Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Patrice pavis
22 Luglio 2024

Le teorie teatrali: un campo minato, se i vari approcci diventano troppi. Solo lo spettatore è il vero personaggio

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nel 1988, l’Editore Zanichelli pubblicò di Patrice Pavis Dizionario del teatro, a cura di Paolo Bosisio, con cui l’autore cercava di dare delle risposte non solo a chi lavorava in ambito teatrale, ma anche al frequentatore di teatro. Si distingueva da altri dizionari per una qualità scientifica del materiale trattato che si estendeva, in particolare, dal campo della semiotica a quello della linguistica, dei fondamenti teorici e della drammaturgia, non bisognava, pertanto, lasciarsi ingannare dall’ordine alfabetico, dato che ogni lemma conteneva un apparato specifico di ricerca.


L’indice tematico era stato diviso in otto categorie, così distribuite: Drammaturgia, Il testo e il discorso, L’attore e il personaggio, I generi e le forme, Le messinscene, I principi strutturali e Le questioni estetiche, La ricezione dello spettacolo.
Come si può capire, si trattava di un enorme materiale che adesso ritorna, in forma saggistica, nel volume, pubblicato da Cue Press, L’analisi degli spettacoli. Teatro, Mimo, Danza, Teatro-Danza, Cinema, a cura di Dario Buzzolan e Roberta Cortese.


Pavis è stato Professore del Dipartimento di Studi Teatrali dell’Università di Parigi, oltre che un assiduo frequentatore come spettatore dei teatri parigini, non per nulla, in questa nuova rielaborazione delle sue ricerche, lo spettatore diventa un vero e proprio personaggio.


Il volume è diviso in tre parti: Le condizioni dell’analisi, Le componenti della scena, Le condizioni della ricezione, all’interno delle quali egli sviluppa non solo concetti, ma anche categorie come spazio-tempo-azione, oltre che una attenta analisi dei materiali della rappresentazione, visti in un continuo rapporto tra testo e messinscena, ai quali fa seguire gli ‘approcci’ agli spettacoli che possono essere di tipo psicologico, psicoanalitico, sociologico, antropologico, senza mai dimenticare il punto di vista dello spettatore, a cui pone una domanda: «A che cosa era dovuta la letterarietà di un testo, nel passato?», a cui fa seguire la risposta: «Alla assenza della pratica scenica», quella che conoscevano i Comici dell’Arte, Shakespeare, Moliere, Goldoni e, in tempi più recenti, perché diventati Direttori di Teatro: Strindberg (Intima Teater), Pirandello (Teatro d’Arte), Eduardo (Teatro San Ferdinando), Dario Fo (Teatro La Comune).


C’è da dire che la pratica scenica, nel terzo millennio, si è arricchita con nuovi metodi esplorativi, tanto che si sono moltiplicate le teorizzazioni, in particolare quelle che ‘teorizzano il nulla’, ovvero spettacoli che hanno poco a che fare col teatro, così come si sono moltiplicate le metodologie d’approccio al linguaggio della scena. Non dobbiamo, nel frattempo, dimenticare che le teorie teatrali siano un campo minato, perché sottoposte a molteplici discipline, da quella semiologica che, a suo tempo, fece anche dei danni, avendo ridotto tutto alla interpretazione, tanto che fu sostituita da altri approcci che facevano capo alle scienze sociologiche o psicologiche che contribuirono alla conquista di risultati di vario genere.


Patrice Pavis sostiene che ogni componente dello spettacolo andrebbe esaminata in sé, per capire meglio come avvenga la trasmissione col corpo dell’attore, con i suoi flussi pulsionali, con le sue espressioni fisiche, con le sue intensità percettive. Per Pavis, la messinscena è, in fondo, un metatesto che contiene, nel suo interno, un insieme di sistemi con i quali organizza materiali diversi, magari per raggiungere risultati unitari, In tal modo, la scena si assoggetta a contesti variabili, a molteplici codici interpretativi, proprio perché si allea con le altre discipline.


A questo punto, ne risente il pensiero critico che, se in un primo momento aveva accettato, come metodologia d’approccio, la semiologia, in un secondo momento, con l’affermazione del post-moderno, decise di sperimentare altre categorie a vantaggio della materialità del teatro. A tal proposito, Pavis estese un questionario che riguardava le caratteristiche della messinscena, la strutturazione dello spazio, gli effetti della ricezione, il rapporto testo-corpo, le caratteristiche delle traduzioni, degli adattamenti, delle riscritture, infine, il ruolo dello spettatore.

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Balasz
11 Luglio 2024

Béla Balázs, dall’arte del teatro alla guerriglia teatrale

Ilona Fried, «Criticai Lapok», XXXIII-5-6

Eugenia Casini Ropa è una delle più autorevoli studiose dell’arte della danza in Italia, fondatrice e docente del primo corso di storia della danza e del mimo, istituito nel 1992 al DAMS di Bologna. Nel corso delle sue ricerche, che riguardano più in generale la storia del teatro, si è dedicata anche a quella forma particolare definita come teatro Agitprop e al suo linguaggio politico. Nell’ambito di tali interessi ha raccolto e curato gli scritti di uno dei maggiori protagonisti di questa corrente, l’ungherese Béla Balázs, una ricerca di prima mano pubblicata nel lontano 1980 e recentemente ristampata dalla innovativa casa editrice Cue Press con una nuova breve prefazione da parte della curatrice. 

