte opinabili nella quale – attenzione! – solo un critico si può addentrare. Ovvio che ogni testo abbia dunque avuto una storia a sé, e abbia posto ciascuno i suoi specifici problemi di traduzione. Ed è per questo che non riesco a scegliere fra loro.

Nella prefazione al volume sollevi la questione della controversa notorietà di Beckett, di un autore che tutti «conoscono» (le virgolette sono d’obbligo) ma le cui opere non sono mai state dei best-seller, né in libreria né al botteghino. Dici, giustamente, che spiegare la peculiare natura di questa notorietà al lettore del nuovo millennio è il compito più difficile. A me sembra intanto una buona notizia che ci siano ancora lettori di Beckett nel nuovo millennio. Ma poi, pensavo, forse Beckett è riuscito a diventare un’icona pop (la definizione è tua) proprio perché ha creato opere al tempo stesso attraenti e respingenti, difficili ma irresistibili…

Beckett, sulla scorta di Joyce, si è sempre definito «artista», non «scrittore». Il discrimine se vuoi è questo. Le sue opere sono irresistibili perché hanno la forza dell’arte, e l’arte fortunatamente non dà scampo. Sono fresco della visione della mostra di Rothko a Parigi, e posso dichiararlo con certezza: sfido chiunque a passeggiare per quelle sale, anche a digiuno dei più elementari rudimenti di storia dell’arte contemporanea, e non sentire la potenza assoluta che sprigiona dalle tele. Ho cercato lo sguardo dei tanti visitatori, e ne sono certo. Brillava qualcosa in ciascuno di loro, per quanto distratti potessero apparire. Per questo l’arte deve sempre essere messa a disposizione di tutti, perché non ha bisogno di tante chiacchiere: ti viene a cercare, e se è il caso ti modifica una volta per tutte. Beckett questo effetto lo sappiamo che lo suscita, come l’hanno sempre suscitato tutti quegli autori che un tempo si chiamavano «classici». E sarà questo il motivo per cui in tante altre nazioni, se entri in libreria, le opere di Beckett le trovi a banco. È così in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, nelle grandi città americane. Ciò non vuol dire che in questi Paesi le opere di Beckett si vendano come il pane, anzi. In Francia, in Gran Bretagna, in Germania, in America, in ogni angolo del mondo se vuoi, a furoreggiare è soltanto la letteratura d’intrattenimento, com’è sempre avvenuto del resto. Era così anche ai tempi di Flaubert. È sempre stato così, e per il semplice fatto che la letteratura nasce proprio per questo, per intrattenere.
La letteratura è intrattenimento. L’arte invece è un solvente, qualcosa che vuole slegare. Insomma: in tutto il mondo ancora alfabetizzato, si legge per passare il tempo, e si cercano quei libri che sono nati proprio con l’intento di occupare – talvolta militarmente, come nel caso dei bestseller – quel po’ di ozio concesso a un’umanità condannata a produrre a ritmi sempre più vertiginosi, per il breve tratto di esistenza a ciascuno concesso. Ora, l’unica differenza con l’Italia è questa: nelle altre nazioni, anche dopo la nascita delle grandi concentrazioni editoriali avvenuta negli anni Ottanta del secolo scorso, se è vero che si legge in maniera intensiva solo letteratura d’intrattenimento, lo è altrettanto che si riserva sempre un posto nelle librerie per le opere dei grandi artefici – o artificieri, per dirla con Joyce – del discorso. Si lascia insomma la possibilità a chi vuole d’incontrare l’arte, e il suo costante invito a vivere oltre i propri mezzi. In Italia, non so perché – o forse lo so, ma non è il caso di parlarne qui –, questo non avviene più da tempo. Non trovi più Beckett in libreria? Ma se persino di Pirandello non riesci a intercettare che una manciata di titoli multicolori, e manca persino un’edizione curata come si deve e facilmente accessibile di un monumento come Maschere nude… E parliamo di un autore altrettanto pop, e che dovrebbe far parte del nostro patrimonio letterario.

