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6 Febbraio 2024

Ruby Cohn — Beckett: un canone. Intervista a Enzo Mansueto

Sergio Rotino, «Satisfiction»

Erano decenni che in Italia non si vedeva una simile attenzione verso l’opera di uno dei più grandi geni letterari che abbia prodotto il Novecento. Si vede che finalmente era tempo di dare a Cesare quanto gli spettava, quindi a Samuel Beckett quel che è di Samuel Beckett. E se il Meridiano mondadoriano, Romanzi, teatro e televisione — tradotto e curato da un beckettiano da sempre qual è Gabriele Frasca — ha aperto a una nuova stagione per quanto riguarda l’opera del genio irlandese, il titanico lavoro della imolese Cue Press ne spinge e sostiene la volata.

A questo si deve aggiungere l’essenza più ‘pop’ di Prima danza, poi pensa, biopic approdato nelle sale italiane da pochissimi giorni a firma James Marsh, con un Gabriel Byrne che interpreta un Beckett da adulto. In tale fermento si colloca il volume di Ruby Cohn, Beckett: un canone, pubblicato anch’esso da Cue Press (pp. 384, euro 39,99) per la cura di Enzo Mansueto. Saggio essenziale per meglio comprendere il lavoro di questo premio Nobel, curato con massima attenzione e cognizione di causa da Mansueto, il quale firma anche la traduzione e l’introduzione al lavoro della studiosa americana, amica intima di Beckett e decana dello studio delle sue opere.

Mansueto, che condivide con Frasca l’essere poeta, studioso, critico letterario e musicale e grande appassionato dell’opera beckettiana, ha lavorato con attenzione maniacale per rendere ogni possibile intenzione del testo originario. La Cohn, ricordiamolo, è la più assidua frequentatrice della scrittura di Beckett. Ne rimase abbacinata nel lontano 1953, quando frequentava l’università a Parigi, da dottoranda. In quell’anno, come lei stessa riferisce in apertura di libro, poté assistere alla prima di Aspettando Godot, evento sufficiente per convincerla a dedicare tutta la vita allo studio di quanto avrebbe prodotto Samuel Beckett fino alla fine della sua vita.

Abbiamo incontrato Enzo Mansueto per parlare del suo lavoro di curatela, ma non solo. Abbiamo parlato anche dell’importanza dei saggi della Cohn, di canone letterario e di questo meritato ritorno di attenzione, per quanto riguarda l’Italia, al lavoro di uno scrittore che più di altri ha segnato la letteratura, dal Novecento a oggi.

Come è nata l’idea di dare alle stampe il saggio della Cohn?

È nata dall’incontro produttivo tra Gabriele Frasca e il direttore di Cue Press, Mattia Visani, che aveva già avviato la coraggiosa impresa della pubblicazione in Italia dei quaderni di regia e dei testi teatrali riveduti di Samuel Beckett, a cura dell’ottimo Luca Scarlini. Libri di un interesse e di una bellezza, anche tipografica, sconvolgente. Sono testi considerati ormai fondamentali nel mondo intero, per lo studio e la messa in scena di Beckett. Per il contesto italiano, viziato da una discontinua ricezione dell’autore, potevano invece apparire una follia editoriale. L’editore, però, considerato il riscontro positivo dell’operazione, pare averci visto giusto. Come anche in altri casi.

Tipo?

Per esempio, con la pubblicazione, in tempi non sospetti, dell’opera drammaturgica e saggistica di Jon Fosse, Premio Nobel per la Letteratura 2023, che peraltro molti avvicinano alle poetiche beckettiane.

Gabriele Frasca, lo ricordiamo, è il traduttore e curatore del Meridiano Mondadori, appena uscito, dedicato a Beckett…

Non soltanto. Frasca, raffinato poeta, narratore, saggista, ha una consuetudine beckettiana che data ai primi anni Ottanta e i suoi studi hanno aperto spiragli innovativi nell’interpretazione dell’opera dell’autore irlandese. Per esempio, nell’ascolto delle risonanze testuali dei media elettrici, nel tracciamento delle oscillazioni multilinguistiche di un testo instabile, tra oralità e scrittura. Oppure nella costruzione del concetto di ‘arcigenere’, usato per definire gli esiti concettuali di quello che comunemente chiameremmo lo ‘sfondamento’ beckettiano dei generi letterari.
Il Meridiano da lui tradotto e curato, Romanzi, teatro e televisione, con le sue nuove traduzioni e i ricchi commenti, rappresenta davvero uno spartiacque nella vicenda della ricezione di Samuel Beckett in Italia.

Che da noi non sembra aver avuto grandi fortune.

Possiamo dire che Beckett, nei passati decenni, ha conosciuto sorti alterne in Italia, venate non di rado di superficialità, fraintendimenti o travisamenti.

Per quale motivo?

Uno scrittore ‘senza stile’ come Beckett ha fatto fatica a imporsi in una repubblica letteraria che su stile e arcadia linguistica ha edificato i propri bellimbusti, anche nel Novecento. Soprattutto, la penetrazione di Beckett – che è, di suo, autore tardivo, impostosi mondialmente a partire dagli anni Cinquanta, dopo il successo del Godot, e divenuto editorialmente appetibile solo col Nobel del 1969 – si è attuata in Italia in maniera pasticciata, in anni di neoavanguardie e di tetragoni ideologismi, che mal comprendevano questo irlandese erudito, post-joyceano, equilingue, incline a una autoriduttiva spoliazione del linguaggio e dello stile, all’apparenza secluso in un nichilismo apolitico e amorale. Il massimo che si è riuscito a fare è stato incasellarlo in etichette di comodo, oramai trite – il ‘teatro dell’assurdo’ o, al meglio, l’esistenzialismo o l’estenuato modernismo, cercando improbabili cuginanze o filiazioni. Sintomi di una critica pigra e miope, impantanata nei generi, nelle letterature nazionali, nei compartimenti stagni della pagina tipografata e del testo ben fatto.

Però non possiamo dire che l’Italia sia stata completamente immobile…

Certo che no: restano meritevoli e in qualche modo pionieristiche le traduzioni o le esegesi di Carlo Fruttero o di Aldo Tagliaferri, e non sono mancati altri interessanti contributi critici, così come non possiamo trascurare le svariate pubblicazioni dei testi beckettiani accolte nei decenni passati nei cataloghi Einaudi o SugarCo, come anche di altri editori. È però un fatto che gran parte di quei testi, anche quelli non secondari, risultano da tempo indisponibili in catalogo, espunti, cassati. Inoltre, su molti di essi proliferava già la muffa di traduzioni dubbie o, quantomeno, non aggiornate alla luce dell’enorme lavoro, critico e filologico che sull’opera di Beckett andava svolgendosi all’estero, in paesi dove semmai si registra il problema opposto, cioè una proliferazione sfrenata e fantasiosa di studi beckettiani. Tra gli ultimi, per dire, ci sono quelli su Beckett e il buddismo o su Beckett e David Bowie.

E qui si torna sul lavoro portato avanti da Frasca, che è, dicevi, uno spartiacque.

Il Meridiano tira effettivamente una riga su questa storia italiana di cui dicevo prima e favorisce, si spera, un rilancio d’interesse, non solo accademico, oltre che offrire una rinnovata e massiccia disponibilità di testi sul mercato. Peccato solo che i responsabili della collana mondadoriana non abbiano voluto assecondare il progetto originario del curatore di accogliere in un doppio volume l’opera completa di Beckett. Tuttavia, sullo sfondo dello scenario alquanto desolante che affrescavo, che tra i testi proposti ne manchino alcuni del canone beckettiano – le poesie, le prose brevi, i radiodrammi e qualche opera ‘minore’, peraltro reperibili in libreria – non è cosa gravissima ed è comunque scelta motivata in modo persuasivo nell’introduzione del curatore. Quello che abbiamo tra le mani è davvero un punto fermo, un’operazione editoriale unica al mondo.

Arriviamo a Beckett: un canone, il volume di cui firmi curatela, traduzione e introduzione per Cue Press. Scritto da Ruby Cohn, una delle massime conoscitrici del lavoro e della vita di questo grande scrittore, appare come una pietra miliare degli studi attorno alle opere beckettiane.

La Cohn è considerata da tutti e da sempre la decana degli studi beckettiani. Dottoranda americana alla Sorbona, appena trentenne ebbe la fortuna di assistere alla prima di En attendant Godot al Théatre de Babylone, opera di un misconosciuto pupillo di James Joyce, altro irlandese a Parigi.
Era il gennaio del 1953 e fu un vero colpo di fulmine. Da quel momento, Ruby, già dedita allo studio del teatro contemporaneo, decise di piegare non soltanto i suoi studi accademici, ma la sua vita stessa a Beckett. Tanto da diventarne nel giro di pochi anni, e sino alla fine, intima amica, confidente e consigliera, cosa che, considerata la proverbiale riservatezza di Beckett (che in verità, al di là del mito dell’incomunicabilità alienata, era persona assai amichevole e generosa nei rapporti), è assai significativa.
Il canone venne pubblicato in America nel 2001, dieci anni prima che la morte cogliesse la studiosa dopo lunga malattia – era stata colpita dal morbo di Parkinson, che l’aveva costretta a un inesorabile declino nel silenzio. Quell’impegnativo testo finale costituisce il coronamento di una vita di studi e di una passione inestinguibile. È in sostanza un attraversamento cronologico di tutta l’opera di Beckett, edita e inedita sulla falsariga della biografia, degli accertamenti filologici e di spunti confidenziali, condotto con uno stile colloquiale, condito di spirito, che davvero ci immette, come invitati dalla porta dello scrittoio, nella grande opera di Beckett. Insomma, scorrere queste pagine è un po’ come andare a braccetto con lui, dagli acerbi esordi negli anni Trenta sino ai testi terminali del 1989, tra alterne e coinvolgenti vicende, nei rivolgimenti del Novecento. In questo percorso, la Cohn traccia con gusto sicuro ed esperto un personale canone, invitandoci a fare altrettanto.

Usando un approccio direi molto personale…

Il suo è un approccio orgogliosamente umanistico, sostenuto da uno stile tutt’altro che formale o accademico e, soprattutto, con l’intenzione di restituirci l’immediatezza dei testi di Beckett al di là della nomea di inavvicinabilità, oscurità, difficoltà che l’opinione diffusa gli ha appiccicato addosso.

Non si può dire però che i testi di Beckett siano facili…

Certo che non lo sono. Come ogni sfida ai sensi, all’intelletto, al nostro posizionamento nel mondo deve essere. È questo, mi pare, il compito principale dell’arte.

Fermiamoci un attimo su questo punto, vuoi?

Intendo dire che il luogo comune della difficoltà dei testi di Beckett, come di altri autori considerati ostici e respingenti, deriva da un equivoco di fondo: non è l’oggetto testuale, la scrittura, l’opera drammaturgica o multimediale di Beckett a non essere in sé ‘semplice’, nel senso di disponibile alla ricezione. È piuttosto l’approccio del lettore, del consumatore, addomesticato alquanto da una produzione seriale, ammiccante, accomodante, a essere sempre più ‘semplicistico’, modellato su pigri cliché ripetitivi, che sempre meno dal testo esigono, in termini di coraggio poetico e di interazione faticosa e produttiva, la sola che ci cambia lo sguardo sul mondo. Vorrei essere massimalista, e affermare che oggi più che mai si vada divaricando una forbice tra ciò che va ingessandosi come letteratura (come intrattenimento, nel giochino rappresentativo e consolatorio della fiction, anche intelligente e avvincente, non dico di no… serve anche quello) e l’arte del discorso: radicale, essenziale, necessaria e che non ci consola delle nostre quotidiane repliche nel teatrino dell’Io. Insomma, se ogni tanto, aprendo un libro, si va in cerca di un marchingegno verbale che riposizioni le sinapsi come un cubo di Rubik, beh, con Beckett si ha pane per i nostri denti!