Béla Balázs è una delle personalità di spicco della cultura di sinistra ungherese della prima metà del Novecento, ben noto anche in Italia per i suoi studi teorici sul cinema, ma le ricerche di Eugenia Casini Ropa presentano scritti per lo più sconosciuti fino all’uscita di questo volume, quelli in cui Balázs compare nelle vesti di teorico e di organizzatore del teatro operaio. Gli articoli e i saggi qui raccolti risalgono agli anni Venti e coincidono con il periodo dell’emigrazione austriaca e tedesca di Balázs: essi costituiscono tuttora una vera novità anche per gli studiosi. Come scrive Casini Ropa, nei testi raccolti nel volume «emerge con grande chiarezza il suo [di Balázs] tentativo, ideale, teorico e pratico, di far coesistere i principi estetici del marxismo coevo con una visione dell’arte del tutto personale, per ‘recuperare l’ipotetica incontaminata matrice originaria su cui fondare l’evoluzione di una nuova idea di teatro’».

Il prezioso volume è corredato da una bibliografia stimolante per ricerche future, completa anche di riferimenti alle fonti ungheresi di e su Balázs, indicazioni che però fino ad oggi non sembrano essere state raccolte dagli specialisti, come la studiosa deve con rammarico costatare nella più recente prefazione, compilata a quarant’anni di distanza dalla prima edizione del suo volume.

La prefazione del 1980 contiene una presentazione della vita e della carriera di Balázs, oltre che una sintesi della sua opera di teoria e di pratica del teatro. Per comprendere la formazione dell’autore Casini Ropa segnala come fonte essenziale il romanzo autobiografico La giovinezza di un sognatore, pubblicato a Budapest nel 1946. Nato a Szeged nel 1884, Balázs trascorse un’infanzia povera e una giovinezza non facile a causa della morte prematura del padre, uomo di grande talento che tuttavia per il suo carattere ribelle non era riuscito a realizzare le sue aspirazioni ad una carriera accademica. Oltre alle difficoltà familiari Balázs subì anche pregiudizi per la sua origine ebraica. Da giovane cominciò a pubblicare poesie; malgrado i problemi economici della famiglia, si iscrisse all’università di Budapest, dove conseguì la laurea in lettere con risultati brillanti. Fece viaggi di studio a Berlino e a Parigi e così ebbe modo di venire a contatto con la più aggiornata cultura europea. L’esperienza deludente come insegnante gli fece cambiare idea, non volle più seguire le orme del padre e scelse di dedicarsi al giornalismo, alla poesia, al teatro.

Il dramma su una donna emancipata, Il dottor Margit Szélpál del 1909, venne rappresentato al Teatro Nazionale di Budapest e ne scrisse una recensione un giovane critico, l’amico György Lukács. Dalla collaborazione di Balázs con Zoltán Kodály e Béla Bartók, fu all’origine dei libretti de Il principe di legno e de Il castello del principe Barbablu, che riflettono mitiche e simboliche tradizioni popolari che influenzarono lo scrittore così come i suoi giovani amici musicisti. Per un breve periodo prese parte alla prima guerra mondiale come volontario e si avvicinò alle idee socialiste; nel 1918 divenne membro del partito comunista ungherese. Per il ruolo ricoperto nella Repubblica dei soviet di Béla Kun, venne condannato a morte in contumacia e dovette nascondersi fino a quando non riuscì a emigrare. 

Data la sua perfetta padronanza del tedesco, lingua in cui scrisse tutte le opere composte fuori dalla madrepatria, la prima tappa fu Vienna, dove ebbe incontri proficui con il giovane cinema della capitale austriaca e dove svolse attività giornalistica collaborando principalmente con «Der Tag». In questo periodo pubblicò anche alcune monografie, come La teoria del dramma, e poi nel 1924 quello che divenne un saggio fondamentale, L’uomo visibile o la cultura del film, secondo Casini Ropa «prima opera di estetica cinematografica nel mondo e ancor oggi imprescindibile». Nel frattempo continuò a scrivere e a pubblicare poesie, prose e fiabe. Nel 1926 Balázs si trasferì a Berlino, in un clima fervido di speranze per una rivoluzione sociale. Il periodo berlinese appare come quello più «interessante e problematico, di più intensa e spesso folgorante intuizione teorica e di più immediata benché a volte inadeguata o contraddittoria sperimentazione pratica, come il punto di più alta tensione utopica e di più pregnante dialettica interna di tutto il pensiero e la produzione di Balázs».

A questi anni fino al 1931, quando si trasferì a Mosca, risalgono le sue collaborazioni a organizzazioni culturali di sinistra; sono note le sue vicende in campo cinematografico, fu membro del direttivo dell’Associazione popolare per l’arte cinematografica (Volksverband für Filmkunst) presieduta da Heinrich Mann, scrisse contributi per periodici specializzati e partecipò nella veste di sceneggiatore alla produzione di film. Arricchì anche le sue teorie sul cinema, pubblicando un nuovo testo teorico, Lo spirito del film (tr. it. Estetica del film, Editori Riuniti, Roma 1954, con varie riedizioni). 

Casini Ropa mette però anche in luce come il periodo berlinese fosse decisivo per l’incontro e il successivo apporto di Balázs all’innovazione in atto nell’ambito teatrale. Qui egli venne subito in contatto con le sperimentazioni d’avanguardia dei gruppi del teatro operaio, gruppi formati da dilettanti sotto l’egida sindacale o dei partiti di sinistra. Come afferma la studiosa, «questi gruppi a struttura collettiva, impegnati in un teatro satirico o didascalico dalle forme semplici e immediate, attraverso il quale diffondere e promuovere la coscienza di classe del proletariato, andavano in quegli anni crescendo straordinariamente in numero e in impegno politico sotto la spinta dell’avanzata della KPD. Alla guida di uno di essi, «Die Ketzer» (Gli eretici), Balázs iniziò la sua esperienza di teatro militante, che sarebbe cessata solo con la sua partenza dalla Germania, scrivendo e adattando testi, partecipando al lavoro collettivo del gruppo e guidandone le scelte culturali». Il numero dei gruppi teatrali comunisti cresceva per l’impulso alla campagna di agitazione e propaganda promossa dalla KPD e anche come risultato della tournée del gruppo sovietico «Bluse Blu». Numerosi tra questi gruppi aderirono alla Lega del teatro operaio tedesco, l’ATBD, di cui Balázs venne nominato direttore artistico, carica che coprì fino al 1930. Intanto pubblicò anche contributi teorici importanti sull’organo della Lega, saggi che ora si trovano raccolti nel presente volume. Oltre a dedicarsi all’attività del teatro operaio Balázs scrisse saggi e articoli più in generale sul teatro contemporaneo, che apparvero prima di tutto su «Die Weltbühne», di cui Casini Ropa pubblica alcuni tra quelli più significativi. 