In passato mi è capitato di paragonare Beckett a una di quelle sonde Voyager che continuano a inviarci segnali dai punti più remoti della galassia. Al pari di quelle sonde anche Beckett a un certo punto smetterà di “funzionare”. La domanda allora è: cosa ci racconta, ancora oggi, nel 2023, Samuel Beckett? Come dobbiamo accostarci alla sua opera? Come a un monumento da guardare con soggezione o come a un manuale di istruzioni per la vita?

Direi senz’altro la seconda. Anche quando il Voyager Beckett sarà ancora più lontano nel tempo, continuerà a funzionare sempre e solo nella direzione di farci vivere oltre noi stessi. Perché se l’arte sopravvive, è per il fatto che ci fa sopravvivere. La letteratura (d’intrattenimento) ha un solo senso, e va a senso unico. L’arte invece si fonda su un’implicazione reciproca. E quanto a ciò che racconta oggi Beckett: beh, pensa soltanto che ho trascorso il lockdown della primavera del 2020 traducendo… Finale di partita. Tanto di ciò che si replica nell’opera di Beckett, è ancora sul punto di compiersi.

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26 Novembre 2023

E pensare che odiavo il teatro

Jon Fosse, «Robinson — la Repubblica»

Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo. Anzi, non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro, quantomeno quello norvegese. Ciò forse perché i direttori dei teatri norvegesi mi chiedevano di scrivere per la scena, cosa che per anni mi sono rifiutato di fare. Ero e sono, prima di tutto, uno scrittore. Ho pubblicato una trentina di volumi, romanzi soprattutto, ma anche raccolte di poesia e saggi, e libri per bambini. Infatti, per tutta la mia vita adulta, ho lavorato come libero scrittore. Ma, come può capitare a uno che non ha introiti fìssi, ero proprio a corto di denaro e quando mi fu richiesto, una volta ancora, di scrivere un dramma, e di denaro avevo maledettamente bisogno, acconsentii. Così, per la prima volta, mi sono impegnato a tentare di scrivere un dramma; prima di farlo, decisi di scrivere un dramma con pochi personaggi, in un luogo determinato, in un lasso di tempo unitario, e che quel genere d’intreccio che mi accingevo a scrivere doveva essere così intenso che coloro che vi avrebbero assistito per un’ora o giù di lì ne avrebbero tratto un’esperienza intensa che in qualche modo avrebbe cambiato la loro concezione della vita.

Non dirò altro su queste aspirazioni, ma certo le limitazioni che avevo imposto alla mia scrittura in effetti mi si confacevano. Di natura, sono sempre stato una sorta di minimalista e, per me, il teatro è di per sé una sorta di forma d’arte minimalista, con molte strutture costitutive minimaliste: uno spazio limitato, un lasso di tempo limitato e via dicendo. Con mia grande sorpresa, quando la prima volta mi sono impegnato a stendere un dramma, ho scoperto che mi piaceva molto scrivere le didascalie o il dialogo che poteva significare quanto o anche più di quello che viene detto, forse persino l’opposto di quello che viene detto, senza essere ironico. E dopo avere scritto il mio primo dramma, mi sentivo sicuro di avere scritto un buon testo, sebbene fossi assai incerto se potesse funzionare sulla scena. La gente di teatro lo credeva e, grazie a Dio, sta di fatto che il mio modo di scrivere drammaturgia sulla scena ha funzionato. Qualche volta, ne ho la certezza, lavoro così bene che la qualità della mia scrittura tende quasi a raddoppiare. Altre volte, naturalmente, non funziona, ma, in ogni caso, ho imparato che è possibile che i miei drammi funzionino comunque bene sulla scena.

Vedere, per la prima volta, un mio dramma in scena fu un’esperienza incredibile; era pressoché magico vedere che le mie parole assumevano quasi delle ali umane, vedere altre persone partecipare alla mia arte, e io alla loro. Era così profondamente soddisfacente per me come essere umano; mi rendeva meno pauroso e nevrotico e, in qualche modo, più sociale. Come si comprenderà, io non odio più il teatro.

