Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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30 Gennaio 2024

Silenzio si legge!

Roy Menarini, «Film TV», XXXII-5

Con un po’ di cinismo si potrebbe dire che, in tempo di vacche magre per le serie tv, quelle culturalmente rilevanti si riconoscono perché meritano un libro. Stranger Things è una di queste e il densissimo volume internazionale a più voci, appena tradotto in italiano da Ludovica Peruzzi ed Elisa Pezzotta, esplora l’universo dei fratelli Duffer in lungo e in largo. Dal citazionismo alla cultura pop, dalla rappresentazione femminile alle interpretazioni politiche, sono numerosi i temi affrontati dal gruppo di studiosi (non solo critici e accademici ma anche scrittori e professionisti del cinema). Certo, la serie non ha ancora concluso il proprio corso, eppure questo volume ha tutta l’aria di essere completo e quasi definitivo.

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24 Gennaio 2024

Juan Mayorga, Ellissi. Saggi 1990-2022, a cura di Enrico di Pastena

Veronica Orazi, «Artifara»
Il volume raccoglie conferenze, articoli, riflessioni e recensioni del drammaturgo Juan Mayorga, figura di assoluto rilievo nel panorama spagnolo attuale, come sottolinea in apertura del volume Enrico Di Pastena, nella sua introduzione Un drammaturgo filosofo per uno spettatore critico (pp. 10-19). Il titolo scelto dall’autore rimanda ai due elementi chiave della sua formazione e dei suoi interessi, la matematica da un lato e dall’altro la filosofia. Il libro riverbera il ruolo di Juan Mayorga attraverso testi di concezione e formato diversi, di carattere teorico e non finzionale, ascrivibili alla categoria letteraria del saggio. Redatti nell’arco temporale che comprende l’ultimo decennio del secolo scorso fino agli inizi della seconda decade del nuovo millennio, essi rivelano il legame col testo Rivoluzione conservatrice e conservazione rivoluzionaria. Politica e memoria in Walter Benjamin. La raccolta propone diversi ambiti di lettura ed è articolata in sei sezioni distinte: Fuochi, Assi, Intersezioni, Tangenti, Duo ed Ellissi di ellissi. Nella prima, sono presenti scritti che non trovano la loro origine nel teatro; la seconda, come in parte anche la prima, espone gli aspetti portanti dell’estetica mayorghiana; la terza tocca tratti connessi con la produzione teatrale dell’autore; la quarta descrive la coincidenza, per l’autore, di filosofia e teatro; la quinta raccoglie le riflessioni scaturite dal confronto col critico letterario Ignacio Echevarria; mentre la sesta si concentra su due opere teatrali brevi mayorghiane. Tutte riflettono il prisma di osservazione privilegiato attraverso il quale l’autore indaga la realtà: filosofia, critica, binomio cultura versus barbarie, Europa, campi di concentramento, memoria e teatro. Le prime quattro sezioni raccolgono contributi scritti nell’arco di trenta anni, fatto che permette di cogliere l’evoluzione dell’autore, transitato da uno stile ermetico e una maggiore limpidezza. Alcuni dei pezzi antologizzati conservano l’impronta dell’oralità, poiché si tratta di testi concepiti per la presentazione orale, che Mayorga ha scelto di lasciare invariati, senza modificarli nel momento in cui ha deciso di inserirli nella silloge qui presentata. Completano questa raccolta di materiali la trascrizione di una conversazione con Ignacio Echevarria e due piezas brevi inserite nell’ultima sezione, Ellisse di ellissi, che suggerisce la contiguità tra i contenuti concettuali del volume e la produzione drammatica dell’autore: si tratta di 581 mappe, basata sulla metafora cartografica, riproposta analiticamente in Cartografia teatrale degli spazi di eccezione, e connessa, in particolare, con l’opera teatrale Il cartografo, di cui mantiene la concezione meta-testuale; e Tre anelli, legata alla tradizione e incentrata sulle dinamiche ‘evento-interpretazione’ e ‘creazione-analisi’. Con andamento chiastico, lo stesso accadeva nella raccolta antologica delle opere teatrali di Mayorga, comprensiva di venti opere scritte tra il 1989 e il 2014, chiusa da Mio padre legge a voce alta, un contributo non drammaturgico inserito nel volume recensito (pp. 211-12). Il volume tratta temi variegati, come la libertà, la violenza e le sue manifestazioni, la cultura e la sua negazione, la storia e la memoria, l’Europa, Auschwitz e il teatro, quest’ultimo inteso come espressione artistica dell’incontro e dell’immaginazione, come uno spazio in cui esprimere la critica e concretizzare l’utopia. Insomma, il libro presenta contenuti vari, stratificati, compositi, ricchi di riecheggiamenti interni e temi e sotto-temi che, nel corso della lettura, riemergono con andamento carsico. Tutto ciò profila una riflessione profonda, manifestazione di un pensiero e di interrogativi che vertebrano l’intera opera drammatica di Mayorga, influenzate dall’inclinazione all’esattezza e alla sintesi, che l’autore assume dalla matematica ma anche dall’astrazione e dalla concettualizzazione desunte dalla filosofia, supportate da intuizioni che travalicano epoche e accidenti e nutrono la sua scrittura teatrale. L’esito è rappresentato da questo tomo pervaso di passione e costellato di spunti per la riflessione, che mette il lettore di fronte a quesiti ineludibili. Al contempo, però, la raccolta rivela anche gli autori con cui Mayorga dialoga e che si indovinano dietro alla sua attività di autore di teatro: Aristotele, Benjamin, Bulgakov, Calderón, Lope, Kantor, Kraus, Pasolini, Pinter e Tabori, tra i molti che si potrebbero menzionare. Questo aspetto è stato alimentato e consolidato dall’attività di adattatore di classici di Mayorga, che coniuga la fedeltà al passato con lo spirito del proprio tempo, meccanismo che traspare anche nelle sue piezas originali. La raccolta, però, richiama anche l’attività di registra teatrale del drammaturgo, a partire dall’allestimento delle sue stesse opere (si veda il saggio intitolato l’autore regista), ruolo che egli inizia ad assumere a partire dalla presentazione de La lingua in pezzi (2012). Nel teatro di Mayorga, dunque, lo si intende anche solo dalle brevi considerazioni precedenti, la parola risulta centrale, in linea con la teoria della ricezione e della riflessione postdrammatica, ossia, come uno spazio per il dibattito, per la critica, che coinvolge lo spettatore, svincolato ormai dalle costrizioni della mimesi. Insomma, un teatro che è esperienza condivisa, processo, manifestazione e impulso. Mayorga, però, si concentra anche sull’osservazione (dell’artista, dello storico, del matematico, del filosofo…) che associa il visibile all’invisibile, stabilendo nessi inediti. Per questo, l’ellissi viene presentata come dialogo potenziale, dialettica individuale e, al tempo stesso, collettiva, particolarmente evidente nel teatro. Il pezzo di apertura, Le ellissi di Benjamin, quindi, potrebbe essere considerato come una sorta di chiave di lettura dell’intero volume, l’idea che ne costituisce il nucleo centrale che si irradia sul resto dei contributi antologizzati come, del resto, sull’intera drammaturgia mayorghiana. L’approccio ellittico alla realtà e alla conoscenza, caratteristico dell’autore, testimonia il rilievo della filosofia e della figura di Walter Benjamin, di cui egli assume la visione della storia, la rivisitazione del passato e la percezione degli eventi che nega l’idea di continuum per rifarsi al frammento, ma che investe anche il concetto di traduzione con i suoi vuoti, il rapporto fra arte e politica, il potere di profonda rigenerazione riconosciuto al discorso critico, la dialettica fra cultura e barbarie, immagini concettuali come quelle di costellazione e di sciame, simboli come le cicatrici o le ceneri e molto altro ancora. Allo stesso modo, risulta assolutamente significativa l’interazione con la riflessione filosofica dello spagnolo Reyes Mate, per esempio attraverso la partecipazione al gruppo di ricerca su La filosofìa del Holocausto e al seminario Memoria y pensamiento en el teatro contemporàneo. Un altro aspetto chiave della raccolta è costituito dalla concezione del dubbio, a partire dallo stesso atto creativo, dal prendere la parola, atti potenzialmente esposti ai condizionamenti più svariati (si veda il contributo dal titolo Chi scrive queste parole?). È così che l’autore sprona il pubblico a interrogarsi su questioni delicate o scottanti, che lo vedono in realtà direttamente implicato, forse più come oppressore che come vittima, contribuendo idealmente a stimolare il pensiero critico negli spettatori e, dxmque, nei cittadini contemporanei. Rispetto all’edizione spagnola originale, la raccolta recensita integra Silenzio. testo letto dall’autore in occasione dell’ingresso nella Real Academia Española, in cui enfatizza e chiarisce il peso semantico del silenzio, dal valore materico oltre che ritmico. La carrellata proposta parte dall’Iliade e dai tragici greci per arrivare al teatro di Federico Garcìa Lorca, tra i quali sono intercalati esempi tratti da Kafka, Büchner, Calderón, Dostoevskij, Čechov, Beckett, tutti maestri di scrittura ellittica a creatori di figure che non dicono (perché non sono in grado o non osano). Ed è proprio questo che Mayorga ricrea in scena sfruttando la tensione di opposti. Vi è poi il pezzo intitolato La ragione del teatro, che si potrebbe quasi considerare emblema della poetica dell’autore. In esso, Mayorga articola la propria visione dell’atto teatrale, fondata sul patto stabilito col pubblico, che diventa quindi complice, più che compartecipe. Il teatro, infatti avviene nello spettatore, nonostante la dimensione assembleare dell’atto performativo della rappresentazione. Da qui, la rilevanza morale e politica del linguaggio teatrale, che potenzia la sensibilità e lo sguardo dello spettatore ma al contempo ne destabilizza le certezze, attraverso la spinta alla riflessione che ne rafforza la capacità critica. È così che Mayorga costruisce la propria estetica, a partire dagli apporti di Benjamin ma anche di Brecht, Cormann e Sanchis Sinisterra, tra gli altri. Un altro nucleo chiave della riflessione condensata nella raccolta è costituito dal teatro storico, inteso come preziosa rappresentazione di un’epoca destinata a un’altra epoca, che trascende dunque le proprie coordinate spazio-temporali per farsi ponte con altri spazi e altri tempi, in sostanza, con altri momenti contingenti. Ciò si concretizza nella rappresentazione del passato in un presente che la realizza, la attualizza e la offre al futuro in chiave di interpretazione risemantizzata. Sono riflessioni che investono anche il Teatro della Memoria, che parla del proprio tempo attraverso il recupero del passato. Come La rappresentazione teatrale dell’olocausto (p. 129), di cui Mayorga denuncia anche le mancanze (la manipolazione sentimentale del dolore, l’esibizione della violenza, ecc.) ma anche lI teatro storico spagnolo e Il teatro storico. Con Pasolini, invece, Mayorga concide sul concetto espresso dall’italiano nel suo Manifesto per un nuovo teatro, relativo al rinnovamento del linguaggio scenico, il Teatro di Parola, dall’azione contenuta e ridotta, popolato dalle idee. Con Silenzio e clamore in Gigi dell’Aglio, poi, l’autore rende omaggio all’artista scomparso, cui si devono alcuni allestimenti delle sue opere, per esempio di Himmelweg e di Hamelin, e di otto piezas brevi tratte da Teatro para minutos. In sostanza, nelle sei sezioni di Ellissi, il lettore reperirà spunti di riflessione civile, filosofica e anche estetica, che riflettono il profilo del Juan Mayorga drammaturgo ma anche e specialmente pensatore. Secondo le parole dell’autore, per quanto i testi raccolti nel volume siano stati scritti o pronunciati in momenti diversi della sua traiettoria di pensatore e creatore, egli non ha mai ceduto alla tentazione di riscriverli, per lasciare attraverso di essi testimonianza diretta e fedele di un determinato momento della sua esperienza esistenziale o artistica. Al contrario, la scelta relativa all’ordine interno al volume di questi materiali riflette l’attualità dell’autore, in un rapporto di collaborazione con il curatore, il cui obiettivo ultimo di dare vita a una sorta di conversazione, a un dialogo col lettore.
Beckett
22 Gennaio 2024

