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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

14 Marzo 2022

Scrittore e attore, soprattutto mattatore. Cioè Gassman. Aneddoti, confessioni, amori, spettacoli. Infine, la depressione

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Le biografie e le autobiografie di attrici e di attori hanno permesso, agli storici del teatro, di ricostruire la nascita dei loro spettacoli, il momento storico in cui sono stati realizzati, le difficoltà economiche, le ansie dei capocomici e dei produttori, i successi e gli insuccessi. All’interno vi si trovano memorie, segreti, manie, bugie, autoreferenzialità, pagine poetiche, allarmismi, depressioni, insomma tutto quello che fa parte della vita di un uomo e di un artista.

L’editore Cue Press ha pubblicato Un grande avvenire dietro le spalle, con prefazione di Emanuele Trevi, nel centenario della nascita di Vittorio Gassman, mentre a Roma, in aprile, verrà organizzata una grande mostra a lui dedicata. La prima edizione del volume risale al 1981, edita da Longanesi, lo stesso che pubblicherà successivamente Bugie sincere, ovvero il copione dello spettacolo su Edmund Kean, messo in scena da Gassman nel 1955, diventato un terreno di battaglia in edizioni successive e, persino, in televisione, a cui, in Un grande avvenire dietro le spalle, sono dedicate molte pagine, ricordando gli eccessi, le passioni, le sbruffonate, gli scatti d’ira, le menzogne, ma anche le verità dell’attore «divino», molto simile a lui.

Definire il genere in cui collocare Un grande avvenire dietro le spalle non è semplice, essendo un misto di confessioni, di aneddoti, di relazioni, di analisi dei propri spettacoli, di amicizie, di ansie, di indagini sulla figura dell’attore. Gassman lo scrive in un periodo non molto felice che coincide con l’inizio della depressione che accompagnerà gli ultimi vent’anni della sua vita, durante i quali, non ha smesso di scrivere poesie, un romanzo, articoli, dimostrando una vera e propria attitudine per la scrittura. Egli era solito dire: «Quando uno scrittore muore, la sua opera resta, ma se è un attore che muore, si apre un buco irrimediabile». Potrebbe essere questo un motivo per spiegare la volontà di raccogliere, in volumi, la sua storia. La struttura del libro non è dissimile da quella di una sceneggiatura cinematografica, trattandosi della vita di un mattatore, ma anche dei suoi tanti amori e tradimenti, si potrebbe ricavarne un film con l’uso del flashback, perché scritto senza un preciso ordine cronologico, bensì logico, anche quando utilizza i voli pindarici. La biografia di un grande attore, la si può anche leggere come un romanzo d’avventura, con tutti gli avvenimenti e gli eccessi che la caratterizzano.

Il volume inizia con la nascita a Genova, con l’infanzia errabonda per seguire l’attività del padre ingegnere, gli anni dell’Accademia, i debutti con la Borelli, con l’Adani-Calindri, insieme a Carraro, le difficoltà economiche degli inizi, quando doveva accontentarsi di squallide pensioni, i primi successi da protagonista, in particolare con Amleto, gli amori sempre difficili, i matrimoni improvvisi, come quelli con Nora Ricci, Shelley Winters, Juliette Mayniel, Diletta D’Andrea, i tradimenti con belle donne poco conosciute, i sette anni con Annamaria Ferrero, la cotta per Annette Stroyberg, moglie di Vadim.

Molte di queste storie sono ben note, essendo diventate pagine di rotocalchi, meno note sono quelle che riguardano alcuni spettacoli, oltre che i difficili rapporti con i critici, specie con coloro che gli rimproveravano certi eccessi nella recitazione. A tale proposito, veniamo a conoscenza di un episodio che riguarda il Prometeo, realizzato al Teatro Greco di Siracusa, che interpretò «su misura peri i critici», ovvero con una recitazione limpida, lenta, poco effettistica o declamatoria, solo che, per raggiungere un simile risultato, escogitò di recitare senza imparare la parte, ma ripetendo le battute del suggeritore che si trovava dietro le sue spalle, grazie a una scenografia costruita appositamente.

Sempre a Siracusa nacque una polemica con Nicola Chiaromonte, in occasione dell’Edipo Re, perché il critico lo aveva accusato di aver soppresso il primo monologo della tragedia, cosa non vera, visto che Chiaramonte fece le sue scuse. Ancora a Siracusa va registrato lo scandalo dell’Orestiade, per la traduzione di Pasolini che vide scagliarsi contro, tutti gli antichisti filologi che sottolineavano le ‘libertà’ che il traduttore si era concesse.