Perché cos’altro, allora, la lettura, la visione, l’ascolto delle opere di Beckett sarebbero necessari?

La questione è troppo complessa e articolata perché riesca qui a sintetizzarla. Ma alcuni punti voglio ugualmente sottolinearli. Innanzitutto, parliamo di qualcosa che ha a che fare con lo strato profondo, con la materia oscura della verbalità e dunque, in qualche modo, con l’innominabilità del nostro stesso stare o venire al mondo. Al di là di ogni equivoca mistica dell’inesprimibile, tutto il lavoro di Beckett – penso alla sua parola afasica, alla lallazione sottesa al suo balbettio, allo ‘sparolamento’ delle sue lasse verbali, alla regressione mimica della sua drammaturgia – sembra proteso all’emersione di una natura gestuale, formulaica, visuale, pre-verbale del discorso, cioè di quel codice culturale di cui come genere umano siamo in-formati. Tic, ripetizioni, giochi di parole, spiazzamento di soggetti, slittamento di voci narranti, di focalizzazioni, produzioni in lingue parallele di testi, che sembrano alludere a un imprendibile archetipo, tutto rimanda a un al di qua o al di là o al lato, forse, a un’ombra o un’eco della parola che, ripeto, non ha nulla di metafisico. Ha familiarità, semmai, e con una nota perturbante, con l’anteriorità inorganica – non cronologica, ma genetico-culturale, antropologica – del nostro esserci. In termini filosofici, direi che siamo nei pressi del silenzio wittgensteiniano, del secondo Wittgenstein e dei suoi giochi linguistici.
Quei rifiuti, quei corpi contorti e smembrati, quei paesaggi disumanizzati, quelle smorfie, quella putrescenza, quelle mutilazioni, quelle torture corporali sparse nei testi beckettiani, essi stessi spesso lacerti disanimati, non sono delle angosciate fantasie espressioniste, ma apparecchiatura dell’osceno, fuoriuscita dal teatro della rappresentazione, dalla pupazzata del teatro di prosa e della fiction narrativa e, ripeto, dello spettacolino quotidiano dell’Io, come forse nell’ultimo Carmelo Bene. Un teatrino che oggi il metaverso promuove e amplifica su un palco virtuale con agghiaccianti dimensioni globali e che, come il claustrofobico panopticon dello Spopolatore, addormenta ogni nostra resistenza. Ecco, per dirla in maniera tranciante, la lettura di Beckett è un atto sovversivo di resistenza allo sterminato condominio dell’Io e alle replicanti narrazioni stereotipate, che attaccano e colonizzano la nostra anima — qualunque cosa essa sia — come parassiti mass-mediali.

È per questo che nell’introduzione lo definisci un canone «pronto a farsi altro nelle mani del lettore, ogni volta»? Ed è questo a dare importanza al lungo lavoro della Cohn e a innalzare alle massime vette della letteratura l’opera di Beckett?

Esatto. Il libro della Cohn è certamente molto istruttivo e si propone come sussidio, anche divulgativo; un accompagnamento completo e affidabile alle opere di Beckett. Ma sin dall’articolo indeterminativo del titolo esso non pretende di imporre una lettura monologica, una interpretazione sistematica dell’opera omnia. Anzi, l’autrice dichiara più volte esplicitamente di rifuggire da una lettura critica olistica e unidirezionale, affidandosi invece alla descrizione puntuale, al commento, al dubbio, al suggerimento.
Soprattutto invitando il lettore a comporre da sé un proprio canone, inteso come provvisoria assegnazione di valore ai singoli testi dell’opera omnia, anche in relazione a mutati contesti artistico-culturali. Quegli straordinari congegni semiotici che sono le opere di Beckett si prestano magnificamente a questa operazione: inossidabili, sorprendenti a ogni rilettura, proprio perché geneticamente instabili, mai davvero compiuti, o forse mai del tutto nati. Come, traumaticamente, ciascuno di noi.

Parli anche, per quanto riguarda la Cohn, di un canone che non è «nell’accezione classica». Ti riferisci all’impianto saggistico, molto americano, molto divulgativo, di cui si diceva o proprio alla forza metamorfica dell’opera beckettiana?

No, mi riferisco banalmente all’accezione convenzionale, didattica, di canone, inteso come repertorio, elenco di opere e autori sicuramente rappresentativi di una letteratura nazionale, di un periodo, di un movimento ecc. Qualcosa che avrebbe a che fare con la normatività e anche con l’identità. In questo libro non c’è nulla di tutto ciò. Mi pare invece che il titolo della Cohn sottenda l’intenzione di tracciare rapporti di forza, gerarchie valoriali all’interno e, comparativamente, con l’esterno dell’opera completa, edita e inedita, di Beckett: un vaglio, una valutazione gerarchica, un setacciamento ragionato. Se vogliamo, l’indicazione dei punti alti, notevoli, grazie ai quali l’opera di questo grande autore si pone a noi come imprescindibile e, perché no, bella.

A parte l’idea di canone, la Cohn mi pare possa colpire il lettore italiano anche per il suo prediligere la comparazione all’interpretazione…

Comparazione, descrizione, florilegio, che sono pur sempre movenze discrete dell’interpretazione. Per essere incoraggiante, anche nei confronti del lettore curioso ma non esperto, direi che in questo corposo volume non trovano spazio sovrateorizzazioni ardite o impegnative astrazioni ermeneutiche, pur essendo, come dicevo, l’approccio dell’autrice tutt’altro che banalizzante o semplificatorio. La Cohn, lo dico ancora, ci accompagna sui luoghi secondo lei più significativi dei testi beckettiani e, dopo averceli presentati, ci lascia interagire con essi, rinviandoci anche a una messe ben documentata e citata di studi critici essenziali nonché, cosa più importante, alla lettura diretta dei magnifici testi beckettiani.

D’altro canto, la Cohn dà la sensazione di essere particolarmente gelosa della precisione del suo operato sui testi dell’autore.

C’è una nota di civetteria che incipria qua e là il testo, le cui ragioni sono sostenute però essenzialmente dall’autorevolezza dell’autrice, suffragata da un’amicizia vera con Beckett. Quando si tratta di sconfessare il giudizio critico o filologico di qualche collega, soprattutto donna, col quale è in disaccordo, la Cohn non la manda a dire e chiama spesso a testimoniare le indicazioni confidenziali privatamente fornitele dall’autore stesso.

Al netto di tutto questo, a tuo avviso cosa rimane sostanzialmente fuori fuoco, se così possiamo dire, in questo libro, rispetto al complesso dell’opera di Beckett?

Beh, qui interviene quel meccanismo di distanziamento e contrapposizione di gusto che la Cohn stessa esige dal lettore, invitato a farsi il suo proprio Beckett. Per quanto mi riguarda, anche da poeta, il dichiarato e argomentato ridimensionamento del lavoro in versi di Beckett mi ha lasciato sin dalla prima lettura perplesso. Per il suo spirito liquidatorio nei confronti di una produzione che invece rende esplicito quello che, nella mia lettura di questo grande autore, è un punto fondamentale.

Ovvero?

Ovvero che Beckett è sempre e da sempre ‘poeta’. Qualcuno cioè che, al di là di scelte di genere, medium, formato, lingua, mai definite o compiutamente definitive, ha comunque a che fare con l’arte del linguaggio e la costruzione di possibilità immaginative nella parola, come pianamente ci ricorda uno degli incipit che più amo, quello di Company: «A voice comes to one in the dark. Imagine». Che Frasca traduce: «Giunge una voce a qualcuno nel buio. S’immagini». Vere e proprie istruzioni a una disposizione poetica, dei sensi e dell’intelletto.

Da quanto ho letto, la Cohn si piccava di essere un elemento presente in alcune fasi creative di Beckett. Questa interferenza, questo essere parte del soggetto di studio, ha in qualche modo condizionato, interferito con il suo giudizio critico?

L’interferenza è dichiarata in partenza, e non è una pecca, ma un valore aggiunto. La Cohn ha accompagnato Beckett in diverse occasioni un po’ ovunque, e ne ha potuto osservare il lavoro registico o spiare il momento germinale di alcune idee e alcuni lavori. In alcuni casi, lei stessa, con suggerimenti ben accolti, ha ‘partecipato’ alla creazione. A lei si deve la raccolta dei piccoli saggi e lavori giornalistici di Beckett, con un inedito schizzo teatrale, Disiecta, tradotto da Tagliaferri in Italia nel 1991. Sempre a lei si deve inoltre la richiesta estrema nel 1989, a un Beckett prossimo alla morte, di volgere in inglese l’inclassificabile testo terminale Qual è la parola (Comment Dire/What Is the Word), nell’ultima attuazione del suo distintivo equilinguismo e sparolamento.

Se permetti, con l’ultima domanda, tornerei indietro di alcuni passi. A sostenere questa annunciata svolta beckettiana in Italia cui hai accennato, Cue Press ha intensificare la presenza di questo autore nel suo catalogo? Sono usciti altri titoli per questo marchio editoriale oltre a quello della Cohn da te curato?

Infatti, è così. Nel catalogo di questa casa editrice ha trovato posto la riproposizione della biografia di James Knowlson, Condannato alla fama: vita di Beckett, a cura dello stesso Gabriele Frasca. Un testo che aveva già curato nel 2001 con Giancarlo Alfano per Einaudi, la quale, a conferma delle disavventure editoriali di cui dicevo, ha pensato bene di privarsene… La considero, e non solo io, una delle biografie letterarie più belle degli ultimi tempi, nonché il testo riconosciuto universalmente come l’approccio primario all’opera e all’esistenza di un colosso come Samuel Beckett! Un vero capolavoro di dedizione e precisione, avendo nell’altra mano le nuove traduzioni e i puntuali commenti ai testi prodotti da Frasca.
Vi aggiungerei, con il suo carattere più introduttivo, per la sua forma più agile ma tutt’altro che banalizzante, il testo di Alan Astro, Capire Samuel Beckett, curato da Tommaso Gennaro, del quale trovate online affascinanti contributi sui rapporti tra Beckett e le arti visive. Ecco, inviterei ad affiancare la lettura di questi libri, per meglio apprezzare il lavoro della Cohn. Oltre che, ovviamente, quello di Samuel Beckett.