Ora cercherò di esprimere che cosa m’affascini soprattutto nello scrivere per il teatro. Mi è stato riferito che in Ungheria, quando in teatro una serata è andata bene, ripetono che un angelo ha attraversato la scena, una, due, parecchie volte. E per me, quel momento è l’essenza del teatro: il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena. Che accade in quei momenti? Naturalmente non lo so, nessuno lo sa, perché o accade o non accade; una sera accade in un momento della rappresentazione, la sera successiva in un altro. Per me, questi momenti chiari e intensi, nonostante siano inspiegabili, sono momenti di comprensione; sono momenti nei quali le persone che sono presenti, gli attori, gli spettatori, fanno insieme esperienza di qualcosa che consente loro di comprendere quel che non hanno mai compreso prima, quantomeno non come lo comprendono adesso. Ma tale comprensione non è principalmente intellettuale; è una specie di comprensione emozionale che, come ho già detto, è principalmente inspiegabile, almeno sul piano intellettuale. Probabilmente non la si può spiegare, la si può giusto mostrare, è una comprensione attraverso le emozioni. Quando scrivo per il teatro cerco di scrivere drammi in modo tale che possano creare questi intensi chiari momenti, spesso momenti di pena estrema- mente profonda, ma anche spesso momenti che nella loro goffa umanità scatenano la risata. Io penso che se ho scritto un buon dramma, chi vi assiste, o almeno una parte del pubblico, dovrebbe sia ridere che piangere; per cui, nella mia opinione, i miei drammi sono tipiche tragicommedie. E se, ai miei occhi, è come se scrivessi drammi molto ‘stretti’, molto chiusi, nella storia, nell’atmosfera, nel provincialismo, paradossalmente, scrivo pure drammi molto aperti, drammi così essenziali che riescono a creare momenti nei quali le dinamiche drammaturgiche chiuse si sciolgono in lacrime, in risate.

Quando scrivo un dramma, io riduco e concentro e questa concentrazione riduttiva rende possibile l’improvvisa esplosione di una sorta d’intensa implicita sapienza, ch’è insieme triste e divertente. Per me, il dramma genuino sta lì, non nell’azione come tale, il dramma sta nell’enorme tensione e intensità fra persone che sono molto distanti fra loro e, allo stesso tempo, profondamente integrate, non solo socialmente, ma anche nella loro comune comprensione. Questi momenti, questa incredibile presenza sono connessi, a un livello davvero minimo, se non per niente, ai temi centrali dell’epoca, quelli di cui si parla nei media. Il buon teatro può riguardare qualsiasi cosa; ciò che conta non è cosa riguardi, ma come; è una questione di sensibilità, musicalità e pensiero, non una discussione di problemi attuali. E io credo che sia questa una delle ragioni per le quali i classici hanno una così forte posizione in teatro; una posizione molto più forte, per esempio, di quella che i classici hanno nel campo del romanzo. Ma allora perché scrivere per il teatro? Forse perché ogni epoca produce un nuovo genere o una nuova prevalente variante della sensibilità, un nuovo genere di musicalità e di pensiero. Un dramma contemporaneo, un buon dramma, deve in qualche modo rivelare una sensibilità, una musicalità, un pensiero mai visti prima; deve mettere al mondo qualcosa che in una singolare modalità era già lì, ma che non si era visto; un buon drammaturgo deve avere, in altri termini, come si suol dire, una propria voce.

L’arte, compresi il teatro e la scrittura drammaturgica (se è arte e non semplicemente intrattenimento o pedagogia o dibattito politico), deve pertanto esprimere quel che deve esprimere principalmente attraverso la sua forma; e intendo forma in senso assai lato, trattandosi più di un’attitudine che di un concetto. Quel che per gli altri è contenuto è forma per l’artista, diceva Nietzsche. Nell’affermare questo, parlo quasi come se fossi il teorico che non sono. Io sono un uomo pratico, uno scrittore pratico. E questo è un altro motivo per il quale mi piace tanto scrivere per il teatro. Il teatro è assai concreto, non puoi barare da drammaturgo, devi offrire una materia valida, non ti puoi nascondere dietro questa o quella astrazione di natura politica, ideologica, ecc. E come ha scritto, una volta, un uomo della massima astrazione, Friedrich Hegel, «Die Wahrheit ist immer Konkret» [«La verità è sempre concreta»]. In altri termini, il teatro è la più umana e, per me, la più intensa di tutte le forme artistiche.