Nella produzione drammaturgica Balázs cercò di assolvere il compito di esprimere la «coscienza collettiva del proletariato» e di «riflessione di classe», i cui risultati più importanti si possono cogliere in I muri del Père Lachaise del 1928 (sulle cause della disfatta della Comune di Parigi) e in Uomini sulla barricata del 1929 (sulla lotta dell’Armata rossa durante la rivoluzione sovietica). «Lo stile fortemente realistico, semplice e didascalico, non cancella del tutto la passione di Balázs per le vicende dell’anima individuale e i suoi personaggi mantengono, al di là della loro connotazione di classe e di condizione sociale che li rende simbolici, il pulsare profondo di un’individualità…». L’opera piacque a molti, fra gli altri a Erwin Piscator. Balázs aveva infatti collaborato fin dai tempi della fondazione nel 1927 al collettivo di scrittura teatrale Piscator-Bühne. Fra le sceneggiature create da Balázs si evidenzia la «fiaba teatrale» Hans Urian va in cerca di pane del 1929, non solo un astratto tentativo di adesione a quella progettualità d’avanguardia, ma frutto della sua personale teorizzazione e quindi da considerarsi concreto esempio della creazione di un teatro per ragazzi proletari.

Nello stesso tempo era vivo per Balázs anche l’interesse per il teatro musicale, l’opera e il balletto. Significativi di questa vastità di interessi che superava l’esclusiva attività cinematografica e teatrale, e perciò degni di nota sono i suoi contributi ai dibattiti culturali e alla critica letteraria contemporanea. La studiosa definisce come «sfida all’Oggettività» il romanzo del 1930, Uomini impossibili, che vede Balázs ormai nella piena maturità dei suoi strumenti espressivi. 

Appressandosi la minaccia del nazismo, nel 1931 Balázs si trasferì a Mosca e vi rimase fino al 1945, un periodo del quale si hanno ben scarse notizie. Tornò in Ungheria nel 1945 e negli anni precedenti all’instaurazione del regime comunista svolse un’intensa attività culturale: gli fu affidata una cattedra all’Accademia di arte drammatica e cinematografica, tenne la direzione dell’Istituto di scienza cinematografica, partecipò a film di spicco della rinascente cinematografia magiara di quegli anni, tra cui E’ accaduto in Europa (Valahol Európában) di Géza Radványi del 1947. Anche se nel 1948 gli venne assegnato il premio Kossuth, i suoi rapporti con le istituzioni in quel periodo divennero sempre più difficili. Possiamo aggiungere che il radicale cambiamento politico e culturale, l’attacco da parte del Partito comunista ormai al potere nei confronti di Lukács, creò probabilmente anche per Balázs un clima poco favorevole. 

Fu però in quegli anni che vide «la diffusione dell’ultima, più elaborata e completa sistemazione riassuntiva della sua teoria cinematografica; il volume tradotto e ben noto in Italia col titolo Il film: essenza ed evoluzione di un’arte nuova, Torino, Einaudi 1952», seguita da altre edizioni. Risale al 1948 l’edizione tedesca del già citato romanzo autobiografico La giovinezza di un sognatore, mentre quella ungherese era uscita del 1946. La sua ultima opera teatrale diffusa in tedesco mentre egli era ancora in vita, risale al 1946, Amore terreno e amore celeste, concepita ed elaborata durante il periodo russo.

La seconda parte dell’introduzione di Eugenia Casini Ropa tratta delle teorie di Balázs, legate a un preciso momento storico e culturale, ricco di fermenti e di novità quale fu la Repubblica di Weimar, in cui l’autore sviluppa le sue idee sul «teatro come arma», il teatro inteso come espressione artistica e politica per una società migliore.

«Lo strumento teatrale, questa l’idea di fondo di Balázs come critico, mezzo di comunicazione di insostituibile efficacia, deve essere usato politicamente secondo le intenzioni e i bisogni della nuova classe proletaria che cresce ogni giorno di più in forza sociale e in consapevolezza. Compito dell’arte in generale e di quella teatrale in particolare è stimolare e diffondere l’autocoscienza e la coscientizzazione politica della classe che secondo le speranze del momento, stava inevitabilmente per prendere il sopravvento».

Sostiene ancora Casini Ropa: «Nessun altro come lui ha saputo penetrare e trasmettere la tensione etica e la carica utopica ambiguamente sprigionata nel mondo weimariano dai numerosissimi piccoli gruppi di dilettanti proletari in cui egli salutava infine la nascita tanto attesa di un teatro ‘originario’ fondato realmente da e nel suo pubblico, dove vedeva rinnovarsi l’antico principio dionisiaco. Fulcro e motore di questa auspicata rinascita teatrale, in cui cogliamo i frutti dei semi gettati nella Teoria del dramma e che si presta oggi a essere letta in trasparenza come progetto di una vera e propria utopia teatrale e politica al tempo stesso, è per Balázs l’attore-operaio, autore e interprete del suo teatro».

Casini Ropa rintraccia le posizioni utopiche e fideistiche radicalizzanti delle idee di Balázs e allo stesso tempo anche i momenti di «profonda consapevolezza storica» delle difficoltà che emergevano. 

