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Come gli alberi cambiamo le foglie, ma conservando le nostre radici
Parecchi di noi hanno conosciuto Barba al tempo dei suoi spettacoli al CRT di Via Dini o al Teatro Quartiere, in occasione di «Milano Aperta», parecchi di noi posseggono i «Manifesti» di quel periodo, dove veniva teorizzato, dallo stesso Barba, come il «Terzo Teatro» e, da Sisto Dalla Palma, come il «Teatro dei mutamenti».
Erano gli anni Settanta, ricchi di fermenti e di idee rivoluzionarie, durante i quali il concetto di scena andò moltiplicandosi perché si coniugava con interessi sociologici o politici, con tensioni ideali e utopiche, fino a concepire un teatro da intendere non più come rappresentazione del mondo ma come rigeneratore del mondo, col ricorso a una serie di avventure iniziatiche, parola, questa, che faceva pensare al rito delle origini, accompagnato dalla musica e dalle danze. Parecchi di noi hanno visto Ferai, Talabot, Judith, Il Vangelo di Oxyrhinco, e hanno vissuto le contaminazioni tra scena occidentale e scena orientale, che stavano a base degli spettacoli dell’Odin e di Barba, dopo i suoi viaggi in Cina, in Giappone, in Perù, nelle Americhe del Sud e del Nord, in Venezuela, sempre in cerca di comunità diverse e di forme, altrettanto diverse, di teatralizzazione. Momenti indimenticabili che hanno lasciato tracce, per le nuove generazioni, in volumi come Il libro dell’Odin di Ferdinando Taviani, Feltrinelli 1975, e dello stesso Barba con La canoa di carta, Il Mulino, 1993, Le terre di cenere e diamanti, Il Mulino 1998, Teatro, solitudine, mestiere, rivolta, Ubu Libri 1996, solo per citare i più noti.
L’Editore Cue Press ha appena pubblicato, con la traduzione di Leonardo Mancini, Eugenio Barba. L’albero della conoscenza dello spettacolo di due docenti di nazionalità diverse, Annelis Kuhlmann dell’Università della Norvegia e Adam J. Ledger dell’Università di Birmingham, entrambi con esperienze nel campo performativo. Punto di partenza del loro studio è L’Albero, ultimo spettacolo che Barba realizzò in occasione del suo ottantesimo compleanno. L’Albero diventa, per i due studiosi, metafora della conoscenza che, proprio per fortificarsi, ha bisogno delle radici e delle estensioni. Le radici rimangono quelle dell’Odin, le estensioni sono quelle della multiculturalità, molto simili a quelle della vita di una pianta.
Il volume è diviso in dieci brevi capitoli nei quali vengono esaminati il concetto di regia da intendere, non in maniera tradizionale, ma come il risultato di studi, di laboratori, di seminari, di azioni fisiche, di energia, di vita comunitaria, il cui esito dovrebbe essere di tipo sensoriale e non intellettuale.
Un altro momento della loro analisi riguarda la drammaturgia d’attore, ben diversa da quella testuale, e il concetto di riscrittura, col suo debito a Grotowski, improntata al simbolismo e all’uso delle metafore, a dire il vero, non sempre comprensibili, tanto che si può dire che, se Carmelo Bene teorizzò il teatro senza spettacolo, Barba teorizzò il «teatro incomprensibile», essendo frutto di riflessioni teoriche, di mappe concettuali, non sempre decifrabili, di lingue diverse.
Lo stesso Barba ha affermato di aver passato metà della vita sforzandosi di apprendere e l’altra metà lottando per andare oltre ciò che ha imparato, ammettendo di essere andato alla ricerca di forme sempre nuove e di aver cambiato più volte idee, motivo per cui si sente di appartenere alla famiglia degli alberi che cambiano le foglie, conservando le radici.
Il libro che spiega il legame fra luce e teatro e non solo
Il filosofo José Xavier Zubiri Apalategui è in un’aula dell’Universidad Central de Madrid e sta spiegando le categorie di Aristotele. Alla lezione è presente Maria Zambrano, da poco uscita dalla tubercolosi e in lotta con una crisi, altrettanto feroce, che vorrebbe spingerla ad abbandonare lo studio della filosofia. A un tratto, un raggio di luce penetra dalle cortine nere. Scrive: «In un attimo io mi ritrovai non tanto presa da una rivelazione folgorante, quanto pervasa da qualcosa che si è sempre rivelato più adatto al mio pensiero: la penombra toccata d’allegria. E allora, in silenzio – nella penombra, più che della mente, direi dell’animo, del cuore, si dischiuse poco a poco, come un fiore, la netta sensazione che non avevo forse alcun motivo per abbandonare la filosofia» (Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pag. 4).
Luce e teatro nel libro di Grazioli e Mari
Quel tenue gioco di luce rischiara anche il titolo, Dire luce. Scritti sulla pittura, di una preziosa raccolta di saggi, curata da Carmen Del Valle ed edita nel 2013 da Rizzoli, che la filosofa spagnola dedica alla pittura. Con soave gusto citazionista Cristina Grazioli e Pasquale Mari intitolano Dire luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena il loro libro, frutto di un lavoro congiunto, un pas de deux fra una studiosa e un light designer e direttore della fotografia che preferisce essere chiamato «operaio della luce». Grazioli insegna Storia ed Estetica della Luce in Scena e Teatri di Figure: Storie ed Estetiche all’Università di Padova. Pasquale Mari lavora fra teatro, cinema e musica e ha collaborato con Toni Servillo, Carlo Cecchi, Marco Bellocchio, Paolo Sorrentino, Ferzan Ozpetek, Ivano Fossati e Avion Travel.