Altre pagine, importantissime, sono quelle che ricostruiscono l’avventura del Teatro Tenda (1960), di cui vengono raccontati episodi inediti sulla messinscena dell’Adelchi del Manzoni, come la difficilissima costruzione del tendone, ben tre volte scoperchiato, a causa dei temporali, in attesa del debutto che vedeva in scena trenta attori, altrettanti tecnici, duecento costumi, decine di comparse, sei cavalli veri. Uno spettacolo rimasto nella nostra memoria, visto da 350 mila spettatori, di cui 120 mila solo a Milano. Seguiranno Otello, con Salvo Randone, «la più bella voce di teatro che abbia mai sentito», O Cesare o nessuno, altra autobiografia e, ancora, i riferimenti agli oltre cento film da lui interpretati. Una lettura davvero affascinante.

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13 Marzo 2022

Fausto Malcovati, Un’idea di Dostoevskij

Nicola Arrigoni, «Sipario»

La lettura di Delitto e castigo e l’ebbrezza di confrontarsi con il delirio della coscienza di Raskolnikov, il «due più due» dell’Uomo del Sottosuolo, le potenti riflessioni di Ivan Karamazov, di Alëša, il ricordo quasi fisico degli ambienti notturni, delle vie anguste, dell’umanità dolente nei Fratelli Karamazov oppure ne I demoni: immagini, sensazioni corporee che emergono potenti vedendo quanto i telegiornali a tutte le ore mostrano dal fronte ucraino. Poi la notizia che la Bicocca ha cancellato il seminario di Paolo Nori su Dostoevskij e sulla scrivania il saggio di Fausto Malcovati, Un’idea di Dostoevskij, pubblicato da Cue Press che ti invita e ti costringe quasi a prenderlo in mano e leggerlo tutto d’un fiato. E curioso oggi il saggista, fra i massimi studiosi della letteratura e civiltà russa, è in scena con Padri e Figli di Turgenev, per la regia di Fausto Russo Alesi, prodotto da ERT.

È questa la premessa personale e accidentale che ci si sente in dovere di fare per raccontare di un saggio che è, in primis, un invito alla lettura del grande autore russo: «Molte altre monografie, dotte e illuminanti, soprattutto in questo anno 2021, in cui ricorre il bicentenario della nascita del romanziere russo: preferisco concludere con un invito al lettore. Prima di occuparsi di ciò che è stato scritto su Dostoevskij, si inoltri con slancio, con coraggio sul lungo cammino dei romanzi e dei racconti, da Povera gente ai Karamazov. Non si lasci scoraggiare dalla mole dei volumi, da certi passaggi faticosi, da qualche lentezza narrativa. Il cammino è lungo, ma aiuta a crescere.»

Così Malcovati scrive chiudendo il suo saggio. Ed è questo che fa Dostoevskij cambia la prospettiva di visuale, ti obbliga a guardare l’abisso e immergerti e faticosamente a riemergere. Nel suo saggio Malcovati propone una sorta di invito alla lettura dell’autore dei Karamazov, ne traccia il profilo biografico e ne analizza le opere, i personaggi principali dei grandi romanzi, ma soprattutto compone una sorta di sintesi del mondo di Dostoevskij, dei grandi temi del romanziere. Le frequenti citazioni dei testi, inoltre, permettono di godere di una sorta di guida in pillole di alcune delle pagine migliori e più potenti del romanziere.