«Il lavoro creativo collettivo – e Balázs continua a chiamarlo arte – con cui il gruppo aspirava a fondere l’individuo nel collettivo, a eliminare il gioco gerarchico dei ruoli, a evitare ogni precisa specializzazione dei suoi membri, riappropriandosi insieme e comunitariamente dei mezzi di produzione, era un principio irrinunciabile dell’Agitprop, che esprimeva in esso la sua tensione utopica verso un mondo nuovo di vivere nel presente, una collettività sociale di abolire l’individualismo borghese, la divisione in classi e la parcellizzazione del lavoro. Ma nella prassi numerose erano le ambiguità rispetto al progetto e spesso la teoria doveva soggiacere alla necessità; così continuavano soprattutto ad esistere gli scrittori di professione – Balázs era uno di essi che lavoravano per il teatro operaio e a cui si lanciavano addirittura appelli per nuovi testi, e c’era spesso chi fungeva da regista e così via», afferma Casini Ropa. 

Il teatro operaio subì già nel 1929 leggi restrittive che imposero ai gruppi la clandestinità e infine nel 1931 li dichiararono fuori legge. Le compagnie più forti fecero passi verso la professionalità e così poterono sopravvivere, ma dopo l’ascesa del nazismo, nei primi mesi del 1933, tutte le voci di sinistra vennero spente. Alcuni gruppi, così come quello cui apparteneva Balázs, «Gli eretici», scelsero la clandestinità e misero in atto una vera e «propria guerriglia teatrale rapida, decisa e inafferrabile.» Questa era una comunicazione di strada, non più teatro istituzionalizzato. «I passanti delle vie di centro dove un finto (ma assai spesso vero, in realtà) disoccupato fingeva di svenire, attirando un capannello e suscitando discussioni amare o gli spettatori di innocui spettacoli filodrammatici di periferia ironicamente e violentemente contestati da attori-operai infiltrati fra di loro, venivano loro malgrado coinvolti nel gioco, facendosi inconsapevolmente attori di un’azione ‘teatrale’ del tutto nuova e spontanea. Un ‘teatro’ che per poter assumere questo nome ha preteso ancor oggi un allargamento semantico del termine e di conseguenza una revisione dell’ideologia che gli era sottesa».

Balázs tanti anni dopo, poco prima della morte sopraggiunta a Budapest nel 1949, ricordava con nostalgia non tanto gli ideali che avevano dato vita a quel teatro, quanto le sperimentazioni di animazione collettiva che da esso erano scaturite.

Così la studiosa conclude: «Coerentemente, e diversamente da quanto faranno in seguito tanti protagonisti di quei giorni, è questo lavoro oscuro e senza gloria il teatro che Balázs ricorda come l’esperienza ‘la più profonda, la più pura, la più sana’, come quel teatro che ‘voleva cambiare il mondo’ e la sua orgogliosa commozione è l’ultimo riconoscimento di quel generoso slancio utopico che sostanziava nel teatro una diversa qualità della vita».

Eugenia Casini Ropa aveva pubblicato la raccolta degli scritti di Balázs nel 1980 come invito a ulteriori studi e approfondimenti, un auspicio che però era destinato a restare tale. E’ quindi da accogliere positivamente la riproposta di un volume che ancor oggi conserva la sua attualità.

La studiosa per l’edizione del 2023 ha lasciato il volume inalterato aggiungendo solo una breve prefazione nella quale fra l’altro sostiene:

«Integro, senza nuove interpretazioni più scientemente contemporanee, il volumetto può apparire oggi quasi commovente, soprattutto per chi abbia vissuto il periodo – gli anni Settanta del secolo scorso – in cui è stato concepito. Il fervore di pensiero e di sperimentazione che animava allora gli studi e le scene teatrali, abbattendo gli argini della tradizione, invadendo gli spazi del vissuto, trasformando l’esperienza teatrale in autopedagogia individuale e di gruppo e proponendosi addirittura come esempio di una diversa modalità di vita, è oggi difficilmente immaginabile, pur se alcune rivoluzionarie conquiste di allora sono state acquisite e integrate nella pratica performativa. Quella metamorfosi dell’idea stessa di teatro era ovviamente figlia dell’epoca, anni in cui, nel bene e nel male, circolavano a tutti i livelli la passione e l’impegno sospinti dal vento delle ideologie e delle utopie, le lotte e le conquiste sociali erano all’ordine del giorno e il pensiero divergente e la creatività venivano stimolate persino nelle scuole proprio attraverso l’animazione teatrale. Il teatro poteva essere uno strumento trasformativo e gli studi storiografici, allora in pieno e originale sviluppo nel nostro paese, ricercavano anche nel passato eventi e atmosfere esemplari, consonanti con le urgenti tensioni che li muovevano. Così è nato, tra molti altri, anche questo volume e se oggi, dopo quattro decenni, il suo spirito, la sua scelta dei testi originali e la loro interpretazione possono apparire tendenziosi e ingenui al tempo stesso, è perché è specchio fedele del suo tempo e anche di quel tempo offre uno spaccato in veste di pensiero teatrale.

Riproporlo ai nostri giorni, quando la storia viene negata, l’ideologia e l’utopia sono politicamente scorrette e la passione latita intorno a noi, può forse sconcertare o divertire qualcuno, ma forse far riflettere e pungolare molti altri».


Fellini mastroianni logbook
4 Luglio 2024

La voce dei protagonisti

Storie e parole dei grandi maestri dello spettacolo

Cue Press è lieta di presentare la sua serie esclusiva di pubblicazioni, un tributo immersivo ai grandi protagonisti del cinema e del teatro. Queste opere rappresentano una collezione preziosa di interviste e scritti di prima mano direttamente dalle menti e dai cuori degli artisti che hanno plasmato l’industria dello spettacolo nel corso dei decenni.