Accomunati dalla vocazione a «dar voce» alla luce e a trovare le parole per «dire luce», i due autori si pongono, in primis, una preoccupazione legata al «come dire» la luce, ovvero a come accerchiare un oggetto instabile, evanescente, inedito. Ecco quindi la necessità di arginare il pensiero e stabilire punti fermi attraverso l’edificazione di un lessico, organizzato come un poetico abbecedario scandito in «dodici voci»: invisibilità, materia, scrittura, polvere, buio, colore, movimento, voce, trasparenza, atmosfera, botanica, aria.
Non solo teatro nel libro di Grazioli e Mari
Termini correlati alla luce – spettro, prisma, gamma, led, incandescenza, infrarossi, ultravioletti – si alternano a parole d’ordine dell’orizzonte teatrale – scena, sipario, drammaturgia. Tuttavia esse abitano la stessa pagina di termini quali pigmento, tela, linea, contorno, che, pur essendo mutuati dal lessico degli storici dell’arte, rivelano, in questo caso, una straordinaria consustanzialità con quello utilizzato dagli studiosi di teatro. Non una questione da poco visto che, in filigrana, Grazioli e Mari mostrano la volontà di eccedere un metodo d’indagine che sia solamente teatrale, nonostante il sottotitolo del libro restringa l’uso della luce alla scena. Infatti, per abbracciare nella sua pienezza la luce, i due autori volutamente dimenticano un’esplicita referenzialità al loro oggetto di studio, lo forzano e lo aprono facendovi transitare considerazioni su nuvole, giardini, polvere, molecole di clorofilla, vento, in un proficuo movimento di allargamento che progredisce man mano che si avanza nella lettura.
Il libro, quindi, schianta qualsiasi impostazione dicotomica: così come la consueta contrapposizione luce/ombra viene fluidificata, ammettendo che ciascuno dei due poli è motivo di emersione e condizione di esistenza dell’altro, anche in queste pagine ciò che abitualmente e in maniera stereotipata viene giustapposto – il pensiero e la prassi – diventa condizione di germinazione dell’altro.
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Quegli indimenticabili anni Settanta. Tra tensioni e utopie. E il teatro avrebbe dovuto rigenerare il mondo. L’Odin di Barba
Parecchi di noi hanno conosciuto Barba al tempo dei suoi spettacoli al CRT di Via Dini o al Teatro Quartiere, in occasione di «Milano Aperta», parecchi di noi posseggono i «Manifesti» di quel periodo, dove veniva teorizzato, dallo stesso Barba, come il «Terzo Teatro», e, da Sisto Dalla Palma, come il «Teatro dei mutamenti».
Erano gli anni Settanta, ricchi di fermenti e di idee rivoluzionarie, durante i quali, il concetto di scena, andò moltiplicandosi perché si coniugava con interessi sociologici o politici, con tensioni ideali e utopiche, fino a concepire un teatro da intendere, non più come rappresentazione del mondo, ma come rigeneratore del mondo, col ricorso a una serie di avventure iniziatiche, parola, questa, che faceva pensare al rito delle origini, accompagnato dalla musica e dalle danze.
Parecchi di noi hanno visto: Ferai, Talabot, Judith, Il Vangelo di Oxyrhinco e hanno vissuto le contaminazioni tra scena occidentale e scena orientale che stavano a base degli spettacoli dell’Odin e di Barba, dopo i suoi viaggi in Cina, in Giappone, in Perù, nelle Americhe del Sud e del Nord, in Venezuela, sempre in cerca di comunità diverse e di forme, altrettanto diverse, di teatralizzazione.
Momenti indimenticabili che hanno lasciato tracce, per le nuove generazioni, in volumi come: Il libro dell’Odin di Ferdinando Taviani, Feltrinelli 1975, e dello stesso Barba con La canoa di carta, Il Mulino 1993, Le terre di cenere e diamanti, Il Mulino 1998, Teatro, solitudine, mestiere, rivolta, Ubu Libri 1996, solo per citare i più noti.
L’Editore Cue Press ha appena pubblicato, con la traduzione di Leonardo Mancini, Eugenio Barba. L’albero della conoscenza dello spettacolo di due docenti di nazionalità diverse, Annelis Kuhlmann, dell’Università della Norvegia, e Adam J. Ledger, dell’Università di Birmingham, entrambi con esperienze nel campo performativo.
Punto di partenza del loro studio è L’Albero, ultimo spettacolo che Barba realizzò in occasione del suo ottantesimo compleanno. L’Albero diventa, per i due studiosi, metafora della conoscenza che, proprio per fortificarsi, ha bisogno delle radici e delle sue estensioni. Le radici rimangono quelle dell’Odin, le estensioni sono quelle della multiculturalità, molto simili a quelle della vita di una pianta.