Beckett, il genio che spaventa

Sandra Petrignani, «Il Foglio»

Samuel Beckett morì il 22 dicembre 1989 a ottantaquattro anni non ancora compiuti (era nato nell’aprile del 1906) e fu sepolto al cimitero di Montparnasse, il quartiere parigino dove viveva, accanto alla moglie Suzanne Deschevaux-Dumesnil, morta cinque mesi prima. La sua tomba fu per settimane ricoperta di fiori e biglietti improvvisati in tante lingue diverse del mondo, cinese e giapponese comprese, a testimoniare un amore planetario che può stupire per uno scrittore schivo, solitario e poco letto quale è sempre stato. Ma se non fu mai un eroe dei botteghini, né come autore teatrale né per le scarse vendite dei suoi libri, era però circonfuso di un’aura particolare che le persone avvertivano anche solo contemplandone in fotografia la figura ascetica e i formidabili occhi celesti. «Occhi impassibili, ma luminosissimi e stellari» li definì la pittrice Giosetta Fioroni che da giovane lo conobbe a Parigi rimanendone affascinata, come inevitabilmente accadeva a chi riusciva ad avvicinarlo, donne o uomini che fossero. E’ uno dei paradossi che accompagnano la vita di un autore cui sono state attribuite etichette certo non invoglianti, come ‘cantore dell’incomunicabilità’, e del silenzio e della morte e dell’assurdo, ma che, libero da qualsivoglia ideologia letteraria, si è sempre preoccupato unicamente di tradurre in parole il suo personale disagio di essere nato per morire. Parole scarne ed essenziali, questo sì, e più procedeva nell’età più le parole si facevano scarne ed essenziali. Con una coerenza estrema rispetto al suo carattere, in stretta sintonia con ciò che intendeva esprimere. Ed è questa radicalità a vincere sul tempo che passa, sulle mode che cambiano e persino sulla disaffezione attuale verso scrittori considerati ‘difficili’. Ma il vecchio Sam non è difficile, è inflessibile. E chi arriva a cogliere questo, finisce con l’amarlo sfrenatamente. Come accadde quando, il 19 maggio 1983, la televisione tedesca mandò in onda la breve pièce Nacht und Träume modulata sulle ultime sette battute dell’omonimo Lied di Schubert e ispirata con grande probabilità al quadro Orazione nell’orto del fiammingo Jan Gossaert che Beckett aveva visto a Berlino rimanendone impressionato. Furono circa due milioni gli spettatori che, altrettanto impressionati, quella notte rimasero incollati allo schermo scuro in cui affioravano in dissolvenza i volti pallidissimi dei protagonisti.

