Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

20 Aprile 2024

Il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena

Simone Sormani, «Proscenio», IX-4

Non era di certo tra gli autori più conosciuti in Italia, Jon Fosse. Almeno fino al 5 ottobre scorso, quando è stato proclamato vincitore del Nobel per la Letteratura 2023. Quel giorno le richieste di suoi volumi alla Cue Press sono schizzate da circa uno o due all’anno a duemila cinquecento in un’ora. Lo ha detto alla giornalista Katia Ippaso – su Il Venerdì di Repubblica – Mattia Visani, direttore della piccola casa editrice che di Fosse ha in catalogo Caldo, Saggi gnostici e Teatro. In passato le sue opere sono state proposte anche da Fandango, Editoria & Spettacolo e Titivillus, e ora da La nave di Teseo e da Einaudi ma, pur essendo la sua produzione letteraria sterminata, solo da poco è entrato nei circuiti dei grandi colossi dell’editoria nazionale. Tutto ciò accresce ancora di più il mistero che aleggia intorno a questo autore norvegese nato nel 1959 ad Haugesund, nel Sudovest della Terra dei Fiordi, e che oggi vive ad Oslo in una residenza onoraria concessagli dalla Corona. Insieme al carattere schivo, che lo porta a stare lontano dai riflettori; all’aspetto vagamente esistenzialista – capelli lunghi, barba, veste spesso di scuro- ; alla scelta di comporre in nynorsk, una variante minoritaria del norvegese; al misticismo che lo pervade e a cui dice di essere approdato attraverso la scrittura – passando da una gioventù rockettara e pacatamente atea al protestantesimo e poi al cattolicesimo.

Del resto, ha raccolto le proprie riflessioni teoriche e filosofiche in un volume intitolato Saggi gnostici, dove afferma che ‘il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena’. E se pensiamo all’angelo quale ‘messaggero’ tra l’umano e il divino, capiamo subito come la sua scrittura più che sul pensiero si fondi sull’ascolto di messaggi interiori, di quel groviglio di sentimenti e stati d’animo che, altrimenti, sarebbero destinati a rimanere nell’«indicibile». Una ricerca di una dimensione intimistica che sta tra due grandi stagioni: quella di ieri, il Novecento, dove tutto era politica e ideologia e l’ansia di indagare il rapporto tra individuo, società e i grandi movimenti e mutamenti di massa schiacciava prepotentemente le ragioni dell’Io; e quella di oggi e di domani, dove si palesa il pericolo del dominio di una tecnologia che si propone di pensare e agire al posto dell’uomo pur non avendo nulla di umano, alcuna capacità di sentire ed empatizzare. Senza voler tralasciare la narrativa – tra cui in traduzione italiana Melancholia (prima edizione Fandango 2009), romanzo che nel 1995 lo impose all’attenzione del mondo letterario, Mattino e sera e la poderosa opera in sette volumi Settologia (pubblicati da La nave di Teseo tra il 2019 e il 2023) – è proprio nei testi teatrali di Fosse che si avverte fortemente la centralità di un rapporto senziente con gli altri, tra gli altri e con il mondo, di ponti emotivi ed esperienziali, tradotti in una drammaturgia fortemente innovativa. A partire da spazi atemporali, indefiniti, dove le azioni non sempre hanno linearità cronologica e possono accadere contemporaneamente cose solo apparentemente sconnesse tra loro, ma in realtà legate da nodi inestricabili, e i personaggi guardarsi attraverso ricordi, pensieri, premonizioni. Dialoghi brevi, minimali, ricchi di ripetizioni, rappresentano il segno distintivo di una narrazione il cui senso diventa, talvolta, sfuggente e ambiguo. Sono le pause, in realtà, i non detti, i gesti e gli sguardi – tutti descritti attentamente nelle didascalie – a prevalere sulla parola. È lì, nei silenzi comunicativi, che si coglie il flusso di emozioni, che le battute acquistano tutta la loro pienezza di senso e le trame consistenza nel raccontare inquietudini e drammi del quotidiano, conflitti generazionali e precarietà dei rapporti familiari e di coppia.

Fosse così «scardina le tradizionali forme e strutture drammaturgiche, frantuma le abilità attoriche e le certezze intellettuali dei registi, ci fa nuovamente posare i piedi sulle irregolarità della terra. Nel suo teatro, in poche parole, cade l’illusione di potersi cullare e adagiare nella placida società del benessere», scrive la traduttrice Vanda Monaco Westersthal nella prefazione alla raccolta Teatro che contiene E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome. Proprio Qualcuno verrà, con la regia di Sandro Mabellini, è stata la prima opera di Fosse ad essere rappresentata in Italia nel lontano 2001 alle Scuderie del Palazzo Farnese di Caprarola, in occasione del Festival Quartieri dell’Arte organizzato da Gian Maria Cervo. Numerose le messe in scena di Valerio Binasco – ancora Qualcuno verrà e poi E la notte canta, Un giorno d’estate, Sonno e Sogno d’autunno e l’ultima La ragazza sul divano (debutto nazionale al Carignano di Torino dal 5 al 24 marzo, produzione Teatro Stabile di Torino e Teatro Biondo di Palermo, nel cast Pamela Villoresi e Isabella Ferrari). Hanno contribuito a diffonderne la conoscenza sui nostri palcoscenici anche Valter Malosti con Inverno nel 2003; Alessandro Machia – che da anni conduce studi e seminari di approfondimento sulla sua drammaturgia – con Caldo nel 2017; Thea Dellavalle, Alessandro Greco e Vincenzo Manna con il Trittico Fosse (presentato al Teatro India di Roma nel 2015). Ma il premio Nobel norvegese resta, nonostante tutto, per una parte del pubblico italiano ancora un ‘oggetto misterioso’, e ciò renderà ancora più interessante e affascinante continuare, nei prossimi anni, il viaggio alla sua scoperta.

19 Aprile 2024

La violenza del potere. Eterna. Come le vicende umane, sempre le stesse. E il teatro? Ne è lo specchio, nel tempo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

L’idea del libro Perché il Teatro? è di Milo Rau, il regista svizzero, molto impegnato socialmente, con spettacoli ambientati in Amazzonia o a Monsul, in Kurdistan, utilizzando personaggi del mito, alquanto famosi, come Oreste e Antigone, facendoli diventare, attraverso le loro storie tragiche, emblemi dei giovani d’oggi che vivono, drammaticamente, gli stessi problemi, come a voler dire che cambia il contesto storico, ma le vicende umane sono sempre le stesse.

