Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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18 Febbraio 2024

Il problema delle origini, tra miti greci e miti orientali

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Il primo libro che lessi di Antonio Attisani fu Teatro come differenza, edito da Feltrinelli nel 1968, contemporaneo del mio Teatro a Milano 1968-78. Il Pier Lombardo e altri spazi alternativi, edito da Mursia. Entrambi cercavamo un teatro che si differenziasse da quello istituzionale, diventato, malgrado tutto, un teatro che ammiccava ad operazioni di tipo commerciale, avendo esaurito la grande stagione creativa degli anni Sessanta-Settanta. A ridosso di quei due libri, c’era stata la rivoluzione sessantottesca e il successo, anche in Italia, delle teorie di Artaud e del suo teatro e corpo glorioso, secondo la definizione di Artioli, ma c’erano stati anche gli spettacoli del Living, Grotowski, Barba, da intendere, non come forme rappresentative, ma come forme della coscienza, o meglio ancora, come religio priva, però, di ogni consolazione metafisica. Attisani, in quel particolare momento, era interessato al teatro di tipo sociale, oltre che politico e a una diversa concezione dell’attore, in particolar modo, di quello popolare, incarnato da Dario Fo, e dell’attore santo a cui era pervenuto Grotowski. lo andavo in cerca dell’uso diverso degli spazi scenici che popolavano le periferie milanesi, dove si muovevano i nuovi gruppi italiani che, ciascuno a suo modo, cercava di differenziarsi dal teatro ufficiale.

A dire il vero, in quegli anni, c’era stata una grande richiesta di teatro da parte di una nuova generazione, tanto che Attisani la invitava a fare delle domande al teatro e a cosa bisognava chiedergli, esortandoli, nel frattempo, a conoscere un altro teatro che andasse: Oltre la scena occidentale, titolo di un suo libro molto importante, dove indicava cosa potesse essere ancora recuperato di quel teatro, per metterlo a confronto con quanto accadeva sulle scene orientali, tanto che i suoi corsi all’università di Venezia, alla fine del secondo millennio, erano incentrati, proprio, su questo rapporto, oltre che sul teatro performativo che vantava, in Francesco D’Assisi, il primo performer, antesignano di Carmelo Bene, ovvero degli attori-autori, da considerare attori pensanti, più che recitanti, ben diversi dall’attore impegnato politicamente, come Dario Fo, oppure spiritualmente, come l’attore santo di Grotowski. Nel volume: L’invenzione del teatro. Fenomenologia e attori della ricerca, edito da Cue Press, Attisani ha portato avanti il suo lavoro, sia in chiave teorica che pratica, approfondendo la sua metodologia e il suo modo di rapportarsi con le origini, in rapporto con la modernità. Il volume è diviso in sette capitoli, benché, il referente, sia sempre il teatro delle origini, quello della semplicità e della purezza, affidate al rito, non solo occidentale, ma anche orientale. Nel frattempo, Attisani si era documentato sul Teatro tibetano e indiano, in particolare, sul loro uso del corpo e dei tempi scenici. In questa sua ricerca delle Origini, non poteva mancare il rapporto antitetico tra l’attore e lo sciamano, tra la tragedia attica, con i suoi cori e le sue danze, e le danze nel teatro tibetano, utilizzando una bibliografia ad hoc, in particolare, L’Ur-drama di E. T. Kirby, gli studi del danese Egill Rostrupp e quelli di Ferruccio Marotti, continuati da Bavarese. In tutti i citati, c’era l’urgenza di liberare il teatro dallo spettacolo e di ridurlo alla sua vera essenza, magari a scapito della sua componente narrativa che era rivolta a livelli di realtà ben diversi da quelli percepiti durante la vita quotidiana. Per costoro, un teatro asservito o ridotto a racconto, è un teatro degradato, essendo, il lavoro del teatro, di tipo concettuale, capace di coinvolgere il corpo-mente e il corpo-vita.

La scoperta di Tanguy e del teatro di La Fonderie di Le Mans, permette, ad Attisani, di confrontarsi con un altro Maestro che teorizzava il Teatro della soglia, da intendere come momento ‘inafferrabile’, essendo, la soglia un vero e propio enigma e che, come tale, è più importante di qualsiasi risposta, essendo «il momento in cui si condensano il più gran numero di forze, di tensioni». Credo che, a livello scenico, sia stato Maeterlinck a realizzare il teatro della soglia. Molti sono i materiali che Attisani propone, grazie ai quali, è possibile creare nuove soglie di percezione e di partecipazione.

Carrozzeria orfeo
15 Febbraio 2024

Carrozzeria Orfeo, quindici anni di successi ben costruiti

Andrea Malosio, «Hystrio», XXXVII-2

Quindici anni, un tranche de vie significativo per un’impresa, sufficiente a fare una storia. Per Carrozzeria Orfeo, compagnia itinerante, nata dall’incontro casuale nelle sale prova d’accademia, questi quindici anni sono stati il principio, la crescita, il consolidarsi di un progetto artistico e imprenditoriale ben raccontato in questo volume edito da Cue Press e scritto dal giovane studioso milanese Andrea Malosio. Con un focus puntato sulla scrittura, il volume ricompone in modo dettagliato e documentato il percorso della compagnia, ricostruisce le biografie dei fondatori e delle persone che ne hanno incrociato il lavoro, ne di- segna la poetica cercandone anche la collocazione all’interno della scena contemporanea. I testi, dunque, come focus.

Diversamente da quanto spesso accade, ciò che ha segnato dal nascere il progetto di Carrozzeria Orfeo è stata la scrittura personale e originale dei propri spettacoli, affidata da subito alla mano decisa di Gabriele Di Luca. Malosio ripercorre, giustamente privilegiando questo punto di vista, i primi testi (Nuvole barocche, 2007; Gioco di mano, 2008; Sul confine, 2009; Idoli, 2011; Robe dell’altro mondo, 2012) per concentrarsi poi sulla trilogia del successo – Thanks for vaselina, 2013; Animali da bar, 2015; e Cous Cous Clan, 2017 – e sui successivi spettacoli (soprattutto Miracoli metropolitani, 2020) ai quali l’autore dedica un’analisi profonda, dalla genesi alla struttura drammaturgica, dal linguaggio ai caratteri dei personaggi e alla loro identità sociale. Emerge la cifra distintiva del lavoro della compagnia, che unisce «il basso con l’alto, il lirico con il triviale», con l’intento di ‘agganciare’ il pubblico, divertendolo e passandogli qualche elemento di riflessione sulla società contemporanea, che si tratti della tossicità delle relazioni familiari o della strisciante violenza del sistema post-capitalista dei consumi. Ma l’autore non si ferma solo alla dimensione artistica della compagnia. Nell’interessante capitolo Giù dal palco: dalla comunicazione ai progetti culturali e formativi, affronta l’aspetto tutt’altro che secondario della struttura societaria e amministrativa della compagnia, parte integrante dell’azione, strumentale all’attività artistica ma strategica nell’economia generale della sua vita.