25 Novembre 2023

Quando un angelo attraversa la scena

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo. Anzi non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro». Così scrive Jon Fosse nel saggio Su di me drammaturgo, raccolto in Saggi gnostici, a cura di Franco Perelli, pubblicato da Cue Press (pagine 96, euro 22,99). A fronte di questa dichiarazione, l’incontro dello scrittore norvegese col teatro, dettato dalla necessità di avere introiti, si è rivelato più che felice, stupendo lo stesso autore: «Quando per la prima volta mi sono impegnato a stendere un dramma, ho scoperto che mi piaceva molto scrivere le didascalie o il dialogo, che poteva significare quanto o anche più di quello che viene detto, forse persino l’opposto di quello che viene detto, senza essere ironico». Così scrive il Nobel per la letteratura, premiato «per le sue opere teatrali e di prosa innovative che danno voce all’indicibile», si legge in un passo della motivazione elaborata dall’Accademia svedese.

La casa editrice Cue Press ha dedicato una serie di volumi al teatro di Fosse: Teatro, a cura di Vanda Monaco Westerståhl, che raccoglie i testi: E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome (pagine 146, euro 22,99), Caldo a cura di Franco Perrelli (pagine 82, euro 16,99) e il saggio Quel buio luminoso, sulla drammaturgia di Jon Fosse di Leif Zern, a cura di Vanda Monaco Westerståhl (pagine 98, euro 22,99). E anche per questo la casa editrice, diretta da Mattia Visani, ha ottenuto il Premio Anct, conferito dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro per l’attività messa in atto nella documentazione delle arti performative.

L’indicibile a cui fa riferimento la motivazione del Nobel è il cuore e la scommessa che lanciano i testi di Fosse, testi aperti che hanno fatto pensare a eredità beckettiane mischiate ad ascendenze ibseniane e strindberghiane, quando non a brevità e icasticità delle battute proprie del miglior Pinter. Sono queste suggestioni e punti di riferimento che aiutano il lettore a cercare una bussola possibile nell’incontro con i personaggi di Fosse, spesso indicati semplicemente con Lei, Lui, Un uomo, Una donna, Una ragazza, Il Padre, il Ragazzo. Nessun appiglio, nessuna apparente identità nominale aiutano a definire i personaggi in scena, lasciando lo spettatore/lettore del tutto disorientato, di fronte a quei dialoghi in cui possono più le pause e i non detto.

La scena è spesso un luogo apparentemente definito: una stanza, una casa, il pontile che dà sul mare. In quello spazio definito lo sguardo va oltre, spesso oltre l’orizzonte, oltre una finestra. Elementi d’arredo come fotografie, un tavolo, un divano diventano strumenti di un rito che porta i personaggi a muoversi con precisione e pochi gesti, in una cadenza di azioni che nel suo ripetersi cerca di far emergere ciò che non è detto. Di primo acchito i due uomini potrebbero sembrare due volti della stessa persona, ma poi è la donna stessa a distinguerli. Scrive Perrelli: «Tutt’e due, in un certo momento della vita, hanno incontrato la donna in quel luogo astratto e l’hanno amata dentro la misteriosa casa alle loro spalle. Caldo disvelerebbe una caparbia concretezza dell’esistere, quantunque inquadrato nell’indeterminatezza del tempo e dello spazio».