Nel leggere i brani citati, così come l’analisi che ne fa Malcovati il pensiero di Dostoevskij, le tematiche legate al confronto/conflitto fra Russia ed Europa, il contrasto Oriente/Occidente, la potenza dell’uomo del sottosuolo, il suo isolamento, una sorta di ripetuta missione che lega la Russia alla religione, alla figura del Cristo, alla prospettiva di una salvezza ecumenica risuonano come tristi presagi delle ore buie che stiamo vivendo. Nelle immagini dei bambini sbigottiti e atterriti, nella sofferenza delle donne che fuggono dall’Ucraina, ma anche nella solitudine di Vladimir Putin nelle grandi sale del Cremlino riecheggiano le immagini che la grande letteratura di Dostoevskij imprime in chi ha affrontato le pagine dei suoi romanzi e dei racconti. Nel leggere Un’idea di Dostoevskij si percepisce che il senso aberrante di ciò che accade ha le sue radici in una mitologia, in un passato che l’autore di Delitto e castigo racconta, analizza, ma in cui fa nascere una possibilità altra, nella convinzione evangelica che il seme può dar frutto solo morendo. E allora nel brano in cu Alëša si interroga su cosa sia il paradiso si legge: «Dappertutto oggi, l’intelligenza sta diventando ridicolmente incapace di comprendere che la vera sicurezza dell’individuo non consiste nello sforzo individuale e isolato, ma nell’unione di tutti gli uomini. Però verrà certamente la fine di questo spaventoso isolamento e tutti capiranno di colpo quanto fosse innaturale questo loro allontanarsi l’un dall’altro. Allora sarà questa la tendenza del tempo, e si meraviglieranno di essere rimasti tanto a lungo nelle tenebre, senza vedere la luce.» E allora, forse, leggere Un’idea di Dostoeviskij di Fausto Malcovati può essere un bell’esercizio intellettuale per riscoprire l’autore de I demoni e forse per capire un po’ di più cosa oggi sta accadendo….

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13 Marzo 2022

I Quaderni di regia e i testi riveduti. Aspettando Godot

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Nell’ottobre del 1984, il pubblico milanese, (molti di noi, allora, erano presenti), poté assistere a qualcosa di insolito e di diverso, l’occasione fu data dalla messinscena di una trilogia, al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, formata da Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, prodotta dal San Quentin Drama Workshop, diretto da Rick Cluchey che interpretava il personaggio di Pozzo. Beckett regista, in quella occasione, aveva scelto, del suo testo più famoso, una interpretazione ricca di clownerie, non di tipo metafisico ma di tipo circense, con le tipiche gag e con la ricerca della risata. Il pubblico italiano non era abituato a ridere vedendo Aspettando Godot, al contrario di quello Dublino, dove ebbi modo di vederne una edizione, che rideva clamorosamente.

Visto da Beckett, Aspettando Godot divenne anche una vera e propria partitura verbale che conteneva momenti di allegria. Arbasino, che aveva visto lo spettacolo a Londra, intitolò la sua recensione: «Aspettando Totò», per sottolineare il divertissement, quell’aria di Varietà che verrà ripresa da Antonio Calenda, in una edizione del 1987, con Mario Scaccia e Pupella Maggio.

Oggi dobbiamo riferire di un evento editoriale, dovuto a Cue Press, che ha pubblicato i Quaderni di regia e testi riveduti di Aspettando Godot, a cura di Luca Scarlini, una specie di laboratorio in cui possono imbattersi gli amanti del teatro di Beckett che avranno modo di conoscere tutte le varianti che lo hanno accompagnato durante la sua trasposizione scenica. Sappiamo bene che la storia di un testo è quella delle sue interpretazioni, si tratta di una legge a cui si assoggettano tutte le interpretazioni registiche, a dimostrazione che non possa esistere una analisi fissa o stabile, identica a un’altra e che ogni messinscena avrà una sua storia, tanto che quella che sembrerebbe l’ultima e definitiva, non è altro che una versione diversa della precedente.

Leggendo i Quaderni di regia si rimane persino sorpresi nel notare le infinite varianti, gli approfondimenti, gli spostamenti di dialogo, le nuove versioni d’autore che li contraddistinguono, con le sue decisioni di cambiamento, con le indicazioni dei movimenti e persino delle luci, alle quali vanno aggiunte le preziose Note dovute al curatore. Insomma ci si trova dinanzi alla fase di un processo creativo che non ha mai fine, utilissimo per chi volesse, in avvenire, rimettere in scena Aspettando Godot, perché non potrà fare a meno delle preziose indicazioni, dei suggerimenti, degli emendamenti, delle aggiunte testuali, delle rielaborazioni, delle modifiche, dei ripensamenti fatti da Beckett, a dimostrazione di come pensare in termini letterari sia una cosa ben diversa dal pensare in termini teatrali. Il volume contiene una Nota sul progetto editoriale e una di Luca Scarlini, mentre determinante è la Prefazione all’edizione critica di James Knowlson che ricostruisce la storia dei due Quaderni, da quando Beckett decise di accettare di dirigere personalmente Aspettando Godot allo Schiller Theater di Berlino, sostenendo che, attraverso il filtro dei Quaderni, la danza di Lucky, per esempio, potrebbe essere intesa come quella dell’uomo prigioniero della dipendenza e della solitudine.