Stranger things bis
13 Febbraio 2024

Per una sociologia di Stranger Things

Ludovico Cantisani, «ODG Magazine»
La casa editrice Cue Press di Bologna ha dato di recente alle stampe il volume collettivo I segreti di Stranger Things, raccolta eterogenea di saggi a cura di Kevin Wetmore jr., professore di teatro e cinema in Marymount. Sin dal sottotitolo del libro – Nostalgia degli anni Ottanta, cinismo e innocenza – si intuiscono alcune delle principali direttive che prendono le variegate analisi della serie televisiva condotte da un team internazionale di accademici che in Stranger Things ha individuato uno dei prodotti culturali più rappresentativi del nostro tempo. Stranger Things è effettivamente una delle serie che, nell’ultima decade, hanno avuto maggiore influenza sull’immaginario collettivo. Rappresenta a un grado particolarmente cristallino quella tendenza delle narrazioni contemporanee a ripercorrere – in termini di remake più o meno dichiarati – a precedenti storytelling e franchise che hanno goduto di successo nei decenni passati, in una sorta di omogeneizzazione generazionale del pubblico che porta tanto i più anziani ad identificarsi nelle nuove storie quanto i più giovani a incuriosirsi alle vecchie. Tra gli elementi sorprendenti della costruzione narrativa di Stranger Things sin dalla prima stagione era stato rilevato che i fratelli Duffer, ideatori, showrunner e principali registi della serie Netflix, avevano plasmato un calibratissimo pot-pourri di classici della fantascienza e dell’horror occidentale, con una particolare predilezione per i film degli anni Ottanta con cui loro stessi erano cresciuti: titoli piuttosto eterogenei tra loro, al di là del genere fanta-horror di partenza, come E.T., La cosa, Alien, Indiana Jones, It, Jurassic Park, Incontri ravvicinati del terzo tipo, si trovavano ad essere omaggiati uno dopo l’altro da citazioni ed easter egg posti all’interno della serie, all’interno di linee narrative apparentemente in grado di ‘digerire’ e rielaborare in un continuum spontaneo e autonomo un numero esorbitante di situazioni già viste in altri film, serie, videogiochi e fumetti dei decenni passati. I segreti di Stranger Things praticamente in tutti i saggi parte da una valutazione positiva della serie: non è un’opera di critica cinematografica o audiovisiva, bensì di critica dell’immaginario e, per quanto molto legata a un’impostazione accademica di scrittura, molti dei saggi raccolti nel volume aprono interconnessioni notevoli tra diverse discipline, illuminando di riflesso lo stesso significato di Stranger Things verso una ricchezza e una stratificazione che a una prima visione potrebbero sfuggire. Stranger Things resta un prodotto di massa astutamente costruito attorno a un omaggio quasi ossessivo dei cult con cui almeno due o tre generazioni sono cresciute, ma, «analogamente alle pietre miliari culturali del decennio che omaggia tanto scrupolosamente, Stranger Things è intrisa di sottotesti più cupi che spesso passano inosservati, e affronta le ansie culturali prevalenti sia allora che oggi in maniera più diretta di quanto le venga riconosciuto», afferma la regista arthouse e docente accademica Rose Butler all’inizio del suo saggio. Svariati degli interventi raccolti ne I segreti di Stranger Things sono monograficamente dedicati ad esplorare le connessioni e le citazioni tra la serie dei fratelli Duffer e altre opere di intrattenimento uscite negli ultimi tre decenni del Novecento: il testo posto in apertura alla raccolta, La rinascita dei figli di King, riflette sulla pesante eredità kinghiana che si porta appresso la serie, tra Carrie, It e Fenomeni paranormali incontrollabili, giusto per citare i tre omaggi più smaccati; altri capitoli indagano nel dettaglio i riferimenti al cinema di Steven Spielberg, o al cinema di John Carpenter, non solo per l’evidente richiamo a La cosa, ma anche per una comune tendenza, da parte di Carpenter e i fratelli Duffer, a ibridare western e fantascienza a livello di situazioni e personaggi; più sorprendente il saggio, scritto a quattro mani da due studiosi latino-americani, che punta a dimostrare convergenze – e almeno un easter egg esplicito – tra Stranger Things e tre serie teen – fantasy andate in onda sulla televisione colombiana alla fine degli anni Ottanta. Per quanto Stranger Things debba molto del suo successo proprio alla ricchezza delle sue citazioni e a un’astuta modalità di rielaborare linee narrative a cui il pubblico è già famigliare, i saggi raccolti nel volume di Wetmore non mancano di evidenziare momenti di originalità e di meta-consapevolezza da parte della serie, con i fratelli Duffer e i loro collaboratori creativi impegnati talvolta in una vera e propria decostruzione dei codici di genere. Rilevante in questo senso è la riflessione sulla morte di Barb, personaggio secondario della prima stagione che al momento della sua uccisione sullo schermo da parte del Demogorgone aveva suscitato reazioni contrastanti da parte degli spettatori. «La morte di Barb è uno dei modi drastici in cui Stranger Things sovverte le convenzioni degli slasher ed è un indicatore precoce di quanto la serie desideri ribaltare le nostre aspettative:… Barb, che si dissocia dai giochi alcolici e siede sola mentre gli altri si ritirano nelle stanze al secondo piano, inizialmente sembra ricoprire il ruolo della final girl. Casta e sensibile, resta ai margini. Il fatto che venga catturata dal Demogorgone – soprattutto mentre gli altri stanno facendo sesso – mira brutalmente il conservatorismo perpetuato dal ciclo degli slasher degli anni Ottanta». Così scrive sempre la Butler nel suo intervento. I segreti di Stranger Things affronta attentamente anche le questioni economiche, sociali e politiche che la ri-ambientazione della serie negli anni Ottanta, durante la presidenza Reagan, porta con sé. «Il personaggio di Matthew Modine, il dottor Martin Brenner, è essenzialmente il dottor Frankenstein con ideali reaganiani; arranca con i suoi esperimenti per conto del Dipartimento dell’Energia, in nome della bandiera americana», afferma Melissa Kaufler nel suo saggio sulla rappresentazione del corpo femminile nella serie. Particolarmente interessante la disamina del personaggio di Joyce Byers, interpretato da Winona Ryder, da parte di Lisa Morton, che evidenziando come «attraverso la retrocessione sociale del personaggio di Ryder, siamo costretti a rivedere il nostro giudizio sugli anni ottanta: decantati dai media come un periodo di prosperità generale, ci appaiono ora come un’era di grandi divari finanziari e di classe e di economia fallimentare». In questa rappresentazione realistica delle condizioni economiche medie negli anni Ottanta soprattutto delle donne, Stranger Things mostrerebbe una maggiore oggettività rispetto a un’opera super-cult di Spielberg, E.T., che pure è costantemente omaggiata dalla serie dei fratelli Duffer. E.T. è una sorta di fiaba fantascientifica continuamente costellata di momenti che mettono alla prova il principio di realtà: «Ma la vera invenzione di E.T. è la sua rappresentazione della classe media. La mamma di Elliot, Mary, si è recentemente separata dal marito; quando Elliott accenna al fatto che suo padre sia in Messico con Sally, Mary si deprime. Lei è ora la madre lavoratrice di tre bambini, che cerca di bilanciare il lavoro con i doveri genitoriali. Eppure, la loro casa sembra essere di almeno duecentottanta metri quadri: una casa nuova in un nuovo complesso residenziale». Più di un saggio della raccolta di Wetmore riflette sulla possibilità che il Demogorgone e tutto l’immaginario del Sottosopra alludano anche all’epidemia di AIDS scoppiata proprio nel cuore degli anni Ottanta. Del resto, i sottotesti della serie riguardanti l’omosessualità, e in particolare l’identità sessuale del protagonista Will Byers, erano parsi evidenti sin dalla prima stagione, creando grande dibattito e speculazione tra fan e detrattori fino ad arrivare al coming out sui social dell’interprete del personaggio, Noah Schnapp. «Vedere Will come personaggio queer conferisce ancora più credibilità all’idea che la serie si esprima direttamente sull’Aids e sulle battaglie degli uomini gay negli anni Ottanta. Questa analogia diviene particolarmente pertinente nella seconda stagione, quando il Mostro Ombra prende il possesso del corpo di Will». Così scrive Emily Roach nel saggio della raccolta intitolato Aids, omofobia e il mostruoso sottosopra. «Il mostro è definito in maniera ambigua, un mutaforma descritto spesso attraverso il linguaggio proprio della malattia e dell’infenzione. Il mostro è un virus e il corpo di Will è il suo ospite». Particolarmente interessante sul tema del gender e dell’orientamento è anche il saggio di Elsa Carruthers Rivisitando la femminilità mostruosa e i genitori mostri in Stranger Things, in cui vari personaggi e varie componenti visivo-iconiche della serie, a cominciare dal personaggio di Undici interpretato da Millie Bobby Brown, vengono ricondotti a un archetipo di femminilità primordiale, medianica, a cavallo tra i due mondi, a cui più volte lo stesso Stephen King aveva attinto. Come per la celebre regola 34 del web – «se qualcosa esiste, allora c’è la sua versione porno» – è inevitabile che ogni fenomeno di costume che coinvolge e aggiorna l’immaginario collettivo si trascini dietro di sé un dibattito che va molto al di là dell’apprezzamento o della squalifica del singolo prodotto culturale e audiovisivo, e spesso sfocia in un contesto accademico. Storicamente è stata proprio l’Italia, nella figura di Umberto Eco, assieme alla Francia con Roland Barthes, a dare un contributo significativo alla rilettura dell’immaginario popolare attraverso metodologie e strumenti ‘colti’, anche se questa tendenza ha attecchito, a livello universitario e giornalistico, soprattutto negli Stati Uniti. La stessa Stranger Things non è nuova a iniziative di questo genere, e un paio d’anni fa era uscita, a cura di Jeffrey A. Ewing e Andrew M. Winters, un’analoga disamina della serie intitolata La filosofia di Stranger Things, più attenta alle componenti storiche e religiose insite nel sottotesto dell’universo narrativo dei fratelli Duffer anziché alle implicazioni economiche e sociologiche. A differenza però di analoghe operazioni che volevano a tutti i costi trovare messaggi filosofici in opere di consumo o insegnare la fisica attraverso film che di scientifico non avevano nulla, entrambi i volumi e in modo particolare I segreti di Stranger Things colpiscono per la fondatezza delle loro affermazioni e la solidità delle nuove prospettive che aprono su uno dei prodotti più popolari dell’immaginario contemporaneo. Leggere ‘contropelo’ un’opera seriale vista da milioni di spettatori in tutto il mondo innesca in queste pagine un cortocircuito che illumina, di fatto, mezzo secolo di storia e immaginario occidentale: la serie ‘spiega’ gli anni Ottanta, gli anni Ottanta spiegano la serie, ma anche e soprattutto la fascinazione nostalgica per gli anni Ottanta di cui Stranger Things è sintomo e propagatrice spiega il nostro oggi, le nostre ambiguità e le nostre rimozioni – e al centro di ogni cosa resta lo sguardo freddo ma tutt’altro che morto di un demiurgo-Demogorgone. Collegamenti
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10 Febbraio 2024