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3 Febbraio 2024

Intervista di Mario Mattia Giorgetti a Gigi Giacobbe, autore del libro Bob Wilson in Italia

Mario Mattia Giorgetti, «Sipario»
Gigi Giacobbe da oltre undici anni collabora alla rivista «Sipario», e puntualmente ad ogni stagione segue spettacoli in Sicilia e in varie città d’Italia compresi i Festival che vengono proposti.
Quando scopri il regista Bob Wilson e quale è stato il primo spettacolo che hai visto?
Bob Wilson non è solo un regista ma un artista totale per il quale ogni spettacolo diventa un’opera d’arte unica e da incorniciare. Io l’ho scoperto la prima volta non in Teatro ma durante la Biennale di Venezia del 1993 quando nei Granai delle Zitelle si rese protagonista d’una installazione denominata Memory Loss, nella quale appariva la figura di un uomo col cranio rasato, cinto da un elmo di pelle, infossato fino alle spalle dentro un cretto fangoso. Lessi dopo che l’opera s’ispirava ad una lettera che Heiner Müller scrisse a Wilson nel 1987, dove descriveva una tortura mongola per trasformare i prigionieri in schiavi, strumenti senza memoria, appunto interrandoli nella steppa ed esposti al sole che essiccava l’elmo di pelle di cammello restringendosi sempre di più attorno alla testa, sicché i capelli erano obbligati a crescere all’interno del cuoio capelluto e così dopo cinque giorni, se il prigioniero sopravviveva, perdeva la memoria diventando un lavoratore che non causava problemi. L’anno seguente, nel giugno del 1994, ebbi modo di conoscere personalmente Bob Wilson proprio nella mia città, Messina, grazie a Gioacchino Lanza Tomasi, a quel tempo direttore artistico del settore musicale, che aveva inserito nel programma di quella stagione Alice ispirato all’opera di Lewis Carrol con le musiche di Tom Waits e Wilson a dipingere lo spettacolo con le sue magiche luci. Ricordo che, affascinato oltremodo dai colori delle varie scene, riuscii nell’intervallo a intervistare Wilson e pubblicare l’articolo alcuni giorni dopo sul «Giornale di Sicilia», col quale collaboravo da alcuni anni e che è stato inserito nel libro a lui dedicato.
Quali sono gli altri spettacoli che hai seguito di Bob Wilson?
In quell’intervista accennata prima, Wilson mi diceva che stava preparando per il Festival di Gibellina, direttore artistico era Franco Quadri, uno spettacolo sulla figura di Thomas Stern Eliot e sul suo poema La terra desolata, sintetizzato con l’acronimo del suo nome e cognome, appunto T.S.E., andato poi in scena in prima mondiale nel settembre dello stesso anno (1994) nel Baglio delle Case Di Stefano di Gibellina Nuova, che gli spettatori potevano seguire in piedi tra cumuli di sabbia e da varie angolazioni, come riferisco in una delle mie recensioni inserite nel libro in oggetto. Da Alice e T.S.E. in avanti e sino al 2022 ho cercato di non perdere gli spettacoli di Wilson in qualunque Teatro italiano venissero rappresentati. In tutto se ne possono contare ventisei e si possono leggere di seguito nel libro.
Ci puoi spiegare il fascino, sia estetico, sia dei contenuti, sia drammaturgico, che hai provato per questo regista, al quale hai dedicato un libro?
Come ho scritto in varie occasioni, ogni spettacolo di Wilson è un evento, un unicum che t’infonde allegria e un senso di benessere. Hai la sensazione di compiere un viaggio nel mondo dei sogni dove ogni cosa si può compiere, devi solo lasciarti andare, rilassarti e avverti che gli occhi ti sorridono e le orecchie vanno in giuggiole. Niente è casuale. Tutto è programmato, studiato nei minimi particolari. Le quinte e il fondo scena assumono tutti i colori d’una tavolozza. L’azzurro eccelle sugli altri, ma non mancano le varie tonalità dei rosa e dei viola. Le scene poi sono rigorose, dritte, geometrizzate, raramente flessuose, mentre gli attori hanno un trucco pesante, espressionista direi, altre volte sembrano sculture della pop art, in accordo con i costumi, sempre perfetti, fantasiosi e rigorosi. Quanto poi ai loro movimenti seguono rigorosamente le direttive di Wilson in accordo con una recitazione astratta, senza enfasi, efficace tuttavia, preferendo lavorare in particolare con gli attori tedeschi del Berliner Ensemble che per Wilson sono i migliori in senso assoluto, avendo tuttavia con Isabelle Huppert un feeling particolare d’intesa e di stima. Del resto è lui stesso a dire che il suo Teatro è in gran parte formale, non interpretativo. È successo pure, alcune volte, che Wilson abbia vestito lui stesso i ruoli di alcuni personaggi, non trovandoli, a mio avviso, soddisfacenti nel panorama teatrale internazionale. Ed eccolo al Goldoni di Venezia calarsi da solo nei panni di Amleto, di Krapp nell’ultimo nastro di Beckett o tingersi tutto di bianco in Lecture on nothing di John Cage, quest’ultimi due messi in scena al Teatro Caio Melisso di Spoleto.
Secondo te il ruolo dell’attore, per Bob Wilson, è messo in risalto, cioè è protagonista, oppure viene ridotto a puro elemento figurativo?
Come dicevo prima il ruolo dell’attore per Wilson è prettamente formale, non deve essere spontaneo e la sua spontaneità deve risaltare dal fatto che esegue dei movimenti precisi, quelli indicati da Wilson. Forse questo metodo può essere frustrante per un attore con un carattere particolare e una personalità ben precisa. Ma è così, altrimenti non lavori con Wilson, per il quale, credo, che l’attore sia come un colore di un tubetto spremuto dalle sue dita, che verrà poi sparso sulla tela secondo i suoi desideri e come piace meglio a lui. Il Teatro per Wilson è il lavoro di un artista cui associa movimenti, parole, luci, suoni, immagini e dove possono incontrarsi tutte le forme d’arte, comprese la musica, la danza e la recitazione.
Trovi che Wilson sia al servizio della parola teatrale o di un linguaggio carico di effetti scenici?
Per i suoi spettacoli credo che Wilson parta sempre da un testo scritto, dove le parole raccontano una storia, come è successo per L’opera da tre soldi di Brecht, per l’Odissea di Omero e per gli altri suoi lavori, verso i quali lui interviene personalmente con l’aiuto di suoi collaboratori fidati che confezionano tutto il plot. Certamente poi lo spettacolo assume i connotati di cui ho accennato prima, dove l’illuminotecnica gioca un ruolo importantissimo, come quando d’un protagonista viene messo in risalto solo il volto illuminato di verde, di viola o di rosso o altre parti del suo corpo e le musiche, invero sempre originali e accattivanti (spesso quelle di Philip Glass, Hans Peter Kuhn, Tom Waits, Kurt Weill, Lou Reed, John Cage o dei CocoRosie di Jungle book, l’ultimo spettacolo visto alla Pergola di Firenze) danno un senso compiuto ai suoi spettacoli.
Hai dedicato un libro a lui, americano, e non a uno dei grandi registi italiani: Strehler, Ronconi e altro. Perché?
Ho pensato alla domanda che mi poni, ma come tu sai io abito a Messina e raggiungere Roma o Milano, Avignone, Parigi etc.. è sempre una fatica non soltanto fisica, soprattutto per gli spostamenti in treno o in aereo. Certo mi sarebbe piaciuto fare un libro su Strehler o Ronconi che ho conosciuto meglio e in varie occasioni e mi piacerebbe adesso fare un libro su Carlo Cecchi, col quale ci sentiamo per telefono, ma lui abita nella periferia romana e dovrei trasferirmi io da quelle sue parti visto che conosco il suo aspetto oblomoviano. Non lo so. Vedremo.
Dedicarsi ad un libro, lo si fa per dare una conoscenza verso i lettori, oppure per soddisfare il proprio ego di critico?
Credo che sia per entrambe le cose, sulle quali predomina, parlo per me, la mia curiosità innata. Conoscere l’altro è un modo per conoscere sé stessi, lo diceva pure Socrate mi pare, ma nel caso specifico è un modo per avere una conferma di ciò che pensi dell’altro, sia sulla scena che nella vita di tutti i giorni. Insomma la mia curiosità predomina sulla vanità verso i lettori. Nel caso di Bob Wilson, ad esempio, anche se ci siamo incontrati tante volte, mi è mancata la parte umana del suo carattere, sapere molto di più di ciò che viene narrato nelle sue scolorite biografie, questo anche per colpa mia visto che, a differenza del francese, conosco male l’inglese e non riesco a fare una normale conversazione.
Dopo la pubblicazione, quali sono gli eventi che hai messo in atto per diffonderlo, promuoverlo?
Una volta pubblicato il libro ho cercato di farlo conoscere nella mia città, Messina, presentandolo in un locale all’aperto che si chiama ’A Cucchiara, giusto accanto al centrale Duomo attraverso i commenti del critico Franco Cicero e di Dario Tomasello, docente di letteratura e Teatro nell’Università cittadina, leggendo l’attore Gianfranco Quero qualche pezzo del libro. È seguita poi la presentazione all’interno del Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari e certamente ci saranno altri luoghi dove presentare il libro.
Chi ha la distribuzione del libro e che tiratura ha fatto l’editore?
Prima di rispondere alla tua domanda, debbo dire che ero in apprensione circa la pubblicazione di questo libro, anche perché, tranne un testo di Franco Quadri, non è che esistessero libri su Bob Wilson. Ma ciò che m’incoraggiava era di sapere che nessuno lo aveva concepito nel modo che ho fatto io: quello cioè di riportare le recensioni dei suoi spettacoli in tutte quelle città italiane dove lui aveva lasciato il segno e io l’avevo seguito come un segugio. Sul modo poi come impostare il libro mi ero sentito con la mia amica Rita Cirio, noto critico teatrale de l’Espresso, e lei, incoraggiandomi, mi diceva che mi avrebbe inviato un articolo su Wilson riguardo ad una sua mostra di sedie a Parigi, (Wilson come è noto è un collezionista di tale oggetto), assieme ad una curiosa intervista fatta da Umberto Eco. Ho trovato poi tra le carte un articolo di Achille Bonito Oliva, che poi ho inserito nel libro e sono stato incoraggiato pure da una bella prefazione di Dario Tomasello e da una post-fazione, altrettanto bella, di Roberto Andò. Quando poi mi sono sentito per telefono con Mattia Visani, direttore della CuePress, che trovava oltremodo interessante pubblicare il libro, ho lanciato un grido di gioia. E così la CuePress ha distribuito il libro in tutta l’Italia, non conosco la tiratura che è stata fatta, ma credo che tutte le librerie, anche se non esposto in vetrina, come ha fatto Bonazinga di Messina, possono soddisfare ogni richiesta dei lettori. Collegamenti
31 Gennaio 2024

Beckett e l’arte seria dell’ironia

Giancarlo Visitilli, «Corriere del Mezzogiorno»

Com’è difficile parlare di uno dei più grandi drammaturghi, scrittori, poeti, traduttori e sceneggiatori del secolo scorso, Samuel Beckett. Difficile come parlare della luna, sosteneva lo stesso: «È così scema la luna. Dev’essere proprio il culo quello che ci fa sempre vedere». E sembra che Enzo Mansueto abbia fatto sue le parole e tutto il senso di un autore che non ha mai dismesso l’arte seria dell’ironia, curando lo straordinario Beckett: un canone di Ruby Cohn, in libreria per i tipi di Cue Press.