Ciò che interessa a Rau è la realtà sociale e politica che egli trasforma in rappresentazione, utilizzando palcoscenici improvvisati come veri e propri tribunali dove, ad essere giudicata, è la violenza del potere. Questo libro è stato pensato nel 2022, quando il teatro di tutto il mondo si fermò a causa del Covid, lasciando tanti lavoratori dello spettacolo sul lastrico, evidenziando, nel frattempo, quell’assenza di garanzie mai a loro accordate dai vari Ministri, di sinistra o di destra.

Perché il Teatro? è diventato un libro, pubblicato da Cue Press, che ha coinvolto, nell’idea di Rau, cento professionisti della scena internazionale, ma che, Andrea Porcheddu, curatore del volume, ha ridotto a metà. Per farci capire, il lettore troverà interventi di William Kentridge, Angelica Liddell, Katie Mitchel, Ariane Mnouchkine, Thomas Ostermaier, Tiago Rodriguez, Botho Strauss, Sasha Waltz, solo per citare i più noti, mentre, per quanto riguarda gli italiani, la domanda è stata rivolta a Renzo Martinelli e Ermanna Montanari.

Le risposte erano libere, ma se accostate le une alle altre, a parte alcune autoreferenzialità, potrebbero dare l’dea di un breve trattato sulle varie esperienze artistiche, sulle utopie, sulla unicità e indispensabilità del teatro. Tutti gli intervistati hanno in comune la consapevolezza che il teatro debba essere la testimonianza di ciò che accade, non solo agli individui, ma nel mondo, dove avvengono delle cose orribili, che, proprio per la loro drammaticità, vengono portate in scena, per dare visibilità all’invisibile, a ciò che il potere si affanna a nascondere e per rendere dicibile, l’indicibile.

Certo, non è soltanto questo l’argomento trattato, anche perché, il teatro, è fatto di volti, di persone, di inquietudini, di sudore, di odori, ma per fortuna anche di applausi, grazie alla sua capacità di immergersi all’interno delle società più disperate, al di là di ogni confine. Per simili motivi, la ricerca dell’elemento formale e, quindi, estetico, è stata capovolta, essendo il compito dell’estetica non più o soltanto la ricerca del bello, quanto del necessario che, per realizzarlo, occorre respingere ogni confine, non solo geografico, ma anche formale, per aprire nuovi spazi, che sono spazi del pensiero, di responsabilità, di relazioni, e anche di esperimenti.

Dalla lettura dei molteplici interventi, si ricava persino la volontà di chi fa teatro di tuffarsi nel dolore del mondo, per poterlo raccontare, utilizzando i suoi mezzi, le sue capacità di costruire e decostruire, dando visione a ciò che accade, a dimostrazione che solo sul palcoscenico possa essere evidenziato tutto questo, proprio perché il teatro è sempre stato parte vitale della nostra quotidianità, del nostri malesseri, delle ingiustizie, delle menzogne, oltre che essere fonte di sopravvivenza e di energia permanente, la sola che aiuta la creatività e l’invenzione e che gli permette di dare una identità alle società che hanno il diritto di sapere e di conoscere anche l’invisibile a cui il teatro si sforza di dare un volto, perché sta sempre dalla parte della vita, anche quando la morte bussa alla porta, come bene ci ha raccontato Maeterlinck, nel senso che stai seduto in poltrona e lei rimane lì ad attendere sulla soglia, senza oltrepassarla.

Forse, il teatro ha anche il potere di farci rimanere in vita.

Andrea Porcheddu, nella sua introduzione, ci ricorda che il teatro è assemblamento che non sopporta contagi, che ha il privilegio di dare la parola a confuse emozioni, a inattese e inarrestabili sensazioni, insomma, a quella che qualcuno chiama «poesia». A Giacomo Bisordi è stato dato il compito di spiegare il «Latifondo dell’Arte», dato che, attraverso il teatro, si può lottare contro ogni forma di strano latifondismo che colpisce, a volte, lo spettacolo.

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15 Aprile 2024

Why Theatre?/Perché il teatro?

Massimo Bertoldi, «Centro di cultura dell’Alto Adige — Il Cristallo»

È da quando esiste il teatro che si sollevano domande intorno al suo motivo di essere e al suo relazionarsi al mondo. Le risposte, ovviamente tante e diverse, derivano dal tempo storico e dal contesto socioculturale, cha alimentano anche sogni, utopie, progetti su quello che lo stesso teatro potrebbe diventare e trasformarsi in una prospettiva lungimirante.

Affiancato da Kaatja De Geest e Carmen Hornbostel si muove in questa direzione Milo Rau – illuminato regista svizzero ideatore di spettacoli ambientati in Amazzonia, Kurdistan e a Mosul e incentrati su personaggi mitici letti in chiave moderna – raccogliendo nel 2022, quando anche lo spettacolo era fermo per il Covid, risposte di centoventi artisti internazionali alla domanda: «Why Theatre?/Perché il teatro», poi diventata titolo dell’interessante volume edito da Cue Press curato da Andrea Porcheddu che ne seleziona circa la metà.

Si tratta di un coro di voci variegate nel codice narrativo ma concordi sia nella funzione del teatro quale specchio del nostro tempo e testimone delle tragedie storiche planetarie, che nella necessità di superare i confini geopolitici e dilatare il linguaggio performativo, connesso alla sua funzione comunicativa, nell’orizzonte di nuovi spazi di pensiero e di relazione comunitaria. Di fronte alle guerre, ai populismi, all’emergenza ambientale e alle violenze quotidiane, «il teatro – sottolinea Porcheddu – non può sconfiggere questa realtà, e forse tanto meno la poesia: eppure possono suggerire altri modi di pensare, altre parole. Più caute, più gentili, più umane».

Così nel bel volume di Cue Press – impreziosito dalla postfazione di Giacomo Bisordi – si susseguono i contributi di importanti protagonisti della scena contemporanea, da Nora Chipaumire («I poveri – Ecco cos’è il teatro, e perché il teatro non potrà mai scomparire, perché avremo sempre i poveri se avremo l’Africa») a Stefan Kaegi («Perché tutti sanno cos’è il teatro/Perché nessuno lo sa. /Perché tutto ciò che accade può diventare teatro»); da Angélica Liddell («Non smetteremo di lottare per la bellezza. La ricerca della bellezza è la tortura dell’anima») a Luc Perceval («il teatro rappresenta il tocco umano dell’oscurità»). Lo stesso Rau scrive: «Una vittoria dell’umanità mi interessa più a teatro che altrove: perché è soggetta alle regole della realtà, come nessun’altra».