Samuel Beckett, un vademecum per affrontarlo

Michele Casella, «la Repubblica»
Entrare nelle opere di Samuel Beckett, autore ‘assurdo’ per antonomasia, precursore di una visione artistica omnicomprensiva, deve essere stato facile per Enzo Mansueto. Perché il lavoro di sottrazione continua che caratterizza il ‘non’ stile dell’autore irlandese si sovrappone al calibratissimo senso ritmico nell’uso della parola. Questa familiarità col ritmo Enzo Mansueto di sicuro la possiede, non solo nella sua pluriennale carriera di poeta, critico letterario, docente di lettere, ma anche per il suo passato sonoro in ambito punk. Un pezzo di quell’attitudine è entrato anche nella cura e traduzione di Beckett: un canone, tomo appena pubblicato dalla Cue Press e per il quale lo studioso barese ha anche redatto la prefazione. Il volume, scritto dalla decana degli studi beckettiani Ruby Cohn, è originariamente uscito nel 2001 e rappresenta un poderoso attraversamento di tutta l’opera, edita e inedita, di questo autore tanto complesso quanto illuminante. A rafforzare la profondità dell’indagine letteraria della Cohn non vi è solo il potente apparato critico, ma anche la profonda conoscenza di ogni dettaglio della sua opera, dovuta alla decennale amicizia fra la studiosa statunitense e il premio Nobel per la letteratura. Il primo obiettivo del libro, infatti, non è quello di inquadrare Beckett in una lettura univoca, bensì di fornire dei precisi input di analisi che permettano al lettore di affrontare in maniera accurata il corpus delle sue opere. D’altra parte anche il rapporto fra Mansueto e l’autore Aspettando Godot è decisamente lungo e risale ai suoi vent’anni, quando l’affinità di poetica si è intrecciata con altre figure come Joyce, Wittgenstein e Carmelo Bene. Spiega Mansueto: «Lavorare così intensamente, e per un lungo periodo, sul bel saggio della Cohn mi ha consentito di rinverdire questa antica e duratura passione rivedendo alcune posizioni, colmando immancabili lacune, ma soprattutto rileggendo le sue opere a fronte di un’attenzione ravvivata dal mio lavoro attuale, critico e creativo». L’uscita di Beckett: un canone si inserisce in una più ampia operazione di rilancio dello studio dell’opera di Samuel Beckett in Italia e avviene in coincidenza con la pubblicazione nei Meridiani Mondadori del volume Romanzi, teatro e televisione, la prima edizione commentata delle opere beckettiane (a eccezione delle poesie), integralmente curata da Gabriele Frasca. Questo ‘ritorno’ di Beckett pare oggi quantomai necessario, non solo perché colma una lacuna su un autore così determinante, ma anche perché contribuisce al superamento del concetto di libro stampato, della ‘letteratura’, dei generi. Lo spiega bene Mansueto, che incalza: «Credo che autori come Beckett oggi rappresentino una fonte di anticorpi salutari contro la standardizzazione dei prodotti da libreria e in generale delle varie declinazioni narrative, comprese quelle audiovisive del cinema e delle serie tv, viralmente contagiate dagli invadenti algoritmi e cliché delle piattaforme digitali». La rilettura di Beckett consente infatti di comprendere quanto la sua opera sia stata in anticipo sulla multimedialità di oggi, in primis grazie a una vibrante instabilità – linguistica, di medium, di genere testuale – che è cifra fondante del suo lavoro. «Beckett è stato determinante in tutto questo» osserva ancora Mansueto: «Non solo perché i videodrammi, le opere per la tv e i meravigliosi radiodrammi tracciano una strada, ma perché la multimedialità elettronica segna da subito la sua scrittura narrativa, come già quella del suo maestro, James Joyce: non avremmo l’Ulisse senza la rivoluzione dei media elettronici, dal telefono alla radio, e la scorporazione tecnologica della voce, che hanno condotto a nuove forme di oralità di ritorno».
Mansueto enzo
6 Febbraio 2024

Ruby Cohn — Beckett: un canone. Intervista a Enzo Mansueto

Sergio Rotino, «Satisfiction»

Erano decenni che in Italia non si vedeva una simile attenzione verso l’opera di uno dei più grandi geni letterari che abbia prodotto il Novecento. Si vede che finalmente era tempo di dare a Cesare quanto gli spettava, quindi a Samuel Beckett quel che è di Samuel Beckett. E se il Meridiano mondadoriano, Romanzi, teatro e televisione — tradotto e curato da un beckettiano da sempre qual è Gabriele Frasca — ha aperto a una nuova stagione per quanto riguarda l’opera del genio irlandese, il titanico lavoro della imolese Cue Press ne spinge e sostiene la volata.

A questo si deve aggiungere l’essenza più ‘pop’ di Prima danza, poi pensa, biopic approdato nelle sale italiane da pochissimi giorni a firma James Marsh, con un Gabriel Byrne che interpreta un Beckett da adulto. In tale fermento si colloca il volume di Ruby Cohn, Beckett: un canone, pubblicato anch’esso da Cue Press (pp. 384, euro 39,99) per la cura di Enzo Mansueto. Saggio essenziale per meglio comprendere il lavoro di questo premio Nobel, curato con massima attenzione e cognizione di causa da Mansueto, il quale firma anche la traduzione e l’introduzione al lavoro della studiosa americana, amica intima di Beckett e decana dello studio delle sue opere.

Mansueto, che condivide con Frasca l’essere poeta, studioso, critico letterario e musicale e grande appassionato dell’opera beckettiana, ha lavorato con attenzione maniacale per rendere ogni possibile intenzione del testo originario. La Cohn, ricordiamolo, è la più assidua frequentatrice della scrittura di Beckett. Ne rimase abbacinata nel lontano 1953, quando frequentava l’università a Parigi, da dottoranda. In quell’anno, come lei stessa riferisce in apertura di libro, poté assistere alla prima di Aspettando Godot, evento sufficiente per convincerla a dedicare tutta la vita allo studio di quanto avrebbe prodotto Samuel Beckett fino alla fine della sua vita.

Abbiamo incontrato Enzo Mansueto per parlare del suo lavoro di curatela, ma non solo. Abbiamo parlato anche dell’importanza dei saggi della Cohn, di canone letterario e di questo meritato ritorno di attenzione, per quanto riguarda l’Italia, al lavoro di uno scrittore che più di altri ha segnato la letteratura, dal Novecento a oggi.

Come è nata l’idea di dare alle stampe il saggio della Cohn?

È nata dall’incontro produttivo tra Gabriele Frasca e il direttore di Cue Press, Mattia Visani, che aveva già avviato la coraggiosa impresa della pubblicazione in Italia dei quaderni di regia e dei testi teatrali riveduti di Samuel Beckett, a cura dell’ottimo Luca Scarlini. Libri di un interesse e di una bellezza, anche tipografica, sconvolgente. Sono testi considerati ormai fondamentali nel mondo intero, per lo studio e la messa in scena di Beckett. Per il contesto italiano, viziato da una discontinua ricezione dell’autore, potevano invece apparire una follia editoriale. L’editore, però, considerato il riscontro positivo dell’operazione, pare averci visto giusto. Come anche in altri casi.

Tipo?

Per esempio, con la pubblicazione, in tempi non sospetti, dell’opera drammaturgica e saggistica di Jon Fosse, Premio Nobel per la Letteratura 2023, che peraltro molti avvicinano alle poetiche beckettiane.

Gabriele Frasca, lo ricordiamo, è il traduttore e curatore del Meridiano Mondadori, appena uscito, dedicato a Beckett…

Non soltanto. Frasca, raffinato poeta, narratore, saggista, ha una consuetudine beckettiana che data ai primi anni Ottanta e i suoi studi hanno aperto spiragli innovativi nell’interpretazione dell’opera dell’autore irlandese. Per esempio, nell’ascolto delle risonanze testuali dei media elettrici, nel tracciamento delle oscillazioni multilinguistiche di un testo instabile, tra oralità e scrittura. Oppure nella costruzione del concetto di ‘arcigenere’, usato per definire gli esiti concettuali di quello che comunemente chiameremmo lo ‘sfondamento’ beckettiano dei generi letterari.
Il Meridiano da lui tradotto e curato, Romanzi, teatro e televisione, con le sue nuove traduzioni e i ricchi commenti, rappresenta davvero uno spartiacque nella vicenda della ricezione di Samuel Beckett in Italia.

Che da noi non sembra aver avuto grandi fortune.

Possiamo dire che Beckett, nei passati decenni, ha conosciuto sorti alterne in Italia, venate non di rado di superficialità, fraintendimenti o travisamenti.

Per quale motivo?

