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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.
Laura Wade, Teatro
Laura Wade, commediografa sconosciuta in Italia, riproduce fedelmente il modello del new writer: svolti gli studi universitari a Bristol, matura importanti esperienze formative nella cerchia dei giovani drammaturghi nella fucina del londinese Royal Court Theatre, debuttando quasi ventenne con Limbo nel 1996. Alla proficua collaborazione con la BBC Radio, segue al Royal Court Upstairs la trionfale messinscena di Posh, sua quattordicesima commedia dalla quale Lone Scherfig ha tratto nel 2014 il film The Riot Club.
Un prelibato assaggio della scrittura della pluripremiata Wade è offerto dagli inediti Più freddo che qui e Cadaveri che respirano, due piccoli gioielli del teatro anglosassone allestiti nel 2005 e ora raccolti nel Teatro pubblicato da Cue Press per la traduzione e la cura di Valentina Vetri. I due testi, dotati di scrittura asciutta ma stilisticamente assai diversi tra loro, condividono il tema della morte declinato da prospettive narrative opposte, tantoché i corrispettivi personaggi vivono situazioni antitetiche.
Nel sorprendente Più freddo che qui è centrale la figura di Myra, da tempo malata di cancro e consapevole di avere i giorni contati. Perciò si impegna a coinvolgere le due figlie e il marito a deviare dalla prassi canonica – il funerale, il rito e il cimitero classico – a favore di un funerale green: la sua ultima volontà è, infatti, una sepoltura in un prato tra gli alberi e i fiori, con il suo corpo adagiato in una bara assemblata artigianalmente, decorata da disegni e sistemata nel salotto di casa.
Lungo le nove scene del dramma si sviluppa con ironia e tenerezza un processo di ricomposizione di questa famiglia della media borghesia britannica composta da anime solitarie, che progressivamente imparano ad ascoltarsi e a guardarsi negli occhi. Si considerano e si riconoscono. I dialoghi sono allusivi, costruiti su frasi non dette e sospese che prima manifestano timore e formalità poi, per effetto delle profonde trasformazioni interiori dei personaggi, diventano espliciti in materia di morte e di dolore, in quanto padroneggiati con consapevole serenità.
L’assunto narrativo di Cadaveri che respirano è completamente diverso. Si tratta di una sorta di thriller animato da tre personaggi uniti dal comune ritrovamento, del tutto occasionale, di un cadavere: Amy, cameriera di albergo, rinviene un morto suicida in una stanza che si appresta a pulire; Jim, proprietario di un magazzino, scopre il cadavere in una cella affittata ai clienti; all’imprenditrice Kate succede, invece, portando a spasso il cane.
Memore della lezione di Sarah Kane e Mark Ravenhill, il linguaggio della commedia esprime violenza trasferita in un sistema di battute aspre e asciutte, taglienti come lame. I dialoghi risultano segnati da continue interruzioni, gli interlocutori non si ascoltano, sembrano parlare a se stessi. Anche se nei tre personaggi la scoperta dei cadaveri avrà ripercussioni significative sulle loro vite, rimane in loro radicata e inalterata la condizione di solitudine e di infelicità. «I cadaveri – spiega Vetri nell’Introduzione – non sono altro che le immagini riflesse dei personaggi vivi, uno specchio terribile di che cosa è l’uomo davanti alla disperazione».
Così Più freddo di qui e Cadaveri che respirano possono essere letti come il rovescio della medaglia dello stesso oggetto-morte che diventa, nel primo testo, tramite per riscoprire e rigenerare una dimensione umana di sana e poetica leggerezza di fronte all’evento funebre il quale, nella seconda commedia, determina invece la cementificazione di una condizione di autoreferenzialità connessa ai personaggi, soprattutto priva di via d’uscita.
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Sergio Blanco, Teatro II
Anche la scena italiana, a piccoli passi, sta considerando il repertorio di Sergio Blanco, drammaturgo e regista teatrale franco-uruguaiano pluripremiato e da anni presente in pianta stabile nei quartieri alti del panorama internazionale. Altri segnali di marcato interesse provengono soprattutto dal mondo dell’editoria, segnatamente dall’intraprendente Cue Press di Imola che ha recentemente pubblicato Teatro II con luminosa introduzione di Renato Palazzi, preceduto dall’antologia Teatro del 2019.