Non manca il contributo italiano offerto da Ermanna Montanari e Marco Martinelli di Teatro delle Albe («Il teatro nasce rivelando il fondamento violento della società, il sacrificio di tutte le Ifigenie della storia […], è un’arte di rivelazione, di smascheramento attraverso il mascheramento») e di Daniele Nicolò e Enrico Casagrande di Motus («Il teatro è qualcosa di stupefacente. […] ha la capacità atletica di reinventarsi, è una fenice che risorge dalle proprie ceneri»).

Tra crisi e catastrofi provocate dall’uomo, il teatro radica la sua esistenza e si rigenera sempre nel linguaggio drammaturgico e nelle forme estetiche assolvendo il ruolo di cantastorie e di contenitore delle contraddizioni della nostra vita, raccontata anche in una prospettiva diversa, di cambiamento: è questo il messaggio fondamentale del volume Why Theatre?/Perché il teatro.  

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7 Aprile 2024

La parola, come viaggio nella deriva. Dialogo con Lina Prosa

Tiziana Bonsignore, «Teatro e Critica»
Raggiungiamo Lina Prosa al telefono poco dopo il suo ritorno dall’America Latina: «Un’esperienza straordinaria, magari si potesse più spesso». Prima autrice italiana a entrare nel repertorio della Comédie Française, con la sua Trilogia del Naufragio sulle migrazioni nel Mediterraneo, ha scritto testi legati al recupero contemporaneo di moduli e temi della drammaturgia classica. Assieme ad Anna Barbera è fondatrice del Centro Amazzone, a Palermo, dove si svolgono attività laboratoriali rivolte alle donne vittime di tumore al seno. A partire dall’uscita della sua ultima raccolta, abbiamo fatto il punto su come il presente, «tempo alla deriva», possa entrare nel teatro, risignificandolo.
Cominciamo dalla tua nuova pubblicazione, e dai testi che la costituiscono.
Ci sono nove testi all’interno del libro, che io ho suddiviso in due parti complementari: ‘testi‘ e ‘sottotesti‘. I primi sono legati alla città, i secondi alla campagna. I testi hanno un rapporto con il paesaggio più maturo e strutturato. Sono anche più conosciuti: ad esempio La carcassa è stato allo Stabile di Catania, mentre Ingrid e Lothar è stato rappresentato al Teatro Due di Parma. I sottotesti invece conservano ancora un’immaturità, una sincerità, un senso di malinconia, che sono quelli dell’autore nel rapporto con la parola. Si presentano come un sottotesto dell’anima. Ci sono dei segreti, in questi lavori, legati più alla mia vita che al teatro. Uno rimanda alla morte di mia madre, per dire. Un altro sottotesto riguarda il mio rapporto con l’Africa, la mia esperienza in quel continente fino alla pandemia – per la quale sono dovuta tornare perché si chiudevano le frontiere. Ho vissuto profondamente questa separazione, questo desiderio di essere in un mondo a cui guardavo da lontano. Tutto ciò rientrava e rientra ancora nel progetto che porto avanti: lavorare sulla distanza e sull’avvicinamento, questione che nella drammaturgia classica è presente ad esempio nella vicenda di Elettra e Oreste. La scrittura mi consente di attraversare territori e spazi che la realtà, quella in cui viviamo ogni giorno, non mi consente di attraversare. È come se le parole avessero le gambe e mi portassero a vedere le giostre, a salire su un cavallo: tutto può indurti a guardare con stupore al mondo. La scrittura vive, vive insieme a me. Domani, un altro giorno, sarà un altro giorno della scrittura. È un aggiornamento dell’anima, quello che compio. Io davvero scrivo in maniera innocente. Ho messo insieme questi lavori perché volevo che avessero una vita in comune.
Mi sembra che questi tuoi lavori vogliano anzitutto colmare il senso di una mancanza, per mezzo della parola e del teatro.
Qui dobbiamo fare un passo indietro. Non solo quando scrivo, ma anche quando mi avvicino alla scena, lavoro moltissimo sul livello del laboratorio, dimensione che mi si confà di più. Il mio alter-ego è sempre l’attore, non è mai il regista. Quindi, per tornare al tuo discorso sul senso della mancanza, per me la scrittura è desiderio del corpo dell’attore, di una fisicità al di fuori di me. È la ricerca di un avvicinamento, un desiderio verso la storia – non la storia legata al mio testo, alla mia parola, ma la storia intesa come quella parte di me al di là di me. È tensione verso qualcosa che non esiste, che ancora non è là. E allora io intraprendo un viaggio per raggiungerlo. La parola, nel momento in cui si confronta con una diversa accezione dell’esistenza, cerca un appoggio fisico: per me quell’appoggio fisico è l’interprete. Non intendo tanto l’attore in scena, quanto la testimonianza palpabile di qualcosa che io, noi tutti viviamo come assenza. Sai, credo che in fondo il mistero della vita sia legato all’assenza. Ogni volta che facciamo teatro, ogni volta che scriviamo, noi cerchiamo di decostruirla, di compensarla, questa assenza. Per questo la scrittura deve creare una nuova visione del mondo, più che una realtà effettiva: un avamposto reale, fisico, dentro il mistero della nostra condizione.
In che modo la parola può addentrarsi, secondo quanto dici, nella realtà?
Ti faccio l’esempio del mio lavoro su Medea, non compreso nell’ultima raccolta: stavo iniziando questo progetto di ricerca in Francia, con un gruppo di attrici. Proprio il giorno in cui cominciamo, scoppia la guerra in Ucraina. E lì che fai? Il presente non può colpirti come un colpo di vento, che attraversandoti ti asciuga. Allora è chiaro che quella guerra è entrata subito nel testo, modificandolo, accogliendo il mio vissuto, la mia indignazione. Tutto diviene linguaggio poetico, ma prima c’è l’impatto con qualcosa che cambia completamente la tua visione e ti costringe ad attrezzarti di nuovo, a lottare. Per me un testo è sempre un’esperienza di rivolta. Certo la rivolta spesso è un’esperienza solitaria – mentre la rivoluzione è sempre collettiva – ma rimane comunque un atto di partecipazione al cambiamento. Quando scrivo metto in discussione anche la forma teatrale, il senso e la funzione del teatro, perché mettere in crisi il teatro significa mettere in crisi anche la società, la realtà. Per me il teatro non è solo pratica teatrale (qui è la lezione della drammaturgia greca che mi accompagna). Il teatro è il coraggio di poter guardare, così com’è nell’origine della parola – da theaomai, vedere. Guardare nel buio, nel conflitto che ci segue ovunque, è un atto in grado di cambiare la parola nel suo viaggio verso l’interpretazione. La scrittura, il teatro, non possono dare soluzioni, ma possono far aprire gli occhi, guardando fisso nel nodo conflittuale dell’esistenza. E quando dico esistenza, parlo anche della dimensione politica, della forma politica dell’esistenza. Dobbiamo essere fastidiosi: il teatro non può essere connivente. Per me, la scrittura deve essere un meccanismo di allerta sulla deriva in atto.
Penso alla Trilogia del Naufragio, dove presente e senso mitico si confondono in una nuova visione della realtà.
La Trilogia del naufragio è una grande macchina di allerta. Parliamo di persone distrutte da un viaggio disumano: è il grande tema su cui dovremmo tenere gli occhi aperti, perché lì si gioca la nostra facoltà di sentirci umani. Su questo si riversa non solo la mia sensibilità di autrice, ma anche di siciliana. Io come faccio a sentirmi umana quando so che delle persone si bruciano la pelle sui barconi, muoiono di inedia e la loro sepoltura consiste nell’essere buttati a mare dai propri cari? È lì che manca il rispetto dell’umanità, ed lì che dobbiamo lottare. Io posso farlo con le mie armi naturali, le parole. Ma ci sono associazioni, persone che fanno un grande lavoro. Che stanno in allerta, appunto. La migrazione è l’ultima occasione per recuperare la nostra umanità. Noi abbiamo perduto il valore mitico del viaggio: ci spostiamo per vacanza, turismo, lavoro. Così abbiamo smarrito l’ultima possibilità di scommettere su una vita diversa. Di andare oltre il confine, il limite. Noi non siamo più in grado di compiere un percorso rivoluzionario. Soltanto i migranti oggi ci danno l’esempio del viaggio come valore assoluto verso un cambiamento. Tutto ciò riporta al mito, ad Ulisse: c’è chi arriva a Itaca, c’è chi non arriverà mai. Per questo la parola deve muoversi, consentendoci di mettere in gioco facoltà che altrimenti sono negate: quelle dell’esplorazione di un altro territorio, non solo della realtà, ma anche dell’anima, della mente. Il teatro non va soltanto fatto, ma anche pensato, sentito, attraversato, viaggiato appunto. Non siamo fatti per essere residenziali, siamo fatti per essere nomadi. Abbiamo questa necessità di muoverci, di andare oltre.
In che modo queste tue concezioni si trasformano in prassi, al Centro Amazzone?
Il Centro Amazzone è un po’ il cuore di quello che ho detto. Il principio è quello di guardare a un’esperienza traumatica, se vuoi di frontiera (quella del tumore al seno) da un altro punto di vista. Al centro adottiamo un approccio multidisciplinare che unisce mito, scienza e teatro. Dal momento in cui il nostro lavoro si concentra sulla questione del corpo, il teatro ha nelle nostre attività un ruolo centrale. Noi spesso viviamo per categorie: ma in realtà per me tra il fare teatro e prendersi cura di qualcosa non c’è differenza. Non a caso a partire dalla pandemia, momento di rottura straordinario, si è parlato molto di «teatro come cura». La cura non è solo una terapia medica, ma anche il sentimento integrale della tua persona. Anche, soprattutto nella condizione di crisi.Collegamenti
6 Aprile 2024