Uno scrittore ‘senza stile’ come Beckett ha fatto fatica a imporsi in una repubblica letteraria che su stile e arcadia linguistica ha edificato i propri bellimbusti, anche nel Novecento. Soprattutto, la penetrazione di Beckett – che è, di suo, autore tardivo, impostosi mondialmente a partire dagli anni Cinquanta, dopo il successo del Godot, e divenuto editorialmente appetibile solo col Nobel del 1969 – si è attuata in Italia in maniera pasticciata, in anni di neoavanguardie e di tetragoni ideologismi, che mal comprendevano questo irlandese erudito, post-joyceano, equilingue, incline a una autoriduttiva spoliazione del linguaggio e dello stile, all’apparenza secluso in un nichilismo apolitico e amorale. Il massimo che si è riuscito a fare è stato incasellarlo in etichette di comodo, oramai trite – il ‘teatro dell’assurdo’ o, al meglio, l’esistenzialismo o l’estenuato modernismo, cercando improbabili cuginanze o filiazioni. Sintomi di una critica pigra e miope, impantanata nei generi, nelle letterature nazionali, nei compartimenti stagni della pagina tipografata e del testo ben fatto.

Però non possiamo dire che l’Italia sia stata completamente immobile…

Certo che no: restano meritevoli e in qualche modo pionieristiche le traduzioni o le esegesi di Carlo Fruttero o di Aldo Tagliaferri, e non sono mancati altri interessanti contributi critici, così come non possiamo trascurare le svariate pubblicazioni dei testi beckettiani accolte nei decenni passati nei cataloghi Einaudi o SugarCo, come anche di altri editori. È però un fatto che gran parte di quei testi, anche quelli non secondari, risultano da tempo indisponibili in catalogo, espunti, cassati. Inoltre, su molti di essi proliferava già la muffa di traduzioni dubbie o, quantomeno, non aggiornate alla luce dell’enorme lavoro, critico e filologico che sull’opera di Beckett andava svolgendosi all’estero, in paesi dove semmai si registra il problema opposto, cioè una proliferazione sfrenata e fantasiosa di studi beckettiani. Tra gli ultimi, per dire, ci sono quelli su Beckett e il buddismo o su Beckett e David Bowie.

E qui si torna sul lavoro portato avanti da Frasca, che è, dicevi, uno spartiacque.

Il Meridiano tira effettivamente una riga su questa storia italiana di cui dicevo prima e favorisce, si spera, un rilancio d’interesse, non solo accademico, oltre che offrire una rinnovata e massiccia disponibilità di testi sul mercato. Peccato solo che i responsabili della collana mondadoriana non abbiano voluto assecondare il progetto originario del curatore di accogliere in un doppio volume l’opera completa di Beckett. Tuttavia, sullo sfondo dello scenario alquanto desolante che affrescavo, che tra i testi proposti ne manchino alcuni del canone beckettiano – le poesie, le prose brevi, i radiodrammi e qualche opera ‘minore’, peraltro reperibili in libreria – non è cosa gravissima ed è comunque scelta motivata in modo persuasivo nell’introduzione del curatore. Quello che abbiamo tra le mani è davvero un punto fermo, un’operazione editoriale unica al mondo.

Arriviamo a Beckett: un canone, il volume di cui firmi curatela, traduzione e introduzione per Cue Press. Scritto da Ruby Cohn, una delle massime conoscitrici del lavoro e della vita di questo grande scrittore, appare come una pietra miliare degli studi attorno alle opere beckettiane.

La Cohn è considerata da tutti e da sempre la decana degli studi beckettiani. Dottoranda americana alla Sorbona, appena trentenne ebbe la fortuna di assistere alla prima di En attendant Godot al Théatre de Babylone, opera di un misconosciuto pupillo di James Joyce, altro irlandese a Parigi.
Era il gennaio del 1953 e fu un vero colpo di fulmine. Da quel momento, Ruby, già dedita allo studio del teatro contemporaneo, decise di piegare non soltanto i suoi studi accademici, ma la sua vita stessa a Beckett. Tanto da diventarne nel giro di pochi anni, e sino alla fine, intima amica, confidente e consigliera, cosa che, considerata la proverbiale riservatezza di Beckett (che in verità, al di là del mito dell’incomunicabilità alienata, era persona assai amichevole e generosa nei rapporti), è assai significativa.
Il canone venne pubblicato in America nel 2001, dieci anni prima che la morte cogliesse la studiosa dopo lunga malattia – era stata colpita dal morbo di Parkinson, che l’aveva costretta a un inesorabile declino nel silenzio. Quell’impegnativo testo finale costituisce il coronamento di una vita di studi e di una passione inestinguibile. È in sostanza un attraversamento cronologico di tutta l’opera di Beckett, edita e inedita sulla falsariga della biografia, degli accertamenti filologici e di spunti confidenziali, condotto con uno stile colloquiale, condito di spirito, che davvero ci immette, come invitati dalla porta dello scrittoio, nella grande opera di Beckett. Insomma, scorrere queste pagine è un po’ come andare a braccetto con lui, dagli acerbi esordi negli anni Trenta sino ai testi terminali del 1989, tra alterne e coinvolgenti vicende, nei rivolgimenti del Novecento. In questo percorso, la Cohn traccia con gusto sicuro ed esperto un personale canone, invitandoci a fare altrettanto.

Usando un approccio direi molto personale…

Il suo è un approccio orgogliosamente umanistico, sostenuto da uno stile tutt’altro che formale o accademico e, soprattutto, con l’intenzione di restituirci l’immediatezza dei testi di Beckett al di là della nomea di inavvicinabilità, oscurità, difficoltà che l’opinione diffusa gli ha appiccicato addosso.

Non si può dire però che i testi di Beckett siano facili…

Certo che non lo sono. Come ogni sfida ai sensi, all’intelletto, al nostro posizionamento nel mondo deve essere. È questo, mi pare, il compito principale dell’arte.

Fermiamoci un attimo su questo punto, vuoi?

Intendo dire che il luogo comune della difficoltà dei testi di Beckett, come di altri autori considerati ostici e respingenti, deriva da un equivoco di fondo: non è l’oggetto testuale, la scrittura, l’opera drammaturgica o multimediale di Beckett a non essere in sé ‘semplice’, nel senso di disponibile alla ricezione. È piuttosto l’approccio del lettore, del consumatore, addomesticato alquanto da una produzione seriale, ammiccante, accomodante, a essere sempre più ‘semplicistico’, modellato su pigri cliché ripetitivi, che sempre meno dal testo esigono, in termini di coraggio poetico e di interazione faticosa e produttiva, la sola che ci cambia lo sguardo sul mondo. Vorrei essere massimalista, e affermare che oggi più che mai si vada divaricando una forbice tra ciò che va ingessandosi come letteratura (come intrattenimento, nel giochino rappresentativo e consolatorio della fiction, anche intelligente e avvincente, non dico di no… serve anche quello) e l’arte del discorso: radicale, essenziale, necessaria e che non ci consola delle nostre quotidiane repliche nel teatrino dell’Io. Insomma, se ogni tanto, aprendo un libro, si va in cerca di un marchingegno verbale che riposizioni le sinapsi come un cubo di Rubik, beh, con Beckett si ha pane per i nostri denti!

Perché cos’altro, allora, la lettura, la visione, l’ascolto delle opere di Beckett sarebbero necessari?

La questione è troppo complessa e articolata perché riesca qui a sintetizzarla. Ma alcuni punti voglio ugualmente sottolinearli. Innanzitutto, parliamo di qualcosa che ha a che fare con lo strato profondo, con la materia oscura della verbalità e dunque, in qualche modo, con l’innominabilità del nostro stesso stare o venire al mondo. Al di là di ogni equivoca mistica dell’inesprimibile, tutto il lavoro di Beckett – penso alla sua parola afasica, alla lallazione sottesa al suo balbettio, allo ‘sparolamento’ delle sue lasse verbali, alla regressione mimica della sua drammaturgia – sembra proteso all’emersione di una natura gestuale, formulaica, visuale, pre-verbale del discorso, cioè di quel codice culturale di cui come genere umano siamo in-formati. Tic, ripetizioni, giochi di parole, spiazzamento di soggetti, slittamento di voci narranti, di focalizzazioni, produzioni in lingue parallele di testi, che sembrano alludere a un imprendibile archetipo, tutto rimanda a un al di qua o al di là o al lato, forse, a un’ombra o un’eco della parola che, ripeto, non ha nulla di metafisico. Ha familiarità, semmai, e con una nota perturbante, con l’anteriorità inorganica – non cronologica, ma genetico-culturale, antropologica – del nostro esserci. In termini filosofici, direi che siamo nei pressi del silenzio wittgensteiniano, del secondo Wittgenstein e dei suoi giochi linguistici.
Quei rifiuti, quei corpi contorti e smembrati, quei paesaggi disumanizzati, quelle smorfie, quella putrescenza, quelle mutilazioni, quelle torture corporali sparse nei testi beckettiani, essi stessi spesso lacerti disanimati, non sono delle angosciate fantasie espressioniste, ma apparecchiatura dell’osceno, fuoriuscita dal teatro della rappresentazione, dalla pupazzata del teatro di prosa e della fiction narrativa e, ripeto, dello spettacolino quotidiano dell’Io, come forse nell’ultimo Carmelo Bene. Un teatrino che oggi il metaverso promuove e amplifica su un palco virtuale con agghiaccianti dimensioni globali e che, come il claustrofobico panopticon dello Spopolatore, addormenta ogni nostra resistenza. Ecco, per dirla in maniera tranciante, la lettura di Beckett è un atto sovversivo di resistenza allo sterminato condominio dell’Io e alle replicanti narrazioni stereotipate, che attaccano e colonizzano la nostra anima — qualunque cosa essa sia — come parassiti mass-mediali.