«A fronte di situazioni apparentemente quotidiane in cui fa capolino la gelosia come motore o pungolo, la narrazione relazionale, lo sviluppo emotivo sono raggelati e trovano una loro sostanza e realizzazione nella condizione di attesa, in un andare e venire, entrare e uscire che rappresentano – spazialmente – ciò che le pause concedono al tempo dell’azione». Tutto ciò in una dimensione di scarto continuo per l’autore, per lo spettatore, uno scarto che nasce dalla scrittura, dal suo compiersi sulla pagina come sulla scena. È come se parola dopo parola – pur in un controllato uso delle battute e della loro ritmica interna – i personaggi prendessero corpo, fossero tutti nelle pause, nei silenzi, nei gesti oltre che nelle battute che dicono, senza definirli, perché questo tocca al lettore/spettatore. Scrive Fosse: «Scrivo senza pensare a niente, bensì ascolto. Così si forma la storia, è come se non fossi io a scrivere, per me scrivere è come pregare, scrivere per me è ascoltare. Ascolto senza prefigurarmi la scena: i personaggi si muovono in uno spazio emotivo». In tal senso appare illuminante quanto scrive Vanda Monaco Westerståhl nella prefazione al volume Teatro: «Nel teatro di Fosse la trama (non è racconto, non ha significato) è un atto esperenziale che si forma nel rapporto tra il mondo interiore dell’artista e il testo. Le tensioni e i conflitti hanno origini dai silenzi, dalle pause, dai movimenti».

Nei Saggi gnostici lo stesso Fosse dà conto di cosa sia la scrittura per lui: «Un luogo nel quale viene a esistere qualcosa di sconosciuto, qualcosa che prima non c’era. Questo, che lo scrivere sia lo stato in cui qualcosa, in un certo senso, persino un intero universo, è creato e viene a esistere per la prima volta, è forse ciò che mi dà maggior gioia nello scrivere».

Ciò che offrono i volumi editi da Cue Press nel loro complesso è uno spaccato illuminante dell’arte di Fosse. I testi pubblicati, sorretti dai due volumi saggistici, offrono uno spaccato non solo del teatro del Premio Nobel, ma anche della sua estetica, del suo pensiero di scrittore che va oltre, che non teme di passare il limite, che va in cerca di quei confini invisibili in cui essere e non essere possono coesistere, dialogare in piani temporali sovrapposti, in luoghi che nella loro definizione si offrono come punti di vista su ciò che è indicibile e invisibile. Per questo Leif Zern parlando del teatro e della scrittura di Fosse non può che parlare di «buio luminoso», un ossimoro che bene sintetizza la drammaturgia di Fosse e la sua scrittura capaci di «creare quella percezione della distanza che in Fosse è un equilibrio tra l’assenza e la presenza, tra l’angoscia e la sensazione di libertà che si trovano nel vuoto».

E allora si può dire del teatro e della scrittura di Fosse quello che in Ungheria affermano di uno spettacolo che sa essere illuminante e di straordinaria intensità, ovvero che un angelo attraversa la scena. Ecco, nei suoi testi, nella sua scrittura Jon Fosse va in cerca dell’angelo, di quell’angelo che attraversa le pagine, ci immette in un’intensità «che è nel contempo pregna di una comprensione che prende tutto l’essere, quantunque non sia facile da spiegare», scrive l’autore dei Saggi gnostici. Ecco, si cede che questo vada cercando il Premio Nobel della letteratura nei suoi testi letterari e teatrali, e non è cosa da poco.

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20 Novembre 2023

Premio Nazionale della Critica

Premio prestigioso, che arriva dopo due finali nel 2014 e 2015

Il Premio Anct è un riconoscimento conferito dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, che ogni anno celebra personalità e realtà artistiche particolarmente rilevanti nel panorama teatrale italiano.

Si tratta di un premio di grande prestigio, assegnato in virtù del contributo culturale e innovativo apportato dagli artisti o dalle istituzioni coinvolte.

Nell’edizione del 20 novembre 2023, svoltasi a Torino, Cue Press si è aggiudicata il premio grazie alla qualità e alla ricchezza del suo progetto editoriale, conquistando così il Premio Nazionale della Critica 2023 dopo essere già stata finalista nel 2014 e 2015.