Raymond Bellour / L’imperituro fascino del cinema western

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

L’immaginario western americano ha sempre esercitato un’attrazione magnetica, a ogni latitudine. Era dunque fatale che il cinema, arte visionaria per eccellenza, sin dagli esordi costituisse su quell’immaginario uno dei suoi generi di maggior fortuna. Nel Paese in cui esso originò si venne a creare una poderosa industria cinematografica che propagò nel mondo il mito del West, grazie a icone immortali – John Wayne, James Stewart, Glenn Ford, Henry Fonda, Gary Cooper e numerosissimi altri – che incarnavano personaggi reali e frutto di fantasia, alle prese con storie che affondavano nelle strutture profonde della creatività umana, opera di abilissimi sceneggiatori e messe in pellicola da straordinari registi e direttori della fotografia.

Sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, e soprattutto nel decennio successivo, anche l’industria cinematografica europea – e in particolare quella italiana – cominciò a sfornare pellicole di genere western, amplificando a dismisura il mercato, sfaccettandone i temi e ampliandone la ricezione da parte degli spettatori. Il fenomeno fu di vastissima portata – sociologica, antropologica, politica – e dalla metà degli anni Sessanta gli studiosi più avvertiti si lanciarono in indagini più sistematiche, anche con la scorta di nuovi strumenti metodologici. Tra i vari studi, nel 1966 (e riedito nel 1993) in Francia apparve un lavoro collettaneo curato da Raymond Bellour, studioso e critico cinematografico di livello, che raccoglieva acuti contributi che affrontavano il discorso da varie prospettive. Curato e tradotto da Gianni Volpi, con la prefazione di Goffredo Fofi, quel lavoro è stato pubblicato da Cue Press, editore che continua la preziosa opera di ricerca e riscoperta di testi fondamentali del discorso teorico e critico – ma anche biografico – del teatro e del cinema mondiali. Già dal titolo, il volume si presenta come temerario tentativo di esaustività della ricerca, e certo non si rimane delusi: siamo davanti a uno degli studi più completi sull’argomento, un’analisi metodica del western con i suoi relati mitici, i fondamenti storici, i risvolti sociologici ed ideologici, i rapporti con le varie arti che se ne sono nutriti.