La figura ascetica e i formidabili occhi celesti, «impassibili, ma luminosissimi e stellari» li definì la pittrice Giosetta Fioroni

  
Potrebbe essere un’occasione in più adesso, per avvicinare uno scrittore tanto sconcertante, il biopic Dance First, distribuito dal primo febbraio. In italiano: Prima danza, poi pensa. Scoprendo Beckett di James Marsh, con Gabriel Byrne nella parte del protagonista, Sandrine Bonnaire nei panni di Suzanne e Aidan Gillen in quelli di Joyce. Anche se già il titolo appare una forzatura, una citazione vagamente ribaltata da Aspettando Godot. Ma staremo a vedere. Intanto si legge nel lancio pubblicitario: «Beckett rievoca gli eventi salienti della sua vita in un dialogo immaginario con la personificazione della sua coscienza, lasciando emergere i temi e le riflessioni che hanno reso grandi le sue opere. Ne risulta un ritratto poco conosciuto della sua personalità: buongustaio, solitario, marito infedele, combattente della Resistenza francese e anche grande amico di James Joyce». Il film si apre sulla catastrofica notizia del Nobel assegnatogli nel 1969. La comunicazione gli arrivò mentre era con Suzanne in vacanza in Tunisia e sembra fosse lei a rispondere al telefono e a reagire alla notizia con un «che catastrofe!» interpretando perfettamente i sentimenti del marito, il quale – come al solito – si rifiutava di incontrare i giornalisti. Jérôme Lindon, l’editore dei suoi libri in Francia per Minuit e suo amico, è costretto a precipitarsi in Tunisia all’Hotel Riadh, ormai assediato dai cronisti, e patteggiare con loro: niente interviste, solo qualche fotografia. Sarà poi Lindon a ritirare il premio a Stoccolma. Del resto, Sam aveva stabilito con i suoi principali editori, pensiamo all’americano Barney Rosset della Grove o al tedesco Peter Suhrkamp per dirne due, un rapporto particolare di fiducia e amicizia: loro non potevano contare su di lui né per le vendite, sempre poco entusiasmanti, né su nessun tipo di pubblicità, ma si sentivano speciali e orgogliosi di essere i suoi editori.

Il lancio del biopic Dance First, «un ritratto poco conosciuto della sua personalità: buongustaio, solitario, marito infedele»

  
Gabriele Frasca, curatore e traduttore del Meridiano dedicato a Samuel Beckett uscito di recente da Mondadori, parla nell’introduzione al volume di «galassia Beckett»: «Perché nessun autore – così tanto intransigente nella sua fedeltà all’arte – è mai riuscito al pari del nostro a raccogliere in vita intorno alla propria opera lo stesso numero sorprendente di entusiasti editori, e poi registi, attori, funzionari radiotelevisivi, e naturalmente critici, accademici o no. Un vero e proprio miracolo». Perché poi, dietro alla sua irriducibile intransigenza, Sam era una persona gentile, affettuosa, attenta a non ferire, presente quando una persona aveva bisogno di aiuto. Le tante lettere che scrisse nella sua vita ne sono la prova. Sono raccolte in quattro volumi a cura di Franca Cavagnoli per l’Adelphi. Già usciti i primi due, relativi agli anni 1929-1940 e 1941-1956, mentre è attualmente in preparazione il terzo: 1957-1965, testimonianza preziosissima di un momento cruciale nella vita dello scrittore che mentre compone opere teatrali fondamentali quale L’ultimo nastro di Krapp, Giorni felici, Play (che sarà poi musicata da Philip Glass) ha una grossa gatta da pelare sul piano sentimentale. Fedele non era mai stato, ma era di quelli che riescono a tenere in piedi relazioni parallele senza scontentare nessuno. Solo che, improvvisamente, la sua amante fissa ormai da qualche anno, Barbara Bray, funzionaria della Bbc, vedova e madre di due bambine, decide di trasferirsi da Londra a Parigi. Per stargli più vicino? Per forzare la situazione e costringerlo a lasciare Suzanne? Nelle lettere Sam s’interroga se rompere con Barbara, ma alla fine trova una soluzione migliore, una soluzione tipica di uomini del suo stampo, che vivono sulla corda, sempre in procinto di precipitare riuscendo a non farlo mai. Farà contente entrambe le sue donne: sposerà Suzanne, più vecchia di lui di sette anni, per assicurarle l’eredità dei diritti d’autore nel caso della propria morte, e aiuterà Barbara a sistemarsi a Parigi continuando la doppia relazione anche più tranquillamente di prima e per il resto dei suoi giorni. Scontentando tutte e due in realtà, ma senza rendersene apparentemente conto. E non è un caso di certo che in Giorni felici ci sia una coppia: Winnie, interrata fino alla cintola e poi fino al collo in una montagnola di terra accanto al marito, il taciturno Willie, e lei non fa che parlare ottenendo da lui, intento a leggere il giornale, rare risposte distratte che non sono vere risposte, ma interlocuzioni rapidissime, punti interrogativi, grugniti. E’ questo il ritratto di una coppia felice secondo Beckett?

La moglie, l’amante e «Giorni felici», con Winnie, interrata fino fino al collo, e il taciturno Willie. E’ questo il ritratto di una coppia felice?

