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Rosso: Logan e i solipsismi di Rothko
Rosso è un testo di John Logan, edito da Cue Press, ispirato alla biografia di Mark Rothko, pittore americano, che ottenne una commessa importantissima, alla fine degli anni Cinquanta, per creare dei murali per il Four Season Restaurant.
Le pièce sulle vite dei pittori rischiano sempre di enfatizzare la figura dell’artista bohémien tralasciando l’aspetto artistico. John Logan, invece, supera questi ostacoli con grande maestria sia perché la vita di Rothko era un tutt’uno con la sua arte e sia per la tensione emotiva delle sue opere.
Rosso non è un testo perfetto: nella prima parte rischia di essere pesantemente didascalico nello scambio di battute tra Rothko e Ken, il suo assistente, ma il dramma cresce man mano che Ken acquisisce consapevolezza della sua vita e del suo rapporto con l’arte e l’integrità del suo datore di lavoro disintegrata da una commessa importante. Ed è qui che Logan diventa sublime: riesce a far entrare il lettore-spettatore nelle maglie della pittura di Rothko, nelle contraddizioni di un’arte vissuta come vocazione e sofferenza.
Un ritratto di artista veritiero e credibile, un dramma moderno convincente sulle pieghe dell’animo dove il gesto pittorico e quello umano diventano un tutt’uno. Rothko vuole essere capito e, per motivare il suo bisogno inespresso, tira in ballo la pittura occidentale, Nietzsche, Sheakespeare, Jung. Ken, invece, è uno studente intelligente, che vuole apprendere il mestiere ma, al contempo, cercare di cogliere il senso ultimo della pittura e dell’Arte.
Visto da un altro punto di vista, Rosso, invece, potrebbe sembrare un espediente narrativo attraverso il quale Logan utilizza Rothko per affermare alcune sue posizioni sull’arte mainstream ma, in realtà, è un lavoro erudito e accattivante che diverte e appassiona spingendo la riflessione anche al di là dell’opera stessa di Mark Rothko.
Quest’anno Francesco Frongia ha riportato in scena il testo di Logan affidandolo all’arte e alla maestria di Ferdinando Bruni, affiancato da Alejandro Bruni Ocaña.
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Stanislavskij, una geografia teatrale e umana
Invertendo l’ordine di uscita dei tre storici volumi curati da Fausto Malcovati per Ubulibri delle regie di Stanislavskij, ma seguendone l’ordine cronologico delle rappresentazioni, viene ripubblicato ora per Cue Press Le mie regie – Il gabbiano, il primo e probabilmente anche il più tormentato spettacolo messo in scena dal grande regista russo di un testo di Čechov.
Il dettagliatissimo copione di scena, a fronte del testo vero e proprio, è la vera ragione della straordinaria importanza scientifica e culturale del lavoro di Malcovati, il nostro più acuto e appassionato studioso di letteratura russa, di cui in questa nuova uscita editoriale, si ripropone l’illuminante introduzione e il ricco apparato di note. Superfluo dire che questo libro, e gli altri che seguiranno (Zio Vanja, Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi), non dovrebbero mancare in nessuna scuola di teatro e di regia degna di questo nome perché alla fine i ‘quaderni’ di Stanislavskij sono veri e propri manuali di una regia creativa colta nel suo dinamico e geniale divenire.
Ed è proprio in quella «catastrofica prima» del Gabbiano, il 17 ottobre del 1896, che nasce il teatro moderno: quell’idea di un nuovo teatro che nasce in palcoscenico, di una scrittura registica diversa dal testo drammatico. Malcovati ripercorre, attraverso una prosa saggistica scientificamente inappuntabile e magistralmente avvincente, il tempo di quelle battaglie teatrali e delle prove, dei febbrili entusiasmi e delle brucianti sconfitte, di rapporti personali difficili, come quello fra Mejerchol’d e Stanislavskij, sullo sfondo di temperie artistiche che avrebbero segnato il destino teatrale di un intero secolo. In tal modo, Fausto Malcovati ci regala, nel suo intrico di saperi, una geografia teatrale e umana densa di contributi specifici, ed entusiasmante per chi ha voglia di conoscere le origini del nostro teatro contemporaneo, e vuole affidarsi a quella «speciale provvidenza» in cui risiede il segreto del teatro e della mortale esistenza.