Quello che colpisce della scrittura di Blanco è la sua limpida e originale adesione agli orientamenti drammaturgici contemporanei, riconoscibili nella mancanza di un intreccio canonico e di personaggi autentici che, di contro, sembrano dissolversi e ritrovarsi nelle parole autobiografiche dello stesso autore. Si crea, in questo modo, un sottile e bizzarro gioco di entrata e di uscita dal testo, attraverso frequenti dichiarazioni metateatrali e spiegazioni relative alla genesi dell’opera e alle difficoltà incontrate e ai procedimenti di scrittura.
Si tratta di commedie dall’andamento narrativo imprevedibile e a tratti paradossale, mosse dall’assunto definito dallo stesso Blanco: «Il mio lavoro è mentire la verità». In Kassandra (2008) e in Traffico (2020), monologhi posti in apertura e in chiusura di Teatro II, i due protagonisti si prostituiscono. Sono rispettivamente una migrante che parla di intolleranza e di cultura del diverso rivivendo le stesse sorti della profetessa Cassandra in fuga dalla guerra di Troia; il giovane di Traffico si trasforma in un killer della mafia in un crescendo esplosivo di azioni atroci e ripugnanti.
Ostia (2013) è un dialogo tra sorella e fratello il quale afferma: «la scrittura trasforma tutto in finzione». Così rimane, per esempio, irrisolto il loro presunto rapporto incestuoso; come è avvolto nel mistero il ritrovamento di un cadavere nella spiaggia, forse il corpo di un desaparecido gettato nel lontano Rio de la Plata, oppure identificato in quello di Pier Paolo Pasolini. Sono situazioni mentali e paesaggistiche assai ambigue alle quali Blanco non dà alcuna spiegazione perché «la verità è che le domande e le risposte sono dentro di noi».
In Cartografia di una sparizione è centrale il tema dell’autofinzione evidente nel personaggio dello Spettro di Alfonso-Blanco. Invitato a Barcellona a tenere una commemorazione dedicata a Joan Brossa, grande esponente delle arti visive, diventa esso stesso il personaggio in oggetto: esplora e rivive il suo pensiero e immaginario artistico in un’ottica strettamente personale. Il testo emblematico di questa preziosa antologia di Cue Press è sicuramente Quando passerai sulla mia tomba, vero manifesto di perversione. Il protagonista sta organizzando la propria morte per eutanasia in una lussuosa struttura ospedaliera svizzera; sua volontà è lasciare il proprio colpo insepolto e al servizio di un giovane necrofilo in modo che costui lo possa possedere ogni notte. Il dialogo, sciolto e ordinario, crea situazioni di comicità surreale cui non mancano elementi grotteschi. E l’amplesso postumo diventa un modo per capire se «alla fine, dopo la morte, può esserci ancora qualcosa». Subentra, infine, una coincidenza del tutto emblematica: la camera 228, dove avviene la morte solitaria del paziente, è molto vicina alla villa dove Mary Shelley aveva scritto Frankenstein.
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Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot
Samuel Beckett ha fatto quel che ha voluto del suo Aspettando Godot dopo essere andato in scena la prima volta nel gennaio del 1953 al Théâtre de Babylone di Parigi con la regia di Roger Blin, anche quello di dirigerlo personalmente in tedesco (col titolo Warten auf Godot) il 7 marzo 1975 allo Schiller Theater di Berlino e dopo quasi dieci anni (nel 1984), quando sulla soglia dei settantotto anni di età, su invito dell’amico Rick Cluckey, accetta di fare la regia nel carcere di San Quintino, dirigendo gli attori del San Quentin Drama Workshop.
Il prezioso volume rivolto non soltanto agli addetti ai lavori, pubblicato dalla Cue Press e curato da Luca Scarlini con gli interventi critici di James Knowlson e Douglas McMillan, riproduce non solo il testo riveduto di Aspettando Godot corredato di duemilaseicentodue note, ma anche la copia anastatica dell’originale documento, detto il «quaderno rosso» per via della copertina d’identico colore, su cui sta scritto a mano di Beckett «Godot Berlin 75 II». Le note sono scritte con inchiostro nero su paginette a quadretti con molte aggiunte e modifiche apportate in penna rossa durante le prove e qui riprodotte in grassetto. Spiccano parole cancellate, ugualmente leggibili, disegnini dello spazio scenico indicando con le sole iniziali dei personaggi i loro nuovi spostamenti, mentre un numerino in alto rimanda alle note di regia inserite nell’ultima parte del rocambolesco volume che sarebbe molto piaciuto a Jorge Luis Borges.