  
La famosissima commedia è naturalmente compresa nella scelta di Frasca per il Meridiano. Il titolo Romanzi, teatro e televisione indica quanto al curatore interessi l’impegno multimediale dello scrittore irlandese che trovava radio e televisione, e anche il cinema una volta – con Film del 1965, interpretato da uno strepitoso Buster Keaton – congeniale alla propria espressività visiva e sonora. Con Quad del 1981, «pièce per quattro interpreti, luci e percussioni», arriva ad abolire le parole per sostituirle con un complesso congegno di movimenti degli attori in scena, costretti camminando a disegnare un quadrato e le sue traiettorie interne, mentre fanno vibrare ognuno uno strumento: un tamburo, un gong, un triangolo, un woodblock. E se dalla scelta di Gabriele Frasca mancano i saggi (persino il famoso Proust della giovinezza) e mancano alcuni testi forse non proprio minori e manca interamente la poesia, un testo poetico c’è a chiudere il libro, perché cronologicamente ultimo. Si tratta di Comment dire (in inglese, per volere dello stesso autore, What Is the Word) in cui Sam si interroga ancora e sempre: «…qual è la parola – / vedere – / intravedere / credere d’intravedere – / voler credere d’intravedere…»
E certo non è stato un lavoro semplice nemmeno la ritraduzione, dello stesso curatore, beckettiano della prima ora, di tutti i testi compresi nel Meridiano che vanno dai romanzi alle più famose opere teatrali da Murphy all’Innominabile, da Aspettando Godot a L’ultimo nastro di Krapp a tanti testi brevi e brevissimi. Beckett aveva studiato lingue al Trinity College di Dublino. Sapeva perfettamente il francese, e infatti decise a un certo punto di rinunciare all’inglese per il francese in parte per complicarsi la vita misurandosi con una lingua non perfettamente padroneggiata, almeno all’inizio, ma soprattutto – e ancora una volta – per la stretta relazione in cui metteva letteratura e vita. In Francia, durante la guerra, si era impegnato nella Resistenza (e ne avrebbe avuto anche una medaglia). Scrive Frasca: “Eleggendo per la propria opera il francese a guerra conclusa, Beckett ha scelto in verità di dare seguito alla lingua del suo impegno, intellettuale e politico. La ‘frenesia di scrivere’ che lo colse fu allora quasi una reazione immunitaria scatenata dalla lingua fraterna che gli aveva infettato la propria, e che lo avrebbe condotto, come ha ribadito Maurice Blanchot, ‘oltre i limiti della letteratura’”.

Uno dei suoi paradossi è di non essere minimamente intellettuale e di riuscire a dire l’essenziale con un pathos che per sua natura invade il terreno del comico

  
Ma Sam non conosceva solo il francese. Leggeva l’adorato Dante in italiano, parlava il tedesco, si intendeva anche di spagnolo, studiato da autodidatta. Quando un suo testo composto in francese doveva uscire in Inghilterra se ne occupava in prima persona. Ma in inglese l’opera non restava la stessa, perché la tentazione di riscrivere era troppo forte. E un traduttore che fa? Salta da una lingua all’altra, assimila, sceglie, interpreta… E quando si trattava di un testo teatrale, c’era da impazzire. Beckett partecipava al lavoro di messinscena, arrivando a un certo punto a occuparsi lui stesso della regia. Naturalmente, nel passaggio dalla pagina al palcoscenico, il testo veniva rivisto, corretto, riscritto. Quale sarà allora la versione definitiva? La prima, le successive? Se si sfoglia l’interessante Quaderni di regia e testi riveduti (relativi a Aspettando Godot e curato da Luca Scarlini per Cue Press nel 2021) si ha l’idea precisa e vertiginosa di come Beckett lavorasse sulle sue creazioni. Era preciso, maniacale, spesso indeciso. Torna e ritorna su un particolare, cambia, ripristina, cambia di nuovo, per riposizionarsi, magari, al punto di partenza. E’ attento a ogni piccolo gesto dei personaggi in scena, alle luci e alle ombre che dovranno investirli. Coglie il dettaglio come dovesse ritagliarne ogni volta i contorni dentro un’inquadratura. Come scrive James Knowlson nell’introduzione a questi Quaderni, la struttura letteraria di Beckett è sempre poetica, «costruita sui principi di eco, equilibrio, ritmo». Knowlson fu amico di Sam per più di vent’anni e ne divenne l’unico biografo autorizzato pubblicando qualche anno dopo la sua morte il bellissimo ritratto Damned to Fame, una biografia che in italiano fu tradotta da Einaudi, ormai disponibile solo su eBay. Condannato alla celebrità sì, mentre non chiedeva altro che di essere lasciato in pace fra le sue parole finali e i suoi fantasmi, magari ad annotare il dialogo fra Estragone e Vladimiro come fosse una poesia: «Tutte le voci morte. / Che fanno un rumore d’ali. / Di foglie. / Di sabbia. / Di foglie. Silenzio. Parlano tutti insieme. / Ognuno a sé stesso. Silenzio. Secondo me sussurrano. / Frusciano. / Mormorano. / Frusciano».

Chi si avvicinasse a Beckett per la prima volta potrebbe, dopo tali premesse, allontanarsene subito spaventato. Ma un altro dei paradossi di questo scrittore unico e irripetibile è di non essere minimamente intellettuale e di riuscire – nella cancellazione di trame tradizionali e nella riduzione all’osso del comunicabile – a dire tutto l’essenziale con un pathos, una disperazione, una radicalità estreme che per loro intima natura, inevitabilmente, spesso, invadono il terreno del comico. Leggerlo è un’esperienza dello spirito, più che della mente. Senza significati reconditi, senza simbologie o rimandi ad altro che non sia il qui e ora della parola scelta. «Simboli non ci sono dove non c’è intenzione» è la frase finale di Watt. E in Worstward Ho: «Dire un corpo. In cui niente. Niente mente. In cui niente. Almeno questo. Un luogo. In cui niente. Per il corpo. Per esservi. Per muovervisi. Andarne. Tornarne. No. Niente andate. Niente ritorni. Solo esservi. Restarvi. Ancora. Fermo».

Il miracolo poi è che tanta immobilità ottenga nel lettore e nello spettatore sensibili una risposta emotiva forte, davvero come in una danza (e qui riabilitiamo il titolo del film in arrivo) o come riesce a suscitare soltanto la musica oppure l’uso originale della lingua. La lingua di cui già nel 1937 scriveva a un amico: «Scavarci dentro un buco dopo l’altro finché ciò che vi sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare – per lo scrittore di oggi non so immaginare un fine più alto. Oppure la letteratura deve restare indietro da sola lungo il vecchio e fetido cammino abbandonato ormai da tempo da musica e pittura?». Aveva trent’anni e già chiara la linea che avrebbe dato al suo lavoro, sulle orme di Joyce in un primo momento, ma per distaccarsene radicalmente e diventare soltanto sé stesso.

Si trova in rete un raro filmato amatoriale che gli è stato rubato a Berlino nel 1969. Lo si vede procedere dondolante sulle lunghe gambe, chiedere informazioni per strada, leggere il giornale seduto al bar avvicinando molto le pagine agli occhi in un modo buffo da miope, accompagnarsi sorridente e ciarliero a una giovane donna piccola e bruna, Barbara forse, o una delle tante che corteggiava e a cui non sapeva resistere. E’ un uomo qualsiasi, leggero, persino felice di vivere, di passeggiare, di sorridere. Un Beckett umano dentro la divinità austera che si tramanda.

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Ultimo tango a parigi 2018 1
19 Gennaio 2024

«Il cinema, questione di vita o di morte: spezzai Brando»

Bernardo Bertolucci, «Il Fatto Quotidiano»

Anticipiamo stralci di Scene madri, il memoir di Bernardo Bertolucci con Enzo Ungari, in libreria con Cue Press.