È per questo che nell’introduzione lo definisci un canone «pronto a farsi altro nelle mani del lettore, ogni volta»? Ed è questo a dare importanza al lungo lavoro della Cohn e a innalzare alle massime vette della letteratura l’opera di Beckett?

Esatto. Il libro della Cohn è certamente molto istruttivo e si propone come sussidio, anche divulgativo; un accompagnamento completo e affidabile alle opere di Beckett. Ma sin dall’articolo indeterminativo del titolo esso non pretende di imporre una lettura monologica, una interpretazione sistematica dell’opera omnia. Anzi, l’autrice dichiara più volte esplicitamente di rifuggire da una lettura critica olistica e unidirezionale, affidandosi invece alla descrizione puntuale, al commento, al dubbio, al suggerimento.
Soprattutto invitando il lettore a comporre da sé un proprio canone, inteso come provvisoria assegnazione di valore ai singoli testi dell’opera omnia, anche in relazione a mutati contesti artistico-culturali. Quegli straordinari congegni semiotici che sono le opere di Beckett si prestano magnificamente a questa operazione: inossidabili, sorprendenti a ogni rilettura, proprio perché geneticamente instabili, mai davvero compiuti, o forse mai del tutto nati. Come, traumaticamente, ciascuno di noi.

Parli anche, per quanto riguarda la Cohn, di un canone che non è «nell’accezione classica». Ti riferisci all’impianto saggistico, molto americano, molto divulgativo, di cui si diceva o proprio alla forza metamorfica dell’opera beckettiana?

No, mi riferisco banalmente all’accezione convenzionale, didattica, di canone, inteso come repertorio, elenco di opere e autori sicuramente rappresentativi di una letteratura nazionale, di un periodo, di un movimento ecc. Qualcosa che avrebbe a che fare con la normatività e anche con l’identità. In questo libro non c’è nulla di tutto ciò. Mi pare invece che il titolo della Cohn sottenda l’intenzione di tracciare rapporti di forza, gerarchie valoriali all’interno e, comparativamente, con l’esterno dell’opera completa, edita e inedita, di Beckett: un vaglio, una valutazione gerarchica, un setacciamento ragionato. Se vogliamo, l’indicazione dei punti alti, notevoli, grazie ai quali l’opera di questo grande autore si pone a noi come imprescindibile e, perché no, bella.

A parte l’idea di canone, la Cohn mi pare possa colpire il lettore italiano anche per il suo prediligere la comparazione all’interpretazione…

Comparazione, descrizione, florilegio, che sono pur sempre movenze discrete dell’interpretazione. Per essere incoraggiante, anche nei confronti del lettore curioso ma non esperto, direi che in questo corposo volume non trovano spazio sovrateorizzazioni ardite o impegnative astrazioni ermeneutiche, pur essendo, come dicevo, l’approccio dell’autrice tutt’altro che banalizzante o semplificatorio. La Cohn, lo dico ancora, ci accompagna sui luoghi secondo lei più significativi dei testi beckettiani e, dopo averceli presentati, ci lascia interagire con essi, rinviandoci anche a una messe ben documentata e citata di studi critici essenziali nonché, cosa più importante, alla lettura diretta dei magnifici testi beckettiani.

D’altro canto, la Cohn dà la sensazione di essere particolarmente gelosa della precisione del suo operato sui testi dell’autore.

C’è una nota di civetteria che incipria qua e là il testo, le cui ragioni sono sostenute però essenzialmente dall’autorevolezza dell’autrice, suffragata da un’amicizia vera con Beckett. Quando si tratta di sconfessare il giudizio critico o filologico di qualche collega, soprattutto donna, col quale è in disaccordo, la Cohn non la manda a dire e chiama spesso a testimoniare le indicazioni confidenziali privatamente fornitele dall’autore stesso.

Al netto di tutto questo, a tuo avviso cosa rimane sostanzialmente fuori fuoco, se così possiamo dire, in questo libro, rispetto al complesso dell’opera di Beckett?

Beh, qui interviene quel meccanismo di distanziamento e contrapposizione di gusto che la Cohn stessa esige dal lettore, invitato a farsi il suo proprio Beckett. Per quanto mi riguarda, anche da poeta, il dichiarato e argomentato ridimensionamento del lavoro in versi di Beckett mi ha lasciato sin dalla prima lettura perplesso. Per il suo spirito liquidatorio nei confronti di una produzione che invece rende esplicito quello che, nella mia lettura di questo grande autore, è un punto fondamentale.

Ovvero?

Ovvero che Beckett è sempre e da sempre ‘poeta’. Qualcuno cioè che, al di là di scelte di genere, medium, formato, lingua, mai definite o compiutamente definitive, ha comunque a che fare con l’arte del linguaggio e la costruzione di possibilità immaginative nella parola, come pianamente ci ricorda uno degli incipit che più amo, quello di Company: «A voice comes to one in the dark. Imagine». Che Frasca traduce: «Giunge una voce a qualcuno nel buio. S’immagini». Vere e proprie istruzioni a una disposizione poetica, dei sensi e dell’intelletto.

Da quanto ho letto, la Cohn si piccava di essere un elemento presente in alcune fasi creative di Beckett. Questa interferenza, questo essere parte del soggetto di studio, ha in qualche modo condizionato, interferito con il suo giudizio critico?

L’interferenza è dichiarata in partenza, e non è una pecca, ma un valore aggiunto. La Cohn ha accompagnato Beckett in diverse occasioni un po’ ovunque, e ne ha potuto osservare il lavoro registico o spiare il momento germinale di alcune idee e alcuni lavori. In alcuni casi, lei stessa, con suggerimenti ben accolti, ha ‘partecipato’ alla creazione. A lei si deve la raccolta dei piccoli saggi e lavori giornalistici di Beckett, con un inedito schizzo teatrale, Disiecta, tradotto da Tagliaferri in Italia nel 1991. Sempre a lei si deve inoltre la richiesta estrema nel 1989, a un Beckett prossimo alla morte, di volgere in inglese l’inclassificabile testo terminale Qual è la parola (Comment Dire/What Is the Word), nell’ultima attuazione del suo distintivo equilinguismo e sparolamento.

Se permetti, con l’ultima domanda, tornerei indietro di alcuni passi. A sostenere questa annunciata svolta beckettiana in Italia cui hai accennato, Cue Press ha intensificare la presenza di questo autore nel suo catalogo? Sono usciti altri titoli per questo marchio editoriale oltre a quello della Cohn da te curato?

Infatti, è così. Nel catalogo di questa casa editrice ha trovato posto la riproposizione della biografia di James Knowlson, Condannato alla fama: vita di Beckett, a cura dello stesso Gabriele Frasca. Un testo che aveva già curato nel 2001 con Giancarlo Alfano per Einaudi, la quale, a conferma delle disavventure editoriali di cui dicevo, ha pensato bene di privarsene… La considero, e non solo io, una delle biografie letterarie più belle degli ultimi tempi, nonché il testo riconosciuto universalmente come l’approccio primario all’opera e all’esistenza di un colosso come Samuel Beckett! Un vero capolavoro di dedizione e precisione, avendo nell’altra mano le nuove traduzioni e i puntuali commenti ai testi prodotti da Frasca.
Vi aggiungerei, con il suo carattere più introduttivo, per la sua forma più agile ma tutt’altro che banalizzante, il testo di Alan Astro, Capire Samuel Beckett, curato da Tommaso Gennaro, del quale trovate online affascinanti contributi sui rapporti tra Beckett e le arti visive. Ecco, inviterei ad affiancare la lettura di questi libri, per meglio apprezzare il lavoro della Cohn. Oltre che, ovviamente, quello di Samuel Beckett.