Nella sagace prefazione, Fofi ricrea l’accesissimo dibattito sul tema che originò in Italia negli anni Sessanta – anche in risposta alla proliferazione di un genere autoctono, il western all’italiana, che rivoluzionò il mercato cinematografico del nostro Paese, sovrapponendosi alla matrice originaria –, le diatribe tra l’affilata critica nostrana e quella d’Oltralpe. Nella prima parte del volume si affronta il cinema western americano da diverse angolature critiche; nel suo saggio, il curatore parte dalla «seduzione» suscitata dal «più antico e il più giovane» dei generi, considerandolo – e titolando l’articolo – come «un grande gioco», una «arte ludica» e dunque perpetua e immortale, ma riconducendolo all’alba della storia e della civiltà americane, e leggendolo quale veicolo di miti e valori: un acuto discorso ‘giocato’ tra storia e utopia. Roger Tailleur sofferma la sua analisi sul contesto da cui il western generò e si diffuse, analizzando «il retroterra sociale, storico, letterario, musicale, figurativo, etnografico, linguistico»: insomma, una «navigazione perigliosa» che si propone di «risalire dall’oceano Western ad alcune sorgenti». Bernard Dort focalizza l’attenzione sulla «nostalgia dell’epopea», rintracciando il sostrato epico del western, ritenendolo l’equivalente moderno dell’epopea. André Glucksmann preferisce invece indagarlo come forma di tragedia, tracciando una differenza tra «western classico», che rivelava un mondo epico, e «nuovo western», memoria dolorosa di quel mondo divenuto passato, metamorfosi che mette in atto un processo di storicizzazione di un sostrato mitico e valoriale fondativo. Il nostro Gianni Volpi affronta la crisi che il genere attraversò nel Paese in cui vide la luce, a partire dagli anni Sessanta, segno della crisi dei valori-guida del West – l’individuo e la libertà, il canto dell’azione, dei grandi spazi aperti, il mito di una sempre nuova frontiera – che a lungo hanno operato come mitologema culturale di una società, autentico «retroterra storico e ideologico» di una nazione – il liberalismo –, e in tal ottica analizza il «nuovo western», sottolineando le differenze intervenute: il modo diverso di considerare ‘l’altro’ per eccellenza, cioè l’indiano, la creazione di nuove leggende e la diversa interpretazione di quelle antiche, il Messico quale metafora di rivoluzione, e così via.

Nella seconda parte del volume, Miti, si passano in rassegna una profusione di figure e topoi del western – alcolici, armi da fuoco, banditi, bestiame, carovana, cimitero, città deserta, duello, indiano, treno, strada, violenza e così via: ben 51 nuclei tematici. V’è poi una sezione (Un tomahawk dissepolto) in cui è riportato il discorso letto alla cerimonia di consegna per gli Oscar del 1973 da una donna Apache (Sacheen Littlefeather, ‘Piccola Piuma’), delegata dal vincitore del premio quale migliore attore di quell’anno, Marlon Brando (per l’interpretazione di Don Vito Corleone ne Il padrino di Francis Ford Coppola), che rifiutò il riconoscimento per protesta contro il modo in cui l’industria cinematografica rappresentava l’americano indiano; a cui seguono altre parti dedicate ai registi e agli attori, un indice dei western citati e una biografia essenziale. Insomma, siamo in presenza di un testo teorico e di repertorio fondamentale sull’immaginifico universo del western, destinato a chi voglia partire per successivi approfondimenti, o a chi intenda acquisire le coordinate principali per muoversi nelle sconfinate praterie reali e metaforiche dell’Ovest del continente nordamericano, popolate da eroi e antieroi, dense di avventure e peripezie, sogni e incubi vecchi quanto la prodigiosa facoltà mitopoietica dell’essere umano.

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30 Marzo 2024

Madri e attori: i piccoli eroi di Lina Prosa in un mondo ai margini

Guido Valdini, «la Repubblica»

La drammaturgia di Lina Prosa, radicata nel mito classico (è nata a due passi dal tempio dorico di Segesta), ambisce a fare scivolare le profondità degli archetipi nel moderno (o post moderno); combina, così, l’eroico col minimale e la metafora con la denuncia politico-sociale, in una struttura linguistica antiletteraria e fratturata che aggira l’oggettività del reale, sfumando in un fascinoso canto lirico.

Autrice fra le più interessanti del contemporaneo e, in un’epoca dominata dalla performance, saldamente ancorata al valore della scrittura, esce ora peri tipi di Cue Press (coraggiosa casa editrice in digitale e su carta) un volume dal semplice titolo Teatro che raccoglie le sue più recenti creazioni (123 pagine, 19,99 euro). Si tratta di cinque testi e quattro sottotesti – così definiti dall’autrice – scritti in prevalenza nel periodo pandemico. E che costituiscono, per certi versi, una sorpresa, in quanto si allontanano dai temi di forte impatto critico contro le iniquità delle sue produzioni più note (vedi quelli sulle migrazioni o sulla rivolta del corpo e della centralità femminile). Possiedono come comune filo sottile il sussurro del vento che corre verso l’ignoto, e sviluppano il conflitto tra desiderio e confine, tra la ricerca dell’identità smarrita e l’angoscia della coscienza, ma soprattutto sono dotati di delicatezza di toni e sensibilità di sfumature che manifestano una intimistica vibrazione d’affetti per un’umanità violata.

Di fatto, i testi hanno un’articolazione prettamente scenica, mentre i sottotesti (più brevi) sono dei racconti-monologhi che talvolta hanno il tenore della missiva. Ed è fra questi ultimi che si ritrovano alcuni dei momenti più felici. Come in Popolo-19 (numero ricorrente che rammenta il Covid), commosso percorso degli ultimi brandelli di vita di una madre di antiche virtù colpita dal virus e – come diffusamente accaduto – morta nella solitudine di un ospedale: dolorosa testimonianza immaginaria, eppure drammaticamente autentica. O in Scavo di fossa nel bianco, ambientato nel gelo artico, dove per seppellire i morti bisogna scavare nella crosta polare: qui la voce della narratrice racconta le fasi della pietosa operazione alla moglie cieca del defunto, svelandosi infine come amante del marito, in un’affermazione di piacere, sacrificio e amore. Mentre di delirio incalzante è la metamorfosi di Nunù in Antoniuccia e Peppino, che, dopo la morte della madre, durante una folle corsa va perdendo pezzi del suo corpo.