Ecco le motivazioni della giuria specializzata:

In pochi avrebbero preconizzato nel 2012, quando è nata, lo sviluppo della casa editrice Cue Press. Più facile accomunarla alle tante iniziative editoriali destinate a durare lo spazio di un mattino, tanto più che il suo specifico territorio di interesse non è mai stato storicamente tra i più appetibili in ambito commerciale. In pochi ne avevano capito le potenzialità di sviluppo e le sue ramificazioni. Invece la tenacia e le intuizioni di Mattia Visani, suo ideatore, ne hanno fatto oggi un punto di imprescindibile riferimento per tutti coloro che si interessano di teatro, cinema, televisione, di spettacolo nel senso più ampio del termine.
Un tempo tra i meriti di Cue Press si annoveravano i differenti formati in cui mette a disposizione i suoi volumi (digitale e cartaceo, a seconda delle esigenze del lettore) o l’accostamento delle ristampe di titoli storici, fondamentali ma fuori catalogo, in parallelo a novità di assoluto interesse. Oggi va riconosciuta anche la ricchezza e l’articolazione delle collane in cui sono organizzate le sue produzioni. Nel vastissimo catalogo troviamo le guide ai luoghi teatrali delle grandi città come pure i saggi teorici fondamentali del Novecento, da Stanislavskij a Beckett. I nomi titanici di O’Neill e Cechov compaiono accanto a Tennessee Williams e Koltès, citati solo come esempi; ma anche massima è l’attenzione per la nostra drammaturgia contemporanea quando troviamo i testi di un Renato Gabrielli o di una Daria Deflorian. Le analisi degli studiosi e dei critici più affermati sono pubblicate insieme alle pagine e agli approfondimenti degli stessi protagonisti. Nuove traduzioni sono state commissionate alle migliori firme del nostro panorama teatrale.
Impressiona soprattutto la tempestività con cui Cue Press riesce a cogliere le novità internazionali più importanti, tant’è che se oggi si vogliono leggere i testi del Premio Nobel 2023, il norvegese Jon Fosse, si deve ricorrere ai volumi editi proprio dalla casa editrice di Imola.

Il presidente Anct
Giulio Baffi

La vittoria di Cue Press non rappresenta solo un tributo alla passione e all’impegno profuso, ma è anche testimonianza della rilevanza e del carattere innovativo del suo progetto editoriale.

Il Premio Anct 2023 suggella il ruolo sempre più centrale che la casa editrice riveste nel panorama culturale italiano e internazionale, aprendo nuove prospettive per il futuro dell’editoria teatrale e consolidandone la posizione come punto di riferimento imprescindibile per studiosi, critici e appassionati di spettacolo.

19 Novembre 2023

La leggenda del West. Attualità del western

Roberto De Gaetano, «Fata Morgana Web»

I generi sono quelle forme capaci di raccontare la vita activa delle persone per quanto di generale ogni singola vita contiene. E tale racconto si sviluppa in un’architettura narrativa che chiamiamo intreccio. Aristotele lo chiama mythos e ci dice che è tale solo in quanto «imitazione dell’azione». I generi sono le forme determinate attraverso le quali viene restituito il senso della prassi, e si articolano nella macro distinzione tra tragedia e commedia: la prima – come dice Dante nella Lettera a Cangrande – inizia bene per finire male, la seconda, all’opposto, inizia con problemi e si chiude con un happy end. Sia tragedia che commedia ci restituiscono l’immagine di un rapporto tra individuo e comunità: la prima attraverso un isolamento irreversibile del personaggio dal contesto sociale per colpe commesse, volontariamente o meno; la seconda attraverso l’inclusione sociale finale intorno al formarsi di una nuova coppia. Oltre i due grandi generi, abbiamo l’epica come racconto di comunità senza fratture, guidata pienamente dall’eroe. L’antichità classica ha presentato tutte e tre queste categorie generiche. La modernità a questo ha aggiunto il romanzo, dove il soggetto isolato non ha un destino assegnato di esclusione (tragedia) o inclusione (commedia), e tanto meno rappresenta la comunità (epica). L’erranza dell’eroe romanzesco, il suo carattere problematico, rimandano ad una forma strutturalmente aperta e non prevedibile.