Ogni volume offre un insight autentico e diretto sulla vita e sulla carriera di alcuni degli attori, registi e figure più influenti nel mondo dello spettacolo. Le interviste raccolte in queste serie coprono un’ampia gamma di argomenti, dalle esperienze personali degli artisti alle loro riflessioni sulle tendenze attuali nell’industria cinematografica e teatrale. È un viaggio emozionante attraverso le passioni, le sfide e i successi che hanno caratterizzato le loro straordinarie carriere.

Ma non è tutto. Oltre alle interviste, molti volumi includono anche articoli, saggi e discorsi scritti direttamente dagli stessi artisti. Questi testi offrono una prospettiva unica su questioni culturali, sociali e artistiche, arricchendo ulteriormente la comprensione dell’arte e dell’intrattenimento.

La serie di Cue Press non si limita a celebrare le leggende del cinema e del teatro, ma si impegna anche nella conservazione della memoria storica di queste personalità e delle loro opere. È un omaggio vivo e sentito alle voci che hanno definito e trasformato l’industria dello spettacolo.

Per gli appassionati di cinema, teatro e cultura in generale, questa serie rappresenta un’occasione preziosa per approfondire la propria conoscenza e per connettersi con le menti creative che hanno influenzato e ispirato generazioni di spettatori in tutto il mondo.

Unisciti a noi in questa sorprendente esplorazione delle voci del cinema e del teatro. Scopri le storie dietro le storie, immergiti nelle esperienze personali e professionali di coloro che hanno trasformato il nostro modo di vedere e comprendere l’arte dello spettacolo.

Visita il nostro sito per scoprire di più e per essere parte di questa avventura unica nel suo genere. Cue Press: dove le storie prendono vita, una pagina alla volta.

Stanislavskij cover
4 Luglio 2024

I maestri russi del Novecento

La Rivoluzione teatrale russa tra estetica e sperimentazione

Un progetto ambizioso e esauriente dedicato al teatro russo, esplorando le opere e le influenze di alcuni dei più grandi maestri del Novecento.

Questa iniziativa editoriale non solo celebra le opere iconiche di Anton Čechov, Vsevolod Mejerchol’d, Konstantin Stanislavskij, Nikolaj Vactangov e Aleksandr Tairov, ma anche offre una profonda analisi curata da esperti come Fausto Malcovati, con contributi unici e distintivi.

Anton Čechov, Vsevolod Mejerchol’d, Konstantin Stanislavskij, Nikolaj Vactangov e Aleksandr Tairov sono figure centrali nel panorama del teatro russo del Novecento, ciascuno con contributi unici e distintivi.

Anton Čechov è celebre per il suo realismo psicologico e la sua capacità di catturare le sfumature della vita quotidiana. Opere come Il giardino dei ciliegi e Zio Vanja riflettono il conflitto tra tradizione e cambiamento nella Russia dell’epoca.

Vsevolod Mejerchol’d è stato un pioniere della regia teatrale, noto per il suo approccio innovativo alla messa in scena e alla biomeccanica dell’attore. Ha cercato di rompere le convenzioni teatrali tradizionali e introdurre nuove forme di espressione.

Konstantin Stanislavskij, con il suo approccio al realismo psicologico e al metodo di recitazione, ha rivoluzionato il modo in cui gli attori interpretano i loro ruoli, influenzando profondamente il teatro e il cinema mondiale.

Nikolaj Vachtangov ha combinato elementi di realismo e simbolismo nel suo lavoro, esplorando temi di identità e conflitto interiore. È stato influente per il suo stile visivo e emotivo, evidente nelle sue regie di opere come Turandot e The Bedbug.

Aleksandr Tairov ha fondato il Kamerny Theatre a Mosca, dedicandosi alla sperimentazione formale e alla fusione di teatro e danza. La sua estetica audace e la sua ricerca di nuove modalità espressive hanno ispirato generazioni successive di registi.

Le pubblicazioni curate da esperti come Roberta Arcelloni, Silvana De Vidovich, Giovanni Gorla, Fausto Malcovati e Anna Tellini, offrono un’analisi approfondita di queste figure e dei loro contributi al teatro mondiale.

Malcovati, rinomato studioso del teatro russo, porta una prospettiva critica e storica che illumina il contesto culturale e artistico in cui questi maestri operavano. Le sue edizioni sono preziose per chiunque voglia approfondire la comprensione delle opere e dell’eredità di questi grandi maestri del Novecento, rendendo accessibili le loro idee e il loro impatto duraturo sul teatro moderno.

Cue dedica un ampio spazio anche alla drammaturgia contemporanea russa. Autorevoli voci come Ivan Vyrypaev e Mikhail Durnenkov sono presentate attraverso traduzioni curate con maestria da Teodoro Bonci del Bene.

Questi autori contemporanei portano avanti il discorso artistico con un’innovazione e una freschezza che rispecchiano il loro tempo, aggiungendo un capitolo vitale e dinamico alla ricca storia teatrale russa.

Le pubblicazioni di Cue Press rappresentano un ponte tra il passato e il presente del teatro russo, arricchendo il panorama culturale globale con nuove prospettive e stimolanti contributi artistici.

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4 Luglio 2024

Lotte Eisner e il cinema espressionista

Le ombre e la luce del cinema: il pensiero e le opere di Lotte Eisner

Lotte Eisner, storica del cinema e critica franco-tedesca, è una figura di spicco nello studio del cinema espressionista tedesco. Nata nel 1896 e scomparsa nel 1983, ha dedicato la sua carriera all’analisi del cinema tedesco degli anni Venti e Trenta, diventando un punto di riferimento per studiosi e cineasti. La sua influenza si estende anche al celebre regista Werner Herzog, che la considerava una mentore e un’ispirazione.

Cue Press è orgogliosa di presentare le opere fondamentali di Lotte Eisner, che hanno rivoluzionato la comprensione del cinema espressionista. Scopri di seguito le sue opere più importanti pubblicate da Cue Press in Italia.