«Vorrei poter parlare di cinema senza paura di raccontare aneddoti, usando molto la prima persona, senza vergogna e con molto affetto per qualche non sense a cui sono affezionato. So che la cosa può risultare oltraggiosa, perché in Italia il desiderio segreto ma evidente dei critici è un regista muto, che faccia film e se ne stia zitto. Personalmente trovo appassionanti le riflessioni dei cineasti sul proprio lavoro, così primarie a volte da sfiorare il sublime, così magnificamente riduttive, deliranti o imbarazzanti da far arrossire, ma così complementari ai film, parole liquide che risciacquano i corpi dei film. Per me, comunque, il cinema è questione di vita o di morte.
Giorni fa io e mia moglie siamo andati al cinema, a vedere un vecchio Hitchcock, Murder! (1930). Improvvisamente mi sono ricordato che Herbert Marshall, il protagonista, era morto e che anche la maggior parte degli attori del film probabilmente non ci sono più. Vedo vecchi film molto più spesso che non film nuovi, ma non avevo mai provato questa emozione così disarmante. Forse è stata l’eleganza di Marshall, lo spleen del suo stile, la sua andatura lievemente claudicante, a farmi questo effetto. Murder! parla di un delitto miracolosamente in bilico tra uno spettacolo teatrale e quello che avviene dietro le quinte, ma a me parlava soprattutto dello scandalo del cinema che sottrae la vita al suo scorrere. Bazin scrive che il cinema è come l’arte egizia dell’imbalsamazione, Cocteau lo chiama «la morte al lavoro». Sono modi diversi di alludere a quell’imbarazzante segreto che tutti i cineasti conoscono benissimo: un piano-sequenza è un pezzo di vita, che fingendo di informare lo spettatore lo interroga per manipolarlo meglio, lo invade e lo rende complice e correo di un crimine…
Ho sempre desiderato incontrare una donna in un appartamento deserto, che non si sa a chi appartiene, e fare l’amore con lei senza sapere chi è, e ripetere questo incontro all’infinito, continuando a non sapere niente. Ultimo tango è lo sviluppo di questa ossessione molto personale (e forse banale). La sceneggiatura era costruita nei minimi dettagli. Soltanto a partire da una costruzione estremamente elaborata posso abbandonarmi all’improvvisazione. Ultimo tango in fondo è un film completamente hollywoodiano, è cinema-verità ricco. Poco dopo l’inizio delle riprese, se dovevo parlare dei due personaggi, non dicevo più Paul e Jeanne, dicevo Marlon [Brando, N.d.R.] e Maria [Schneider, N.d.R.]. Il contributo che hanno dato al film è stato enorme, incalcolabile, perché non sono stati loro ad aderire ai personaggi, sono stati i personaggi a diventare loro… Nel corso delle riprese, Marion e Maria si sono sostituiti ai personaggi scritti sulla pagina, ne hanno integralmente preso il posto. Quando Marion racconta la sua infanzia, è la sua vera infanzia, con sua madre sempre ubriaca, e l’ombra di un padre virile e violento, in qualche posto nel Nebraska.
Brando, fin dall’inizio, si è reso conto che aveva la possibilità di abbandonarsi e di andare aldilà di quello che gli veniva solitamente richiesto, e che lui sa ripetere così bene: la lezione dell’Actors’ Studio. All’Actors’ Studio aveva imparato a sentirsi un altro, a diventare un uccello o un albero, e quello che il cinema di solito chiede a un attore è proprio di entrare nella pelle di un altro. Io invece gli ho chiesto di portare dentro il film tutta la sua esperienza, tutto il suo vissuto di uomo e di attore. Diventare Paul non doveva significare smettere di essere Brando. E quando mi sono reso conto che capiva, ho chiesto a Paul di essere Marlon, e non viceversa. Alla fine del film mi ha detto più o meno: ‘Non farò mai più un altro film come questo. Non mi piace fare l’attore ma questa volta è stato peggio. Mi sono sentito violentato dall’inizio alla fine, ogni giorno, in ogni momento. Ho sentito che tutta la mia vita, le mie cose più intime, i miei figli, tutto mi è stato strappato fuori’. Poche settimane dopo la fine delle riprese aveva riguadagnato i dieci chili che gli avevo fatto perdere. Non sono sicuro che abbia visto il film finito…
Brando all’inizio è un personaggio brutale e aggressivo, che subisce lentamente un processo di devirilizzazione, fino a farsi sodomizzare dalla ragazza. Così ‘mettere in scena’ è ‘mettere in culo’, ‘prendere coscienza’ è ‘prendere in culo’. Brando precipita indietro fino alla morte, a una morte che è una nascita paradossale. Quando giace morto sul balcone, la sua posizione è quella di un feto».

Fosse portrait
15 Gennaio 2024

Con Jon Fosse, dentro quel buio luminoso

Roberto Canziani, «Hystrio», XXXVII-1

Ne hanno parlato così tanto i giornali, che era poi logico veder schizzare Jon Fosse, Premio Nobel 2023 per la letteratura, nei posti alti delle classifiche nelle librerie. Alti se confrontati con lo spazio residuo che il teatro occupa oggi nell’editoria italiana. Ha fatto quindi bene Cue Press a rimettere velocemente in circolazione tre lavori teatrali dell’autore norvegese (Jon Fosse: Teatro. E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome, a cura di Vanda Monaco Westerståhl, Imola (Bo), Cue Press, 2023, pagg. 144, euro 22,99). I primissimi. Quelli datati anni Novanta. Quelli in cui più puro si manifesta il dettato freddo, aurorale, della sua scrittura per il teatro. «Jon Fosse merita di figurare tra i cento geni viventi in tutto il mondo» spara la quarta di copertina del volume. Anche se è ben più ridotto il numero dei direttori e programmatori teatrali italiani che alla proposta di mettere in cartellone un suo testo risponderebbero con un sì. Il sistema teatrale italiano è diffidente, e il teatro di Fosse dovrebbe essere introdotto omeopaticamente nelle nostre programmazioni, per potersi manifestare, anni dopo, in tutta la sua potenza.

Era ciò che aveva tentato di fare chi ora scrive questa nota, quando vent’anni fa propose ad AstiTeatro 2003 l’allestimento di alcuni testi dell’allora sconosciutissimo norvegese. La fortunata prima versione italiana di Inverno con Valter Malosti e Michela Cescon, collocò per la prima volta il nome di Fosse nell’albo d’oro dei Premi Ubu. Lo fece aprendo al pubblico la cappa dei suoi silenzi, delle sue sospensioni, di quei cieli grigi e boreali. Un ‘buio luminoso’ (così dice il bel titolo di uno scritto che il critico Leif Zern gli aveva dedicato) che si ritrova facilmente in questa nuova edizione, curata e tradotta da Vanda Monaco Westerståhl. Dalle solitudini di Qualcuno verrà (nella vecchia casa in rovina immaginata da registi come Sandro Mabellini prima e Valerio Binasco poi), a E non ci separeremo mai e Il nome, con personaggi che sembrano schizzati fuori da un quadro di Edward Hopper. Già nel 2006 Editoria&Spettacolo, per la cura di Rodolfo di Giammarco, e più tardi Titivillus avevano tentato l’impresa. Forse non era stato sufficiente. Ora, con il Nobel e il rientro in libreria, il lavoro di diffusione delle opere teatrali di Fosse, cui si è votata Cue Press, potrebbe dare risultati più sostanziosi. E più soddisfazioni.