Che cos’è il western e dove si colloca? Che cosa mette in gioco di profondo tale genere? La riproposizione recente di un grande classico degli studi sul genere, Il western, a cura di Raymond Bellour, così come l’omaggio del Torino Film Festival a John Wayne, confermando un rinnovato interesse per il genere permettono di porre tali interrogativi. Proviamo ad ipotizzarne la risposta. Se il western è un racconto dell’America, questa è l’America dei pionieri. Lo spostamento verso Ovest, il mito della frontiera, il viaggio verso ciò che ancora non si conosce, definiscono uno movimento esplorativo verso l’ignoto. L’Ovest ha rappresentato l’America nell’America, l’America per l’America, quella dell’Est. Il “Go west, young man, and grow up with the country.” di Horace Greeley nel 1837 non era solo «un rimedio di fronte alle crisi economiche» (Tailleur in Bellour, p. 22) era qualcosa di più.

In gioco non erano solo allevatori, coltivatori, cacciatori, cioè le declinazioni di ruoli e di economie che il West attivava alleggerendo l’East. In gioco c’era il pioniere. Cioè l’uomo orientato verso la scoperta del nuovo con tutto il rischio che accompagnava tale scoperta. Per il pioniere c’è solo la frontiera, che esiste per essere superata, e sempre di nuovo superata. E una volta giunti all’ultima frontiera, al Pacifico, c’è un ulteriore passaggio, verso l’India: «When Lewis and Clark reached the shore of the Pacific in 1804 they reactived the oldest of all ideas associated with America – that of passage to India» (Smith 1978, p. 22).

Nel pioniere che oltrepassa la frontiera e apre il passaggio c’è l’immagine epica del movimento di una intera comunità che seguirà il pioniere per la creazione di un nuovo “inizio”, e che porterà traccia e memoria del primo inizio, del “nuovo mondo” scoperto dai coloni europei nel loro approdo ad Est. Il West è la sua leggenda, qualcosa che sostituisce la storia. Nella trasformazione leggendaria di un paesaggio e delle figure che lo popolano, la figura dell’Uomo del West, il Westerner come lo chiama Robert Warshow, è decisiva. Lo è nel senso che ciò che lo caratterizza non sono tanto gli obiettivi che si prefigge, né il suo status morale ma il fatto, che connota sempre un eroe tragico, di non poter fa altro che ciò che fa. Come viene detto con splendida sintesi in Winchester 73 di Anthony Mann: «Some things a man has to do, so he does ’em». Da dove l’uso della violenza e delle pistole, inseparabili dai cinturoni, dalle posture e dal gesto di sparare, cioè di estrarre la pistola dalla fondina. Lo stile del Westerner è molto più importante degli effetti dei colpi di pistola, della serie di morti senza sangue che i western ci mostrano: «It’s not violence at all which is the “point” of the Western movie, but a certain image of man, a style, which expresses itself most clearly in violence» (Warshow 2002, p. 123).

L’eroe del western conta dunque per i suoi gesti più che per le sue azioni. I primi testimoniano di una intransitività che lo attraversa, segno di qualcosa che lo trascende e alla quale tragicamente deve corrispondere. Quando il Westerner perde il suo stile degenera nel mero bandito, dove mitragliatrici che sparano all’impazzata, schizzi di sangue, e ralenti, soppiantano lo stile dei gesti, come in Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah.