Lo Schermo Demoniaco è un viaggio nell’estetica del cinema espressionista degli anni Venti. Nel volume, Eisner esplora l’uso delle ombre, le architetture distorte e le tematiche oscure che riflettono le ansie post-belliche della società tedesca. Questo libro offre una visione approfondita e illuminante di un periodo cruciale nella storia del cinema.

Fritz Lang rappresenta una dettagliata analisi della carriera del regista, noto per capolavori come Metropolis e M – Il mostro di Düsseldorf. L’autrice approfondisce lo stile visivo e narrativo del regista, rivelando l’impatto duraturo del suo lavoro sul cinema mondiale.

Nella più importante biografia realizzata su Friedrich Wilhelm Murnau, il genio dietro Nosferatu e L’ultima risata, Eisner esplora l’approccio innovativo alla regia del regista e la sua capacità unica di creare atmosfere suggestive, consolidando la sua reputazione come uno dei più grandi registi della storia del cinema.

La nostra selezione di opere di Lotte Eisner non sarebbe completa senza menzionare la sua profonda influenza su Werner Herzog. Considerata una mentore e un’ispirazione, Eisner ha giocato un ruolo cruciale nello sviluppo artistico di Herzog, che le ha reso omaggio in molte occasioni. Il loro legame testimonia l’importanza duratura del lavoro di Eisner.

Esplora il nostro catalogo e immergiti nelle opere di Lotte Eisner. Cue Press è dedicata a portare al pubblico italiano libri che non solo informano, ma ispirano e arricchiscono la comprensione del cinema.

Vittorio gassman photo archivio storico luce 2022 22 2022
4 Luglio 2024

Vittorio Gassman, più di un mattatore

Un viaggio attraverso le memorie e le riflessioni di un gigante dello spettacolo

Vittorio Gassman (1922-2000) è stato uno degli attori più celebri e poliedrici del teatro e del cinema italiano. La sua carriera, lunga e ricca di successi, ha attraversato oltre cinquant’anni, affermandolo come una figura centrale nel panorama artistico italiano.

Cue Press è orgogliosa di presentare alcune opere chiave di Vittorio Gassman che offrono uno sguardo approfondito sulla vita e carriera di uno dei più grandi attori italiani.

Un grande avvenire dietro le spalle è l’autobiografia in cui Gassman racconta con sincerità e ironia le esperienze che hanno segnato il suo percorso artistico, dai primi passi nel teatro ai grandi successi cinematografici. Questo libro fornisce un’intima visione delle sfide e delle gioie che hanno caratterizzato la sua straordinaria carriera.

Memorie dal sottoscala è una raccolta di ricordi personali che esplora gli aspetti più umani e vulnerabili della sua esistenza, offrendo aneddoti e riflessioni che svelano il lato più intimo di Gassman.

L’intervista Il mestiere dell’attore raccoglie una serie di interviste in cui Gassman riflette sul suo mestiere, discutendo le tecniche recitative e la sua filosofia artistica. Attraverso queste interviste, emergono dettagli significativi del suo approccio alla recitazione e delle sue opinioni sull’evoluzione del teatro e del cinema.

Vittorio Gassman attore multimediale è un saggio critico che analizza la versatilità di Gassman tra teatro, cinema e televisione, mettendo in luce il suo contributo innovativo all’arte drammatica. Questo saggio esamina le sue performance più celebri e il modo in cui ha saputo adattarsi e innovare costantemente nei vari media.

Questi testi pubblicati da Cue Press offrono una comprensione completa e sfaccettata dell’eredità artistica di Gassman, dalle memorie personali alle riflessioni professionali, fornendo una visione dettagliata del suo approccio alla recitazione e alla cultura popolare.

Attraverso queste opere, i lettori possono apprezzare la profondità e la versatilità di Gassman, scoprendo nuovi aspetti della sua vita e del suo contributo al mondo dello spettacolo.

Fosse portrait
4 Luglio 2024

… se Fosse premio Nobel?

Jon Fosse: tra profondità emotiva e riflessioni esistenziali

Jon Fosse, uno degli scrittori più influenti e prolifici della Norvegia contemporanea, ha trovato in Cue Press una piattaforma ideale per le sue opere, ben prima della vittoria del Nobel.

Cue è entusiasta e onorata di presentare le sue creazioni uniche, offrendo al pubblico italiano la possibilità di esplorare una selezione curata delle sue opere teatrali e narrative.

Le pubblicazioni di Jon Fosse per Cue Press offrono una panoramica completa del suo stile inconfondibile e delle sue tematiche ricorrenti.

Le sue opere, caratterizzate da una profondità emotiva e una complessità psicologica, esplorano le relazioni umane e le dinamiche familiari attraverso un linguaggio poetico e minimale.

Tra le pubblicazioni più significative troverete titoli come Caldo, Qualcuno arriverà, E non ci separeremo mai e Il nome, testi che mettono in luce la capacità di Fosse di trasformare il quotidiano in qualcosa di straordinariamente intenso e riflessivo.

Di particolare interesse è anche la raccolta Saggi gnostici, che esplora temi esistenziali attraverso una lente filosofica e spirituale.

Il nostro impegno nella qualità editoriale assicura che le traduzioni mantengano la voce e l’integrità dell’autore, permettendo ai lettori di immergersi completamente nel mondo creato da Fosse.

Grazie a questa collaborazione, il pubblico italiano può apprezzare appieno il talento di Jon Fosse, riconosciuto a livello internazionale e premiato con numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Ibsen e il Premio per la Letteratura del Consiglio Nordico.

Le pubblicazioni di Cue Press rappresentano un ponte culturale, permettendo a una delle voci più potenti della letteratura nordica di risuonare anche in Italia.