11 Marzo 2022

Nelle recensioni di Palazzi il peggior cinema anni Settanta con uno sguardo ironico

Barbara Belzini, «Libertà di Piacenza»

Le belle voci di Tindaro Granata e Mariangela Granelli, in una pausa dalle prove di Lo zoo di vetro andato in scena in questi giorni al Municipale con la regia di Leonardo Lidi, hanno accompagnato il pubblico del Teatro Filodrammatici all’interno del libro Esotici, Erotici, Psicotici. Il peggio degli anni Settanta in 120 film di Renato Palazzi, critico teatrale e giornalista grande amico di Teatro Gioco Vita che ha ospitato l’evento alla presenza della moglie Rossella e introdotto da Giancarlo Spezia.

Pubblicato recentemente da Cue Press nella collana «I Saggi del cinema», il libro (uscito postumo, Palazzi è mancato nel novembre del 2021) è una raccolta di recensioni scritte da Palazzi tra il 1974 e il 1978 per il «Corriere della sera», un ritratto degli anni Settanta attraverso la lente del cinema trash di quel periodo. Palazzi racconta nell’introduzione di come il responsabile degli spettacoli di quegli anni volesse intenzionalmente «rintuzzare le mie aspettative di giovane aspirante critico teatrale», affidandogli l’incarico di recensire titoli semi imbarazzanti lontanissimi anche da prodotti di serie B diventati nel tempo oggetti di culto come Giovannona Coscialunga: «non toccavano a me, evidentemente non ero ritenuto all’altezza. Il massimo a cui ho potuto aspirare è stato Esotika Erotika Psicotika, che aveva almeno qualche stramba pretesa intellettuale».

I pezzi, suddivisi in filoni narrativi come «Voyeurismo casareccio», «Anche in Europa lo fanno», «Sexycarceri e lager» raccontano un cinema di grana grossissima, sconvolgente se guardato alla luce del sentimento dei nostri tempi: si passa dalla recensione di Afrika erotika completamente infarcita di kappa al «dramma di sangue e passione in Sicilia» di Canne mozze, letta da Granata con accento siciliano, e ci restituiscono «un racconto fuori dal coro di un’epoca che ha dato i natali all’Italia di oggi. Lo sguardo è ironico, distaccato, ma sempre puntuale: si capiva già allora che questo giovane critico sarebbe stato l’intellettuale di riferimento del teatro italiano». Saranno pure di serie Z, ma in alcuni di questi film si trovano personaggi (a volte già famosi all’epoca) che poi saranno fondamentali per il cinema e per lo spettacolo italiano, come in Grazie tante e arrivederci, che nel cast annovera Carmen Villani, Franca Valeri, Vittorio Caprioli, Mario Scarpetta e Memmo Carotenuto.

È entrata dalla parte del pubblico Mariangela Granelli ed è arrivata sul palco per leggere la postfazione della giornalista e critica cinematografica Cristina Battocletti che sottolinea il terribile cattivo gusto dell’epoca e il pattume televisivo e cinematografico riservato alla generazione nata negli anni Settanta: «Quei trafiletti su cui il suo giornale lo costringeva a recensire pellicole inqualificabili si sono trasformati in una specie di Fort Apache del buon gusto e dell’indignazione. Pensavano di fargli un torto (e glielo facevano), ma in quelle poche righe Palazzi metteva in atto la sua personale Resistenza al decadimento morale senza fare moralismi».

7 Marzo 2022

Aspettando Godot. Un quaderno come un laboratorio. Per conoscere le varianti delle tante trasposizioni sceniche

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nell’ottobre del 1984, il pubblico milanese poté assistere a qualcosa di insolito e di diverso. L’occasione fu data dalla messinscena di una trilogia, al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, formata da Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, prodotta dal San Quentin Drama Workshop, diretto da Rick Cluchey, che interpretava il personaggio di Pozzo.

Beckett regista, in quella occasione, aveva scelto, del suo testo più famoso, una interpretazione ricca di clownerie, non di tipo metafisico, ma di tipo circense, con le tipiche gag e con la ricerca della risata. Il pubblico italiano non era abituato a ridere vedendo Aspettando Godot, al contrario di quello Dublino, dove ebbi modo di vederne una edizione, che rideva clamorosamente.