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Immagine di fine volume gigi e bob al palazzo dei congressi di taormina per il v premio europa per il teatro assegnato a wilson 3 6 gennaio 1997
3 Febbraio 2024

Intervista di Mario Mattia Giorgetti a Gigi Giacobbe, autore del libro Bob Wilson in Italia

Mario Mattia Giorgetti, «Sipario»
Gigi Giacobbe da oltre undici anni collabora alla rivista «Sipario», e puntualmente ad ogni stagione segue spettacoli in Sicilia e in varie città d’Italia compresi i Festival che vengono proposti.
Quando scopri il regista Bob Wilson e quale è stato il primo spettacolo che hai visto?
Bob Wilson non è solo un regista ma un artista totale per il quale ogni spettacolo diventa un’opera d’arte unica e da incorniciare. Io l’ho scoperto la prima volta non in Teatro ma durante la Biennale di Venezia del 1993 quando nei Granai delle Zitelle si rese protagonista d’una installazione denominata Memory Loss, nella quale appariva la figura di un uomo col cranio rasato, cinto da un elmo di pelle, infossato fino alle spalle dentro un cretto fangoso. Lessi dopo che l’opera s’ispirava ad una lettera che Heiner Müller scrisse a Wilson nel 1987, dove descriveva una tortura mongola per trasformare i prigionieri in schiavi, strumenti senza memoria, appunto interrandoli nella steppa ed esposti al sole che essiccava l’elmo di pelle di cammello restringendosi sempre di più attorno alla testa, sicché i capelli erano obbligati a crescere all’interno del cuoio capelluto e così dopo cinque giorni, se il prigioniero sopravviveva, perdeva la memoria diventando un lavoratore che non causava problemi. L’anno seguente, nel giugno del 1994, ebbi modo di conoscere personalmente Bob Wilson proprio nella mia città, Messina, grazie a Gioacchino Lanza Tomasi, a quel tempo direttore artistico del settore musicale, che aveva inserito nel programma di quella stagione Alice ispirato all’opera di Lewis Carrol con le musiche di Tom Waits e Wilson a dipingere lo spettacolo con le sue magiche luci. Ricordo che, affascinato oltremodo dai colori delle varie scene, riuscii nell’intervallo a intervistare Wilson e pubblicare l’articolo alcuni giorni dopo sul «Giornale di Sicilia», col quale collaboravo da alcuni anni e che è stato inserito nel libro a lui dedicato.
Quali sono gli altri spettacoli che hai seguito di Bob Wilson?
In quell’intervista accennata prima, Wilson mi diceva che stava preparando per il Festival di Gibellina, direttore artistico era Franco Quadri, uno spettacolo sulla figura di Thomas Stern Eliot e sul suo poema La terra desolata, sintetizzato con l’acronimo del suo nome e cognome, appunto T.S.E., andato poi in scena in prima mondiale nel settembre dello stesso anno (1994) nel Baglio delle Case Di Stefano di Gibellina Nuova, che gli spettatori potevano seguire in piedi tra cumuli di sabbia e da varie angolazioni, come riferisco in una delle mie recensioni inserite nel libro in oggetto. Da Alice e T.S.E. in avanti e sino al 2022 ho cercato di non perdere gli spettacoli di Wilson in qualunque Teatro italiano venissero rappresentati. In tutto se ne possono contare ventisei e si possono leggere di seguito nel libro.
Ci puoi spiegare il fascino, sia estetico, sia dei contenuti, sia drammaturgico, che hai provato per questo regista, al quale hai dedicato un libro?
Come ho scritto in varie occasioni, ogni spettacolo di Wilson è un evento, un unicum che t’infonde allegria e un senso di benessere. Hai la sensazione di compiere un viaggio nel mondo dei sogni dove ogni cosa si può compiere, devi solo lasciarti andare, rilassarti e avverti che gli occhi ti sorridono e le orecchie vanno in giuggiole. Niente è casuale. Tutto è programmato, studiato nei minimi particolari. Le quinte e il fondo scena assumono tutti i colori d’una tavolozza. L’azzurro eccelle sugli altri, ma non mancano le varie tonalità dei rosa e dei viola. Le scene poi sono rigorose, dritte, geometrizzate, raramente flessuose, mentre gli attori hanno un trucco pesante, espressionista direi, altre volte sembrano sculture della pop art, in accordo con i costumi, sempre perfetti, fantasiosi e rigorosi. Quanto poi ai loro movimenti seguono rigorosamente le direttive di Wilson in accordo con una recitazione astratta, senza enfasi, efficace tuttavia, preferendo lavorare in particolare con gli attori tedeschi del Berliner Ensemble che per Wilson sono i migliori in senso assoluto, avendo tuttavia con Isabelle Huppert un feeling particolare d’intesa e di stima. Del resto è lui stesso a dire che il suo Teatro è in gran parte formale, non interpretativo. È successo pure, alcune volte, che Wilson abbia vestito lui stesso i ruoli di alcuni personaggi, non trovandoli, a mio avviso, soddisfacenti nel panorama teatrale internazionale. Ed eccolo al Goldoni di Venezia calarsi da solo nei panni di Amleto, di Krapp nell’ultimo nastro di Beckett o tingersi tutto di bianco in Lecture on nothing di John Cage, quest’ultimi due messi in scena al Teatro Caio Melisso di Spoleto.
Secondo te il ruolo dell’attore, per Bob Wilson, è messo in risalto, cioè è protagonista, oppure viene ridotto a puro elemento figurativo?
Come dicevo prima il ruolo dell’attore per Wilson è prettamente formale, non deve essere spontaneo e la sua spontaneità deve risaltare dal fatto che esegue dei movimenti precisi, quelli indicati da Wilson. Forse questo metodo può essere frustrante per un attore con un carattere particolare e una personalità ben precisa. Ma è così, altrimenti non lavori con Wilson, per il quale, credo, che l’attore sia come un colore di un tubetto spremuto dalle sue dita, che verrà poi sparso sulla tela secondo i suoi desideri e come piace meglio a lui. Il Teatro per Wilson è il lavoro di un artista cui associa movimenti, parole, luci, suoni, immagini e dove possono incontrarsi tutte le forme d’arte, comprese la musica, la danza e la recitazione.
Trovi che Wilson sia al servizio della parola teatrale o di un linguaggio carico di effetti scenici?
Per i suoi spettacoli credo che Wilson parta sempre da un testo scritto, dove le parole raccontano una storia, come è successo per L’opera da tre soldi di Brecht, per l’Odissea di Omero e per gli altri suoi lavori, verso i quali lui interviene personalmente con l’aiuto di suoi collaboratori fidati che confezionano tutto il plot. Certamente poi lo spettacolo assume i connotati di cui ho accennato prima, dove l’illuminotecnica gioca un ruolo importantissimo, come quando d’un protagonista viene messo in risalto solo il volto illuminato di verde, di viola o di rosso o altre parti del suo corpo e le musiche, invero sempre originali e accattivanti (spesso quelle di Philip Glass, Hans Peter Kuhn, Tom Waits, Kurt Weill, Lou Reed, John Cage o dei CocoRosie di Jungle book, l’ultimo spettacolo visto alla Pergola di Firenze) danno un senso compiuto ai suoi spettacoli.
Hai dedicato un libro a lui, americano, e non a uno dei grandi registi italiani: Strehler, Ronconi e altro. Perché?
Ho pensato alla domanda che mi poni, ma come tu sai io abito a Messina e raggiungere Roma o Milano, Avignone, Parigi etc.. è sempre una fatica non soltanto fisica, soprattutto per gli spostamenti in treno o in aereo. Certo mi sarebbe piaciuto fare un libro su Strehler o Ronconi che ho conosciuto meglio e in varie occasioni e mi piacerebbe adesso fare un libro su Carlo Cecchi, col quale ci sentiamo per telefono, ma lui abita nella periferia romana e dovrei trasferirmi io da quelle sue parti visto che conosco il suo aspetto oblomoviano. Non lo so. Vedremo.
Dedicarsi ad un libro, lo si fa per dare una conoscenza verso i lettori, oppure per soddisfare il proprio ego di critico?
Credo che sia per entrambe le cose, sulle quali predomina, parlo per me, la mia curiosità innata. Conoscere l’altro è un modo per conoscere sé stessi, lo diceva pure Socrate mi pare, ma nel caso specifico è un modo per avere una conferma di ciò che pensi dell’altro, sia sulla scena che nella vita di tutti i giorni. Insomma la mia curiosità predomina sulla vanità verso i lettori. Nel caso di Bob Wilson, ad esempio, anche se ci siamo incontrati tante volte, mi è mancata la parte umana del suo carattere, sapere molto di più di ciò che viene narrato nelle sue scolorite biografie, questo anche per colpa mia visto che, a differenza del francese, conosco male l’inglese e non riesco a fare una normale conversazione.
Dopo la pubblicazione, quali sono gli eventi che hai messo in atto per diffonderlo, promuoverlo?
Una volta pubblicato il libro ho cercato di farlo conoscere nella mia città, Messina, presentandolo in un locale all’aperto che si chiama ’A Cucchiara, giusto accanto al centrale Duomo attraverso i commenti del critico Franco Cicero e di Dario Tomasello, docente di letteratura e Teatro nell’Università cittadina, leggendo l’attore Gianfranco Quero qualche pezzo del libro. È seguita poi la presentazione all’interno del Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari e certamente ci saranno altri luoghi dove presentare il libro.
Chi ha la distribuzione del libro e che tiratura ha fatto l’editore?
Prima di rispondere alla tua domanda, debbo dire che ero in apprensione circa la pubblicazione di questo libro, anche perché, tranne un testo di Franco Quadri, non è che esistessero libri su Bob Wilson. Ma ciò che m’incoraggiava era di sapere che nessuno lo aveva concepito nel modo che ho fatto io: quello cioè di riportare le recensioni dei suoi spettacoli in tutte quelle città italiane dove lui aveva lasciato il segno e io l’avevo seguito come un segugio. Sul modo poi come impostare il libro mi ero sentito con la mia amica Rita Cirio, noto critico teatrale de l’Espresso, e lei, incoraggiandomi, mi diceva che mi avrebbe inviato un articolo su Wilson riguardo ad una sua mostra di sedie a Parigi, (Wilson come è noto è un collezionista di tale oggetto), assieme ad una curiosa intervista fatta da Umberto Eco. Ho trovato poi tra le carte un articolo di Achille Bonito Oliva, che poi ho inserito nel libro e sono stato incoraggiato pure da una bella prefazione di Dario Tomasello e da una post-fazione, altrettanto bella, di Roberto Andò. Quando poi mi sono sentito per telefono con Mattia Visani, direttore della CuePress, che trovava oltremodo interessante pubblicare il libro, ho lanciato un grido di gioia. E così la CuePress ha distribuito il libro in tutta l’Italia, non conosco la tiratura che è stata fatta, ma credo che tutte le librerie, anche se non esposto in vetrina, come ha fatto Bonazinga di Messina, possono soddisfare ogni richiesta dei lettori. Collegamenti
Beckett graffito
31 Gennaio 2024