Samuel beckett alla regia di aspettando godot
17 Giugno 2024

Un nuovo Beckett, partendo dai suoi quaderni

Appunti, revisioni, annotazioni e traduzioni del genio beckettiano

I quaderni di regia e testi riveduti di Samuel Beckett arrivano in Italia!

Un’immensa quantità di materiali inediti, affiancati dalle edizioni critiche di James Knowlson e Stanley E. Gontarski, massimi esperti mondiali di Beckett.

I quaderni di regia gettano una nuova luce sull’autore di Aspettando Godot e sui suoi capolavori, offrendo un prezioso strumento per indagare le scelte registiche e il processo creativo di Beckett.

I Theatrical Notebooks, così chiamati in lingua anglosassone, sono raccolte di note dettagliate e annotazioni del drammaturgo riguardanti la messa in scena delle sue opere teatrali.

Questi quaderni offrono uno sguardo approfondito sul suo processo creativo, includendo modifiche e indicazioni precise per registi e attori.

Questi volumi includono le immagini anastatiche dei quaderni completi, con annotazioni originali, trascritte e tradotte in lingua italiana.

I testi riveduti delle sue maggiori pièce – anch’essi pubblicati e tradotti per la prima volta in Italia – come Aspettando Godot e Finale di partita, mostrano le revisioni e le varianti apportate da Beckett nel corso del tempo.

Il significativo rilancio dell’opera di Samuel Beckett in Italia è favorito dalla fortunata coincidenza della pubblicazione del Meridiano a lui dedicato, curato da Gabriele Frasca, il quale ha contribuito a rinnovare l’attenzione nei confronti dello scrittore irlandese.

Il fulcro di questa riscoperta beckettiana sarà però rappresentato dalle pubblicazioni di Cue Press, che offriranno un contributo decisivo al panorama critico e storiografico.

Oltre ai quattro (o forse cinque) quaderni di regia e ai testi riveduti a cura di Luca Scarlini, Cue Press porta in catalogo volumi di importanza fondamentale per gli studi beckettiani: la biografia di James Knowlson, Condannato alla fama, sempre curata da Gabriele Frasca; il saggio di Ruby Cohn, Beckett: un canone, curato da Enzo Mansueto; l’analisi di Alan Astro, Per comprendere Beckett, a cura di Tommaso Gennaro; il companion di Gabriele Frasca, Il dolce stil no; l’inedito Beckett handbook di Stanley E. Gontarski.

Grazie a questa sinergia tra nuove edizioni, studi critici e ricerche inedite, l’opera di Beckett torna prepotentemente al centro dell’attenzione in Italia, arricchendo e rinnovando il dibattito accademico e culturale intorno a uno degli autori più originali e influenti del Novecento.

Arlecchino ritaglio
17 Giugno 2024

Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore

Siro Ferrone, «Drammaturgia»

Prima dell’apparire di Arlecchino, nelle piazze e sui palcoscenici improvvisati dei teatri effimeri c’erano stati… gli zanni. Personaggi rappresentativi di un’umanità animalesca, nascosti da maschere bestiali e grifagne, talvolta incorniciate da ispide barbe, vestivano panni di tela grezza, a imitazione degli abiti da lavoro dei facchini, degli operai del porto, o dei campi: erano questi uomini ‘inferiori’ che gli attori buffoneschi volevano irridere, a beneficio degli spettatori cittadini e veneziani in particolare…

Così dà avvio al suo Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore Siro Ferrone […]: a voler significare subito, e senza equivoci, che il suo non è un libro sull’eternamente aperta e da sempre irrisolta questione dell’origine antropologica (o folclorica) di questa ultra evocata maschera. Ricordate il Dante di Malebolge, caro a Sanguineti: ‘Tra‘ti avante, Alichino, e Calcabrina’ – cominciò elli a dire, ‘e tu, Cagnazzo: – e Barbariccia guidi la decina…’. Siamo in Inferno, c. XXI, vv. 118-120. No, Ferrone vuole studiare soltanto, e per la prima volta a fondo, il primo attore italiano che decise di portare in scena quella specifica maschera e di farne – per tutta la carriera – il suo, esclusivo e gelosamente protetto, personaggio. Siamo agli albori della Commedia dell’Arte, cioè di quel fenomeno collettivo disordinato, pittoresco, eppure prodigiosamente creativo, che impose l’Italia all’attenzione dei popoli di tutta Europa, dalla Scandinavia all’Inghilterra, dalla Russia all’Olanda, dalla Germania alla Spagna e alla Francia tra la fine del Cinquecento a tutto il Settecento, non senza qualche spasimo di dolore del nostro Goldoni, che si batté a lungo per propiziarne il definitivo tramonto.

Dalla recensione di Guido Davico Bonino (Copyright «La Stampa» 2006)

Se l’anonimato è il massimo segno del successo (anonimi sono gli autori della Bibbia, dell’Iliade e del Mahabharata), il creatore di Arlecchino potrebbe essere considerato uno dei più grandi. La storia della sua maschera, lunga qualche secolo, è stata scritta come una vita cominciata sulla scena e mai finita. Come raccontare le diverse trasformazioni del re Edipo, del nobile Don Giovanni e del principe Amleto lungo secoli di rappresentazioni, dimenticandosi che in principio ci furono uomini di teatro (attori-scrittori) che li inventarono.

Oggi, a differenza degli altri personaggi, Arlecchino non può esibire un testo che certifichi la sua nascita. Eppure egli nacque. A inventarlo – non dal nulla, poiché dal nulla niente si crea – fu un attore del sedicesimo secolo, Tristano Martinelli, nato a Marcaria nei pressi di Mantova il 7 aprile 1557 e a Mantova morto, in contrada del Mastino, «di febbre e cataro in due giorni» il primo marzo 1630.