Fra i testi propriamente detti, pervaso di tenebroso humour è La carcassa: due scalcinati agenti di pubblica sicurezza sul ciglio di un burrone, dove «si riparano le anime in pena», provano ad immaginare in un dialogo surreale la vita che si svolse intorno a un’auto distrutta. Di argomento metateatrale sono Ingrid e Lothar, nel quale, tramite un’azione scenica, un regista si esibisce in una sorta di lezione agli spettatori sulla sofferenza del teatro, e Actor Studio-19: in un’epoca postbellica, un attore tenta le prove di un improbabile spettacolo sotto le indicazioni di un ambiguo maestro; in un mondo di macerie che non prevede Amleto e nel quale bisogna adattarsi con gli oggetti di scena rimasugli di mercati abusivi, incombono la frustrazione dell’attore, ora marionetta, ora emigrante e naufrago, e la sua malinconica stanchezza, condannato a rischiare la sua fantasia per l’intramontabile sfruttamento delle trappole del potere. Completano la raccolta Il muro ha due lati, enigmatico paradigma dell’esclusione, con un muratore che ha l’ordine di dividere la stanza di una donna reclusa in una residenza per disagiate, e che, dopo avere sperimentato l’illusione dello sguardo, finisce per murarsi da sé. E infine l’utopia fallimentare nel chiuso di un carcere di Voglio fare la rivoluzione con te e in Africa-Mis-en-espace, una provocazione elegiaca sull’impossibilità di rappresentare i miti dell’Orestea, che conduce al grado zero del teatro.

30 Marzo 2024

Top Girls di Caryl Churchill

Andrea Pocosgnich, «Teatro e Critica»

La produzione di Top Girls del Teatro Due di Parma ha prodotto non solo uno spettacolo che nella regia di Monica Nappo è un oggetto molto interessante e inaspettato, ma anche la pubblicazione del testo di Caryl Churchill. Opera drammaturgica del 1982 che squaderna sul palco prima un gruppo di «signore del passato» (come le chiama Luca Scarlini nel suo contributo all’edizione Cue Press con la traduzione da Margaret Rose) e poi una moderna e contraddittoria realtà lavorativa al femminile. Il primo quadro è una dissacrante, divertente e assurda cena in cui si incontrano iconiche presenze femminili della storia o della leggenda. Dalla Papessa Giovanna alla protagonista di un quadro di Bruegel, passando per una cortigiana di un imperatore giapponese del tredicesimo secolo, fino a una ricca viaggiatrice inglese del diciannovesimo secolo. Tutte sono state convocate dalla protagonista dell’opera, Marlene, per festeggiare la sua nuova posizione lavorativa. Il prosieguo è invece, per gran parte, al chiuso degli uffici, tra i colloqui dell’agenzia di collocamento di Marlene, le colleghe, la carriera e una ragazza, una nipote che potrebbe rompere gli equilibri. La questione centrale non è solo femminile, Churchill affronta anche il mondo del lavoro, le aspettative e le sofferenze subite dopo anni passati ad essere infelici. È quello che capita a Louise in uno dei colloqui più toccanti, la donna vuole cambiare lavoro e afferma: «Nessuno si accorge di me, non lo pretendo. Non attiro mai l’attenzione perché sbaglio, è scontato per tutti che il mio lavoro sia perfetto. Si accorgeranno di me quando non ci sarò più».

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30 Marzo 2024

Edoardo Fadini, Scritti sul teatro, a cura di Armando Petrini e Giuliana Pititu

Andrea Pocosgnich, «Teatro e Critica»

«Uno sguardo fortemente politico ma mai piegato a ragioni semplicemente ideologiche, segnato in profondità dal metodo dialettico eppure molto netto nel giudizio. Un punto di vista che si sviluppa compiutamente all’interno delle dinamiche, delle tensione e delle contraddizioni del tempo che attraversa e per questo ancora più interessante per noi lettori ormai inevitabilmente distanti da quelle temperie».

Così Armando Petrini e Giuliana Pititu, i due curatori del volume edito da Cue Press, fotografano, nell’introduzione, lo sguardo di Edoardo Fadini, critico teatrale, importante osservatore del nostro teatro tra gli anni Sessanta e Settanta. La raccolta di scritti (interventi, recensioni e saggi) si concentra sul decennio 1965-75, quello in cui pubblicava su «l’Unità», poi su «Rinascita», «il Contemporaneo» e «Sipario». Il libro comincia con un resoconto di un Recital di Valeria Moriconi e Glauco Mauri, era il 28 settembre 1965 e l’articolo è preceduto da qualche riga con cui «l’Unità» salutava il passaggio di testimone dal precedente critico Giorgio De Maria. E poi il Carignano esaurito per O’Neill diretto da Squarzina; i cinquant’anni di teatro di Renzo Ricci; del ’66 la recensione a Mysteries and Smaller Pieces del Living, ‘mutilata’ per ragioni di spazio con tanto di risposta il giorno successivo in cui il critico rivolgendosi al direttore del giornale precisava la sua posizione nei confronti dell’opera. Sotto gli occhi di Fadini passano le generazioni del teatro italiano, ma anche problemi e questioni di politica culturale, con uno sguardo privilegiato sul Teatro Stabile della sua Torino.

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26 Marzo 2024

Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett

Massimo Bertoldi, «Centro di Cultura dell’Alto Adige»

Nel catalogo dell’imolese Cue Press il nome di Samuel Beckett è una sorta di fiore all’occhiello tanti sono i libri inediti per l’Italia pubblicati in questi anni, dai fondamentali Un canone di Ruby Cohn a Capire Samuel Beckett di Alan Astro cui si affianca la serie Quaderni di regia e testi riveduti curata da Luca Scarlini finora rivolti ad Aspettando GodotFinale di partita, L’ultimo nastro di Krapp e ai cosiddetti Testi brevi.
A questo ambizioso progetto divulgativo di grande spessore scientifico appartiene anche Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett di James Knowlson per la cura di Gabriele Franca e la traduzione di Giancarlo Alfano. Si tratta di un libro imponente, sontuoso, necessario per conoscere la vita dell’uomo e dello scrittore-drammaturgo in tutte le sue sfaccettature pubbliche e private che l’autore conosce molto bene essendo stato amico e suo eccellente studioso.

Contenuta in ventisei capitoli ordinati in senso cronologico e basati su molteplici e preziose fonti – lettere e taccuini, appunti e manoscritti dello stesso Beckett, nonché testimonianze di collegi e amici – la biografia filtra la miriade di notizie in un tessuto prosaico ordinato e fluido, più vicino alla narrativa che alla saggistica, sempre lontano da effetti agiografici. Emerge una relazione strettissima tra letteratura e vita, soprattutto nelle opere giovanili in cui lo scrittore irlandese attinge «dalle proprie esperienze personali». Il timido e riservato giovane Beckett ama l’alcool, il rugby, il tennis; a Parigi frequenta i teatri, frequenta Joyce e conosce Breton, si innamora. Non pochi sono i dissapori con gli editori soprattutto londinesi.