Mansueto, anch’egli scrittore, poeta, critico letterario e musicale, docente di lettere, dagli anni Ottanta impegnato negli studi sull’opera del drammaturgo irlandese, della monumentale opera di Cohn, oltre a curare la meticolosa traduzione, scrive la prefazione. Il volume è un vero e proprio scrigno che conserva studi accurati, esperienze teatrali e lezioni critiche, con un’analisi acuta e completa delle opere di Samuel Beckett. C’è tanto di poco o per nulla conosciuto, specie delle poesie degli esordi. Ma la bellezza di questa pubblicazione consta nell’avere fra le mani le opere beckettiane, con accanto un’approfondita ricerca filologica sulle stesse, mai disgiunta da narrazioni e aneddoti legati alla grande esperienza di amicizia fra Ruby e l’artista.

Ruby Cohn è stata una studiosa di teatro e docente di Comparative Drama presso la University of California. Nel 1953, ancora dottoranda alla Sorbona di Parigi, assistette alla prima di Aspettando Godot, un’esperienza che la spinse a dedicare la propria carriera allo studio delle opere di Beckett. Con il passare del tempo, sviluppò un legame intimo con lo scrittore irlandese diventandone un’amica stretta. Sin dal titolo di questo importante e completo studio sull’artista irlandese, ci si impressiona, trattandosi della proposta di un canone. «Mantenendo nel titolo l’articolo indeterminativo voluto dall’autrice –Mansueto fa riferimento alla Cohn – a rimarcare l’instabilità dell’opera complessiva, il rifiuto di ogni monologico schema esegetico, così come la provvisorietà di ogni rilettura, a fronte di un vaglio cronologico che indugia, inciampa, riflette su false partenze, fiaschi e opere abbandonate». Quasi a sottolineare anche l’impossibilità di racchiudere l’opera e la stessa poetica di un autore che si rinnova di lettura in lettura, di scena in scena.

È inquieto il pensiero di Mansueto rispetto a un autore poco amato dal «bel paese là dove’l sì suona». La storia della messa in scena di opere teatrali di Beckett in Italia, scrive il critico nella sua prefazione, «è alquanto contrastata e la frequenza si fa via via più esigua, anche per responsabilità dirette, in verità, di chi ne gestisce, con miope burocrazia questurina, i diritti». Straordinarie le pagine in cui si ammette il percorso singolare di Beckett nel comico: «La riduzione sintattica e verbale, lo scetticismo ingenuo e profondo sono tali che a volte la commedia sembra nascere solo dal ritmo. Poi afferriamo frammenti di senso, solleviamo un velo dopo l’altro, sbattiamo il cervello sulla finzione ancora e ancora, e torniamo al punto di partenza della risata isterica, forse per la nostra situazione. Se non fosse così patetico, potrebbe essere tragico».

E Mansueto scrive di una gamma del comico come «controparte del tragico». Con uno stile saggistico «umanistico», le pagine tradotte da Mansueto «hanno anche uno spiccato carattere didascalico e introduttivo, per quanto, soprattutto per i riferimenti ellittici a opere meno frequentate e per la trattazione alquanto allusiva dell’opera in versi, si richieda una conoscenza o, quantomeno, la consultazione, durante la lettura, dei testi trattati». Essendo la produzione beckettiana di vasta portata, è naturale che la stessa Cohn si accorga del sovvertimento dei generi, delle stesse gerarchie linguistiche, sempre messi a soqquadro e completamente reinventati. Leggendo (senza l’imprescindibile matita) Beckett: un canone, si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a un libro che non è saggio, ma conserva le emozioni del romanzo, facendo della vita dell’immenso artista irlandese la sua stessa opera d’arte.

Emozionano le parole di Mansueto, alla fine della sua prefazione: «Faceva freddo, quella sera di gennaio, nel 1953, a Parigi. La guerra non era lontana. Neanche oggi. Ma siamo sotto un sole che brucia, come in Giorni felici». Beckett aspetta un tempo che si rinnovi, e non sempre nel bene, ma fiducioso che Go- dot, nonostante tardi ad arrivare, lasci gli umani almeno vigili.

31 Gennaio 2024

Un estratto dalla prefazione «Faceva freddo a Parigi»

Enzo Mansueto, «Corriere del Mezzogiorno»

Quella del 5 gennaio 1953 fu una serata fredda, a Parigi. Questo, almeno, è ciò che riferiscono le memorie di chi c’era, nonché qualche vecchio giornale, oltre ai registri meteorologici. La mattina del nuovo anno la città s’era risvegliata sotto un inusuale manto di neve, a seguito di una tempesta che aveva spazzato il nord-ovest di Francia. Quella settimana nevicò persino in Costa Azzurra. Un tempo di tregenda, che andava avanti da giorni e giorni e sarebbe perdurato per alcuni giorni ancora. […]

Ruby Cohn era una studentessa americana di trent’anni, a Parigi solo da alcuni mesi. Nell’Europa del secondo dopoguerra, in una capitale di rovine, il contributo di Uncle Sam non si palesava soltanto coi dollari del piano Marshall per la ripresa, evidentemente. Dottoranda in letterature comparate alla Sorbona, Ruby […] alloggiava in una stanzetta, non riscaldata, di Rue Huysmans, quella via breve e residenziale del 6e arrondissement, che dagli anni Dieci sbuca sul Boulevard Raspail, oggi perfettamente in asse con la Tour Montparnasse, il controverso grattacielo inaugurato nel 1973. Quel monolite mastodontico, scuro e solitario nello skyline della Parigi da cartolina, non c’era ancora.

Una di quelle gelide mattine di inizio gennaio del 1953, risalendo di pochi passi il Boulevard Raspail, la dottoranda dell’Ohio, appassionata frequentatrice di teatri e bistrò, fu improvvisamente attratta da una locandina affissa al civico 38, all’ingresso del Théâtre de Babylone, teatro piccolo e non riscaldato, che annunciava la prima rappresentazione di un’opera scritta da un misconosciuto autore irlandese ‘compagnon de James Joyce’. Il debutto di En attendant Godot, meno clamoroso di quanto le bocche magnificanti della storiografia postuma e l’ornamento della leggenda non raccontino […], avrebbe impresso una svolta significativa all’opera e alla vita di Samuel Beckett (condannato alla fama!), così come agli sviluppi del teatro contemporaneo, nonché, in modo davvero determinante, alla vicenda, tanto privata quanto accademica, di Ruby Cohn…

30 Gennaio 2024

Intervista a Gabriele Frasca

Matteo Marelli, «Film TV», XXXII-5
L’occasione di dedicarci a Samuel Beckett e di confrontarci con Gabriele Frasca, poeta, massimo studioso italiano, curatore e traduttore del recentissimo Meridiano dedicato all’autore (Beckett – Romanzi, teatro e televisione), ci è offerta dall’uscita in sala di Prima danza poi pensa – Alla ricerca di Beckett, fantasioso biopic di James Marsh. «Fantasioso» perché il film si apre su un episodio mai accaduto, ma capace d’inquadrare il tormentato rapporto che Beckett ebbe con il trionfo: lo vediamo all’Accademia reale svedese commentare la vittoria del Nobel con un lapidario «Che catastrofe!». Nella realtà, non andò a ritirare quel premio. Perché, cosa temeva della «condanna alla fama»?

Temeva la disattenzione dall’opera. Comunque a esclamare «Quelle catastrophe!» fu la moglie, Suzanne Dechevaux-Dumesnil. Poi, come dici, Beckett non ritirò il premio, cosa che fece Jérôme Lindon, il suo editore francese. Decise comunque di presentarsi a patto di non rispondere a nessuna domanda e d’intrattenersi per le foto di rito il tempo necessario a fumare un sigaro. La scena, che venne poi replicata a favore di un’emittente svedese, la si trova su YouTube. Beckett non era contro il Nobel, anche se, attenzione, fu veramente tentato di rifiutare, ma per un motivo ben diverso da quello prospettato dal biopic: a rivelarcelo è stato uno dei suoi attori preferiti, nonché suo grande amico, Jack MacGowran – il professor Abronsius di Per favore, non mordermi sul collo! – che racconta di quanto Beckett si ritenesse ‘indegno’ di ricevere un’onorificenza che a James Joyce non venne mai data; quel Joyce col quale ebbe un rapporto molto più importante di quanto tratteggiato da Marsh nel suo film.

Nel saggio introduttivo del Meridiano riflette sulla «lenta inesorabile sparizione dell’opera» dal mercato editoriale italiano, ma non dell’autore, diventato una sorta di icona pop. Come si spiega quest’attenzione schizofrenica nei confronti di Beckett? Pensa ci sia qualcosa nella sua arte che oggi si preferisce rimuovere? Penso a quando scrive «in una società a trazione immaginaria il personaggio divenuto autocosciente è come se ci venisse a stanare».

Sicuramente è così. Quando Beckett apparve sulla scena francese con i suoi primi romanzi – perché è lì che si afferma – è stato immediatamente tradotto in italiano e le case editrici, pur vendendo poco le sue opere, si vantavano di averlo tra i loro autori, consapevoli della sua importanza sulla scena europea. Poi, a partire dagli anni Ottanta, è successo qualcosa che lo ha fatto progressivamente sparire dalle librerie italiane e questo qualcosa – che non ha interessato soltanto l’Italia – è la nascita dei grandi monopoli editoriali che, politicamente, hanno investito su tutto ciò che era semplice. Intendiamoci, è così ovunque, ma nelle altre nazioni la cultura considerata ‘alta’ viene comunque protetta. È triste per un autore che ha amato oltremisura l’Italia; l’autore che forse ha maggiormente letto e ‘usato’ Dante nel Novecento, tanto che una sua amica irlandese in una lettera gli scriveva: «Tu sei il più italiano dei nostri autori».

Un aspetto fondamentale è la natura intermediale dell’opera beckettiana: dalla poesia-narrativa alla drammaturgia, poi la radio (i lavori commissionati dalla Bbc per Third Programme) e, infine, la televisione. Per Beckett però non si è mai trattato di ‘tradurre’ la sua poetica per il diverso formato, ma di ripensare ogni volta il proprio fare a seconda delle specificità del mezzo con cui si andava a confrontare.

Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di committenze. Per la radio è stato così: la Bbc lo ha chiamato per chiedergli esplicitamente un radiodramma e Beckett, invece di spaventarsi, reagì super positivamente. Ma la cosa incredibile è che alla televisione Beckett è arrivato per i fatti suoi: è lui a scrivere un testo per la tv e solo dopo lo manda alla Bbc. Per questo Deleuze ha detto che la televisione lo aspettava come un destino, perché ci è arrivato autonomamente. A un certo punto ha avuto un’idea che non poteva essere per il teatro, ed è stato esattamente quando il suo teatro ha cominciato a utilizzare delle formule che sono tipiche della rappresentazione audiovisiva; basti pensare a Mica io dove sul palcoscenico si vede solo una bocca: quello che in tv sarebbe come un normale primissimo piano a teatro invece ci sconvolge. Beckett ha sentito che la televisione poteva diventare il mezzo della nuova realtà quotidiana e quindi bisognava ripensarsi in relazione a questo strumento, da qui le sue regie – firmate prima di diventare regista teatrale – per la rete televisiva tedesca Sdr. E questo succede in un momento in cui le televisioni dell’epoca, per spinta interna, sono rivolte a sperimentare il mezzo – in Italia succede con Carmelo Bene. Quando Beckett scrive L’ultimo nastro di Krapp coglie nell’utilizzo domestico del nastro magnetico quella tendenza, ora esplosa, di conservare memoria di sé («torna ancora, torna ancora», ripete Krapp), di scannerizzare ogni attimo della nostra vita. Intuisce che quei mezzi che inizialmente ‘subivamo‘ ci avrebbero poi abitato.