Beckett e l’arte seria dell’ironia

Giancarlo Visitilli, «Corriere del Mezzogiorno»

Com’è difficile parlare di uno dei più grandi drammaturghi, scrittori, poeti, traduttori e sceneggiatori del secolo scorso, Samuel Beckett. Difficile come parlare della luna, sosteneva lo stesso: «È così scema la luna. Dev’essere proprio il culo quello che ci fa sempre vedere». E sembra che Enzo Mansueto abbia fatto sue le parole e tutto il senso di un autore che non ha mai dismesso l’arte seria dell’ironia, curando lo straordinario Beckett: un canone di Ruby Cohn, in libreria per i tipi di Cue Press.

Mansueto, anch’egli scrittore, poeta, critico letterario e musicale, docente di lettere, dagli anni Ottanta impegnato negli studi sull’opera del drammaturgo irlandese, della monumentale opera di Cohn, oltre a curare la meticolosa traduzione, scrive la prefazione. Il volume è un vero e proprio scrigno che conserva studi accurati, esperienze teatrali e lezioni critiche, con un’analisi acuta e completa delle opere di Samuel Beckett. C’è tanto di poco o per nulla conosciuto, specie delle poesie degli esordi. Ma la bellezza di questa pubblicazione consta nell’avere fra le mani le opere beckettiane, con accanto un’approfondita ricerca filologica sulle stesse, mai disgiunta da narrazioni e aneddoti legati alla grande esperienza di amicizia fra Ruby e l’artista.

Ruby Cohn è stata una studiosa di teatro e docente di Comparative Drama presso la University of California. Nel 1953, ancora dottoranda alla Sorbona di Parigi, assistette alla prima di Aspettando Godot, un’esperienza che la spinse a dedicare la propria carriera allo studio delle opere di Beckett. Con il passare del tempo, sviluppò un legame intimo con lo scrittore irlandese diventandone un’amica stretta. Sin dal titolo di questo importante e completo studio sull’artista irlandese, ci si impressiona, trattandosi della proposta di un canone. «Mantenendo nel titolo l’articolo indeterminativo voluto dall’autrice –Mansueto fa riferimento alla Cohn – a rimarcare l’instabilità dell’opera complessiva, il rifiuto di ogni monologico schema esegetico, così come la provvisorietà di ogni rilettura, a fronte di un vaglio cronologico che indugia, inciampa, riflette su false partenze, fiaschi e opere abbandonate». Quasi a sottolineare anche l’impossibilità di racchiudere l’opera e la stessa poetica di un autore che si rinnova di lettura in lettura, di scena in scena.

È inquieto il pensiero di Mansueto rispetto a un autore poco amato dal «bel paese là dove’l sì suona». La storia della messa in scena di opere teatrali di Beckett in Italia, scrive il critico nella sua prefazione, «è alquanto contrastata e la frequenza si fa via via più esigua, anche per responsabilità dirette, in verità, di chi ne gestisce, con miope burocrazia questurina, i diritti». Straordinarie le pagine in cui si ammette il percorso singolare di Beckett nel comico: «La riduzione sintattica e verbale, lo scetticismo ingenuo e profondo sono tali che a volte la commedia sembra nascere solo dal ritmo. Poi afferriamo frammenti di senso, solleviamo un velo dopo l’altro, sbattiamo il cervello sulla finzione ancora e ancora, e torniamo al punto di partenza della risata isterica, forse per la nostra situazione. Se non fosse così patetico, potrebbe essere tragico».

E Mansueto scrive di una gamma del comico come «controparte del tragico». Con uno stile saggistico «umanistico», le pagine tradotte da Mansueto «hanno anche uno spiccato carattere didascalico e introduttivo, per quanto, soprattutto per i riferimenti ellittici a opere meno frequentate e per la trattazione alquanto allusiva dell’opera in versi, si richieda una conoscenza o, quantomeno, la consultazione, durante la lettura, dei testi trattati». Essendo la produzione beckettiana di vasta portata, è naturale che la stessa Cohn si accorga del sovvertimento dei generi, delle stesse gerarchie linguistiche, sempre messi a soqquadro e completamente reinventati. Leggendo (senza l’imprescindibile matita) Beckett: un canone, si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a un libro che non è saggio, ma conserva le emozioni del romanzo, facendo della vita dell’immenso artista irlandese la sua stessa opera d’arte.

Emozionano le parole di Mansueto, alla fine della sua prefazione: «Faceva freddo, quella sera di gennaio, nel 1953, a Parigi. La guerra non era lontana. Neanche oggi. Ma siamo sotto un sole che brucia, come in Giorni felici». Beckett aspetta un tempo che si rinnovi, e non sempre nel bene, ma fiducioso che Go- dot, nonostante tardi ad arrivare, lasci gli umani almeno vigili.

Samuel beckett
31 Gennaio 2024

Un estratto dalla prefazione «Faceva freddo a Parigi»

Enzo Mansueto, «Corriere del Mezzogiorno»

Quella del 5 gennaio 1953 fu una serata fredda, a Parigi. Questo, almeno, è ciò che riferiscono le memorie di chi c’era, nonché qualche vecchio giornale, oltre ai registri meteorologici. La mattina del nuovo anno la città s’era risvegliata sotto un inusuale manto di neve, a seguito di una tempesta che aveva spazzato il nord-ovest di Francia. Quella settimana nevicò persino in Costa Azzurra. Un tempo di tregenda, che andava avanti da giorni e giorni e sarebbe perdurato per alcuni giorni ancora. […]

Ruby Cohn era una studentessa americana di trent’anni, a Parigi solo da alcuni mesi. Nell’Europa del secondo dopoguerra, in una capitale di rovine, il contributo di Uncle Sam non si palesava soltanto coi dollari del piano Marshall per la ripresa, evidentemente. Dottoranda in letterature comparate alla Sorbona, Ruby […] alloggiava in una stanzetta, non riscaldata, di Rue Huysmans, quella via breve e residenziale del 6e arrondissement, che dagli anni Dieci sbuca sul Boulevard Raspail, oggi perfettamente in asse con la Tour Montparnasse, il controverso grattacielo inaugurato nel 1973. Quel monolite mastodontico, scuro e solitario nello skyline della Parigi da cartolina, non c’era ancora.

Una di quelle gelide mattine di inizio gennaio del 1953, risalendo di pochi passi il Boulevard Raspail, la dottoranda dell’Ohio, appassionata frequentatrice di teatri e bistrò, fu improvvisamente attratta da una locandina affissa al civico 38, all’ingresso del Théâtre de Babylone, teatro piccolo e non riscaldato, che annunciava la prima rappresentazione di un’opera scritta da un misconosciuto autore irlandese ‘compagnon de James Joyce’. Il debutto di En attendant Godot, meno clamoroso di quanto le bocche magnificanti della storiografia postuma e l’ornamento della leggenda non raccontino […], avrebbe impresso una svolta significativa all’opera e alla vita di Samuel Beckett (condannato alla fama!), così come agli sviluppi del teatro contemporaneo, nonché, in modo davvero determinante, alla vicenda, tanto privata quanto accademica, di Ruby Cohn…

Gabriele frasca foto dino ignani
30 Gennaio 2024

Intervista a Gabriele Frasca

Matteo Marelli, «Film TV», XXXII-5
L’occasione di dedicarci a Samuel Beckett e di confrontarci con Gabriele Frasca, poeta, massimo studioso italiano, curatore e traduttore del recentissimo Meridiano dedicato all’autore (Beckett – Romanzi, teatro e televisione), ci è offerta dall’uscita in sala di Prima danza poi pensa – Alla ricerca di Beckett, fantasioso biopic di James Marsh. «Fantasioso» perché il film si apre su un episodio mai accaduto, ma capace d’inquadrare il tormentato rapporto che Beckett ebbe con il trionfo: lo vediamo all’Accademia reale svedese commentare la vittoria del Nobel con un lapidario «Che catastrofe!». Nella realtà, non andò a ritirare quel premio. Perché, cosa temeva della «condanna alla fama»?