Il volume è diviso in dieci brevi capitoli nei quali vengono esaminati il concetto di regia da intendere, non in maniera tradizionale, ma come il risultato di studi, di laboratori, di seminari, di azioni fisiche, di energia, di vita comunitaria, il cui esito dovrebbe essere di tipo sensoriale e non intellettuale. Un altro momento della loro analisi riguarda la drammaturgia d’attore, ben diversa da quella testuale, e il concetto di riscrittura, col suo debito a Grotowski, improntata al simbolismo e all’uso delle metafore, a dire il vero, non sempre comprensibili, tanto che si può dire che, se Carmelo Bene teorizzò il teatro senza spettacolo, Barba teorizzò il «teatro incomprensibile», essendo frutto di riflessioni teoriche, di mappe concettuali non sempre decifrabili, di lingue diverse. Lo stesso Barba ha affermato di aver passato metà della vita sforzandosi di apprendere e l’altra metà lottando per andare oltre ciò che ha imparato, ammettendo di essere andato alla ricerca di forme sempre nuove e di aver cambiato, più volte, idee, motivo per cui si sente di appartenere alla famiglia degli alberi che cambiano le foglie, conservandone le radici.
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Dostoevskij si racconta nelle «odiate» lettere
Fëdor Dostoevskij ha recentemente fatto parlare di sé in modo vergognoso e indecoroso: per effetto della guerra in Ucraina l’Università degli Studi Milano-Bicocca ha annullato un corso di Paolo Nori dedicato al grande scrittore russo. Il docente è anche autore di Sanguinare ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij (Milano, Mondadori, 2021), un pregevole romanzo che ne racconta lo smarrimento spirituale basandosi su elementi biografici, molti dei quali ricorrono anche nella corrispondenza epistolare raccolta nel prezioso e corposo volume edito da Cue Press (Imola, 2021) Odio scrivere lettere. I romanzi attraverso le lettere 1838-80 a cura di Fausto Malcovati.
Il titolo è suggerito dallo stesso Dostoevskij: in una missiva del 1878 parla di «terribile, insuperabile riluttanza a scrivere lettere», tanto da aggiungere che «se finirò all’inferno, la punizione per i miei peccati sarà sicuramente quella di scrivere decine di lettere al giorno, non meno». Eppure ne ha scritte un migliaio, molte lunghissime, con una prosa fluida e elegante, capace di sprigionare emozioni e commozioni di grande umanità quale segno di un’anima dolente, schiva e introversa, convinta che «l’uomo è un mistero».
Queste lettere permettono di entrare nei misteri di Dostoevskij come uomo e come scrittore. Ordinate in senso cronologico, costituiscono una sorta di prelibato contorno ai principali romanzi, da Memorie del sottosuolo a Delitto e castigo, da L’idiota a I demoni fino a I fratelli Karamazov. In merito si raccontano le lunghe gestazioni e le difficoltà legate alle pubblicazioni pensando soprattutto al denaro, altro tema molto trattato in queste lettere. Con ossessione e disperazione lo scrittore lotta per la sopravvivenza quotidiana. Anche minacciato da creditori, vive in pensioni assai misere, fugge all’esteri per evitare l’arresto sempre sperando di racimolare il minimo necessario per sposarsi e poi per affrontare i problemi di salute di moglie e figli.
A questo tormentato labirinto, che condiziona non poco la produzione letteraria, si aggiunge la passione morbosa per il gioco. Dalle lettere scritte da Baden Baden, Wiesbaden e Amburgo emergono i racconti di vincite di grosse somme seguite da clamorose perdite. E poi c’è la malattia, l’epilessia, vissuta con malinconica ironia.
Tra le tante, colpiscono le lettere dedicate all’arresto e alla condanna nel 1849 per attività, considerate sovversive, a favore della libertà di stampa e dell’emarginazione dei servi della gleba. «Ho dovuto affrontare i lavori forzati: quattro anni tristi, terribili. Ho vissuto con i delinquenti, con uomini senza sentimenti umani, di falsi principi, pervertiti: non vedevo e non riuscivo a vedere, durante questi quattro anni, niente di consolante, solo la nera, mostruosa realtà».
Non mancano testi ideologici di stampo slavista che declinano il mito della Grande Russia quale guida spirituale dell’Europa in quanto unica e vera depositaria del cristianesimo, come si legge, tra l’altro, nel magnifico discorso pronunciato in occasione dell’inaugurazione del monumento a Puskin nel 1880.
Abbondano i riferimenti alla letteratura russa a lui contemporanea. È polemico verso Turgenev per la sua posizione di sudditanza verso la cultura francese e tedesca anche se aveva scritto nel 1840 al fratello Michail che «Io Schiller l’ho imparato a memoria, ho parlato con le sue parole, sono diventato pazzo di lui». Ammira ma con un certo distacco e riserva Tolstoj e Ostrovskij.
«Il mio lavoro letterario – scrive Dostoevskij – è l’unico scopo e l’unica speranza della mia vita», indicando, in questo modo, la traiettoria interpretativa per addentrarsi nella lettura di questa splendida raccolta Odio scrivere lettere. I romanzi attraverso le lettere 1838-80 che si completa con un ricco e assai ben documentato apparato iconografico con foto di ritratti dello scrittore russo, della sua famiglia, di amici e letterati, dei luoghi della sua vita, e della riproduzione di diversi manoscritti.