Se Beckett è stato talvolta criticato per mancanza di impegno civile e politico, il libro di Knowlson offre un’indiscutibile smentita: durante un soggiorno nella Germania nazista (1936-1937) annota nei suoi diari che i tedeschi «devono combattere presto (o scoppiano)», dopo aver ascoltato per radio gli «apoplettici» discorsi di Hitler e Goebbels. Affiora l’antinazismo che si materializza nel 1941 quando il drammaturgo partecipa alla Resistenza aderendo alla cellula Gloria SMH attiva nella regione parigina, presto colpita da arresti che lo costringono a rifugiarsi a Roussillon (1942-1945).
Sono esperienze destinate a incidere nella «tempesta creativa» del dopoguerra perché – sottolinea Knowlson – «una cosa era provare intellettualmente la paura, il pericolo, l’angoscia e la privazione, un’altra viverle nella propria persona, come gli era successo quando era stato accoltellato, oppure quando si era dovuto nascondere».         

«Frenesia di scrivere» ovvero il periodo 1946-1953, durante il quale nascono, tra l’altro, la trilogia romanzesca con MollyMalore muore e L’innominabile, e soprattutto Aspettando Godot allestito da Roger Blin con effetti da circo e music hall, per poi emigrare da Parigi ai teatri tedeschi. Il successo europeo è in parte annebbiato dai consensi altalenanti ottenuti negli Stati Uniti e dalle difficoltà incontrate nella stesura di Finale di partita. Beckett entra in depressione creativa in merito alla comunicazione teatrale. Si illumina con i successi radiofonici segnatamente ottenuti con L’ultimo nastro di Krapp.

Altro momento cruciale è lo scontro con la censura irlandese e inglese, ben evidenziata dalla stampa, a proposito di alcune scene di Finale di partita. E difficoltà non trascurabili emergono anche nella messinscena di Giorni felici curata dallo stesso Beckett che «non fu mai un regista di attori».
Samuel invecchia, ha problemi di salute, non si ferma fino alla fine: aveva capito sulla propria pelle che a monte del successo c’è l’esperienza cruciale dell’insuccesso come molti personaggi disegnati da questo indiscusso signore della scena del Novecento, segretamente ci rivelano.

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30 Ottobre 2023

Mario Monicelli: il grande regista torna a parlare

Giuseppe Costigliola, «Globalist»

Personaggi come Mario Monicelli mancano come il pane all’Italia di oggi, alla cultura, all’arte, agli stitici rapporti umani di questi stracchi tempi. Manca il regista, la sua capacità di osservazione, la volontà di rendere la realtà senza compromessi né pregiudizi, per indurci alla riflessione sui nostri buchi neri, sociali e individuali: un’attività maieutica che ci […]
29 Ottobre 2023

Per capire qual è o quale sarà il teatro del terzo millennio

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Mi sono, più volte, chiesto perché il teatro del Terzo Millennio non sia stato oggetto di analisi storiografica e ho anche indicato vari motivi, che vanno dalle superproduzioni al proliferare di compagnie indipendenti, magari con un solo attore che, utilizzando la formula del Teatro dell’Oralità, riesce a fare delle brevi stagioni, muovendosi ai margini del […]
29 Ottobre 2023

Jon Fosse, un ritratto del Nobel per la Letteratura

Anna Puricella, «Repubblica Bari»

Jon Fosse è un monumento della drammaturgia, uno dei più rappresentati in tutto il mondo, eppure in Italia è tutt’ora poco conosciuto. Lo scrittore di prosa, drammaturgo e poeta norvegese diventa così il cuore di un incontro in programma domani alle 18 alla libreria Laterza di Bari, in compagnia di Franco Perrelli, docente universitario ora […]
23 Ottobre 2023

Uno studio illuminante di Lorenzo Donati: teorico e pratico, attento alle mutazioni della realtà tra estetiche non definite

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Mi sono più volte chiesto perché il teatro del Terzo Millennio non sia stato oggetto di analisi storiografica ed ho anche indicato vari motivi, che vanno dalle super-produzioni al proliferare di compagnie indipendenti, magari con un solo attore che, utilizzando la formula del Teatro dell’Oralità, riesce a fare delle brevi stagioni, muovendosi ai margini del […]
23 Ottobre 2023

Un collettivo a Gent dopo Rau, per abbattere le mura del teatro e prendersi cura del pubblico

Paolo Martini, «Dramaholic»

Ci vuole un occhio di riguardo per quel che succede nei teatri e tra le compagnie del Belgio, dove vivono molti dei protagonisti di primo piano nel mondo delle arti performative: si possono così intuire o veder nascere nuove mode o veri e propri trend, com’è stato per il cosiddetto «post-drammatico».Perciò ha fatto una certa […]
19 Ottobre 2023

La massa come ornamento [II parte]

Gabriele Perretta «segnonline»

Per la prima volta pubblicato integralmente in Italia, in una coloratissima e decoratissima edizione, la Cue Press di Imola ci fa leggere: Siegfried Kracauer, La massa come ornamento, pref. di E. Morreale e tr. it. di M.G.A. Pappalardo, C. Groff, F. Maione, S. Parisi, 2023; testo dedicato ad Adorno e uscito per la prima volta […]
12 Ottobre 2023

Strade maestre: D’Elia e Maifredi tra i grandi registi del contemporaneo

Vincenzo Sardelli, «Krapp's Last Post»

Le vie del teatro come la via della seta. La ricerca dell’arte e la riflessione sull’arte, sulle tracce dei maestri che hanno fatto grande il teatro contemporaneo. È una piacevole scoperta Strade maestre di Corrado d’Elia e Sergio Maifredi. Fresco di stampa, il libro (Cue Press, Imola 2023, pp. 224, € 24,99) è un itinerario […]
10 Ottobre 2023

La danza e l’agit-prop. I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento

Barbara Berardi, «Theatron 2.0»

I primi decenni del Novecento hanno visto nascere il desiderio, da parte dei cosiddetti padri fondatori del teatro e della danza, di attuare una vera e propria «ri-teatralizzazione» attraverso rivoluzioni stilistiche e sperimentazioni nel campo dell’arte scenica. Nel libro intitolato La danza e l’agitprop: I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, pubblicato da […]
8 Ottobre 2023