La necessità di domandare
Marco Martinelli si è concesso uno spazio di riflessione per porsi, in poche pagine, tutte le domande fondamentali. Cosa significa fare teatro oggi? E quale funzione può conservare l’arte scenica nella nostra società 2.0? Le risposte, quelle possibili, vengono dalla pratica quotidiana con le Albe, dall’esperienza ormai pluriennale con la propria tribù: il palco come luogo di incontro con il diverso e di meticciato, l’attore come portatore sano dell’elemento dionisiaco, l’inclusione di adolescenti nella creazione artistica al di fuori delle rodate logiche di laboratorio (Eresia della felicità), le possibili forme di trasmissione del sapere (la non-scuola). Ma non bisogna aspettarsi un trattato o una lezione ex cathedra: Martinelli procede per brevi paragrafi (101 in tutto), propone suggestioni frammentarie e volutamente asistematiche, rifiuta una forma fissa e chiusa. Si rivolge direttamente al lettore, supera le modalità della comunicazione scritta, abbraccia come possibile interlocutore l’intera famiglia del teatro, dalle maschere ai tecnici, dai critici allo spettatore.
C’è molto di personale, nelle pagine di Farsi luogo: l’incontro con Ermanna Montanari, i maestri conosciuti lungo il percorso (Leo de Berardinis, Carmelo Bene, l’Odin Teatret), la formazione della compagnia, il rapporto privilegiato con certi classici (Aristofane e Brecht, in primis). Ma è possibile percepire, allo stesso tempo, l’urgenza di toccare questioni universali, la volontà di uscire dalla cerchia ristretta degli addetti ai lavori: qual è oggi una modalità possibile per un’interlocuzione profonda con l’altro? E quali strade possiamo percorrere, nella prassi quotidiana, per avvicinarci a ciò che per noi è necessario? Occorre «il rifiuto di ogni conformismo e il coraggio di una ricerca incessante», suggerisce Martinelli. Ma è altrettanto chiaro che «non ci sono ricette», perché «è la domanda il punto di partenza»: al lettore spetta individuare la propria.
L’editoria teatrale è un dramma
In tempi di recessione, se le case editrici non ridono, quelle specializzate in testi teatrali piangono: per la crisi che colpisce il mondo del libro, e più ancora per la convinzione diffusa che il teatro scritto sia una nicchia per pochi. A lanciare l’allarme è una sigla, Minimum fax, che non fa parte del settore, ma che da poco ha mandato in libreria uno dei testi più importanti della seconda metà del XX secolo, Lear di Edward Bond. Nella nota introduttiva l’editore romano sottolinea come l’opera sia stata pubblicata solo grazie alla collaborazione con la compagnia La casa d’argilla di Lisa Ferlazzo Natoli, che in dicembre l’ha allestita al Teatro India di Roma. E Minimum fax chiude con un appello: se vogliamo puntare sull’editoria teatrale è necessario educare lo spettatore italiano a confrontarsi con il testo scritto.
Ribatte Maximilian La Monica, direttore della casa editrice Editoria&Spettacolo: «Smettiamola di prendercela con chi i libri li pubblica e con chi li legge. L’editoria teatrale è seguita da tanti lettori, che spesso non sono quelli che vanno a teatro».
Certo la crisi del settore non aiuta: in base ai dati Aie (Associazione Italiana Editori) nel primo semestre 2015 il fatturato del mercato del libro è calato del 3,6% rispetto all’anno precedente. E del resto, anche Editoria&Spettacolo è passata dai 18-20 titoli degli anni scorsi ai 12-13 dell’ultimo anno.
Prosegue La Monica: «Ormai in libreria lo spazio per la drammaturgia è ridottissimo, ma la vendita online, grazie ad Amazon, funziona molto meglio delle librerie-supermercato. Il punto è che per la pubblicazione di autori contemporanei non esiste alcun tipo di sovvenzione. Talvolta gli istituti di cultura finanziano la traduzione di testi stranieri, ma il problema si pone con i diritti d’autore: è difficile spiegare che in Italia non abbiamo i numeri di vendita che ci sono all’estero».