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15 Gennaio 2024

Premio della Critica 2023, un parterre d’eccellenza

Alice Strazzi, «Hystrio», XXXVII-1

Il 20 novembre il Teatro Gobetti di Torino ha accolto gli undici premiati dell’edizione 2023 dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro: Natale in casa Cupiello, spettacolo per attore cum figuris, di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia, con la regia di Lello Serao; Arturo Cirillo, Laura Curino, Fabrizio Ferracane, Manuela Mandracchia, Tindaro Granata (nuovamente vincitore del premio a dodici anni di distanza, questa volta segnalato anche per la direzione artistica di Tindari Festival) e Danio Manfredini. E poi ancora Crest di Taranto, per l’intervento in un’area di criticità ambientale; Edizioni Cue Press di Mattia Visani per la sua attenzione alla nuova drammaturgia; Mercurio Festival di Palermo diret- to da Giuseppe Provinzano; e la compagnia Stivalaccio Teatro di Vicenza per il riadattamento degli stilemi della Commedia dell’arte.

Altri premi sono arrivati dalle due riviste gemellate: Catarsi-Teatri della diversità ha scelto di segnalare il coreografo Vito Alfarano, direttore di AlphaZTL Compagnia d’Arte dinamica; mentre Paolo Cantù (foto: Luigi De Palma), direttore artistico e generale presso la Fondazione I Teatri di Reggio nell’Emilia, è il vincitore del Premio Hystrio-Anct per «la lucida follia» con cui ha saputo «attraversare i più diversi campi dell’organizzazione, ampliando il proprio sapere con estensione pari alla profondità, con la consapevolezza di avere una missione culturale e civile». È andato infine a Ferruccio Soleri, maestro indiscusso della Commedia dell’Arte, il Premio Poesio alla carriera.

Strade maestre
15 Gennaio 2024

Sulle strade d’Europa in cerca dei Maestri

Ilaria Angelone, «Hystrio», XXXVII-1

Più libri convivono in Strade maestre, road book scritto in tempi di pandemia, quando la disperazione era sempre dietro l’angolo e si sentiva il bisogno di ancorarsi. Nove personalità del teatro europeo, nove ‘Maestri’ riconosciuti come tali dai due autori, sono i protagonisti di altrettanti incontri avvenuti da Berlino a Parigi, da Losanna a Palermo. Maestri che, in qualche modo, Corrado d’Elia e Sergio Maifredi considerano punti di riferimento capaci di illuminare «il senso stesso del fare teatro, la sua forma, i metodi, le modalità e le nuove strade». Persone a cui rivolgere una domanda (più domande, in verità) sul senso, non soltanto del mestiere, ma della vita stessa. Ne nascono nove racconti che sono insieme testimonianze di vita e stimoli potentissimi alla ricerca e alla riflessione personale. Il rigore di Peter Stein, con il suo appello allo studio, la sensibilità e l’umanità di Eugenio Barba, la provocatorietà di Ostermeier, le visioni sceniche che hanno segnato Latella, la spigolosità di Warlikowski, la capacità di ascolto e accoglienza di Mnouchkine…

Non una delle persone incontrate e intervistate delude ed elude le domande proposte; nelle risposte, tutta la profondità di menti abituate al pensiero. Ed è la prima lettura, che si beve a piccoli sorsi, meditandoli. Poi c’è il racconto del viaggio: d’Elia e Maifredi, cui si aggiungono Ruggiero Di Benedetto (fotografo) e Ruggiero Torre (videomaker), percorrono le strade di mezza Europa, prendono aerei, treni, viaggiano in auto. C’è il loro sguardo sui luoghi. C’è la loro esperienza del viaggio condiviso, tra silenzi e sguardi di intesa, c’è il loro vissuto a ridosso degli incontri. Ed è una lettura appassionante, per la varietà dei colori utilizzati nel tracciare i diversi ‘ritratti‘ e per la sincerità che vi traspare, un’onestà di pensieri e sentimenti che dipinge i due autori come clerici vagantes sulle strade di una ricerca in cui vien facile rispecchiarsi. Poi ci sono le immagini, fotografie dei luoghi e degli incontri avvenuti, un’ancora alla concretezza dei corpi in epoca di dilagante realtà virtuale. E a queste immagini, raccolte in selezionata scelta nel volume, sappiamo essere affiancate delle riprese video, che di questo viaggio, ideale complemento, andranno a costituire un documentario, una sorta di Europa fra le righe dove a parlare sono indubbi maestri del tea- tro consegnati così alla memoria. Un bel progetto, non c’è che dire.

Milo rau 2
15 Gennaio 2024

Teatro, un concetto plurale: riflessioni post-pandemiche

Diego Vincenti, «Hystrio», XXXVII-1

Arriva forse con un pizzico di ritardo questa versione italiana di Why Theatre?, progetto nato in tempi di pandemia all’interno di NTGent. Un’idea di Milo Rau che già nei primissimi mesi di lockdown, volle interrogare se stesso e i suoi colleghi sulla matrice originaria, le ragioni profonde, l’urgenza esponenziale del fare teatro. Una domanda rimasta come sospesa. Che da allora continua a interrogare e continua ad accogliere nuovi contributi online. L’edizione Cue Press, curata da Andrea Porcheddu, condivide un’ampia selezione di questi testi (una cinquantina), arricchita da un’introduzione che storicizza alcune riflessioni legate alla proposta, facendo emergere possibili territori di sintesi. Il cortocircuito è che pensieri che si tendono fuori dal tempo paiono al contrario profondamente ancorati al contingente. Un contingente che non a caso Porcheddu si domanda quanto venga oggi ricordato con precisione, nel dettaglio. Ben oltre la semplice questione teatrale e i suoi ipotetici cambiamenti. In ogni caso da questo cortocircuito nasce la sensazione di lieve ritardo editoriale su cui si ragionava. Per il resto i contributi in sé sono senz’altro curiosi e parecchio differenti fra loro, sia come valore che come capacità di fascinazione. Si va da Lola Arias a Ostermeier, da Katie Mitchell a Edouard Louis, da Gisèle Vienne a Liddell, Kentridge, Mnouchkine. Nomi prestigiosi. Mentre fra gli italiani spuntano Motus e Teatro delle Albe. Il respiro è spesso più emotivo che saggistico, tanto da sfiorare a volte l’orizzonte social. C’è chi cade nella retorica e chi riesce a sorprendere, fosse solo con due parole. In generale un lavoro che si fa sfogliare. Anche se in termini di pensiero critico, forse risultano più utili le note introduttive. Dove giustamente si sottolinea l’ormai necessaria pluralità semantica del concetto di teatro. E la natura politica e assembleare del palcoscenico, luogo in cui la comunità si ritrova. Non più a distanza. Ma in qualche modo con gli stessi interrogativi.