Visto da Beckett, Aspettando Godot divenne anche una vera e propria partitura verbale che conteneva momenti di allegria. Arbasino, che aveva visto lo spettacolo a Londra, intitolò la sua recensione «Aspettando Totò», per sottolineare il divertissement, quell’aria di Varietà che verrà ripresa da Antonio Calenda, in una edizione del 1987, con Mario Scaccia e Pupella Maggio.

Oggi dobbiamo riferire di un evento editoriale, dovuto a Cue Press, che ha pubblicato i Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot, a cura di Luca Scarlini, una specie di laboratorio in cui possono imbattersi gli amanti del teatro di Beckett che avranno modo di conoscere tutte le varianti che lo hanno accompagnato durante le sue trasposizioni sceniche.

Sappiamo bene che la storia di un testo è quella delle sue interpretazioni, si tratta di una legge a cui si assoggettano tutte le interpretazioni registiche, a dimostrazione che non possa esistere una analisi fissa o stabile, identica a un’altra, e che ogni messinscena avrà una sua storia, tanto che quella che sembrerebbe l’ultima e definitiva, non è altro che una versione diversa della precedente.

Leggendo i Quaderni di regia si rimane persino sorpresi nel notare le infinite varianti, gli approfondimenti, gli spostamenti di dialogo, le nuove versioni d’autore che li contraddistinguono, con le sue decisioni di cambiamento, con le indicazioni dei movimenti e persino delle luci, alle quali vanno aggiunte le preziose Note dovute al curatore.

Insomma ci si trova dinanzi alla fase di un processo creativo che non ha mai fine, utilissimo per chi volesse, in avvenire, rimettere in scena Aspettando Godot, perché non potrà fare a meno delle preziose indicazioni, dei suggerimenti, degli emendamenti, delle aggiunte testuali, delle rielaborazioni, delle modifiche, dei ripensamenti fatti da Beckett, a dimostrazione di come, pensare in termini letterari, sia una cosa ben diversa dal pensare in termini teatrali.

Il volume contiene una Nota sul progetto editoriale e una di Luca Scarlini, mentre determinante è la Prefazione all’edizione critica di James Knowlson, che ricostruisce la storia dei due Quaderni, da quando Beckett decise di accettare di dirigere personalmente Aspettando Godot allo Schiller Theater di Berlino, sostenendo che, attraverso il filtro dei Quaderni, la danza di Lucky, per esempio, potrebbe essere intesa come quella dell’uomo prigioniero della dipendenza e della solitudine.

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5 Marzo 2022

Daniele Timpano, Oreste

Massimo Bertoldi, «Centro di Cultura dell’Alto Adige»

Oggi Daniele Timpano – fondatore con Elvira Frosini della compagnia Frosini/Timpano attiva dal 2008 – staziona nei piani alti della drammaturgia italiana contemporanea, motivo per cui è operazione di significativo respiro culturale da parte di Cue Press ripubblicare il testo di Oreste. Scritta nel 2001, l’opera contiene in sé elementi stilistici, frammenti poetici e visioni che caratterizzano il percorso creativo dello scrittore romano.

Oreste di Timpano si confronta con il modello euripideo che, a differenza di Orestea di Eschilo, abbandona l’ambientazione arcaica e sacrale per contestualizzare la vicenda in una dimensione quotidiana dettata dalla ragione umana. Così il timore delle leggi e della politica, come le avverte lo stesso Oreste, sostituisce la voce minacciosa degli Dei.

Timpano mantiene l’ossatura narrativa euripidea: Oreste ha ucciso la madre Clitemnestra, perché colpevole di aver tradito e poi assassinato Agamennone con la complicità dell’amante Egisto. Come in Euripide vive appartato dalla città ma Timpano lo veste di abiti contemporanei: il giovane attende il verdetto sulla sua sorte in uno scatolone, ossia in una sorta di prigione-grembo materno, è psichicamente turbato perché attanagliato dal rimorso e dalla paura del futuro, si presenta passivo e inetto tanto da consegnarsi alla sorella Elettra e all’amico Pilade. Analogamente gli altri personaggi timpaniani appaiono incapaci di agire, sembrano marionette ferme e prive di determinazione individuale.

Gli effetti di questa parodia si estendono anche al coro, trasformato in un complessino musicale che dialoga a distanza con i personaggi ed è più volte invitato a contenere il rumore per non disturbare troppo il malato e tormentato Oreste.

Questa lettura innovativa si intreccia con la struttura dei dialoghi che, come in Euripide, seguono lo schema del botta e risposta sostenuto da battute lunghe un verso e soprattutto capaci di garantire al testo ritmo e fluidità espressiva.