La mancanza di una capillare rete di distribuzione e di finanziamenti rende difficile mantenere una linea editoriale coerente, e la drammaturgia di casa nostra resta relegata ai tanti Pirandello che spopolano nei cartelloni anche in questa stagione. Né la nascita dell’ebook risolve la situazione: secondo i dati Istat in Italia solo l’8,2% della popolazione ha letto o scaricato ebook negli ultimi tre mesi; niente a che vedere con i picchi statunitensi dove, a detta dell’Association of American Publishers, seppur con un rallentamento, si arriva al 20%.
Non la pensa così Mattia Visani fondatore della Cue Press, casa editrice che punta sulle nuove tecnologie recuperando in formato ebook la migliore produzione editoriale di settore e lanciando proposte inedite: «Sono convinto che la drammaturgia in Italia sia vivissima e di ottimo livello, ma le cose vanno reimpostate su nuovi modelli. Esiste un pubblico reattivo, ma non è più raggiunto dai metodi dell’editoria tradizionale».
Per Visani le vendite vanno bene: grazie anche alla pubblicazione cartacea on demand propone circa 10-15 libri in due mesi.
Per Enrico Falaschi, direttore della attivissima Titivillus, il problema della mancanza di un’educazione alla lettura drammaturgica inizia sui banchi scolastici: «Ma un cambiamento inizia a vedersi. La riforma della Buona Scuola ha inserito nei programmi l’attività teatrale e cinematografica. Per farlo però sono stati stanziati 2 milioni di euro in tutta Italia, cioè nulla. Resta comunque un segnale importante».
Il processo però rischia di fermarsi all’università: «L’istituzione della laurea triennale ha fatto sì che si adottino testi più brevi e onnicomprensivi, mettendo fuori gioco quelli che per anni sono stati punti di riferimento per la formazione in queste discipline».
Ai problemi di fondo si aggiunge la difficoltà di fare rete. Non così in altri paesi, come il Regno Unito, dove le case editrici teatrali fioriscono spesso intorno a una libreria che è luogo di incontro e di scambio. Come il londinese Calder Bookshop aperto da John Calder, vecchio amico di Samuel Beckett: attorno alla libreria (e casa editrice), che si trova a due passi dai teatri Old Vic e Young Vic, gravitano altri tre marchi indipendenti: Hesperus Press, Alma Books, Oneworld Classics. E qui si radunano autori, poeti, vecchi e nuovi clienti, un circuito che aiuta a creare una clientela più giovane e attenta agli autori emergenti. In Italia, perfino una sigla come Ubulibri, che grazie al suo fondatore, il critico Franco Quadri, ha introdotto gran parte della drammaturgia straniera e non, è in sofferenza. Alla morte del padre, il figlio Jacopo ha tentato invano di trovare finanziamenti adeguati e una testa che potesse dirigerla. Ora prosegue idealmente il lavoro paterno attraverso dei documentari, l’organizzazione di burning books (la distribuzione pubblica dei testi) e la cessione di parte del catalogo a Einaudi.
Quanto alla storica La Casa Usher, ha attraversato una fase difficile, ma ha ora ripreso le pubblicazioni. Spiega ancora a pagina 99 Enrico Falaschi: «Bisogna riqualificare il nostro bagaglio teatrale, avviare un processo identificativo veicolandolo all’estero. La domanda c’è, ma dovremmo fare un passo ulteriore e tradurre i testi mettendoli poi in vendita come ebook. Mi riferisco soprattutto ai saggi di autori del livello di Meldolesi o Marotti ma anche ai nuovi autori come Erba, Santeramo, Massini». E conclude: «Le eccellenze ce le abbiamo, hanno solo bisogno di sostegno».
Farsi luogo: lo sguardo di Martinelli
È un librettino da leggersi tutto d’un fiato, Farsi luogo di Marco Martinelli. Lo pubblica, come ebook ma anche a stampa Cue Press, una giovane casa editrice di Imola specializzata in editoria teatrale, che sta recuperando alcuni saggi ormai introvabili (tra gli altri Brecht regista di Claudio Meldolesi) e molti nuovi testi.