Tra i molti mezzi coi quali Beckett si è confrontato c’è anche il cinema, mi riferisco all’esperienza di Film. A riguardo di questo lavoro lei scrive una cosa molto interessante: che Beckett arriva a eludere il montaggio per costringere la macchina a divenire personaggio persecutore.

In quello stesso periodo realizza una messa in scena che si intitola Commedia in cui, grazie all’uso di un riflettore che s’illumina e si spegne inquadrando tre personaggi diversi, crea il montaggio a teatro e poi fa Film, comica tremenda e stralunata (che richiama i versi di una sua poesia: «il peggio/di faccia/finché/ridere faccia») in cui elimina il montaggio e trasforma in incubo l’atto della ripresa (un incubo di cui siamo complici poiché se quella ripresa si compie è perché c’è qualcuno che la guarderà). Oltre a essere un grande appassionato di slapstick comedy – oltre a Chaplin e Keaton, anche di Laurel e Hardy, come si intuisce da Aspettando Godot, perché Estragone e Vladimiro sono chiaramente Stanlio e Ollio – Beckett amava tutto il grande cinema, conosceva benissimo per esempio la scuola sovietica, tanto che nel 1936, non sapendo come condurre l’esistenza, scrive addirittura una lettera a Ejzenštejn per proporsi come aiuto regista. L’unico motivo poi per cui va in America è quello di poter realizzare il suo progetto cinematografico e a infiammarlo, più che la regia di Alan Schneider, è l’idea di lavorare non solo con Keaton ma anche, come direttore della fotografia, con Boris Kaufman, fratello minore di Vertov, che collaborò alla realizzazione di opere per lui fondamentali come Zero in condotta e L’Atalante di Vigo, ma anche di La parola ai giurati di Lumet.

Proprio a riguardo del cinema, ci sono autori che hanno saputo far tesoro della lezione beckettiana?

Sicuramente Losey, attraverso la mediazione di Pinter; Polanski: L’inquilino del terzo piano senza Beckett non si può immaginare. Polanski poi, che avrebbe voluto fare un film su Aspettando Godot ma venne dissuaso dallo stesso autore, ha interpretato nel 2012 il personaggio di Lucky per i sessant’anni della pièce. Poi, i volti di pietra del cinema di Kaurismäki. Ma se vogliamo andare oltre le situazioni, le suggestioni tematiche e le temperature emotive, citerei i Dardenne per l’uso della macchina da presa: la mdp che pedina i personaggi nei primi loro lavori ricorda quella che inseguiva Keaton in Film.

30 Gennaio 2024

Silenzio si legge!

Roy Menarini, «Film TV», XXXII-5

Con un po’ di cinismo si potrebbe dire che, in tempo di vacche magre per le serie tv, quelle culturalmente rilevanti si riconoscono perché meritano un libro. Stranger Things è una di queste e il densissimo volume internazionale a più voci, appena tradotto in italiano da Ludovica Peruzzi ed Elisa Pezzotta, esplora l’universo dei fratelli Duffer in lungo e in largo. Dal citazionismo alla cultura pop, dalla rappresentazione femminile alle interpretazioni politiche, sono numerosi i temi affrontati dal gruppo di studiosi (non solo critici e accademici ma anche scrittori e professionisti del cinema). Certo, la serie non ha ancora concluso il proprio corso, eppure questo volume ha tutta l’aria di essere completo e quasi definitivo.

24 Gennaio 2024

Juan Mayorga, Ellissi. Saggi 1990-2022, a cura di Enrico di Pastena

Veronica Orazi, «Artifara»
Il volume raccoglie conferenze, articoli, riflessioni e recensioni del drammaturgo Juan Mayorga, figura di assoluto rilievo nel panorama spagnolo attuale, come sottolinea in apertura del volume Enrico Di Pastena, nella sua introduzione Un drammaturgo filosofo per uno spettatore critico (pp. 10-19). Il titolo scelto dall’autore rimanda ai due elementi chiave della sua formazione e dei suoi interessi, la matematica da un lato e dall’altro la filosofia. Il libro riverbera il ruolo di Juan Mayorga attraverso testi di concezione e formato diversi, di carattere teorico e non finzionale, ascrivibili alla categoria letteraria del saggio. Redatti nell’arco temporale che comprende l’ultimo decennio del secolo scorso fino agli inizi della seconda decade del nuovo millennio, essi rivelano il legame col testo Rivoluzione conservatrice e conservazione rivoluzionaria. Politica e memoria in Walter Benjamin. La raccolta propone diversi ambiti di lettura ed è articolata in sei sezioni distinte: Fuochi, Assi, Intersezioni, Tangenti, Duo ed Ellissi di ellissi. Nella prima, sono presenti scritti che non trovano la loro origine nel teatro; la seconda, come in parte anche la prima, espone gli aspetti portanti dell’estetica mayorghiana; la terza tocca tratti connessi con la produzione teatrale dell’autore; la quarta descrive la coincidenza, per l’autore, di filosofia e teatro; la quinta raccoglie le riflessioni scaturite dal confronto col critico letterario Ignacio Echevarria; mentre la sesta si concentra su due opere teatrali brevi mayorghiane. Tutte riflettono il prisma di osservazione privilegiato attraverso il quale l’autore indaga la realtà: filosofia, critica, binomio cultura versus barbarie, Europa, campi di concentramento, memoria e teatro. Le prime quattro sezioni raccolgono contributi scritti nell’arco di trenta anni, fatto che permette di cogliere l’evoluzione dell’autore, transitato da uno stile ermetico e una maggiore limpidezza. Alcuni dei pezzi antologizzati conservano l’impronta dell’oralità, poiché si tratta di testi concepiti per la presentazione orale, che Mayorga ha scelto di lasciare invariati, senza modificarli nel momento in cui ha deciso di inserirli nella silloge qui presentata. Completano questa raccolta di materiali la trascrizione di una conversazione con Ignacio Echevarria e due piezas brevi inserite nell’ultima sezione, Ellisse di ellissi, che suggerisce la contiguità tra i contenuti concettuali del volume e la produzione drammatica dell’autore: si tratta di 581 mappe, basata sulla metafora cartografica, riproposta analiticamente in Cartografia teatrale degli spazi di eccezione, e connessa, in particolare, con l’opera teatrale Il cartografo, di cui mantiene la concezione meta-testuale; e Tre anelli, legata alla tradizione e incentrata sulle dinamiche ‘evento-interpretazione’ e ‘creazione-analisi’. Con andamento chiastico, lo stesso accadeva nella raccolta antologica delle opere teatrali di Mayorga, comprensiva di venti opere scritte tra il 1989 e il 2014, chiusa da Mio padre legge a voce alta, un contributo non drammaturgico inserito nel volume recensito (pp. 211-12). Il volume tratta temi variegati, come la libertà, la violenza e le sue manifestazioni, la cultura e la sua negazione, la storia e la memoria, l’Europa, Auschwitz e il teatro, quest’ultimo inteso come espressione artistica dell’incontro e dell’immaginazione, come uno spazio in cui esprimere la critica e concretizzare l’utopia. Insomma, il libro presenta contenuti vari, stratificati, compositi, ricchi di riecheggiamenti interni e temi e sotto-temi che, nel corso della lettura, riemergono con andamento carsico. Tutto ciò profila una riflessione profonda, manifestazione di un pensiero e di interrogativi che vertebrano l’intera opera drammatica di Mayorga, influenzate dall’inclinazione all’esattezza e alla sintesi, che l’autore assume dalla matematica ma anche dall’astrazione e dalla concettualizzazione desunte dalla filosofia, supportate da intuizioni che travalicano epoche e accidenti e nutrono la sua scrittura teatrale. L’esito è rappresentato da questo tomo pervaso di passione e costellato di spunti per la riflessione, che mette il lettore di fronte a quesiti ineludibili. Al contempo, però, la raccolta rivela anche gli autori con cui Mayorga dialoga e che si indovinano dietro alla sua attività di autore di teatro: Aristotele, Benjamin, Bulgakov, Calderón, Lope, Kantor, Kraus, Pasolini, Pinter e Tabori, tra i molti che si potrebbero menzionare. Questo aspetto è stato alimentato e consolidato dall’attività di adattatore di classici di Mayorga, che coniuga la fedeltà al passato con lo spirito del proprio tempo, meccanismo che traspare anche nelle sue piezas originali. La raccolta, però, richiama anche l’attività di registra teatrale del drammaturgo, a partire dall’allestimento delle sue stesse opere (si veda il saggio intitolato l’autore regista), ruolo che egli inizia ad assumere a partire dalla presentazione de La lingua in pezzi (2012). Nel teatro di Mayorga, dunque, lo si intende anche solo dalle brevi considerazioni precedenti, la parola risulta centrale, in linea con la teoria della ricezione e della riflessione postdrammatica, ossia, come uno spazio per il dibattito, per la critica, che coinvolge lo spettatore, svincolato ormai dalle costrizioni della mimesi. Insomma, un teatro che è esperienza condivisa, processo, manifestazione e impulso. Mayorga, però, si concentra anche sull’osservazione (dell’artista, dello storico, del matematico, del filosofo…) che associa il visibile all’invisibile, stabilendo nessi inediti. Per questo, l’ellissi viene presentata come dialogo potenziale, dialettica individuale e, al tempo stesso, collettiva, particolarmente evidente nel teatro. Il pezzo di apertura, Le ellissi di Benjamin, quindi, potrebbe essere considerato come una sorta di chiave di lettura dell’intero volume, l’idea che ne costituisce il nucleo centrale che si irradia sul resto dei contributi antologizzati come, del resto, sull’intera drammaturgia mayorghiana. L’approccio ellittico alla realtà e alla conoscenza, caratteristico dell’autore, testimonia il rilievo della filosofia e della figura di Walter Benjamin, di cui egli assume la visione della storia, la rivisitazione del passato e la percezione degli eventi che nega l’idea di continuum per rifarsi al frammento, ma che investe anche il concetto di traduzione con i suoi vuoti, il rapporto fra arte e politica, il potere di profonda rigenerazione riconosciuto al discorso critico, la dialettica fra cultura e barbarie, immagini concettuali come quelle di costellazione e di sciame, simboli come le cicatrici o le ceneri e molto altro ancora. Allo stesso modo, risulta assolutamente significativa l’interazione con la riflessione filosofica dello spagnolo Reyes Mate, per esempio attraverso la partecipazione al gruppo di ricerca su La filosofìa del Holocausto e al seminario Memoria y pensamiento en el teatro contemporàneo. Un altro aspetto chiave della raccolta è costituito dalla concezione del dubbio, a partire dallo stesso atto creativo, dal prendere la parola, atti potenzialmente esposti ai condizionamenti più svariati (si veda il contributo dal titolo Chi scrive queste parole?). È così che l’autore sprona il pubblico a interrogarsi su questioni delicate o scottanti, che lo vedono in realtà direttamente implicato, forse più come oppressore che come vittima, contribuendo idealmente a stimolare il pensiero critico negli spettatori e, dxmque, nei cittadini contemporanei. Rispetto all’edizione spagnola originale, la raccolta recensita integra Silenzio. testo letto dall’autore in occasione dell’ingresso nella Real Academia Española, in cui enfatizza e chiarisce il peso semantico del silenzio, dal valore materico oltre che ritmico. La carrellata proposta parte dall’Iliade e dai tragici greci per arrivare al teatro di Federico Garcìa Lorca, tra i quali sono intercalati esempi tratti da Kafka, Büchner, Calderón, Dostoevskij, Čechov, Beckett, tutti maestri di scrittura ellittica a creatori di figure che non dicono (perché non sono in grado o non osano). Ed è proprio questo che Mayorga ricrea in scena sfruttando la tensione di opposti. Vi è poi il pezzo intitolato La ragione del teatro, che si potrebbe quasi considerare emblema della poetica dell’autore. In esso, Mayorga articola la propria visione dell’atto teatrale, fondata sul patto stabilito col pubblico, che diventa quindi complice, più che compartecipe. Il teatro, infatti avviene nello spettatore, nonostante la dimensione assembleare dell’atto performativo della rappresentazione. Da qui, la rilevanza morale e politica del linguaggio teatrale, che potenzia la sensibilità e lo sguardo dello spettatore ma al contempo ne destabilizza le certezze, attraverso la spinta alla riflessione che ne rafforza la capacità critica. È così che Mayorga costruisce la propria estetica, a partire dagli apporti di Benjamin ma anche di Brecht, Cormann e Sanchis Sinisterra, tra gli altri. Un altro nucleo chiave della riflessione condensata nella raccolta è costituito dal teatro storico, inteso come preziosa rappresentazione di un’epoca destinata a un’altra epoca, che trascende dunque le proprie coordinate spazio-temporali per farsi ponte con altri spazi e altri tempi, in sostanza, con altri momenti contingenti. Ciò si concretizza nella rappresentazione del passato in un presente che la realizza, la attualizza e la offre al futuro in chiave di interpretazione risemantizzata. Sono riflessioni che investono anche il Teatro della Memoria, che parla del proprio tempo attraverso il recupero del passato. Come La rappresentazione teatrale dell’olocausto (p. 129), di cui Mayorga denuncia anche le mancanze (la manipolazione sentimentale del dolore, l’esibizione della violenza, ecc.) ma anche lI teatro storico spagnolo e Il teatro storico. Con Pasolini, invece, Mayorga concide sul concetto espresso dall’italiano nel suo Manifesto per un nuovo teatro, relativo al rinnovamento del linguaggio scenico, il Teatro di Parola, dall’azione contenuta e ridotta, popolato dalle idee. Con Silenzio e clamore in Gigi dell’Aglio, poi, l’autore rende omaggio all’artista scomparso, cui si devono alcuni allestimenti delle sue opere, per esempio di Himmelweg e di Hamelin, e di otto piezas brevi tratte da Teatro para minutos. In sostanza, nelle sei sezioni di Ellissi, il lettore reperirà spunti di riflessione civile, filosofica e anche estetica, che riflettono il profilo del Juan Mayorga drammaturgo ma anche e specialmente pensatore. Secondo le parole dell’autore, per quanto i testi raccolti nel volume siano stati scritti o pronunciati in momenti diversi della sua traiettoria di pensatore e creatore, egli non ha mai ceduto alla tentazione di riscriverli, per lasciare attraverso di essi testimonianza diretta e fedele di un determinato momento della sua esperienza esistenziale o artistica. Al contrario, la scelta relativa all’ordine interno al volume di questi materiali riflette l’attualità dell’autore, in un rapporto di collaborazione con il curatore, il cui obiettivo ultimo di dare vita a una sorta di conversazione, a un dialogo col lettore.
22 Gennaio 2024