Prima del suo apparire, nelle piazze e sui palcoscenici improvvisati dei teatri effimeri, c’erano stati – ma continueranno a esistere anche dopo l’invenzione di Arlecchino – gli «zanni». Personaggi rappresentativi di un’umanità animalesca, nascosti da maschere bestiali e grifagne, talvolta incorniciate da ispide barbe, vestivano panni di tela grezza, larghi pantaloni e camicioni, sovente luridi e disordinati, legati ai fianchi da corde sfilacciate, a imitazione degli abiti da lavoro dei facchini, degli operai del porto o dei campi: erano questi uomini ‘inferiori’ che gli attori buffoneschi volevano irridere, a beneficio del divertimento degli spettatori cittadini e veneziani in particolare.

L’adozione della lingua bergamasca serviva a denotarli rispetto agli altri personaggi di ceto più elevato (come il Magnifico, rappresentativo degli altrettanto ridicoli padroni veneziani, o gli «innamorati» che si esprimevano in fiorentino letterario), creando l’antagonismo linguistico e sociale che fu all’origine del successo di quel genere di spettacolo che fu chiamato «Commedia dell’Arte»: il povero contro il ricco, il montanaro contro il cittadino, l’impaccio della carne contro il fumo delle parole. Essi incarnavano bene – e continueranno a farlo nei secoli seguenti – la natura istintiva di personaggi chiamati a colpire l’immaginazione e l’emozione di spettatori popolani e colti, con azioni balorde e con fonemi gutturali e inauditi.

A Tristano Martinelli, come ad altri attori del suo tempo e del nord d’Italia, il destino aveva probabilmente assegnato quel ruolo, diventato convenzionalmente assai pregiato nella routine dei professionisti dello spettacolo di metà Cinquecento. Molti però essendo i concorrenti alla medesima funzione, divenne necessario, per distinguersi dagli altri zanni, inventare e assumere nuovi tratti denotativi accanto ai vecchi ricevuti dalla tradizione medievale. E questo cominciando dalla lingua. L’attore e scrittore Bartolomeo Rossi (1584) a proposito di Arlecchino e di altri zanni notò che questi avevano infranto il dogma del canone bergamasco: «Bergamino, se ben non osserva la vera parola Bergamascha, non importa, perché la sua parte è come quella di Pedrolino, di Buratino, d’Arlechino, et altri che imitano simili personaggi ridiculosi, che ogni uno di questi parlano a suo modo, senza osservanza di lingua, differenti da M. Simone, Zanne dei Signori Gelosi, e M. Battista da Rimino, Zanne de’ Signori Confidenti che questi osservano il vero dicoro de la Bergamascha lingua».

Con questa prima invenzione (e infrazione del codice ricevuto dalla tradizione), Tristano avviò la costruzione del nuovo personaggio teatrale, a cui è dedicato il nostro lavoro: qui non ci interessano infatti né l’antichissima querelle sulle ‘origini’ delle maschere né ogni altro dibattito relativo alle teorie evoluzionistiche degli archetipi folclorici.

Alla prima trasgressione ne seguirono molte altre che ben presto distinsero l’attore mantovano come primus inter pares fra gli zanni del suo tempo, trasformando uno dei tanti epiteti propri di quel ruolo in nome d’arte assoluto. Prima di allora quel nome era stato per molto tempo un borborigmo, un balbettamento che circolava, sottoposto a diverse metamorfosi, soprattutto nelle favole e nei riti pagani della Francia e dell’Europa del nord (con qualche eco anche nella tradizione italiana), spesso attribuito a una figura eminente se non addirittura regale del folclore locale; dopo di lui, quel nome rimase, senza perdere il mitico alone suggerito dalla letteratura popolare, a designare un preciso personaggio delle scene teatrali che convisse con gli zanni superstiti, accompagnando, durante la vita e anche dopo la morte, i molti attori che lo scelsero, uno dopo l’altro, a imitazione dell’inventore e primo titolare.

Dopo Martinelli vennero i più celebri Dominique Biancolelli (1636-88), Evaristo Gherardi (1663-1700), e poi tanti altri fino ai più recenti Marcello Moretti (1910-61) e Ferruccio Soleri. Col tempo Arlecchino vide modificati i suoi caratteri, come un testo classico che – di secolo in secolo – gli interpreti vanno adattando ai costumi e ai linguaggi loro contemporanei. Da mantovano si era fatto francese e poi di nuovo bergamasco, poi ancora francese, russo e naturalmente veneziano, surrealista, biomeccanico e postmoderno. Come Amleto e Don Giovanni, ha cambiato interpreti rimanendo sempre lo stesso, e come altri grandi personaggi della storia del teatro europeo, quanto più è stato ‘fortunato’ nei secoli tanto più ha cancellato nella memoria dei posteri chi per primo lo aveva portato sulle scene.

Ma il naufragare dell’antico attore che lo inventò nell’anonimato glorioso del mito è conseguenza di una perdita più grave. La sua opera geniale consistette soprattutto di azioni, gesti e parole create sulla scena e mai trasferite nella pagina scritta, mai stampate e tramandate. E quindi, nonostante il nome sia sopravvissuto nei secoli, il suo patrimonio artistico è andato smarrito con il dissolversi del corpo. La ricostruzione e il racconto della sua biografia rappresentano perciò gli unici strumenti che possiamo utilizzare per arrivare a identificare la natura della sua creazione.

I documenti che permettono di ricostruire la storia di Tristano Martinelli sono pochi. Alcuni sono dovuti alla mano di notai, cancellieri, principi o comici che ebbero con lui rapporti di lavoro e di interesse; altri, quelli autografi oppure dettati da lui, sono principalmente lettere, in prevalenza appartenenti agli ultimi anni della vita, quando scrivere diventò per l’attore un surrogato del fare. Ci siamo serviti delle rare parole scritte in tarda età per capire le cose fatte da Arlecchino in età giovanile. Non sempre è un buon metodo, ma è l’unico possibile nel nostro caso.

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