Aspettando Godot. I quaderni di regia di Samuel Beckett
Un’operazione maestosa: una vera e propria collana di quaderni di regia, partendo da Aspettando Godot e che poi passerà per Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, e gli Shorter plays. Nel 1975 Beckett ha l’occasione di curare per la prima volta la regia di Aspettando Godot per lo Schiller Theater di Berlino. Ne seguirà una ulteriore, in inglese, per il San Quentin Drama Workshop di Londra nel 1984. Sono passati più di vent’anni dall’edizione e dal primo allestimento francese di Aspettando Godot. Ora, l’ormai esperto autore teatrale che è Beckett si immerge nel confronto tra testo e scena viva, da cui deriva una revisione a tratti radicale del testo, una cura maniacale di ogni movimento scenico e di ogni immagine, che si ritrovano non solo nei contenuti, ma anche graficamente, nei suoi quaderni.
Il volume Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot tradotto e adattato da Luca Scarlini e pubblicato da Cue Press a dicembre 2021, di quasi cinquecento pagine, ha una struttura complessa. Innanzi tutto, pur concentrandosi sul testo per la produzione tedesca dello spettacolo, si articola nell’analisi e nel confronto di nove differenti copioni e revisioni: dall’Asmus, la prima edizione inglese di Godot e utilizzato come testo di partenza per la produzione al San Quentin, alla Suhrkamp Verlag usata allo Schiller Theater; e, ovviamente, i quaderni di regia di Beckett (preliminare e definitivo) per la produzione tedesca, più il copione annotato e i copioni Held e Thorpe appartenenti agli omonimi interpreti nella produzione tedesca.
L’edizione Cue Press è articolata in diverse sezioni: dopo le note introduttive e la prefazione, viene proposta una versione riveduta del testo che segnala tipograficamente le aggiunte, le revisioni e i tagli apportati da Beckett all’edizione originale inglese del 1954. Questo capitolo, per quanto apparentemente il più scontato, rappresenta nell’ambito dell’edizione italiana un passaggio delicato e un punto di svolta fondamentale: con questa pubblicazione, infatti, Cue Press ottiene una parte del diritto sul testo dell’autore irlandese, da anni bloccato e stampato, insieme agli altri testi, unicamente da Einaudi nella traduzione di Carlo Fruttero del 1967. Qui viene finalmente proposta una traduzione inedita, che non rinuncia necessariamente al carattere talvolta poetico (che invece caratterizza la versione di Fruttero) ma che ha ben chiare le necessità tipografiche e si presenta in un approccio di grande fedeltà al testo originale, concentrandosi sui diversi passaggi testuali e sulla scrittura spesso criptica di Beckett nel tentativo di preservarne i più sottili dettagli, i quali divengono poi la base per un corposo e affascinante apparato di note.
Il cuore della pubblicazione rimane però, senz’altro, il quaderno di regia di Samuel Beckett per la produzione tedesca dello Schiller Theater. Le pagine originali sono qui scannerizzate, stenografate e tradotte, per permettere la lettura di un materiale di scrittura denso e articolato. È emozionante immergersi nella calligrafia rapida, che alterna le parti e parole del testo in tedesco a descrizioni in inglese dei più piccoli movimenti, a disegni e schemi che riassumono le disposizioni e gli spostamenti degli attori in scena. Troviamo tante cancellature, pesanti e nere, tante correzioni e aggiunte a penna rossa. Qualche appunto, qua e là, che ci restituisce il senso dello scontro tra testo e scena, tra aspettativa e realizzazione (interi passaggi barrati e seguiti da un laconico «irrealizzabile», pagine bianche con soltanto, in un angolo, un «no need», «non necessario», e una croce rossa).
Una lettura complessa, quella di questo volume: non certo un «romanzo teatrale» da divorare, bensì un viaggio da compiersi un po’ per volta, scena per scena, frase per frase, movimento per movimento. Il sofisticato apparato di note ci guida in un’analisi possibile del testo teatrale, così come degli appunti registici del suo autore: tra queste pagine non troviamo rivelazioni sconcertanti, appunti sui significati, tanto meno qualche indizio sulle domande che da sempre questo testo spalanca (e a cui il primo a non dare alcuna risposta fu proprio Beckett). Bensì troviamo trascritto il lavoro meticoloso di un regista, i tentativi sulla scena, la sfida – accettata – e insieme l’occasione di rimettere in discussione le proprie parole, di approfondirne la trasformazione in contatto con la materia viva del teatro. Una lettura preziosa per vedere da vicino questo processo ulteriore di traduzione (dal francese, all’inglese, al tedesco, alla scena) sofisticato, artigianale, denso di riferimenti, lievi bagliori, intuizioni felici e tentativi che ci restituiscono questo testo non soltanto nella sua versione mistica e mitica, ma nella veste ancora più affascinante di un materiale mutevole sulle fondamenta di un pensiero filosofico radicato, che ormai è cifra della comprensione della nostra modernità.