Beckett, il genio che spaventa

Sandra Petrignani, «Il Foglio»

Samuel Beckett morì il 22 dicembre 1989 a ottantaquattro anni non ancora compiuti (era nato nell’aprile del 1906) e fu sepolto al cimitero di Montparnasse, il quartiere parigino dove viveva, accanto alla moglie Suzanne Deschevaux-Dumesnil, morta cinque mesi prima. La sua tomba fu per settimane ricoperta di fiori e biglietti improvvisati in tante lingue diverse del mondo, cinese e giapponese comprese, a testimoniare un amore planetario che può stupire per uno scrittore schivo, solitario e poco letto quale è sempre stato. Ma se non fu mai un eroe dei botteghini, né come autore teatrale né per le scarse vendite dei suoi libri, era però circonfuso di un’aura particolare che le persone avvertivano anche solo contemplandone in fotografia la figura ascetica e i formidabili occhi celesti. «Occhi impassibili, ma luminosissimi e stellari» li definì la pittrice Giosetta Fioroni che da giovane lo conobbe a Parigi rimanendone affascinata, come inevitabilmente accadeva a chi riusciva ad avvicinarlo, donne o uomini che fossero. E’ uno dei paradossi che accompagnano la vita di un autore cui sono state attribuite etichette certo non invoglianti, come ‘cantore dell’incomunicabilità’, e del silenzio e della morte e dell’assurdo, ma che, libero da qualsivoglia ideologia letteraria, si è sempre preoccupato unicamente di tradurre in parole il suo personale disagio di essere nato per morire. Parole scarne ed essenziali, questo sì, e più procedeva nell’età più le parole si facevano scarne ed essenziali. Con una coerenza estrema rispetto al suo carattere, in stretta sintonia con ciò che intendeva esprimere. Ed è questa radicalità a vincere sul tempo che passa, sulle mode che cambiano e persino sulla disaffezione attuale verso scrittori considerati ‘difficili’. Ma il vecchio Sam non è difficile, è inflessibile. E chi arriva a cogliere questo, finisce con l’amarlo sfrenatamente. Come accadde quando, il 19 maggio 1983, la televisione tedesca mandò in onda la breve pièce Nacht und Träume modulata sulle ultime sette battute dell’omonimo Lied di Schubert e ispirata con grande probabilità al quadro Orazione nell’orto del fiammingo Jan Gossaert che Beckett aveva visto a Berlino rimanendone impressionato. Furono circa due milioni gli spettatori che, altrettanto impressionati, quella notte rimasero incollati allo schermo scuro in cui affioravano in dissolvenza i volti pallidissimi dei protagonisti.

La figura ascetica e i formidabili occhi celesti, «impassibili, ma luminosissimi e stellari» li definì la pittrice Giosetta Fioroni

  
Potrebbe essere un’occasione in più adesso, per avvicinare uno scrittore tanto sconcertante, il biopic Dance First, distribuito dal primo febbraio. In italiano: Prima danza, poi pensa. Scoprendo Beckett di James Marsh, con Gabriel Byrne nella parte del protagonista, Sandrine Bonnaire nei panni di Suzanne e Aidan Gillen in quelli di Joyce. Anche se già il titolo appare una forzatura, una citazione vagamente ribaltata da Aspettando Godot. Ma staremo a vedere. Intanto si legge nel lancio pubblicitario: «Beckett rievoca gli eventi salienti della sua vita in un dialogo immaginario con la personificazione della sua coscienza, lasciando emergere i temi e le riflessioni che hanno reso grandi le sue opere. Ne risulta un ritratto poco conosciuto della sua personalità: buongustaio, solitario, marito infedele, combattente della Resistenza francese e anche grande amico di James Joyce». Il film si apre sulla catastrofica notizia del Nobel assegnatogli nel 1969. La comunicazione gli arrivò mentre era con Suzanne in vacanza in Tunisia e sembra fosse lei a rispondere al telefono e a reagire alla notizia con un «che catastrofe!» interpretando perfettamente i sentimenti del marito, il quale – come al solito – si rifiutava di incontrare i giornalisti. Jérôme Lindon, l’editore dei suoi libri in Francia per Minuit e suo amico, è costretto a precipitarsi in Tunisia all’Hotel Riadh, ormai assediato dai cronisti, e patteggiare con loro: niente interviste, solo qualche fotografia. Sarà poi Lindon a ritirare il premio a Stoccolma. Del resto, Sam aveva stabilito con i suoi principali editori, pensiamo all’americano Barney Rosset della Grove o al tedesco Peter Suhrkamp per dirne due, un rapporto particolare di fiducia e amicizia: loro non potevano contare su di lui né per le vendite, sempre poco entusiasmanti, né su nessun tipo di pubblicità, ma si sentivano speciali e orgogliosi di essere i suoi editori.

Il lancio del biopic Dance First, «un ritratto poco conosciuto della sua personalità: buongustaio, solitario, marito infedele»

  
Gabriele Frasca, curatore e traduttore del Meridiano dedicato a Samuel Beckett uscito di recente da Mondadori, parla nell’introduzione al volume di «galassia Beckett»: «Perché nessun autore – così tanto intransigente nella sua fedeltà all’arte – è mai riuscito al pari del nostro a raccogliere in vita intorno alla propria opera lo stesso numero sorprendente di entusiasti editori, e poi registi, attori, funzionari radiotelevisivi, e naturalmente critici, accademici o no. Un vero e proprio miracolo». Perché poi, dietro alla sua irriducibile intransigenza, Sam era una persona gentile, affettuosa, attenta a non ferire, presente quando una persona aveva bisogno di aiuto. Le tante lettere che scrisse nella sua vita ne sono la prova. Sono raccolte in quattro volumi a cura di Franca Cavagnoli per l’Adelphi. Già usciti i primi due, relativi agli anni 1929-1940 e 1941-1956, mentre è attualmente in preparazione il terzo: 1957-1965, testimonianza preziosissima di un momento cruciale nella vita dello scrittore che mentre compone opere teatrali fondamentali quale L’ultimo nastro di Krapp, Giorni felici, Play (che sarà poi musicata da Philip Glass) ha una grossa gatta da pelare sul piano sentimentale. Fedele non era mai stato, ma era di quelli che riescono a tenere in piedi relazioni parallele senza scontentare nessuno. Solo che, improvvisamente, la sua amante fissa ormai da qualche anno, Barbara Bray, funzionaria della Bbc, vedova e madre di due bambine, decide di trasferirsi da Londra a Parigi. Per stargli più vicino? Per forzare la situazione e costringerlo a lasciare Suzanne? Nelle lettere Sam s’interroga se rompere con Barbara, ma alla fine trova una soluzione migliore, una soluzione tipica di uomini del suo stampo, che vivono sulla corda, sempre in procinto di precipitare riuscendo a non farlo mai. Farà contente entrambe le sue donne: sposerà Suzanne, più vecchia di lui di sette anni, per assicurarle l’eredità dei diritti d’autore nel caso della propria morte, e aiuterà Barbara a sistemarsi a Parigi continuando la doppia relazione anche più tranquillamente di prima e per il resto dei suoi giorni. Scontentando tutte e due in realtà, ma senza rendersene apparentemente conto. E non è un caso di certo che in Giorni felici ci sia una coppia: Winnie, interrata fino alla cintola e poi fino al collo in una montagnola di terra accanto al marito, il taciturno Willie, e lei non fa che parlare ottenendo da lui, intento a leggere il giornale, rare risposte distratte che non sono vere risposte, ma interlocuzioni rapidissime, punti interrogativi, grugniti. E’ questo il ritratto di una coppia felice secondo Beckett?