Fadini edoardo
15 Gennaio 2024

Scritti sul teatro di Fadini

Andrea Bisicchia, «Il Mondo»

Non c’è dubbio che, per chi scrive per un giornale, debba rispondere alla ideologia del proprietario, e non c’è dubbio che, quando si è intervistati da una testata, di destra o di sinistra, bisogna, in parte, concedere qualcosa in cambio, per dare un senso di parte al titolo dell’articolo. Per quanto riguarda la figura del critico, si può dire che egli subisca di meno il rapporto di subalternità, specie oggi, visto che i direttori dei giornaloni, si interessano, soprattutto, di confezionare la prima pagina, poco interessandosi delle altre che non leggono neanche. Questo atteggiamento permette, ai pochi critici rimasti, di sentirsi più liberi e di non accettare nessuna velina.

Simili considerazioni mi sono venute in mente leggendo il libro dedicato a Edoardo Fadini (1928-2013): Scritti sul teatro. Interventi, recensioni, saggi, a cura di Armando Petrini e Giuliana Pititu, edito da Cue Press. Il volume raccoglie molte delle sue recensioni, apparse su «l’Unità» dal 1965 al 1969, su «Rinascita», dal 1966 al 1975, sul Trimestrale «Teatro», di cui era direttore insieme a Bartolucci e Capriolo, su «Sipario», 1968-76 e sulla rivista «Fuori campo» 1972, ai quali vanno aggiunti dei saggi che lo hanno impegnato nel periodo che va da 1987 al 2006.

Come è possibile intuire, dalle date, Fadini ha molto contribuito a chiarire certe situazioni assunte dal teatro italiano dal 1968 in poi, gli anni della rivoluzione culturale, quando fondò il Cabaret Voltaire, fino all’inizio del terzo millennio, e lo ha fatto con una serie di strumenti diversi, avvalendosi, in molti casi, della recensione, per poter fare delle considerazioni di carattere saggistico. I suoi presupposti teorici sono da ricercare negli autori, di scuola francese, da lui letti, come Blanchot, Barthes, Foucault, Lacan, Derrida, ai quali, un po’ tutti, ci siamo abbeverati, dato che aprirono un ampio dibattito sul linguaggio e sulla scrittura, oltre che sul ruolo della parola. Vengono in mente: Lo spazio letterario (1955) di Blanchot, il cui cammino saggistico si concluderà con La scrittura del disastro (1980), libri fondamentali per cercare di dare delle risposte a ciò che accadeva, non soltanto, nell’ambito della letteratura, ma anche del teatro.

Nel 1968, il teatro viveva una stagione di ripensamenti, di protesta contro le Istituzioni teatrali, diventate elefantiache, contribuendo a quel ‘disastro’, di cui parlava Blanchot, con le sue accuse contro le ideologie, ma anche con la convinzione di quanto fosse difficile salvare una umanità allo sbando, per la quale non basta la scrittura. Fadini parte proprio da qui, dal rapporto tra scrittura letteraria, quella che veniva utilizzata dai Teatri Stabili e scrittura scenica, quella utilizzata dai gruppi emergenti, dopo il Convegno di Ivrea, a cui egli dedica un saggio illuminante.

Il volume parte da una specie di ‘anno zero’ che, per quanto riguarda gli Stabili, coincideva con le dimissioni di De Bosio, a Torino, e di Strehler a Milano, dove, nel frattempo, nascevano nuove realtà come il Pier Lombardo e il Crt e dove Dario Fo iniziava la sua nuova avventura con La Comune, per arrivare al periodo del Decentramento, quello vero, e non «quello spostato in luoghi più o meno poveri», che aveva cambiato i rapporti tra scena e platea, tra testo scritto e testo agito.

Fadini non ha peli sulla lingua quando c’è da schierarsi anche contro Strehler, magari per evidenziare il lavoro di Mario Ricci, di Carmelo Bene, (benché non fosse amato dal Pc), di de Berardinis, di Quartucci, indicando metodi di lettura che non dovevano limitarsi a ‘vedere‘ cosa accadesse sulla scena, ma a capire quali emozioni essa fosse capace di suscitare, essendo, per lui, la scrittura una «forma di esistenza».

Per questo motivo, egli si schierò contro il vecchio concetto di regia, preferendo un nuovo approccio performativo al palcoscenico, motivo per il quale, concepì il teatro come ‘evento‘, persino politico, e non solo come espressione estetica. Riteneva necessario prima capire e, quindi, ‘decifrare’ tale scrittura, ed esortava, nello stesso tempo, a intendere il concetto di ‘mutamento’, lo stesso che Sisto Dalla Palma aveva suggerito nel suo volume: Teatro dei mutamenti. C’era bisogno, secondo lui, che il teatro si autodistruggesse per rinascere, attraverso un nuova carica sensoria, da contrapporre alla ricerca dei significati.

30 Gennaio 2023

Sono gli allestimenti trasgressivi a tenere in vit...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Ci siamo occupati, sulle pagine di questo giornale, del Teatro Postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, il volume più venduto e più adottato dalle Università italiane, edito da Cue Press, che ora ci propone Tragedia e Teatro drammatico, un saggio complementare al primo e, pertanto, necessario per meglio conoscere che cosa intendesse Lehmann per Teatro Postdrammatico, e […]
20 Gennaio 2023

Il laboratorio creativo di Beckett nei Quaderni di...

Nicola Arrigoni, «Sipario»

È forse una delle operazioni editoriali più interessanti degli ultimi anni, senza dubbio un contributo alla conoscenza del drammaturgo novecentesco per eccellenza, Samuel Beckett; è un’occasione per rivedere e ripensare l’autore di Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp, attraverso i quaderni di appunti registici, per la prima volta pubblicati in Italia. […]
15 Gennaio 2023

Sul «per ora e per sempre»

Simona Busni, «Fata Morgana Web»

«Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, come il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare. […] Crearsi la libertà […]
15 Gennaio 2023

Il mio amato Beckett

Antonio Borriello, «La Tófa della Domenica», XVIII-337

L’intera produzione beckettiana è colma di un immenso fascino drammaturgico, di una bellezza della parola che anticipa un orizzonte di profonda suggestione scenica: tutto è incredibilmente consueto… «Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile». Samuel Beckett, raffinato architetto della parola, lavora su una sola nota, immaginifica ed inesauribile, proiettandola in riverberi di pensieri […]
11 Gennaio 2023

Claudia Bertolé, Il cinema di Kore’eda Hirokazu...

Giacomo Calorio, «Sonatine»

Della folta schiera di registi giapponesi emersi negli ultimi decenni – schiera delle cui dimensioni ci si può fare un’idea su queste pagine – al momento Kore’eda Hirokazu è l’unico a essersi guadagnato un posto stabile nella nicchia della distribuzione italiana. Il merito di questo piccolo miracolo non va solo ai caratteri universalmente declinabili del […]
6 Gennaio 2023

Il meglio e il peggio del cinema anni Settanta rac...

Giovanni Scipioni, «Il Domani»

Quando Fellini raccontava con successo la sua infanzia in Amarcord, al cinema si faceva la fila per vedere i giochi erotici di Emmanuelle. Nello stesso periodo Gian Maria Volonté svelava agli spettatori come intraprendere L’indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto mentre l’avventuriero Franco Nero, Cipolla Colt, incastrava i cattivi colpevoli senza […]
26 Dicembre 2022

Dalle pitture vascolari alla fotografia digitale...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

L’iconografia è stata, sempre, una fonte per riguardare le arti del passato e lo è stata, in particolare, per il teatro, dato che ad essa sono spesso ricorsi gli storici per ricostruire, insieme ai testi, le particolarità sceniche che hanno caratterizzato le messinscene del tempo. Pertanto, la documentazione figurativa, costituita da pitture vascolari, illustrazioni e […]
17 Dicembre 2022

Lotte H. Eisner. Un classico della saggistica cine...