La questione del delitto: Oreste, «mai stanco di uccidere femmine», attribuisce la colpa ad Apollo e così non si assume nessuna responsabilità, sostenuto anche dalla fedele Elettra la quale ribadisce, con una battuta finale assai comica e tagliente, che è «tutta colpa di Apollo comunque: fu lui che persuase un figlio a uccidere la madre: impresa non molto popolare».

Di fatto il tribunale popolare assolve Oreste. Viene così a mancare la catarsi tragica e si restaura l’ordine, anche sociale e politico, altrimenti minacciato da un’applicazione corretta della legge. Tra mondo divino e mondo umano si crea una frattura indelebile, un senso di distanza quasi incolmabile, come del resto aveva denunciato lo spesso Euripide.

Ad approfondire questo intrigante Oreste targato Timpano soccorrono due importanti e luminosi contributi firmati da Maddalena Giovannelli (Oreste. Tra le macerie della tragedia) e da Attilio Scarpellini (Daniele Timpano contro l’innocenza della cultura).

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28 Febbraio 2022

I peggiori film anni Settanta visti da Renato Palazzi

Simona Spaventa, «la Repubblica»

«Esotici, erotici, psicotici». Non sono i mostri da cronaca nera tutta sangue, perversioni e atrocità. Tutt’altro. L’ultima sorpresa di Renato Palazzi, l’autorevole e serissimo critico teatrale milanese scomparso a novembre, è un libello che sguazza nel sottobosco cinematografico a tinte forti che cinquantanni fa, nel momento d’oro del nostro cinema più commerciale, riempiva i tamburini dei giornali con i titoli in proiezione nelle (oggi scomparse) decine di sale in città. Il peggio degli anni Settanta in 120 film, come recita il sottotitolo, è catalogato non senza ironia nelle centocinquantacinque pagine del libretto postumo, appena pubblicato da Cue Press, che oltre a fare un’attenta disamina della produzione di serie Z del cinema di quei tempi, è anche una sorta di diario degli anni più sofferti della gavetta dell’autore.

Perché il giovane Palazzi, dopo l’esperienza al Piccolo al fianco di Paolo Grassi, decise di darsi alla carta stampata e nel 1974, non ancora trentenne, iniziò a collaborare con la redazione spettacoli del «Corriere». Mal gliene incolse, perché il caporedattore di allora, intuendo le velleità intellettualistiche del nuovo arrivato, lo mise subito a posto: altro che prime teatrali, avrebbe recensito i peggio filmacci sorbendosi il primo spettacolo pomeridiano in sale oggi estinte come il Tonale e il Diamante, votate al trash incondizionato. Il «caudillo», come Palazzi definisce nella prefazione il suo seviziatore, giustificava tale sadismo col dovere di cronaca — «Se c’è un pubblico a cui interessano, tanto vale parlarne» — ma il giovane critico ci vedeva della perfidia: «Credetemi, bisogna proprio voler annientare una persona per mandarla a vedere un film con Sabina Ciuffini».

Escluso dal poter scrivere perfino di futuri cult pecorecci tipo Giovannona coscialunga, considerati a mo’ di «classici imperituri», gli toccavano pellicole dimenticabili (e difatti dimenticate) dai titoli coloriti quanto il contenuto, roba tipo Bocche di velluto, Carnalità o La verginella, popolate dai soliti nomi da commediola sexy «da estetica della palpata»: Gloria Guida e Edwige Fenech ma anche Carlo Giufirè, Erica Blank (a cui Palazzi affibbia, con colta perfidia, l’aggettivo «strehleriana») e appunto la Ciuffini. Nella sua brevissima avventura nella settima arte, la valletta dei quiz piomba nel pruriginoso Oh, mia bella matrigna, anno 1976, e il critico sospetta «che l’insulsa vicenda sia soltanto l’equivoco pretesto per indurre la pecorella smarrita di Mike Bongiorno a mostrare biancheria intima, qualche seno e anche un po’ di sederino».

La pellicola, insieme ad altre maliziosette, è catalogata nel capitolo Voyeurismo casereccio, che affianca i vari filoni allora di moda a cui Palazzi attribuisce appellativi cattivelli. Ci sono le Porno-inchieste, i Sexycarceri e lager, e ancora i Pugni e fagioli «nella scia sempre più lunga di maldestri imitatori ed epigoni sfuocati della coppia Terence Hill-Bud Spencer» e le sentimentalissime Furtive lacrime. Nella sezione sui filmetti erotici stranieri, spicca il messicano Eviration: «Che pubblico turbolento al Majestic, alla prima! […] All’uscita, si è raccolto attorno alla cassa protestando irosamente, al grido di ‘bidone’». Perché, se una cosa la fa rimpiangere questa antologia dove «gli attori sono carne da cannone da gettare in pasto alla platea», è il fatto che, allora, le platee erano piene, eccome.