Pare che Beckett ogni volta che metteva mano al suo testo operasse cambianti significativi, aggiungeva levava modificava interi brani, comprese le didascalie, movimenti e gesti degli attori in scena. Come esempio vale l’incipit della pièce in cui Estragon da solo sul palcoscenico, seduto su una pietra sta cercando di togliersi uno stivale, dicendo: «Niente da fare», mentre Vladimir si trova fuori scena in penombra accanto all’albero. Beckett cambiò radicalmente questo inizio sia a Berlino che al San Quintino, tenendo i due vagabondi in scena, inseparabili sin dal primo momento.
Il secondo cambiamento è stato quello di creare momenti d’attesa, durante i quali i personaggi restano immobili e silenziosi. Momenti chiamati da Beckett tableau statici, ripetuti strategicamente dodici volte nel corso dello spettacolo giusto per fornire allo spettatore la pressante realtà del silenzio e dell’attesa. Le note che accompagnano Aspettando Godot, in un continuo passaggio da una lingua all’altra (francese, inglese e tedesco), si caricano «di segreti leitmotiven come voleva la lezione di James Joyce», argomenta Scarlini, con Beckett che diventa anche regista della sua opera, «affrontando con piglio assai personale lo specifico della radio e della televisione». Si individuano nel testo riveduto dei cambiamenti che danno maggiore vitalità e umorismo ai dialoghi con netti rimandi al varietà o al circo, resi evidenti, ad esempio, allorquando arrivano in scena Pozzo e Lucky e sia Estragon che Vladimir confondono il nome di Pozzo con Bozzo, tagliando l’uno le battute dell’altro mentre si tolgono il cappello come facevano Stan Laurel e Oliver Hardy nelle loro comiche.
Insomma questi Quaderni di regia di Beckett, chiarisce James Knowlson, possono illuminarci su alcuni temi dell’opera in cui la parola chiave è «forse»: come quando Estragon e Vlamidir dicono d’impiccarsi ma non lo fanno o quando bofonchiano di lasciare quel luogo ma non ci riescono, speranzosi sempre che possa giungere Godot. Anche alla fine non si muovono, stanno fermi sul palco, sebbene il Ragazzo abbia detto loro che quella sera Godot non sarebbe arrivato. Tutto è incerto, come la vita, come quando i due beniamini non riconoscono, nel secondo atto, Pozzo e Lucky e lo stesso Ragazzo non li riconosce in nessuna delle sue due visite.
Vi sono altri due esempi cruciali, aggiunge ancora Knowlson, che ci rimandano alle immagini della crocifissione, non si sa se intenzionale da parte di Beckett, lì dove i corpi di Pozzo e Lucky cadendo a terra formano una croce e Vladimir e Estragon si ritrovano spesso ai lati dell’albero con netti richiami alla croce. «Quello che posso dire», dice in conclusione Scarlini, «è che le due produzioni di Beckett allo Schiller Theater e al San Quentin, furono due delle più belle produzioni di quell’opera che abbia mai visto».
Le varie forme della comicità nel teatro dell’antica Grecia
Sulle pagine di questo giornale, ci siamo interessati di Nel nome di Dioniso di Umberto Albini, dedicato, in particolare, all’analisi dei grandi tragici e delle tecniche spettacolari utilizzate nel V secolo a. C. Sempre di Umberto Albini, l’Editore Cue Press, ha pubblicato Riso alla greca. Aristofane e la fabbrica del comico, in cui l’autore analizza le varie forme di comicità e in che modo veniva declinandosi nelle commedie di Aristofane, evidenziandone tutti gli ingredienti, ovvero lo sberleffo, il qui-pro-quo, lo scambio delle parti, il travestimento, l’oscenità, la parodia, le buffonerie, le clownerie, le pagliacciate, le volgarità, soprattutto, quelle che suscitavano il riso immediato di cui, Aristofane, era un calcolatore perfetto, vero Maestro per il Premio Nobel Dario Fo.
Eppure, Albini sosteneva che, nelle commedie di Aristofane, esistessero anche delle impennate elegiache e delle riflessioni di carattere sociale, oltre che politiche. Insomma, non si rideva per nulla, per il «non senso», perché quello che lo si poteva classificare come tale, aveva sempre un senso, come dimostreranno, secoli dopo, Ionesco, Campanile, Beckett, perché, in fondo, in tutti i secoli, si ride delle crisi, sia sociali che politiche. Non per nulla, al centro delle commedie aristofanesche, c’è sempre una crisi che può essere di tipo familiare, di tipo economico, di tipo femministico, vedi Lisistrata.