Questo di Martinelli è un intenso scritto di poetica del teatro. Il sottotitolo Varco al teatro in 101 movimenti ne afferma lanatura di esperienza che si chiede di condividere e ne fa anche un personale manuale di buone pratiche. Lo scrittore e regista, fondatore del Teatro delle Albe di Ravenna, contrappone il teatro come luogo vivo dell’incontro tra un io e un tu ai non luoghi che costellano la vita contemporanea. Il teatro vivente, «che il cuore gli batte», è luogo del «Visibile, del Tangibile, del Corpo che sente». È luogo del «Necessario, dell’Utile» come un ago per cucire, ma anche «dell’Inutile, del Gratuito», come una preghiera.
Una forte ispirazione etica guida tutte le 101 tesi, perfino con qualche sfumatura leggibile in chiave religiosa. Martinelli parla del teatro come posto dell’eresia, intesa come scelta, ma anche dell’ortodossia, della retta opinione, del giusto, del bene, della verità, della grazia, come rifiuto del narcisismo, come rispetto della dignità di tutti. Luogo della relazione, tra chi vi lavora e lo spettatore. Luogo germogliante e di alchimie tra opposti, tende a parlare alla polis, alla società, a creare quel coro, quella comunità assente di cui tanto si sente la mancanza.
Alle spalle delle considerazioni ci sono più di trent’anni di pratica teatrale, rivendicati con brevi accenni. Si inizia dal 1977, con la fuga da casa del regista ventenne con Ermanna Montanari per sposarsi e fare teatro. Martinelli racconta poi la paziente e faticosa costruzione del teatro sognato, giorno per giorno, viaggiando, incontrando, sbagliando. Ricorda un lavoro sempre teso a costruire incontri, a mettere al centro il rapporto interpersonale. Dalla coppia iniziale nel 1983 con Luigi Dadina e Marcella Nonni nascono le Albe, poi il cerchio si allarga con il meticciato con immigrati africani trasformati in attori, con la forza dionisiaca degli adolescenti della città nella non-scuola, una pedagogia vivente, senza pedanterie, esportata poi in Italia e nel mondo. Sempre io e tu al centro, per costruire il teatro come utopia realizzata.
Pim, quando il successo è essere off
La storia di un’anomalia. Di un esperimento in grado di divenire realtà solida, per certi aspetti seminale. Si sa, i compleanni sono il pretesto per fare i conti con sé stessi. Per tracciare bilanci. O forse semplicemente per festeggiarsi. La pubblicazione di Pim Off è un po’ tutto questo, all’interno di un volume ibrido dove, a fianco di saggi dallo spessore accademico, si ritrovano testimonianze di pancia; dove ci si lascia divertire dagli aneddoti, prima di soffermarsi sulle opinioni.
Un mosaico di firme e ispirazioni quello voluto dall’‘hystrionico’ Roberto Rizzente, affiancato dalla ex editor della Ubulibri Antonella Cagali. Nel tentativo di uscire dalla stretta apologia cronologica, approfondendo una serie di tematiche che hanno fatto la storia del Pim Off ma che molto appartengono all’identità di Milano. Prima fra tutte il rapporto fra cultura e periferia, bene analizzato anche nei suoi sviluppi storici dal saggio di Bruno Milone.
Il Pim (all’epoca senza Off) nasce infatti dalla lungimiranza di un mecenate, che crea un teatro ‘internazionale’ prima in via Tertulliano, poi nella più ampia sede di via Selvanesco, periferia della periferia. Un rapporto non facile. Ma è un aspetto fondante di questo (non) teatro a cui dà vita Maria Pietroleonardo nel 2005, facendo convivere prosa, performance, letteratura, danza, musica (il jazz, ma non solo). La sensazione è che una delle caratteristiche di questi dieci anni sia stata la capacità del Pim Off di essere all’interno dello spirito del tempo. E della città. Pur nell’anomalia di una struttura che poggia su un curioso caso di mecenatismo da Terzo Millennio. Un legame con la Milano capitale italiana dello spettacolo che sottolinea anche Salvatore Carrubba nella sua prefazione.
Il resto è poi affidato a saggi, testimonianze, a una breve sezione fotografica, ai tanti ricordi che si prestano alla mitologia: dalla fantascientifica toilette giapponese a un Franco Quadri coinvolto in una notturna pasta e cozze. Interessanti le interviste ai quattro direttori artistici che si sono succeduti: Massimo Bologna e l’idea del Pim Casa di Cultura, Edoardo Favetti, Barbara Toma, la stessa Pietroleonardo. Per un presente ancora da scrivere.