Ma se l’epica e il tragico ritrovano nel western una loro evidente riattualizzazione – come evidenziano i saggi di Dort e di Glucksman (in Bellour, pp. 37-54) – più complicata sembra la commedia, che passa in primis per la presenza e la parola femminile. Ma abbiamo alcuni esempi significativi, il massimo dei quali è forse il finale di Ombre rosse (1937) di John Ford. Dopo che Ringo (John Wayne) è stato prima un eroe epico, capace di difendere la piccola comunità dei passeggeri della diligenza dall’attacco degli indiani, poi un eroe tragico nel non poter far altro che affrontare in duello, con stile e rispetto delle regole, i tre fratelli che lo avevano mandato ingiustamente in galera, nell’happy end finale diviene un personaggio tipico della commedia, che convolerà a nozze con l’amata Dallas, e andrà a vivere con gli auspici augurali del Marshall e del Dottore (a rappresentare l’intera comunità) che lo lasciano libero di andare oltre frontiera, in Messico, a iniziare una nuova vita nel suo ranch, “al di fuori delle delizie della civiltà”. Ma il western è stato capace di sposare anche la modernità romanzesca. Gli esempi sono diversi, ma il più felice rimane L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford. Il flashback con cui il film è condotto, la fine dell’epoca epico-tragica rappresentata da Tom Doniphon (un John Wayne splendidamente decaduto, a rappresentare il declino di un genere e di un mondo che nessuno meglio di lui aveva rappresentato), il passaggio alla alfabetizzazione e soprattutto alla Legge dell’Est rappresentata da Ransom Stoddard (James Stewart) chiudono definitivamente con l’età dell’oro degli eroi per aprire al “prosaico” di una civiltà che va compiendosi nelle aule parlamentari.

Ma se l’età dell’oro si è chiusa, potrà comunque continuare ad alimentare la vita civile e il suo carattere non più eroico, né epico né tragico, facendosi leggenda, come il giornalista nel finale del film ben sintetizza: “Qui siamo nel West dove se la leggenda diventa realtà vince la leggenda”. Perché sono le leggende a fare la storia, cioè a spiegare e a correggere il passato per meglio sopportare il presente: «Le leggende presentavano [l’uomo] come l’artefice di quanto non aveva compiuto, e gli attribuivano la capacità di sistemare quel che in realtà non si poteva disfare. In questo senso, esse non sono soltanto fra i primi ricordi dell’umanità, ma anche l’autentico inizio della sua storia» (Arendt 2009, p. 290). E il West è in primo luogo una leggenda, prima di essere una storia. Non lo testimonia solo il cinema dalle origini alla contemporaneità (fino al recente meraviglioso Killers of the Flower Moon di Scorsese), ma anche la letteratura di ieri e di oggi, e perfino gli spettacoli sul selvaggio west, i Buffalo Bill Show, che hanno contributo alla invenzione di una tradizione (cfr. Rydell, Kroes 2006).

Il western è dunque molto più di un genere. È la messa in atto dell’intera ontologia occidentale e dei suoi modi di rappresentazione (dall’epico al tragico, perfino al commedico, fino al romanzesco), nonché l’immagine più prossima al costituirsi di una civiltà e alla invenzione di una tradizione. Ma resta ancora una domanda: perché oggi il western sembra tornare ad una rinnovata centralità? L’eroe western è un pioniere e un fondatore, un uomo d’azione capace di prendere le distanze dall’azione stessa, posto al confine tra wilderness e civiltà, vita e morte, sospensione e vigenza della legge. È un avventuriero e un creatore di mondi, dunque è qualcuno che non svolge il ruolo di mediatore: più che mediare costruisce passaggi e apre orizzonti. E quando questo non accade ha il coraggio di guardare in faccia la sua condizione mortale e la sua stessa fine. Rappresenta dunque una immagine di vita che non elude la vita stessa, che l’attraversa alternando il passo lento della camminata e la cavalcata veloce.

L’uomo d’oggi ridotto a mediatore di dispositivi che pretende di controllare e da cui è invece controllato, smarrito in una prosaicità che ha perso ogni traccia epico-tragica e che non riesce ad essere commedica, trova nell’eroe western e nella sua scoperta eroica di mondi non tanto la nostalgia di un passato mai vissuto, quanto l’immagine di una possibilità di vita ancora da venire, dove il soggetto possa ancora, o meglio per la prima volta, essere protagonista della sua propria vita, avventurosa e imprevedibile. E soprattutto vissuta con stile.

Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.
B. Cartosio, Verso ovest. Storia e mitologia del Far West, Feltrinelli, Milano 2018.
R. W. Rydell, R. Kroes, Buffalo Bill Show, Donzelli, Roma 2006.
H.N. Smith, Virgin Land. The American West as Symbol and Myth, Harvard University Press, Cambridge 1978.
R. Warshow, The Immediate Experience, Harvard University Press, Cambridge 2002.

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