Temeva la disattenzione dall’opera. Comunque a esclamare «Quelle catastrophe!» fu la moglie, Suzanne Dechevaux-Dumesnil. Poi, come dici, Beckett non ritirò il premio, cosa che fece Jérôme Lindon, il suo editore francese. Decise comunque di presentarsi a patto di non rispondere a nessuna domanda e d’intrattenersi per le foto di rito il tempo necessario a fumare un sigaro. La scena, che venne poi replicata a favore di un’emittente svedese, la si trova su YouTube. Beckett non era contro il Nobel, anche se, attenzione, fu veramente tentato di rifiutare, ma per un motivo ben diverso da quello prospettato dal biopic: a rivelarcelo è stato uno dei suoi attori preferiti, nonché suo grande amico, Jack MacGowran – il professor Abronsius di Per favore, non mordermi sul collo! – che racconta di quanto Beckett si ritenesse ‘indegno’ di ricevere un’onorificenza che a James Joyce non venne mai data; quel Joyce col quale ebbe un rapporto molto più importante di quanto tratteggiato da Marsh nel suo film.

Nel saggio introduttivo del Meridiano riflette sulla «lenta inesorabile sparizione dell’opera» dal mercato editoriale italiano, ma non dell’autore, diventato una sorta di icona pop. Come si spiega quest’attenzione schizofrenica nei confronti di Beckett? Pensa ci sia qualcosa nella sua arte che oggi si preferisce rimuovere? Penso a quando scrive «in una società a trazione immaginaria il personaggio divenuto autocosciente è come se ci venisse a stanare».

Sicuramente è così. Quando Beckett apparve sulla scena francese con i suoi primi romanzi – perché è lì che si afferma – è stato immediatamente tradotto in italiano e le case editrici, pur vendendo poco le sue opere, si vantavano di averlo tra i loro autori, consapevoli della sua importanza sulla scena europea. Poi, a partire dagli anni Ottanta, è successo qualcosa che lo ha fatto progressivamente sparire dalle librerie italiane e questo qualcosa – che non ha interessato soltanto l’Italia – è la nascita dei grandi monopoli editoriali che, politicamente, hanno investito su tutto ciò che era semplice. Intendiamoci, è così ovunque, ma nelle altre nazioni la cultura considerata ‘alta’ viene comunque protetta. È triste per un autore che ha amato oltremisura l’Italia; l’autore che forse ha maggiormente letto e ‘usato’ Dante nel Novecento, tanto che una sua amica irlandese in una lettera gli scriveva: «Tu sei il più italiano dei nostri autori».

Un aspetto fondamentale è la natura intermediale dell’opera beckettiana: dalla poesia-narrativa alla drammaturgia, poi la radio (i lavori commissionati dalla Bbc per Third Programme) e, infine, la televisione. Per Beckett però non si è mai trattato di ‘tradurre’ la sua poetica per il diverso formato, ma di ripensare ogni volta il proprio fare a seconda delle specificità del mezzo con cui si andava a confrontare.

Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di committenze. Per la radio è stato così: la Bbc lo ha chiamato per chiedergli esplicitamente un radiodramma e Beckett, invece di spaventarsi, reagì super positivamente. Ma la cosa incredibile è che alla televisione Beckett è arrivato per i fatti suoi: è lui a scrivere un testo per la tv e solo dopo lo manda alla Bbc. Per questo Deleuze ha detto che la televisione lo aspettava come un destino, perché ci è arrivato autonomamente. A un certo punto ha avuto un’idea che non poteva essere per il teatro, ed è stato esattamente quando il suo teatro ha cominciato a utilizzare delle formule che sono tipiche della rappresentazione audiovisiva; basti pensare a Mica io dove sul palcoscenico si vede solo una bocca: quello che in tv sarebbe come un normale primissimo piano a teatro invece ci sconvolge. Beckett ha sentito che la televisione poteva diventare il mezzo della nuova realtà quotidiana e quindi bisognava ripensarsi in relazione a questo strumento, da qui le sue regie – firmate prima di diventare regista teatrale – per la rete televisiva tedesca Sdr. E questo succede in un momento in cui le televisioni dell’epoca, per spinta interna, sono rivolte a sperimentare il mezzo – in Italia succede con Carmelo Bene. Quando Beckett scrive L’ultimo nastro di Krapp coglie nell’utilizzo domestico del nastro magnetico quella tendenza, ora esplosa, di conservare memoria di sé («torna ancora, torna ancora», ripete Krapp), di scannerizzare ogni attimo della nostra vita. Intuisce che quei mezzi che inizialmente ‘subivamo‘ ci avrebbero poi abitato.

Tra i molti mezzi coi quali Beckett si è confrontato c’è anche il cinema, mi riferisco all’esperienza di Film. A riguardo di questo lavoro lei scrive una cosa molto interessante: che Beckett arriva a eludere il montaggio per costringere la macchina a divenire personaggio persecutore.

In quello stesso periodo realizza una messa in scena che si intitola Commedia in cui, grazie all’uso di un riflettore che s’illumina e si spegne inquadrando tre personaggi diversi, crea il montaggio a teatro e poi fa Film, comica tremenda e stralunata (che richiama i versi di una sua poesia: «il peggio/di faccia/finché/ridere faccia») in cui elimina il montaggio e trasforma in incubo l’atto della ripresa (un incubo di cui siamo complici poiché se quella ripresa si compie è perché c’è qualcuno che la guarderà). Oltre a essere un grande appassionato di slapstick comedy – oltre a Chaplin e Keaton, anche di Laurel e Hardy, come si intuisce da Aspettando Godot, perché Estragone e Vladimiro sono chiaramente Stanlio e Ollio – Beckett amava tutto il grande cinema, conosceva benissimo per esempio la scuola sovietica, tanto che nel 1936, non sapendo come condurre l’esistenza, scrive addirittura una lettera a Ejzenštejn per proporsi come aiuto regista. L’unico motivo poi per cui va in America è quello di poter realizzare il suo progetto cinematografico e a infiammarlo, più che la regia di Alan Schneider, è l’idea di lavorare non solo con Keaton ma anche, come direttore della fotografia, con Boris Kaufman, fratello minore di Vertov, che collaborò alla realizzazione di opere per lui fondamentali come Zero in condotta e L’Atalante di Vigo, ma anche di La parola ai giurati di Lumet.

Proprio a riguardo del cinema, ci sono autori che hanno saputo far tesoro della lezione beckettiana?

Sicuramente Losey, attraverso la mediazione di Pinter; Polanski: L’inquilino del terzo piano senza Beckett non si può immaginare. Polanski poi, che avrebbe voluto fare un film su Aspettando Godot ma venne dissuaso dallo stesso autore, ha interpretato nel 2012 il personaggio di Lucky per i sessant’anni della pièce. Poi, i volti di pietra del cinema di Kaurismäki. Ma se vogliamo andare oltre le situazioni, le suggestioni tematiche e le temperature emotive, citerei i Dardenne per l’uso della macchina da presa: la mdp che pedina i personaggi nei primi loro lavori ricorda quella che inseguiva Keaton in Film.

19 Maggio 2023

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La pubblicazione di Teatro III di Marivaux, che segue i primi due volumi editati nel 2021 e 2022, risponde ad un ambizioso e prezioso progetto di Cue Press finalizzato alla divulgazione del repertorio, conosciuto in Italia solo attraverso poche e irreperibili traduzioni, di questo grande commediografo francese molto legato al Théâtre Italien di Parigi, dove […]
14 Maggio 2023

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Per mamma e papà – rispettivamente italiana e albanese – era Aleksandër Moisiu. Per gli italiani – era nato a Trieste nel 1879 – era Alessandro Moissi. Per il mondo del teatro – che era quello austriaco e germanico – era Alexander Moissi. Di queste tre versioni, Massimo Bertoldi, storico del teatro bolzanino e critico […]
6 Aprile 2023

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Paolo Puppa è professore emerito di Storia dello spettacolo all’Università Ca Foscari di Venezia e studioso di storia del teatro. Nel tempo si è aperto le strade di narratore, autore teatrale e attore. Questo libro vuole essere una sorta di sintesi di questo lungo lavoro. In queste pagine vediamo affollarsi il palpitante, disfunzionale brulicare umano: […]
3 Aprile 2023

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1 Aprile 2023

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1 Aprile 2023

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31 Marzo 2023

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19 Marzo 2023

Potere mediceo e teatro negli studi di Zorzi

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18 Marzo 2023

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4 Marzo 2023

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1 Marzo 2023

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28 Febbraio 2023

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27 Febbraio 2023

Nel 1960, L’«Orestiade», tradotta da Pasolini...

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20 Febbraio 2023

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14 Febbraio 2023

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Nell’occuparsi di tutti gli aspetti relativi al complicato intreccio di relazioni interne ed esterne al lavoro registico e attoriale, il grande maestro Peter Brook parla di «rappresentazione nascosta» per definire «la rete invisibile di rapporti tra personaggi e temi» che gli attori sviluppano nelle fasi di prove degli spettacoli, creando dentro di sé forme autonome […]
11 Febbraio 2023

Kracauer, teoria del film

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6 Febbraio 2023

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Gli onori non sono mancati a Jon Fosse, assai prima del Premio Nobel gli è stato concesso l’onore di risiedere come artista nazionale nel castello di Grotten dalla corona di Norvegia e nel 2007 il governo francese gli ha assegnato il cavalierato per l’Ordre National du Mérite. Proprio Parigi è stata la città che gli […]