Per un teatro vivente
Procede per tesi, Marco Martinelli, intrecciando una spirale di 101 argomenti rivolti come riflessioni al lettore con un piglio fortemente discorsivo, quasi dialogico. D’altra parte l’idea di teatro (e di società) che traspare da questo scritto è proprio quella di una relazione costante, che abbandoni ogni narcisismo, ogni esibizionismo cui spinge la società dello spettacolo, e vada a esplorare la relazione elementare, essenziale, vivente tra un io e un tu. Per Martinelli non è importante la messa in scena, quanto la messa in vita: il teatro ha senso solo quando è «vivo, vivente, che il cuore gli batte», come luogo «dell’Invisibile, della Rivelazione, dell’Accadimento», luogo, ancora, «del Visibile, del Tangibile, del Corpo, che sente, sensuale». Luogo «dove la gioia balbetta sopra le macerie, dove gli assetati trovano da bere, gli affamati pane per i loro denti, dove i miracoli sono ancora possibili». Luogo di desiderio, di comunione, di rivelazione, di scambio, di affratellamento. Modello di resistenza (o resilienza) per una società sempre più individualistica. Piccola area liberata, zona della ‘buona notizia’, pratica evangelica sia per chi creda nel divino sia per chi confidi solo nell’umano, luogo francescano o di quelle comunità anarchiche che non mettono le bombe, che hanno terrore del terrore. Gli argomenti iniziano tutti con la lettera minuscola, a segnare un flusso discorsivo in continuo sviluppo, in eruzione: «Il teatro come luogo del Necessario e dell’Utile. Come un ago per cucire» (tesi 9) e «il teatro come luogo dell’Inutile, del Gratuito. Gratis et amore dei. Come una preghiera» (tesi 10). Il teatro come luogo dove deve germogliare vita nuova, attraverso l’incontro, attraverso l’invenzione di una comunità sulle macerie devastanti dell’individualismo, del cinismo, dell’isolamento contemporaneo. Il teatro come luogo di ricerca della verità attraverso l’esplorazione degli opposti, per quell’opus alchemicum che è più dell’opera, è un processo per salti, per invenzioni, per folgorazioni e cortocircuiti, capace di svelare nuova vita e nuova bellezza dai rottami dei materiali più vili.
A Martinelli interessa la polis, un teatro della polis, da inventare. Un teatro che sia coro, materia sacra, viva, nell’epoca dell’assenza, della mancanza, della distanza mediatica, della disgregazione di ogni idea stessa di comunità. Il teatro si fa luogo attraverso l’incontro, in scena, fuori della scena, tra artisti e spettatori (senza trascurare gli altri mestieri del teatro), contrapponendosi ai ‘non luoghi’ della nostra società. È incontro, scavo, invenzione. È luogo di grazia, dove trovare una grazia, non per meriti acquisiti e neppure per testarda applicazione, ma per improvvisa conquista (il mistero dell’arte!). E qui rifulge un altro lato teologico, rigorista nella sua gioiosità, di una teologia che si allontana dalla semplice giustificazione attraverso le opere. Scrive Martinelli: «Parlo del teatro come luogo del lampo non trasmissibile. Bastasse faticare! E invece no: tutto il tuo faticare non sarà mai sufficiente a raggiungere la grazia».
Qui grazia è giocato, credo, in modo apertamente ambiguo, tra levità e bellezza della forma artistica e illuminazione derivante del favore divino, come coscienza – in una personalità che ha fatto della pedagogia uno dei suoi principali strumenti di innovazione – del mistero del caso, dell’illuminazione, della creazione (e della vita). D’altra parte Martinelli intesse questa sua riflessione teatrale continuamente di spunti che si misurano con una dimensione apertamente, largamente, religiosa della vita: dall’idea di legame a quella di spirale, a quella professione del coraggio di sostenere la bontà, senza paura di essere accusati di buonismo.L’idea della spirale è fondante, perché sostanzia le riflessioni della carne dell’esperienza. Si parte dall’Io, non isolato, che diventa due e poi molti, allargandosi in cerchi sempre più ampi. In questa figurazione parla la storia stessa, concreta, delle Albe: iniziata quando ancora il gruppo non aveva questo nome dalla fuga d’amore e matrimonio dei ventenni Marco Martinelli ed Ermanna Montanari; nutrita dal fuoco del fare teatro, senza scuole, eleggendosi i propri maestri in un cammino di pratiche personali. I due diventano Albe nel 1983 con Luigi Dadina e Marcella Nonni, per allargarsi poi ad altri compagni di arte, i senegalesi della Romagna Africana e altri meticciati, gli adolescenti della non-scuola, una pedagogia intinta di vita contro ogni pedanteria. Alcuni di quegli adolescenti poi vengono inseriti in compagnia, e la non-scuola germina volute sempre più larghe con l’invenzione corale con giovani e giovanissimi in molti luoghi di Italia e del mondo, a Scampia come a Chicago, in Senegal come a Milano, fino a Eresia della felicità, cori di centinaia di ragazzi alle prese con i versi dell’utopia rivoluzionaria di Majakovskij da Santarcangelo 2011 a Milano 2015.