Jerry Lewis, la voglia matta
La «scrittura scenica», secondo Carmelo Bene, non si può insegnare; non ha a che fare con il testo, il plot, i dialoghi, la regia e neppure con la recitazione. È un ritmo che attraversa il corpo, si segmenta in cento scatti, fremiti di mani, mimica facciale, contorcimenti, salti logici espressivi. È la tavolozza di un pittore o una fiaba interpretata con saltelli e mossette inaspettate. Comicità muta, come quando Jerry Lewis in Ragazzo tutto fare (The Bellboy, 1960), sigarone in bocca, seduto alla scrivania del capo, dà ordini con gesti frenetici a una pletora di dipendenti fantasma, o dirige un’orchestra di soli strumenti. Il «testo» (in bianco e nero) è lui.
Bene si infastidiva quando qualcuno gli faceva notare la somiglianza con il Picchiatello, ma era proprio vero; non tanto per i lineamenti del viso quanto per il bambino epilettico, il burattino, lo shlemiel – il tipo che rovescia la bibita – e lo shlimazel, quello che se la prende addosso. C’entrava l’irripetibile presenza. Nessuna «interpretazione» del copione, neppure se è di Shakespeare.
Jerry le chiama «gag non verbali». Esempio? «Il Picchiatello sta pulendo e spolverando una teca di vetro che contiene farfalle. Le osserva. Sono belle. Lancia un ultimo sguardo e poi apre la teca. Le cinque stupende farfalle imprigionate volano via, lasciando cinque impronte vuote nella teca. Il Picchiatello le osserva volare via in uno stato completamente attonito. Alla fine fa un fischio e queste ritornano di nuovo al loro posto nella teca. Lui chiude lo sportello e se ne va.»
L’aneddoto è contenuto nel libro The Total Film-maker, raccolta di lezioni impartite da Jerry Lewis negli anni Settanta agli studenti dell’Università della California del Sud, e già pubblicato nel 1982 con il titolo Scusi dov’è il set? Confessioni di un filmaker (Arsenale editrice, a cura di Maria Teresa Crisigiovanni).
Ma se è impossibile essere Jerry Lewis, a cosa serve leggere i suoi consigli per diventare un «total film-maker»? Nicolas Cage nella premessa afferma che «Jerry Lewis è il mio idolo» e anche il suo eroe fin da bambino, prima di diventarne grande amico, e che il libro gli «spalancò le porte al suo sapere e all’eccezionale preparazione presente nel suo lavoro». Mentre Enrico Ghezzi, nella prefazione, dice l’importanza dell’«assenza dal set», il girovagare di Lewis tra i macchinari, i tecnici, l’ufficio del produttore, la moviola… Vuole controllare «tutto il processo produttivo» e in più appropriarsi dei sentimenti della troupe, diventare l’opera stessa, tanto da leccare la pellicola pensando che «un qualcosa di più di me sarebbe passato nel film». La voglia matta di non lasciare a nessuno la libertà di decidere, né al direttore della fotografia né al montatore, lo fa inventore di nuovi marchingegni: «È stato il primo al mondo a utilizzare un sistema di controllo video con telecamera e monitor sul set che gli davano la possibilità di verificare in ogni momento l’immagine…» osserva Ghezzi. La lezione lewisiana si concentra sul «ritmo». Appunto. Non solo quello del film, ma il ritmo interno degli organi, fino a frugare dentro ogni cellula, fino ad arrivare al cuore.
«È un buon film? No, ma sarà pronto per venerdì»: il triste detto di Hollywood è il suo principale nemico, insieme ai critici snob, quelli che considerano le sue commedie «prodotti volgari». In realtà, «i film li faccio per i miei pronipoti e non per i miei colleghi della Directors Guild o per i critici». Il «collega» John Frankenheimer «mi saluta con un cenno sperando che nessuno lo veda». La rabbia accumulata sui set delle majors si sprigiona nella satira contro la «fabbrica dei sogni» dentro molte delle sue regie, Il mattatore di Hollywood (The Errand Boy, 1961) è un esempio di metacinema e anche di critofilm, un testo di analisi del meccanismo produttivo. Così pure il libro, che analizza ogni dettaglio della macchina sognante. Lo stupore pervade il lettore davanti alla scansione meticolosa di ogni fase, dal soggetto agli attori, dalla pre-produzione alla troupe, dal montaggio alla musica, luci, sonoro, doppiaggio, distribuzione…
Il «mattatore» del film punta il dito sui cinici e ciechi dirigenti della Paramutual Pictures che ingaggiano l’attacchino Morty Tashman come utile idiota, spia all’interno degli Studios, e non si accorgono di avere tra le mani Jerry Lewis, nome scritto a caratteri cubitali nel cartellone pubblicitario incollato sghembo sulla parete davanti all’ufficio della major proprio da Jerry Lewis/Morty Tashman. Il percorso del fattorino-spia inconsapevole tra i diversi settori dei teatri di posa assomiglia a una lezione di cinema in forma di improvvisazione creativa, singolare intervento sugli oggetti di scena, scambio di anime tra sé e i dispositivi, prove di animazione di cose inanimate… un passaggio oltre lo specchio di Alice, tanto che finirà per parlare con un pupazzo mosso dalla sua stessa mano.