La moglie, l’amante e «Giorni felici», con Winnie, interrata fino fino al collo, e il taciturno Willie. E’ questo il ritratto di una coppia felice?

  
La famosissima commedia è naturalmente compresa nella scelta di Frasca per il Meridiano. Il titolo Romanzi, teatro e televisione indica quanto al curatore interessi l’impegno multimediale dello scrittore irlandese che trovava radio e televisione, e anche il cinema una volta – con Film del 1965, interpretato da uno strepitoso Buster Keaton – congeniale alla propria espressività visiva e sonora. Con Quad del 1981, «pièce per quattro interpreti, luci e percussioni», arriva ad abolire le parole per sostituirle con un complesso congegno di movimenti degli attori in scena, costretti camminando a disegnare un quadrato e le sue traiettorie interne, mentre fanno vibrare ognuno uno strumento: un tamburo, un gong, un triangolo, un woodblock. E se dalla scelta di Gabriele Frasca mancano i saggi (persino il famoso Proust della giovinezza) e mancano alcuni testi forse non proprio minori e manca interamente la poesia, un testo poetico c’è a chiudere il libro, perché cronologicamente ultimo. Si tratta di Comment dire (in inglese, per volere dello stesso autore, What Is the Word) in cui Sam si interroga ancora e sempre: «…qual è la parola – / vedere – / intravedere / credere d’intravedere – / voler credere d’intravedere…»
E certo non è stato un lavoro semplice nemmeno la ritraduzione, dello stesso curatore, beckettiano della prima ora, di tutti i testi compresi nel Meridiano che vanno dai romanzi alle più famose opere teatrali da Murphy all’Innominabile, da Aspettando Godot a L’ultimo nastro di Krapp a tanti testi brevi e brevissimi. Beckett aveva studiato lingue al Trinity College di Dublino. Sapeva perfettamente il francese, e infatti decise a un certo punto di rinunciare all’inglese per il francese in parte per complicarsi la vita misurandosi con una lingua non perfettamente padroneggiata, almeno all’inizio, ma soprattutto – e ancora una volta – per la stretta relazione in cui metteva letteratura e vita. In Francia, durante la guerra, si era impegnato nella Resistenza (e ne avrebbe avuto anche una medaglia). Scrive Frasca: “Eleggendo per la propria opera il francese a guerra conclusa, Beckett ha scelto in verità di dare seguito alla lingua del suo impegno, intellettuale e politico. La ‘frenesia di scrivere’ che lo colse fu allora quasi una reazione immunitaria scatenata dalla lingua fraterna che gli aveva infettato la propria, e che lo avrebbe condotto, come ha ribadito Maurice Blanchot, ‘oltre i limiti della letteratura’”.

Uno dei suoi paradossi è di non essere minimamente intellettuale e di riuscire a dire l’essenziale con un pathos che per sua natura invade il terreno del comico

  
Ma Sam non conosceva solo il francese. Leggeva l’adorato Dante in italiano, parlava il tedesco, si intendeva anche di spagnolo, studiato da autodidatta. Quando un suo testo composto in francese doveva uscire in Inghilterra se ne occupava in prima persona. Ma in inglese l’opera non restava la stessa, perché la tentazione di riscrivere era troppo forte. E un traduttore che fa? Salta da una lingua all’altra, assimila, sceglie, interpreta… E quando si trattava di un testo teatrale, c’era da impazzire. Beckett partecipava al lavoro di messinscena, arrivando a un certo punto a occuparsi lui stesso della regia. Naturalmente, nel passaggio dalla pagina al palcoscenico, il testo veniva rivisto, corretto, riscritto. Quale sarà allora la versione definitiva? La prima, le successive? Se si sfoglia l’interessante Quaderni di regia e testi riveduti (relativi a Aspettando Godot e curato da Luca Scarlini per Cue Press nel 2021) si ha l’idea precisa e vertiginosa di come Beckett lavorasse sulle sue creazioni. Era preciso, maniacale, spesso indeciso. Torna e ritorna su un particolare, cambia, ripristina, cambia di nuovo, per riposizionarsi, magari, al punto di partenza. E’ attento a ogni piccolo gesto dei personaggi in scena, alle luci e alle ombre che dovranno investirli. Coglie il dettaglio come dovesse ritagliarne ogni volta i contorni dentro un’inquadratura. Come scrive James Knowlson nell’introduzione a questi Quaderni, la struttura letteraria di Beckett è sempre poetica, «costruita sui principi di eco, equilibrio, ritmo». Knowlson fu amico di Sam per più di vent’anni e ne divenne l’unico biografo autorizzato pubblicando qualche anno dopo la sua morte il bellissimo ritratto Damned to Fame, una biografia che in italiano fu tradotta da Einaudi, ormai disponibile solo su eBay. Condannato alla celebrità sì, mentre non chiedeva altro che di essere lasciato in pace fra le sue parole finali e i suoi fantasmi, magari ad annotare il dialogo fra Estragone e Vladimiro come fosse una poesia: «Tutte le voci morte. / Che fanno un rumore d’ali. / Di foglie. / Di sabbia. / Di foglie. Silenzio. Parlano tutti insieme. / Ognuno a sé stesso. Silenzio. Secondo me sussurrano. / Frusciano. / Mormorano. / Frusciano».

Chi si avvicinasse a Beckett per la prima volta potrebbe, dopo tali premesse, allontanarsene subito spaventato. Ma un altro dei paradossi di questo scrittore unico e irripetibile è di non essere minimamente intellettuale e di riuscire – nella cancellazione di trame tradizionali e nella riduzione all’osso del comunicabile – a dire tutto l’essenziale con un pathos, una disperazione, una radicalità estreme che per loro intima natura, inevitabilmente, spesso, invadono il terreno del comico. Leggerlo è un’esperienza dello spirito, più che della mente. Senza significati reconditi, senza simbologie o rimandi ad altro che non sia il qui e ora della parola scelta. «Simboli non ci sono dove non c’è intenzione» è la frase finale di Watt. E in Worstward Ho: «Dire un corpo. In cui niente. Niente mente. In cui niente. Almeno questo. Un luogo. In cui niente. Per il corpo. Per esservi. Per muovervisi. Andarne. Tornarne. No. Niente andate. Niente ritorni. Solo esservi. Restarvi. Ancora. Fermo».

Il miracolo poi è che tanta immobilità ottenga nel lettore e nello spettatore sensibili una risposta emotiva forte, davvero come in una danza (e qui riabilitiamo il titolo del film in arrivo) o come riesce a suscitare soltanto la musica oppure l’uso originale della lingua. La lingua di cui già nel 1937 scriveva a un amico: «Scavarci dentro un buco dopo l’altro finché ciò che vi sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare – per lo scrittore di oggi non so immaginare un fine più alto. Oppure la letteratura deve restare indietro da sola lungo il vecchio e fetido cammino abbandonato ormai da tempo da musica e pittura?». Aveva trent’anni e già chiara la linea che avrebbe dato al suo lavoro, sulle orme di Joyce in un primo momento, ma per distaccarsene radicalmente e diventare soltanto sé stesso.

Si trova in rete un raro filmato amatoriale che gli è stato rubato a Berlino nel 1969. Lo si vede procedere dondolante sulle lunghe gambe, chiedere informazioni per strada, leggere il giornale seduto al bar avvicinando molto le pagine agli occhi in un modo buffo da miope, accompagnarsi sorridente e ciarliero a una giovane donna piccola e bruna, Barbara forse, o una delle tante che corteggiava e a cui non sapeva resistere. E’ un uomo qualsiasi, leggero, persino felice di vivere, di passeggiare, di sorridere. Un Beckett umano dentro la divinità austera che si tramanda.

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19 Gennaio 2024

«Il cinema, questione di vita o di morte: spezzai Brando»

Bernardo Bertolucci, «Il Fatto Quotidiano»

Anticipiamo stralci di Scene madri, il memoir di Bernardo Bertolucci con Enzo Ungari, in libreria con Cue Press.

«Vorrei poter parlare di cinema senza paura di raccontare aneddoti, usando molto la prima persona, senza vergogna e con molto affetto per qualche non sense a cui sono affezionato. So che la cosa può risultare oltraggiosa, perché in Italia il desiderio segreto ma evidente dei critici è un regista muto, che faccia film e se ne stia zitto. Personalmente trovo appassionanti le riflessioni dei cineasti sul proprio lavoro, così primarie a volte da sfiorare il sublime, così magnificamente riduttive, deliranti o imbarazzanti da far arrossire, ma così complementari ai film, parole liquide che risciacquano i corpi dei film. Per me, comunque, il cinema è questione di vita o di morte.
Giorni fa io e mia moglie siamo andati al cinema, a vedere un vecchio Hitchcock, Murder! (1930). Improvvisamente mi sono ricordato che Herbert Marshall, il protagonista, era morto e che anche la maggior parte degli attori del film probabilmente non ci sono più. Vedo vecchi film molto più spesso che non film nuovi, ma non avevo mai provato questa emozione così disarmante. Forse è stata l’eleganza di Marshall, lo spleen del suo stile, la sua andatura lievemente claudicante, a farmi questo effetto. Murder! parla di un delitto miracolosamente in bilico tra uno spettacolo teatrale e quello che avviene dietro le quinte, ma a me parlava soprattutto dello scandalo del cinema che sottrae la vita al suo scorrere. Bazin scrive che il cinema è come l’arte egizia dell’imbalsamazione, Cocteau lo chiama «la morte al lavoro». Sono modi diversi di alludere a quell’imbarazzante segreto che tutti i cineasti conoscono benissimo: un piano-sequenza è un pezzo di vita, che fingendo di informare lo spettatore lo interroga per manipolarlo meglio, lo invade e lo rende complice e correo di un crimine…
Ho sempre desiderato incontrare una donna in un appartamento deserto, che non si sa a chi appartiene, e fare l’amore con lei senza sapere chi è, e ripetere questo incontro all’infinito, continuando a non sapere niente. Ultimo tango è lo sviluppo di questa ossessione molto personale (e forse banale). La sceneggiatura era costruita nei minimi dettagli. Soltanto a partire da una costruzione estremamente elaborata posso abbandonarmi all’improvvisazione. Ultimo tango in fondo è un film completamente hollywoodiano, è cinema-verità ricco. Poco dopo l’inizio delle riprese, se dovevo parlare dei due personaggi, non dicevo più Paul e Jeanne, dicevo Marlon [Brando, N.d.R.] e Maria [Schneider, N.d.R.]. Il contributo che hanno dato al film è stato enorme, incalcolabile, perché non sono stati loro ad aderire ai personaggi, sono stati i personaggi a diventare loro… Nel corso delle riprese, Marion e Maria si sono sostituiti ai personaggi scritti sulla pagina, ne hanno integralmente preso il posto. Quando Marion racconta la sua infanzia, è la sua vera infanzia, con sua madre sempre ubriaca, e l’ombra di un padre virile e violento, in qualche posto nel Nebraska.
Brando, fin dall’inizio, si è reso conto che aveva la possibilità di abbandonarsi e di andare aldilà di quello che gli veniva solitamente richiesto, e che lui sa ripetere così bene: la lezione dell’Actors’ Studio. All’Actors’ Studio aveva imparato a sentirsi un altro, a diventare un uccello o un albero, e quello che il cinema di solito chiede a un attore è proprio di entrare nella pelle di un altro. Io invece gli ho chiesto di portare dentro il film tutta la sua esperienza, tutto il suo vissuto di uomo e di attore. Diventare Paul non doveva significare smettere di essere Brando. E quando mi sono reso conto che capiva, ho chiesto a Paul di essere Marlon, e non viceversa. Alla fine del film mi ha detto più o meno: ‘Non farò mai più un altro film come questo. Non mi piace fare l’attore ma questa volta è stato peggio. Mi sono sentito violentato dall’inizio alla fine, ogni giorno, in ogni momento. Ho sentito che tutta la mia vita, le mie cose più intime, i miei figli, tutto mi è stato strappato fuori’. Poche settimane dopo la fine delle riprese aveva riguadagnato i dieci chili che gli avevo fatto perdere. Non sono sicuro che abbia visto il film finito…
Brando all’inizio è un personaggio brutale e aggressivo, che subisce lentamente un processo di devirilizzazione, fino a farsi sodomizzare dalla ragazza. Così ‘mettere in scena’ è ‘mettere in culo’, ‘prendere coscienza’ è ‘prendere in culo’. Brando precipita indietro fino alla morte, a una morte che è una nascita paradossale. Quando giace morto sul balcone, la sua posizione è quella di un feto».