Questo è il teatro per Martinelli: messa in vita, che si sostanzia di pratiche attraversate in un errare teatrale continuo (nei due sensi di viaggiare e sbagliare e riassestare il campo), con riferimenti a maestri di utopia come il teatro greco, quello comunitario medievale, quello della rivoluzione russa, quello dei tanti, diversi maestri (Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Carmelo Bene, Arianne Mnouchkine, Leo de Berardinis…). Teatro come spirali di vita. Come domande alla società, perché se essa ritiene il teatro un intrattenimento in via di estinzione è solo perché il teatro stesso non sa dire nessuna parola capace di parlare alla nostra società, non ha (generalmente) più un linguaggio, un interlocutore, una capacità di scavare e rovesciare il reale.
Il punto di partenza però è inscritto dentro di noi, in un vibrare che nasce dal corpo, un qualcosa che chiede di germogliare, di farsi luogo. E questo libretto è anche la storia di un artista che con i suoi compagni ha lavorato per inventare il proprio teatro, basandosi sempre sulla curiosità per il mondo e sulla ricerca dell’altro, alimentando la concorrenza, ossia dando spazio ad altri teatranti, anche con visioni molto diverse. Quando il comune di Ravenna agli inizi degli anni Novanta chiamò le Albe a gestire i teatri della città sotto la sigla Ravenna Teatro, loro trasformarono la programmazione in un’azione duratura di coltura teatrale, con la consapevolezza che vita e arte non si possono scindere. E che bisogna lottare, contro narcisismo e corruzione, in una visione che non guarda al successo ma alla capacità di creare legami, di trasmettere e di lasciarsi sorprendere dalle nuove energie prorompenti. E così il libello teatrale diventa una lettura per tutti quelli che chiedono ai nostri tempi il rigore sfavillante di un’utopia imbevuta di concretezza, di una ricerca profonda di sé che diventa apertura, avventura sociale, invenzione comunitaria.
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Cue Press, la ribalta digitale del teatro
Sta portando avanti una piccola e grande rivoluzione, sta cambiando l’editoria teatrale divisa fra l’urgenza dell’attualità e la possibilità di dare corpo a instant book che leghino pagina scritta e spettacolo, ma anche con un’attenzione alla memoria, che in campo editoriale vuol dire rimettere in circolo libri ormai introvabili. Sembra essere questa in estrema sintesi la ‘rivoluzione’ che sta portando avanti la casa editrice Cue Press di Mattia Visani, autore della UbuLibri di Franco Quadri che ha deciso di dare vita alla prima casa editrice digitale dedicata alle arti dello spettacolo. Quest’intuizione si sta rivelando feconda, intuizione che Visani definisce come: «Un laboratorio di idee per costruire modelli nuovi per l’editoria e moderne modalità di produzione culturale. A fronte di una materialità che va assottigliandosi sempre di più, non pensiamo il libro come ‘oggetto’ ma come ‘progetto’. Sfruttando l’agilità del digitale, proponiamo il meglio della produzione viva di settore, in vista di un pubblico che esiste ed è reattivo, ma non raggiunto – e forse non più raggiungibile – dai metodi dell’editoria tradizionale».