Ammiratore e amico di Charlie Chaplin, ne segue l’insegnamento di stile e di indipendenza. «Ritengo che i film che ho diretto e interpretato siano cento volte meglio dei film che ho solo interpretato», Lewis sostiene il «total-filmmaker», denuncia i sindacati di categoria troppo esigenti e la tassa statale della California sul negativo di un film: «Un sacco di produzioni mandano direttamente il negativo a New York e fanno il montaggio lì per non pagare le tasse». Romanzi meravigliosi, poi, sono stati distrutti da Hollywood, trasformati in adattamenti «con scemenze come ‘lavoro interiore’ oppure ‘subconscio’. La maggior parte di queste cose è spazzatura freudiana». Deride perfino la mania dei super schermi, Panavision, Cinemascope, Cinerama: «Pensano solo al Grand Canyon e si limitano a dire: metteteci dentro gli attori». Attori «spersonalizzati» dal Metodo. Già, perché l’Actor’s Studio non gli piace, serve solo a fare da stampella agli incapaci.
Quello che per lui, oltre Chaplin, è un maestro assoluto si chiama Stan Laurel, un genio. Guardare in macchina? Perché no? Ha cominciato Oliver Hardy, che non sapeva mai le battute e si girava verso il suggeritore a fianco della cinepresa. I registi più amati? Hitchcock (ma non Psycho che «andava oltre i limiti della decenza»), Taurog, Norman Jewison, Kubrick, Mankiewicz, Wilder… film-maker totali anche loro. Immagina inoltre che un certo John Cassavetes si farà strada e un certo Steven Spielberg pure, dopo aver visto il suo cortometraggio d’esordio, Amblin. E avanti così, puntiglioso e crudele quanto la comicità; anche se nessuno si accorge, dice, della sua violenza. Certo, se un poveraccio scivola su una buccia di banana nessuno ride, ma se al suo posto c’è un tipo in pelliccia e bombetta…
Altro bersaglio del Picchiatello è il cinema d’avanguardia alla Andy Warhol: «Se volete fare il regista d’avanguardia basta fare degli zoom molto rapidi con una macchina a mano e usare un fish-eye su un’attrice per distorcerla fino a farla sembrare il culo di Lon Chaney….»
Sensi di inferiorità che i Cahiers du cinéma gli faranno passare, ma nel mirino c’è sempre la Hollywood superba e chi disprezza i cartoon e le torte in faccia. A fuoco la cultura alta, e anche quella di mezzo; a lui piacciono gli estremi, i capitomboli, il gesto spastico, la distorsione della realtà, tempo e spazio alterati dall’azione contro-natura, senza gravità, inverosimile. Rivoluzionaria. E se non si può essere Jerry Lewis imparate almeno a imitarlo: come ha fatto Adriano Celentano, che di stupende contorsioni non-sense e rock se ne intende.
Per finire, una previsione dagli anni Settanta: «Rimarranno poche sale cinematografiche e il mercato principale sarà costituito dallo schermo televisivo». E poi una ricetta in risposta agli attacchi su melensaggine e sdolcinature che intercalano i suoi sketch comico-rocamboleschi: «Un giovane regista, desideroso di acquistare la giusta professionalità ed essere amato dalla sua troupe, dovrebbe anche ricordarsi dei primi amori, delle stelle cadenti, dei sogni a occhi aperti e di storie con un buon finale.»
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Beckett, gabbia teatrale di parole e gesti con attori in un grottesco viavai
Dopo aver raggiunto Berlino per dirigere il nuovo allestimento di Aspettando Godot allo Schiller Theater, nei primi mesi del 1975, Samuel Beckett scrisse all’amico George Reavey confidandogli l’intenzione di apportare cospicue modifiche alla pièce: «Se questo non la purga, niente lo potrà fare». Il risultato delle operazioni di ripulitura si può apprezzare grazie al primo volume della collana Quaderni di regia e testi riveduti, che assieme agli appunti di lavoro di Beckett – riprodotti anche in copia anastatica – ci offre il testo della tragicommedia Aspettando Godot nella versione di Berlino, secondo l’edizione critica approntata da James Knowlson e Dougald McMillan (a cura di Luca Scarlini, Cue Press, pp. 453, € 55,00).
Prefazione di Knowlson
I lettori di questo libro, solo in apparenza rivolto a un pubblico specializzato, non dovranno lasciarsi scoraggiare dagli svariati segni tipografici che tempestano di parentesi o sottolineature il testo rivisto e corretto per mano di Beckett. La prefazione di Knowlson, congiunta alle note esplicative, costituisce una guida chiara e puntuale per orientarsi nel labirinto delle varianti e identificare fin dall’inizio il duplice obiettivo dei tagli, delle aggiunte e delle revisioni apportate dal drammaturgo. Quando infatti si ritrova allo Schiller Theater, Beckett non lavora soltanto sul copione. Come rivela anche la nuova traduzione di Luca Scarlini, aderente al testo e orientata a ricreare i suoi tanti giochi di parola, da una parte lo scrittore interviene a rimarcare una rete di rimandi tematici, leitmotiv verbali, assonanze o contrasti di frase già presenti nella sceneggiatura originaria, ma dall’altra tiene sotto stretta sorveglianza lo spazio teatrale e si adopera per sfruttare fino in fondo le potenzialità insite nel linguaggio del corpo.