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Per gli appassionati e i cultori di cinema e di teatro, l’agguerrita casa editrice Cue Press è una manna dal cielo. Il suo catalogo, tra i più interessanti nel panorama editoriale delle arti dello spettacolo per qualità ed estensione, continua ad arricchirsi di titoli. Di recente uscita è un classico della saggistica cinematografica, fondamentale per […]
12 Dicembre 2022

La fortuna di un gesto. I mille volti di Salomè d...

Chiara Molinari, «Theatron 2.0»

I mille volti di Salomè di Cesare Molinari – professore emerito dell’Università di Firenze, nonché tra i fondatori della disciplina di Storia del Teatro e dello Spettacolo e autore dell’ormai canonica Storia del teatro (Mondadori, 1972) – intende essere, secondo le parole introduttive dello studioso, «in primo luogo un testo di compilazione, cioè di memoria», […]
5 Dicembre 2022

Alla ricerca di Koltès segreto

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Carissimi genitori, è difficile alla mia età fare un complimento carino! Sono ancora così piccolo. Che il mio primo complimento potrebbe stare dieci volte in una pagina. Vi amo tanto e chiedo al Signore che vi dia sempre gioia e felicità. Bernard». Bernard Marie Koltès ha sette anni e scrive ai genitori il 1 gennaio […]
1 Dicembre 2022

Barabba. In scena l’opera di Tarantino a metà s...

Andrea Jelardi, «Proscenio», VII-2

Al Nest – Napoli Est Teatro – il 21 e 22 gennaio va in scena Barabba di Antonio Tarantino, esponente della drammaturgia contemporanea. Ombroso e solitario, ma anche poliedrico e innovativo, Tarantino è scomparso a ottantadue anni nel 2020 ed è autore di vari testi teatrali, tutti scritti in età matura dopo una lunga esperienza […]
1 Dicembre 2022

Samuel Beckett, Quaderni di regia

Antonio Tedesco, «Proscenio», VII-2

Uno scoop editoriale. Una scelta di pubblicazione raffinata dal punto di vista culturale, ma anche estetico. Preziosi tesori che solo la piccola e media editoria, con logiche di mercato diverse da quelle dei colossi editoriali, ci può a volte riservare. Erano rimasti inediti in Italia i Quaderni di regia di Samuel Beckett, preziosa testimonianza del […]
25 Novembre 2022

Gigi Giacobbe, Bob Wilson in Italia

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Mancava un libro dedicato allo spettacolo di Bob Wilson capace di darne ampia visibilità divulgativa, in aggiunta agli interventi critici di sapore specialistico e accademico. La lacuna è colmata da questo lavoro, agile e assai interessante, di Gigi Giacobbe, che ricostruisce gli allestimenti di Bob Wilson in Italia realizzati dal 1994 al 2022. Dichiara il […]
1 Novembre 2022

Beckett fra le righe. Appunti di lavoro

Pierfrancesco Giannangeli, «Hystrio», XXXV-4

Sentite questa: «Il teatro per me è prima di tutto svago dal lavoro sulla narrativa. Abbiamo a che fare con un certo spazio e con persone in quello spazio. Questo è rilassante». La frase la pronunciò Samuel Beckett parlando con Michael Haerdter, suo assistente per la messinscena di Finale di partita allo Schiller Theater di […]
1 Novembre 2022

Il corpo in testa

«Hystrio», XXXV-4

L’attività di Alessandro Garzella viene presentata tramite un lavoro difficile da definire, se non – forse – per via negativa, come nota Porcheddu nell’introduzione. E se il libro «non è un romanzo, non è un racconto, non è un saggio, non è un manuale, non è una testimonianza, non è un pamphlet, non è un […]
1 Novembre 2022

Tennessee Williams. Modernismo in t-shirt e i rinn...

«Hystrio», XXXV-4

Grazie ai suoi personaggi, eroi e antieroi che emergevano dal contesto dell’America del secondo dopoguerra, Tennessee Williams diede vita a un’estetica drammaturgica innovativa e rivoluzionaria. Attraverso l’analisi dei suoi personaggi, il volume disegna un ritratto a tuttotondo, umano e artistico, dell’autore statunitense di alcuni degli indiscussi capolavori della drammaturgia del Novecento.
1 Novembre 2022

Nel laboratorio creativo di Koltès

Diego Vincenti, «Hystrio», XXXV-4

«Non desidero che una cosa: essere capace di correre dei rischi», scrive Koltès nel marzo del 1968. Prima della rivoluzione. A neanche vent’anni. E proprio l’età acerba è al cuore della conversazione a distanza con la madre, per tutta la vita confidente privilegiata. È in quei giorni che il drammaturgo decide di dedicarsi al teatro. […]
1 Novembre 2022

Gassman. Oltre il palcoscenico

Pierfrancesco Giannangeli, «Hystrio», XXXV-4

Un Gassman a tuttotondo. Vittorio, attore poliedrico capace di cavalcare i mezzi che la sua epoca gli offre, esce vincitore grazie al ritratto che ne fa Arianna Frattali, nel senso che il suo essere attore totale – dalla voce straordinaria e dalla fisicità imponente – gli consente di dominare la comunicazione dei suoi anni. E […]
1 Novembre 2022

L’attore e il volto

«Hystrio», XXXV-4

Il volume raccoglie una selezione di saggi del critico europeo Leif Zern, mescolando ricordi autobiografici, recensioni a spettacoli teatrali, piccoli ritratti del mondo del cinema, analisi teoriche sull’arte attoriale. Da Ingmar Bergman a Lars Norén, fino ad autentici pilastri della tradizione scenica come Louis Jouvet, lo sguardo di Zern si sofferma sulla recitazione, l’immedesimazione dell’attore, […]
20 Ottobre 2022

Dedicato a chi crede che scrivere un monologo sia...

Marina Cappa, «Tortuga Magazine»

Qualche giorno fa, mentre stava sbarcando dall’aereo a Firenze, una telefonata gli ha annunciato che aveva vinto ventimila euro. I soldi contano, anche per gli scrittori. Ma ben di più pesa stavolta il valore artistico di questo Premio nazionale della letteratura drammatica 2022. Il ministero della Cultura spagnola lo ha assegnato a Josep Maria Miró, […]
17 Ottobre 2022

Milo Rau, Realismo globale

Maria Dolores Pesce, «dramma.it»

Che il Teatro sia o possa essere non solo aristotelica mimesi/rappresentazione ma soprattutto uno strumento per cambiare il mondo è oggetto di una riflessione antica che nella modernità si è fatta spesso più consapevole. Come l’alchimista sanguinetiano, il facitore di teatro combina in maniera singolare gli elementi della rappresentazione per produrre una materia estetica nuova […]