In questo senso Cue Press rappresenta un’autentica novità. E allora accade che mentre al Carcano è in scena Due donne che ballano di Josep Maria Beneti Jomet con Maria Paiato, Arianna Scommegna dirette da Veronica Cruciani sia possibile avere da subito un confronto diretto con il testo dell’autore catalano, la storia intensa, vera, dura del rapporto fra due donne: un’anziana signora e la sua badante. Ma la stessa cosa è accaduta con Sweet Home Europa di Davide Carnevali, uscito mentre a Roma faceva discutere l’allestimento firmato da Fabrizio Arcuri e realizzato dall’Accademia degli Artefatti. È questa una tattica inaugurata con Visita al padre di Roland Schimmelpfenning, uscito in contemporanea con l’allestimento prodotto dal Piccolo Teatro di Milano e diretto da Carmelo Rifici nel gennaio 2014. Tutto ciò per dire che con Due donne che ballano – fresco fresco di ‘stampa’ si fa per dire – Cue Press intende dare un supporto concreto e facilmente accessibile: sia per il mezzo ebook, formato pdf e versione stampata on demand alla drammaturgia in scena, finendo con affiancarsi alla vita stessa degli allestimenti e con prezzi di copertina abbordabili, meno di un libretto di sala, osserverebbero coloro che ricordano come i programmi di sala in alcuni casi fossero, un tempo, pubblicazioni degne di essere conservate. E sempre per rimanere nella più stretta attualità non si può non citare l’uscita del volume di Lino Musella e Paolo Mazzarelli, Strategie fatali, «ovvero tre storie che si intrecciano, sette attori, sedici personaggi, riuniti in un’unica multiforme indagine, all’interno di un’unica cornice, quella di un teatro. A scontrarsi sono le ‘strategie’ del presente (il terrore, la pornografia, la comunicazione mediatica) con alcune questioni eterne ed esistenziali (la presenza del male, l’illusione e la realtà del vivere, ancora il Teatro). L’opera è liberamente ispirata a Otello di Shakespeare e a Les strategies fatales di Jean Baudrillard», si legge nelle note di accompagnamento al volume. E il libro arriva a poche settimane di distanza dal riconoscimento assegnato dal trimestrale Hystrio a Lino Musella, nell’ambito dei Premi Anct 2015; ancora una volta un motivo di cronaca che rende tempestiva e mirata l’azione editoriale di Cue Press.
E fin dalla sua fondazione Cue Press e Mattia Visani hanno mostrato di avere le idee chiare e di intuire con determinatezza le potenzialità del digitale. «Cue Press nasce, infatti, con la decisa intenzione di sfruttare l’agilità e l’economia del digitale per permettere il recupero di testi fondamentali non più disponibili, rilanciandoli sulla base delle nuove economie offerte dal digitale — continua Mattia Visani. Il progetto di recupero andrà di pari passo con la proposta di novità di altrettanto valore, in vista di un pubblico che esiste ed è reattivo, ma non è più raggiunto — e forse raggiungibile — dai metodi dell’editoria tradizionale. L’intento è quello di coniugare il contributo e la memoria di artisti e studiosi di assoluto rilievo, garantendo un’altissima qualità del prodotto e il massimo dell’offerta tecnologica. Il progetto è orientato alla scalabilità, in termini economici, e alla riproducibilità verso rami del sapere sempre nuovi». Con questa consapevolezza Cue Press sta portando aventi un’azione di politica editoriale e comunicativa che al fianco dei testi di Tindaro Granata raccolti nel volume Familiae, propone – anche questa una novità fresca di clic – I mille volti di Salomè di Cesare Molinari in cui lo storico del teatro ripercorre e analizza il mito di Salomè, il primo spogliarello della storia inventato niente meno che dai Padri della Chiesa e che nel corso di due millenni ha vissuto storie diverse, diventando simbolo di valori anche contraddittori: devozione filiale, intrigo politico e perfino fede cristiana. Il libro ripercorre la tappe di questa ‘danza’ attraverso i secoli, ne ripercorre i volti: cento inserti illustrati e più di trecento opere citate, tra quadri, affreschi, incisioni, disegni, fotografie, film e spettacoli. Il volume di Cesare Molinari è l’ultimo di una serie di saggi che la casa editrice ha proposto fin dalla sua nascita come i volumi La Calandria di Franco Ruffini, piuttosto che La Parola Alta di Paolo Puppa dedicato al teatro di D’Annunzio e di Pirandello, o al saggio di Nicola Savarese, Teatri romani, solo per fare qualche titolo.