Se in occasione delle precedenti rappresentazioni di Aspettando Godot, a Parigi o a Londra, Beckett si era limitato a presenziare alla tragicommedia in qualità di assistente supervisore, contorcendosi impotente sotto la sua poltrona durante le prove, a Berlino il drammaturgo si accolla per intero gli oneri di regia e sale sul palcoscenico per ammaestrare gli artisti, con attenzione maniacale verso ogni più piccolo dettaglio di scena. Dai colori complementari dei costumi, concepiti in modo da rivelare subito agli spettatori l’interdipendenza simbiotica dei protagonisti Estragon e Vladimir, fino alla gestualità spicciola degli attori, spesso dissonante e ben distinta rispetto al contenuto e alla tempistica delle battute pronunciate, nulla viene lasciato al caso.
Anche se poi, soffermandosi sui disegni riportati nelle note di lavoro, ci si accorge che l’attenzione del regista va ad apuntarsi sulle posizioni riservate ai personaggi in rapporto agli elementi della scarna scenografia (una pietra per il terrestre Estragon, un albero per l’aereo Vladimir) e soprattutto sulle dinamiche dei loro reciproci spostamenti in scena.
Tanto Estragon e Vladimir quanto i loro comprimari Lucky e Pozzo sono chiamati a tracciare sulla superficie del palco una serie di andirivieni a forma di rettilineo, triangolo, cerchio o semicerchio, che dovranno poi essere percorsi e ripercorsi durante la pièce variando le traiettorie o il senso di marcia, con un effetto «a elastico».
La tragicommedia, in questo modo, viene disseminata di simmetrie e contrasti non solo verbali ma anche visivi, capaci di scatenare davanti al pubblico un fitto contrappunto di richiami da un atto all’altro. Ogni mossa degli interlocutori risulta scrupolosamente progettata per riorganizzare il caos, le incertezze e i nonsense dei loro dialoghi: come se tutti gli sforzi di regia puntassero a costruire una gabbia teatrale di parole, gesti e movimenti, in cui gli attori si ritrovano imprigionati, martirizzati e costretti ad eseguire in sequenza un grottesco e stilizzato viavai di riavvicinamenti.
«È impossibile dirigerli in maniera naturalistica. Deve esser fatto in maniera artificiale, come un balletto», dichiarò Beckett all’assistente di produzione Walter Asmus: «è un gioco alla sopravvivenza». Più che a un direttore di scena, il Beckett dello Schiller Theater assomiglia allora a un coreografo dell’assurdo, impegnato ad assemblare un congegno ad orologeria di alta precisione. Il lettore degli appunti di lavoro può infatti percepire la pressione minacciosa del silenzio, ridistribuito per l’occasione da Beckett in una serie di dodici quadri statici o «momenti d’attesa», che in questo più che in altri allestimenti della pièce incombono sullo spazio scenico a intervalli cadenzati e rischiano di inghiottire da un istante all’altro i partecipanti.
Come un naufragio
Chi assiste a questa peculiare rappresentazione di Aspettando Godot sembra ritrovarsi alle prese con un ordigno sempre sul punto di implodere. E non è un caso se Beckett, stando a quanto afferma Knowlson, avrebbe suggerito agli attori berlinesi di recitare immaginando di trovarsi su una barca con una falla impossibile da tappare. La danza dei corpi in scena, disegnata sui leitmotiv delle battute, si rivela la sola arma di combattimento a nostra disposizione. Come accade nella maggior parte delle opere teatrali e dei romanzi di Beckett, anche in Aspettando Godot il linguaggio di qualsiasi specie, con il suo specifico ritmo e le sue angosciose carenze, resta l’unico strumento di lotta che ci permetta di reagire al nulla, di tenerlo a bada e di contrastare le invisibili insidie di un universo votato all’autodistruzione. Quantomeno, per tutta la durata dello spettacolo.
Un grande avvenire dietro le spalle. Vittorio Gassman, autobiografia di un mattatore
Edito la prima volta nel 1981, Un grande avvenire dietro le spalle. Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso di Vittorio Gassman è stato riproposto dalla casa editrice Cue Press arricchito dalla prefazione di Emanuele Trevi. L’intento dichiarato del volume è quello di restituire valore commerciale a opere che i consueti standard di produzione hanno condannato alla scomparsa. La voce di Gassman scorre vivida tra le pagine dei suoi racconti biografici, che in alcuni capitoli si fanno anche lettere o assumono la forma di brevi sceneggiature, terminando vent’anni prima della sua reale scomparsa avvenuta nel 2000.
Se è quasi superfluo ricordare la ben nota carriera di Gassman tra cinema, teatro, TV data la sua consacrazione già avvenuta nel tempo, è giusto invece ricordarlo anche come uomo che peraltro, raccontandosi, non nasconde i né difetti né errori. Nemmeno quello di essersi imbarcato in un matrimonio con consapevole assenza di convinzione. Dunque, naufragato poco tempo dopo. I vari periodi della sua vita sono rievocati in ordine cronologico: al massimo alcuni capitoli contengono rapide interruzioni dovute a ricordi, che balenano nella sua mente per essere trasformati in narrazione sulla pagina. Spazio non di poco conto occupano i suoi periodi statunitensi, professionali e sentimentali, terminati per avere avvertito un amore verso la propria patria più intenso del richiamo hollywoodiano. Ma il richiamo più forte di tutti, che ha accompagnato l’altra vocazione profonda di dedicarsi alla recitazione, è quello paterno. Gassman si racconta anche in queste vesti, sottolineando in vari punti la difficoltà di essere padre di figli di età diverse, di donne diverse, di nazioni diverse. Confessando di sentirsi simile ad alcuni, lontano da altri, ma confermando sempre la sua propensione alla paternità e, certo, più di quanto lo sia stato per la fedeltà.