1 Aprile 2023

Umberto Orsini, Le memorie di Ivan Karamazov

Antonio Tedesco, «Proscenio»

Può un attore trovare se stesso, la propria storia artistica, e forse umana, in un personaggio che lo ha particolarmente segnato? E nel quale gli pare di specchiarsi, provando al tempo stesso attrazione e repulsione? Un personaggio che si trasforma in un universo da esplorare e del quale non si riesce mai a vedere la […]
1 Aprile 2023

Kore’eda cinema della memoria

Matteo Boscarol, «Alias — Il Manifesto»

Nei più di trent’anni di carriera e specialmente nell’ultimo decennio, dopo cioè la conquista della Palma d’Oro con Un affare di famiglia nel 2018, Hirokazu Kore’eda si è affermato come una delle voci più importanti eseguite nel panorama cinematografico internazionale. Il suo ultimo lavoro, Monster, il primo tratto da un soggetto non suo, sarà con […]
31 Marzo 2023

Un romanzo di santi e buffoni. Intervista a Franco Perrelli

Ludovico Cantisani, «Mimesis-Scenari»

Franco Perrelli, professore ordinario, ha insegnato Discipline dello Spettacolo nelle Università di Torino e di Bari. Ha vinto il Premio Pirandello 2009 per la saggistica teatrale ed è stato insignito dello Strindbergspris della Società Strindberg di Stoccolma nel 2014. Fra le sue recenti pubblicazioni si segnalano: Le origini del teatro moderno (2016), Poetiche e teorie […]
30 Marzo 2023

Il Romanzo teatrale di Bulgakov e Elogio del disordine di Louis Jouvet editi da Cue Press

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Due pubblicazioni di Cue Press: Romanzo teatrale di Bulgakov, nel quale il romanziere traccia in modo ironico il profilo di Konstantin Stanislavskij, e Elogio del disordine di Louis Jouvet, con le sue considerazioni sull’arte dell’attore e sul teatro. Collegamenti
19 Marzo 2023

Potere mediceo e teatro negli studi di Zorzi

Luca Scarlini, «Corriere Fiorentino»

Ludovico Zorzi (1928-1983) dalla natìa Venezia giunse a Firenze negli anni Settanta, dopo una lunga esperienza nelle attività culturali Olivetti, avendo svolto compiti come recensore e introducendo numerosi volumi della prestigiosa collezione di teatro Einaudi, da La Veniexiana, a Ruzante, a Goldoni. Fondatore in Italia della storia dello spettacolo, insieme a Cesare Molinari ed altri […]
18 Marzo 2023

Stanley Gontarski, Tennessee Williams

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Mancava in Italia un saggio monografico dedicato a Tennessee Williams, fondamentale autore noto per commedie accompagnate da allestimenti importanti come Lo zoo di vetro, Un tram che si chiama desiderio, Improvvisamente l’estate scorsa e La rosa tatuata. Colma la lacuna Cue Press, con la pubblicazione di un volume molto interessante a appassionante, Tennessee Williams. Modernismo […]
6 Marzo 2023

Anche Stefano, primogenito di Luigi Pirandello, fu drammaturgo e pittore

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Figlio primogenito di Luigi, Stefano Pirandello (1895-1972), visse gran parte del suo tempo all’ombra del padre; non solo perché affascinato dal teatro, ma perché si sentì «necessario» al proprio genitore, per l’enorme mole di lavoro che svolgeva dopo i successi internazionali delle sue commedie. Stefano fu l’ideatore, insieme a Orio Vergani, del Teatro D’Arte, che […]
4 Marzo 2023

L’America di Elio De Capitani

Maria Dolores Pesce, «Dramma.it»

L’interesse, o meglio la sensibilità, che da molto tempo contraddistingue gli studi di Laura Mariani nei confronti dell’attorialità, torna ad incontrare e ad intersecarsi con l’attività ormai ultratrentennale di uno degli attori che, meglio di tanti altri, ha saputo interpretare non soltanto i singoli e innumerevoli personaggi che ha incarnato, quanto il «Teatro» tout court, […]
3 Marzo 2023

Guillem Clua, Teatro

«Queerographies»

Uno Stato immaginario scomparso a causa dei cambiamenti climatici, una misteriosa epidemia globale, un giudice che nasconde la propria omosessualità: pur trattando gli argomenti più disparati, il lavoro di Clua riesce ad affrontare in maniera originale ed eclettica il tema della diversità e della complessità del mondo contemporaneo. Il volume raccoglie il meglio della produzione […]
1 Marzo 2023

Quaderni scritti a penna di un futuro Premio Nobel: Samuel Beckett

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali»

Ma insomma Samuel Beckett si può toccare o no? Si sa: il burbero premio Nobel scriveva testi teatrali che erano delle partiture, misurate al secondo. Tra didascalie, parole e pause vi è una tensione continua e il dettato beckettiano è stato a lungo ritenuto – e ancora lo è – per l’appunto, intoccabile. Complice anche […]
1 Marzo 2023

Bob Wilson e l’Italia: l’omaggio di Giacobbe

Sergio Di Giacomo, «Moleskine Rotocalco»

Durante la presentazione del libro del critico e storico del teatro Gigi Giacobbe Bob Wilson in Italia abbiamo percepito una grande passione, quella passione per il grande teatro che anima il nostro critico teatrale, tra le firme di «Moleskine» e per decenni collaboratore delle pagine culturali del «Giornale di Sicilia». Attualmente collabora anche a «Sipario» […]
28 Febbraio 2023

Pino Tierno. Il teatro nell’esistenza umana

Giancarlo Mancini, «Pulp Libri»

Molti hanno riflettuto sulla natura effimera dell’evento teatrale, il suo accadere qui e ora, cosa che rende difficile, se non impossibile, la sua trasmissione al di là del ricordo soggettivo. Spesso sono state proprio quelle che vengono chiamate le «prime», ovvero le occasioni nelle quali un testo ha debuttato sulla scena, ad offrire un concentrato […]
27 Febbraio 2023

Nel 1960, L’«Orestiade», tradotta da Pasolini, per Vittorio Gassman, fu una prima tempestosa

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Cercare una catalogazione nella quale includere il libro di Pino Tierno pubblicato da Cue Press potrebbe sembrare difficile, non potendolo inserire in un «genere», poiché non appartiene né alla saggistica né alla storiografia teatrale da intendere in senso tradizionale. Anche se, al suo interno, si può trovare l’una e l’altra, lo si potrebbe inserire in […]
20 Febbraio 2023

La fine del mondo: una vita in serie

Alfredo Sgroi, «Mangialibri»

La sfilata dell’ordinaria follia comincia. In un ambiente asettico, cioè un anonimo ufficio, si consuma il dramma a distanza di un’anziana costretta da familiari cinici a lasciare la sua abitazione… Ancora più violenta è la vita di un mostro che si cela sotto i panni di un placido pensionato precoce: costui confessa con sconcertante distacco […]
12 Febbraio 2023

La sfida di Achab

Elisabetta Raimondi, «Fata Morgana Web»

Nell’occuparsi di tutti gli aspetti relativi al complicato intreccio di relazioni interne ed esterne al lavoro registico e attoriale, il grande maestro Peter Brook parla di «rappresentazione nascosta» per definire «la rete invisibile di rapporti tra personaggi e temi» che gli attori sviluppano nelle fasi di prove degli spettacoli, creando dentro di sé forme autonome […]
11 Febbraio 2023

Kracauer, teoria del film

Rolando Vitali, «Alias — Il Manifesto»

Allo spettatore smaliziato, avvezzo all’odierno paesaggio multimediale, la tesi secondo cui al medium cinematografico apparterrebbe costitutivamente un rapporto privilegiato con la realtà materiale apparirà, se non ingenua – o tout court scorretta – quanto meno invecchiata. Sono lontani i dibattiti sul realismo e ben poca parte della produzione audiovisiva contemporanea pare rispondere a tale «principio […]
6 Febbraio 2023

Le visioni spietate. Il Premio Nobel della Letteratura assegnato a Jon Fosse

Luca Scarlini, «La Falena», VI-2

Gli onori non sono mancati a Jon Fosse, assai prima del Premio Nobel gli è stato concesso l’onore di risiedere come artista nazionale nel castello di Grotten dalla corona di Norvegia e nel 2007 il governo francese gli ha assegnato il cavalierato per l’Ordre National du Mérite. Proprio Parigi è stata la città che gli […]
1 Febbraio 2023

Bernard-Marie Koltès, Lettere

Gianni Poli, «Teatro Contemporaneo e Cinema», XIV-44

Dal 1955 al 1989 Koltès ha tenuto una fitta corrispondenza con i famigliari e gli amici: mezzo di comunicazione e soprattutto d’espressione di sentimenti intimi, sinceri, a volte censurati. Inventore d’una mitologia tortuosa in uno stile classicamente sorvegliato, sui temi d’una ricerca esistenziale tormentata, ha scritto lettere (cinquecento trenta invii) di profondo significato umano e […]
30 Gennaio 2023

Sono gli allestimenti trasgressivi a tenere in vita la tragedia

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Ci siamo occupati, sulle pagine di questo giornale, del Teatro Postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, il volume più venduto e più adottato dalle Università italiane, edito da Cue Press, che ora ci propone Tragedia e Teatro drammatico, un saggio complementare al primo e, pertanto, necessario per meglio conoscere che cosa intendesse Lehmann per Teatro Postdrammatico, e […]
20 Gennaio 2023

Il laboratorio creativo di Beckett nei Quaderni di regia

Nicola Arrigoni, «Sipario»

È forse una delle operazioni editoriali più interessanti degli ultimi anni, senza dubbio un contributo alla conoscenza del drammaturgo novecentesco per eccellenza, Samuel Beckett; è un’occasione per rivedere e ripensare l’autore di Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp, attraverso i quaderni di appunti registici, per la prima volta pubblicati in Italia. […]
15 Gennaio 2023

Sul «per ora e per sempre»

Simona Busni, «Fata Morgana Web»

«Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, come il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare. […] Crearsi la libertà […]