26 Febbraio 2022

Luoghi e teatri di Pier Paolo Pasolini

«Pantheon — Rai Radio 3»

Torino, 27 novembre 1968, Deposito d’Arte Presente: è qui che va in scena la prima di Orgia, una delle sei tragedie scritte per il teatro da Pier Paolo Pasolini che ne curò anche messa inscena.

Ne parliamo con Stefano Casi, drammaturgo e studioso di teatro, autore del libro I teatri di Pasolini, e con Massimo Fusillo, docente di Letteratura comparata e autore del volume La Grecia secondo Pasolini: mito e cinema.

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22 Febbraio 2022

Vittorio Gassman. L’autobiografia come sfida ermeneutica

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Quando nel 1981 apparve nelle librerie, l’autobiografia di Vittorio Gassman suscitò un prevedibile clamore mediatico. L’era dei social non era ancora nata, ma sulla stampa e nelle TV fu con dovizia presentata e commentata, lo stesso autore s’impegnò non poco a pubblicizzarla. A distanza di un quarantennio un piccolo ma agguerrito editore, Cue Press, ha avuto la lodevole idea di ripubblicarla, con la prefazione di Emanuele Trevi: riecco dunque tra le nostre mani Un grande avvenire dietro le spalle. Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso.

La scelta reca in sé il riverbero di un evento culturale: queste pagine, la voce trepidante che le anima, sembrano provenire da un’altra era geologica. In un’epoca di endemica dimenticanza, di vuoto annichilente e pensiero globalizzato, (ri)scoprire la storia, l’arte, la cultura di questo Paese, quali strabilianti personaggi l’abbiano popolato, è un’esperienza quasi trascendente. A renderne imperdibile la lettura non è infatti la presenza di succulenti aneddoti sul dorato mondo dello spettacolo (che pure abbondano), ma il racconto vivido e densissimo di un lungo pezzo di storia – quella di noi tutti.

Gassman si dimostra un autentico scrittore, in grado di padroneggiare lessico e sintassi, forma stilistica e struttura narrativa. Il «gioco della memoria» si lega al «diagramma degli incontri» con un ritmo travolgente, e il racconto scorre con la suggestività d’una jam session parlata, abilmente intessuto intrecciando discorso memoriale e dialogo, autointervista ed epistola, brani lirici e uso del catalogo, riflessioni saggistiche e descrizioni romanzesche, in un avvicendamento di punti di vista, di passaggi dalla prima alla terza persona. Un virtuosismo tutt’altro che manieristico, che gli permette di dare forma compiuta ai ricordi, sempre sorvegliati e legati in un continuo dialogo al presente, in una modalità tutta postmoderna di riflessione lucida sull’atto del narrare, sul suo significato, sulle sue qualità terapeutiche: «Scrivere questo libro mi ha se non altro aiutato a guarire». Suggendo avidamente queste palpitanti pagine si ha insomma l’impressione che l’autore vi abbia infuso non soltanto grande mestiere e una notevole sincerità (condita da autodenigrazioni non assolutorie: il feroce egocentrismo, la smisurata ambizione, la vanesia volubilità, una visione di sé «pesante di ombre e di impietose confessioni»), ma tutto un mondo di conoscenze artistiche, culturali e umane accumulate in una vita.

L’intento di fare i conti con il proprio vissuto appare evidente, con il proposito di porsi quale «freddo e rigoroso cronachista dei fatti andati». La modalità comunicativa è però quella dell’affabulazione arguta, del gioco intelligente e provocatorio, della sfida intellettuale con se stesso e col lettore. Sfida lanciata sin dall’incipit: «Leggete – se ne avete voglia – soprattutto la punteggiatura: virgole, punti e virgola, punti, trattini, parentesi, e anche puntini di sospensione, perché no, crepi l’avarizia…». È una vera e propria affermazione di poetica, con la quale l’autore avverte che la verità andrà cercata nel non detto, in ciò che giace tra un’affermazione e l’altra, nell’allusione e nella strizzatina d’occhi: la figura dell’ellissi come modalità per giungere (o almeno tendere) al vero. Siamo dunque nel cuore del processo artistico, venato d’una sapida e accorta ironia, dal ludo citazionistico (altro elemento fortemente postmoderno) con quel lampante rimando a Totò e alla celeberrima lettera con Peppino, dal tentativo «di dare un controllo, una distanza» al dire, pur con la consapevolezza di una possibile resa all’inenarrabile che sempre circonda l’esperienza umana, poiché in queste come in altre memorie vi sono dei buchi, dei fatti che «sfuggono al raccontabile».