Post Teatro

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Letture di resistenza «Non ricordo quasi niente della mia infanzia. La mia memoria comincia con la morte di mio padre. Prima di quell’agonia che ho vissuto come un rito di passaggio e una nuova consapevolezza della condizione umana, ho rari ricordi, tutti di guerra». Sono parole del regista Eugenio Barba, grande «maestro» e rivoluzionario del […]
7 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel alla Letteratura e la piccola casa editrice di Imola: «Sommersi di richieste, tremila libri in poche ore»

Simona Cantelmi, «Corriere di Bologna»

La notizia del Nobel per la Letteratura allo scrittore norvegese Jon Fosse ha sconvolto la routine di una piccola ma prestigiosa casa editrice di Imola. La Cue Press, che pubblica testi di teatro e cinema, è la casa editrice italiana che ha pubblicato alcuni testi teatrali di Fosse e in queste ultime ore è stata […]
6 Ottobre 2023

A Imola l’editore del Nobel: «Ordinati duemila libri in un’ora»

Patrick Colgan, «il Resto del Carlino»

«Si è risvegliata un’attenzione incredibile, ci hanno ordinato duemila copie in un’ora». Pioggia di telefonate ieri alla Cue Press di Imola, piccola e apprezzata casa editrice specializzata in cinema e teatro. Ieri è stata una giornata speciale perché è una delle poche case editrici che hanno tradotto e pubblicato Jon Fosse, l’eclettico autore norvegese vincitore […]
6 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel che viene dal rock e sussurra al buio

Camilla Tagliabue, «il Fatto Quotidiano»

Nella solitudine dei campi di cotone in cui vaga il teatro contemporaneo, driiin: l’Accademia di Svezia chiamò. A rispondere è Jon Fosse, norvegese, classe 1959, drammaturgo sopraffino prima ancora che venerato romanziere, fresco di Nobel per la Letteratura per aver «dato voce all’indicibile». Da Pinter a Jelinek, almeno a Stoccolma si ricordano di quell’arte chiamata […]
6 Ottobre 2023

Jon Fosse. Triste, solitario e Nobel

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Ha fama di scontroso, solitario, depresso, ex alcolista, di isolato tra i fiordi e le nebbie della sua Norvegia, ma con le sue parole ha scaldato di emozioni, pensieri, profondità migliaia di spettatori nel mondo, Jon Fosse: una delle voci più innovative della scena internazionale e ora, a 64 anni, Premio Nobel della Letteratura 2023. […]
6 Ottobre 2023

Jon Fosse, esercizi di incomunicabilità

Andrea Romanzi, «Il Manifesto»

L’introduzione del norvegese Jon Fosse alla letteratura fu – a suo dire – poco invitante e ancor meno lusinghiera: nel corso di una intervista del 2006 per la rivista «Bok & Bibliotek» rivelò al suo interlocutore: «Iniziai a leggere nello stesso momento in cui cominciai a scrivere. La maggior parte di ciò che leggevo non […]
6 Ottobre 2023

Fosse, il Nobel venuto dai fiordi

Stefano Gallerani, «Il Mattino»

Come spesso accade, anche stavolta i telefoni delle librerie impazziranno e le rotatorie delle case editrici faranno gli straordinari per rimpinguare la non straordinaria presenza editoriale nel nostro paese di Jon Fosse (classe 1959), fresco vincitore del centosedicesimo premio Nobel per la letteratura. Fortuna che – dimostrando buon fiuto – da qualche anno a questa […]
6 Ottobre 2023

Jon Fosse, la voce dell’indicibile

Alessia Rastelli, «Corriere della Sera»

«Quando scrivo, ascolto. Ascolto il silenzio e cerco di farlo parlare». Così il 17 gennaio 2021, su «La Lettura», Jon Fosse apriva le porte del suo universo letterario. E ieri la sua tenace ricerca di un senso, da raggiungere sottraendo, nella narrativa come nella drammaturgia, ha ottenuto il riconoscimento più importante. L’autore norvegese, 64 anni, […]
6 Ottobre 2023

Nobel a Jon Fosse. Custodire il mistero

Oliviero Ponte Di Pino, «Doppiozero»

Come spesso accade quando viene annunciato il Nobel per la Letteratura, molti intellettuali italiani, prima di buttarsi su Google, si chiedono: «Fosse chi? Ma come lo danno questo premio?». Chi frequenta i teatri dell’esistenza dello scrittore norvegese era informato almeno da una ventina d’anni, da quando cioè i suoi testi vengono rappresentati e pubblicati in […]
6 Ottobre 2023

Il Premio Nobel per la Letteratura Jon Fosse e quel legame con Imola

Luca Balduzzi, «il Nuovo Diario Messaggero»

È un po’ imolese il Premio Nobel per la letteratura che l’Accademia svedese di Stoccolma ha assegnato allo scrittore e drammaturgo norvegese Jon Fosse, «per le sue opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile». A pubblicare le sue opere nel nostro Paese, infatti, ha contribuito anche la casa editrice Cue Press di […]
5 Ottobre 2023

Jon Fosse. Quattro libri per conoscere il Premio Nobel per la Letteratura 2023

Federico Vergari, «Wired»

Il vincitore del Premio Nobel per la Letteratura 2023 è il norvegese Jon Fosse (il centoventesimo della storia, il quarto norvegese). Scrittore a tutto tondo, principalmente di romanzi e drammi teatrali, ma anche di saggi, libri per ragazzi e poesie. Fosse si è aggiudicato il premio dell’Accademia reale svedese «per le sue opere teatrali e […]
5 Ottobre 2023

Il Nobel per la Letteratura va al norvegese Jon Fosse: «Sono sorpreso, ma non troppo»

Emanuela Minucci, «La Stampa»

Il Nobel per la letteratura è stato assegnato a Jon Fosse, 64 anni, scrittore e drammaturgo norvegese noto per il suo stile minimalista e lirico. Il quale, come primo commento, ha detto: «Sono sorpreso, ma non troppo». Le sue opere in Italia sono pubblicate da La nave di Teseo. La motivazione: «Per la sua prosa […]
5 Ottobre 2023

Jon Fosse ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura

«Il Post»

Jon Fosse ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2023, che gli è stato assegnato dall’Accademia Svedese per «la drammaturgia e la prosa innovative che danno voce all’indicibile». Fosse è uno scrittore norvegese autore di romanzi, drammi teatrali, saggi, poesie e libri per ragazzi. Ha sessantaquattro anni, è anche un traduttore ed è molto […]