La cerchia dei suoi amici, alcuni dei tempi della frequentazione dell’Accademia Nazionale di Arte Drammatica di Roma, sembrano usciti da un manuale di teatro. Anche perché, in effetti, molti dei suoi colleghi di Accademia successivamente si sono ritagliati uno spazio significativo nel teatro stesso, scrivendone la storia. Basti citare Luigi Squarzina, suo amico già all’epoca del liceo. Così come i grossi nomi hollywoodiani da lui incontrati durante le sue permanenze negli Stati Uniti sono una parata di star, colte sì nell’alone dei set ma anche nel loro quotidiano, più o meno luminose. È nel paragrafo finale dell’ultimo capitolo, La lunga vecchiaia, che Gassman chiude la narrazione e caratterizza quest’ultimo tratto con uno stile alla James Joyce, ovvero un flusso narrativo senza punteggiatura, per poi concludere: «Ma se volete sapere tutto tutto vi dirò che non mi dispiace di averli vissuti [i fatti miei] di viverli ho sempre pensato che esserci sia meglio che non esserci l’ideale certo sarebbe di arrivare a essersi ma questo è un altro e difficile e pericoloso discorso lo rimandiamo a un altro libro ancora a un’altra vita se ci sarà […]».
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Titina de Filippo, artefice magica della scena italiana
Attrice, poetessa, drammaturga, pittrice, Titina De Filippo è stata spesso trascurata dalla critica contemporanea e schiacciata dal ricordo dei suoi due grandissimi fratelli, Eduardo e Peppino. Complice anche una carriera interrotta prematuramente e prima dell’inizio dell’era dei media televisivi, e la conseguente scarsità di materiale audiovisivo che potesse testimoniarne la potenza delle interpretazioni teatrali.
Il recente volume Titina De Filippo. L’artefice magica (Cue Press, pp.223, € 34,99 cartaceo, € 9,99 eBook) di Simona Scattina docente di Discipline dello spettacolo dell’Università di Catania – costituisce perciò un importante contributo, volto a ricollocarla tra le più significative figure dell’arte del Novecento italiano. Prezioso per l’autrice è stato il riferimento alle fonti raccolte e curate dal figlio di Titina, Augusto Carloni, quali il Fondo Carloni – custodito presso la Biblioteca di Storia Patria di Napoli – e la biografia Titina De Filippo. Vita di una donna di teatro, nonché lo studio di Anna Rita Abbate Titina non solo Filumena, insieme ad articoli e recensioni giornalistiche dell’epoca, tra cui quelle a firma di Bontempelli, Campanile, D’Amico, Moravia e Simoni.
Due gli aspetti fondamentali della sua personalità poliedrica affrontati nel saggio. In primo luogo, il percorso volto a ridefinire la presenza della donna nel teatro moderno. In un’epoca ancora dominata dall’icona della diva dannunziana Titina, «paffutella e minuta», si mosse nel solco del protagonismo femminile segnato dalle predecessore, ma presentandosi come «antidiva», e passando da piccoli parti en travesti nella compagnia del padre Eduardo Scarpetta alla rivista, dalla sceneggiata al teatro umoristico, fino ad impersonare figure capaci di esaltare il lato più vero della femminilità, come in Napoli milionaria! e Filumena Marturano. Sciantosa, figlia, moglie, madre: in ogni interpretazione di «altre» metteva un po’ di sé, della sua umanità e della sua vita difficile, raccontandosi ed entrando in una «quasi confidenziale intimità con le sue personagge».
L’altro aspetto è il ruolo che svolse all’interno del trio De Filippo, che non fu solo quello di meravigliosa interprete dei testi scritti dai fratelli, ma anche di parte attiva nella formazione di un repertorio, a cui partecipò con alcuni importanti contributi drammaturgici. La scrittura fu per Titina un ulteriore momento di ricerca di una propria autonomia scenica, «con opere pensate e calibrate sulle sue qualità attoriali in un processo che voleva essere allo stesso tempo di affermazione, di identificazione e di sconfinamento dello spazio che il suo physique du rôle le aveva riservato».
Ma raccontare Titina vuol dire attraversare anche poesie, collage – le sue creazioni furono molto apprezzate da Jean Cocteau, che le definì «proiezioni autobiografiche» – e soprattutto il cinema. Fu proprio al cinema che – come lei stessa ebbe a dire – osservò per la prima volta se stessa, vide la sua anima come in uno specchio e mise alla prova la sua duttilità con il più moderno dei mezzi, lasciando in questo caso testimonianze ancora fruibili – dalla commedia al neorealismo – della sua grandezza.
Il volume si conclude con un’inedita e interessante galleria di immagini, realizzazioni artistiche, lettere e biglietti autografi, pagine di giornali. Frammenti di una divagrafia involontaria di un’antidiva per eccellenza, di un’artefice magica della scena italiana.