Nell’immediatezza dell’editare, nella possibilità di ovviare a diversi formati editoriali con il cartaceo come lusso, Cue Press si offre come ‘ribalta digitale’ delle arti performative con un’attenzione non scontata alla saggistica e alla volontà – diritti editoriali permettendo – di recuperare la memoria della saggistica teatrale, di recuperare una riflessione sulle arti performative legate ad autori e ricerche dell’accademia italiana, ma che per autorevolezza e intuito hanno felicemente superato le mura dell’università per farsi patrimonio comune, un patrimonio di idee e parole che spesso risulta difficilmente reperibile e che Cue Press – complice la rivoluzione digitale e la sua liquida accessibilità – mette in circolo. In questo senso l’azione editoriale inventata da Visani si fa non semplice prodotto editoriale, ma opportunità per diffondere online idee, punti di vista, provocazioni come quelle sempre intelligenti e dotte di Marco Martinelli che firma Farsi luogo ovvero 101 varchi per entrare nel teatro, per andare a toccare le verità sondabili e illuminanti che stanno dietro l’arte della scena e dell’attore: nella consapevolezza che come scrive Martinelli: «Che la vita e l’arte non sono separabili, mai: che la ferita inferta a un essere umano è come sfregiare la Cappella Sistina. Non è questione di galateo e buone maniere. È il punto, il punto infuocato dentro di noi!»
Proprio le parole scritte ma evocate all’oralità di Martinelli – che con Farsi luogo compone un poemetto in prosa di idee e vite teatrali – aiutano a ben inquadrare lo spirito che muove la ribalta digitale di Cue Press, ovvero ‘farsi luogo’ per costruire uno spazio di riflessione, documentazione, circolazione di idee legate alle arti performative: teatro e danza che nell’epoca della riproduzione seriale, della comunicazione sempre mediata sono spazi e tempi del confronto diretto fra corpi e anime che si incontrano. E non è poca cosa.
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Cue Press, il teatro in ebook e su carta
Le case editrici di spettacolo sono rare ma tenaci. Basterebbe citare la Ubulibri di Franco Quadri che ha resistito indomita fino alla morte del suo fondatore e che ci ha fatto conoscere i migliori testi della drammaturgia contemporanea. Oppure la Casa Usher con il grande lavoro che sta compiendo su Grotowski con tutti gli scritti del maestro polacco tradotti e a cura di Carla Pollastrelli.
Si distingue ora la Cue Press per lo sguardo lungo in avanti, ma anche l’interesse storico dei suoi titoli e per la velocità di azione, perché Cue pubblica sia in digitale che su carta a scelta del lettore. La dirige Mattia Visani, cresciuto al Teatro Stabile di Torino come attore e regista.
Tra i libri della Cue io ho molto amato la ristampa di Teatri romani di Nicola Savarese che ci fa sentire e conoscere ‘da vicino’ le forme di spettacolo antiche, e in particolare quelle forme da cui ebbe origine il teatro inteso come esibizione ludica più che come rito legato alla religione e/o alla polis. Il libro di Savarese si inserisce in un catalogo già ricco di studi storici importanti. Tra gli autori: Fabrizio Cruciani, Eugenia Casini Ropa, Marco De Marinis, Clelia Falletti, Raimondo Guarino, Gerardo Guccini,Fausto Malcovati, Lorenzo Mango, Laura Mariani, Ferruccio Marotti, Claudio Meldolesi, Cesare Molinari, Franco Ruffini, Mirella Schino, Ferdinando Taviani, Alessandro Tinterri, Ludovico Zorzi.
Tra le pubblicazioni più recenti: Familiae con tre testi di Tindaro Granata, Antropolaroid, Invidiatemi come io ho invidiato voi, Geppetto e Geppetto, quest’ultimo destinato a diventare il nuovo spettacolo dell’attore/autore siciliano. Così viene presentato il testo: «1 papà + 1 papà = un figlio?: ovvero, il sogno di avere un figlio da parte di una coppia di omosessuali, messo a duro confronto con lo sguardo degli altri e di una società condizionata e impaurita dalla sfida grande che comporta l’amare». Il testo è curato da Damiano Pignedoli, con una postfazione di Carmelo Rifici.
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