Il libro si lascia comunque gustare come una frizzante coppa di champagne, con una prosa d’una tale vividezza da non far rimpiangere troppo l’assenza di materiale iconografico. È diviso in capitoli dai titoli divertenti e financo sboccati, rispecchianti le fasi della vita, intrecciati in un misurato sovrapporsi tra piani narrativi passati e il presente della scrittura – davvero non ci si annoia mai. L’autore principia dalla «ricattatoria sinfonia dei colori e degli odori remoti» della casa di Genova dove trascorse i primi cinque anni di vita, passa in agile rassegna i rapporti con la sorella Mary e con la madre (donna dall’«istinto istrionico» e figura centrale della sua vita), gli anni calabresi e quelli romani, la precoce perdita del padre, le prime cotte, le grottesche esperienze militari, i fasti cestistici (Gassman è stato un nazionale di basket), la Roma occupata e i meravigliosi aneliti di libertà seguiti alla Liberazione, l’approdo all’Accademia nazionale di arte drammatica: le esperienze e i momenti topici ci sono tutti. Così come sono «rappresentate» le tappe fondamentali della spettacolare carriera artistica, con i trionfi (molti) e i tonfi (rari), l’esordio alla regia teatrale con la messa in scena d’un indimenticato Amleto (1952), i formidabili spettacoli allestiti negli anni Sessanta e Settanta, la «rocambolesca impresa televisiva» del Mattatore (1959), il progetto «progressista» di un Teatro popolare itinerante e la lotta durissima ingaggiata con i teatri stabili e «un pubblico reazionario e moralista», il momento del «ritiro sull’Aventino» a leccarsi le ferite con feste e spettacoli organizzati nel villone di famiglia, «i pomeriggi opachi di alcol e di spleen». E, naturalmente, il contrastato rapporto con il cinema, dalla precoce «ripugnanza allora reciproca» con la macchina da presa all’amore germogliato grazie all’opera di grandi registi (tra cui Monicelli, «padre putativo» insieme allo scrittore Sandro De Feo), il tutto sapientemente miscelato con la vita privata, aspetto sul quale Gassman indulge volentieri, mettendo a nudo se stesso e le sue tante donne (tacendo o mutando qualche nome qua e là), raccontando i tumultuosi matrimoni (lunga e particolareggiata la rammemorazione di quello con Shelley Winters, con la quale intreccia un dialogo a distanza a partire dall’autobiografia di lei, raccontando anche «la storia autentica della mia ‘scoperta dell’America’»), le numerose «scappatelle», i rapporti con i mostri sacri del teatro, con colleghi coetanei e più giovani, le amicizie di una vita e quelle finite male, le manie e le inquietudini esistenziali, il complesso rapporto con i figli.

Di sommo interesse sono poi le riflessioni sul mestiere dell’attore, sull’arte scenica e cinematografica, che testimoniano un impegno intellettuale ed emotivo intensissimo, una compenetrazione assoluta tra arte e vita. E ancora, sul tremendo iato tra finzione e realtà, intimamente e soffertamente avvertito, sull’imprescindibilità del linguaggio eppure sulla sua inutilità: tra queste ed altre contraddizioni si dipana un racconto che, al pari d’una riuscita opera letteraria, getta luce sul significato dell’esistenza percorrendone le luci della ribalta ma anche e soprattutto le ombre, le zone oscure, gli anfratti più reconditi.

Insomma, neanche un rigo appare superfluo in questa sorta di postmoderno romanzo veristico truccato da autobiografia, che si chiude con dei versi scritti per la terza moglie, Diletta D’Andrea. E se anche dovesse perdere la sfida ermeneutica lanciata dall’autore, il lettore potrà comunque dare una risposta convintamente affermativa alla domanda che Gassman con piglio metaletterario si pone: «Ha un senso questo voltarsi indietro e riannodare le fila del tempo passato?».

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