La capacità di Aristofane consisteva nell’analizzare le varie fasi delle crisi che traduceva in situazioni, a volte, farsesche, a volte, grottesche, anche perché, alla fine, il suo interesse principale era quello di appagare il pubblico, grazie anche all’uso di una particolare brillantezza che inseriva nel suo modo di intendere la comicità che affrontava problemi reali, col ricorso alla pura teatralità e ai suoi stilemi.
In Aristofane non ci sono «caratteri», ma «tipi», per i caratteri bisogna attendere Menandro, anche l’uso dei servi è ben meditato e perfezionato, tanto da diventare modello per autori come Goldoni, benché non assumessero ruoli di primo piano e non fossero artefici veri di trame ben definite, insomma sono assenti i virtuosi dell’intrigo, come Arlecchino, servitore di due padroni, essendo, semplicemente, dei meccanismi che mettono in moto la macchina del «riso alla greca», più adatta ad essere ripresa dalla Commedia dell’Arte.
In genere, osserva Albini, i servi si limitavano a creare degli intrighi modesti, delle bricconerie fasulle, perché ciò che veramente interessava ad Aristofane era la vita quotidiana con la sua vivacità. Non è un caso, ricorda Albini, che Dionigi, tiranno di Siracusa, noto per il suo «Orecchio», fatto costruire nelle Latomie, attraverso il quale voleva conoscere i segreti dei detenuti, non soddisfatto perché voleva anche conoscere quanto accadesse nella sua città, si rivolse a Platone per come fare e il filosofo, come risposta, gli inviò, come modello da seguire, le Opere di Aristofane, dove poteva trovare di tutto.
Un tema che affascina Aristofane e gli autori comici, in genere, è quello del sesso e delle sue turbolenze, basti ricordare la già citata Lisistrata, sia per il linguaggio sboccato che per la volontà di inseguire la risata grassa. L’occhio irriverente del commediografo non trascura nulla, vedi anche gli «Acarnesi», con i due invertiti ateniesi travestiti da eunuchi persiani, con processioni falloforiche, con espressioni «proibite», con l’uso di vocaboli grossolani, il tutto per creare una facile intesa tra scena e platea. Altre forme di comicità le individuava nel ricorso alla «fame», basti pensare all’uso che ne farà Arlecchino nel famoso spettacolo di Strehler, ai banchetti che si trasformavano in azioni ad alto tasso di comicità.
Anche gli intellettuali e filosofi diventavano oggetto del riso alla greca, vedi Le Nuvole, dove assistiamo alla caricatura grottesca di Socrate e dove era presa di mira l’arroganza intellettuale e i danni di certa educazione. E vedi ancora in che modo tragediografi come Eschilo ed Euripide vengano parodiati nelle Rane, il tutto per creare situazioni esilaranti che rendevano le azioni spettacolari, alquanto audaci, persino nella ferocia con cui Aristofane utilizzava la comicità, di cui fu il primo, vero Maestro.
Una lettura che arricchisce la cultura del teatro antico
Tra il 1990 e il 2005, l’Editore Garzanti pubblicò una serie di volumi di Umberto Albini che determinarono una svolta nell’ambito della ricerca filologica, dato che l’interesse dello studioso non si limitò allo studio dei testi o della lingua o della società greca, essendosi indirizzato verso il mondo misterioso delle realizzazioni sceniche che erano frutto di una costruzione collettiva, di cui facevano parte non solo gli attori, allora non sempre professionisti, ma anche scenografi, musicisti, tecnici, organizzatori, e il Corego che, essendo un cittadino facoltoso, finanziava il coro, senza dimenticare l’Arconte, il vero responsabile degli spettacoli, che aveva il compito di ricercare finanziamenti presso i cittadini più ricchi, gli sponsor di allora.
Pur essendo stato un filologo classico, Albini era amico di teatranti come Aldo Trionfo, Lele Luzzati, Franco Parenti e Andrée Shammah, nel cui teatro tenne dei seminari sull’Orestea, inoltre era stato Sovrintendente dell’INDA dal 1995 al 1998. Insomma, aveva ben capito che anche la ricerca filologica avesse bisogno delle conoscenze pratiche, indispensabili per fare teatro o per tradurre dal greco.
L’Editore Cue Press ha appena pubblicato Nel nome di Dioniso. Vita teatrale nell’Atene classica, un volume diviso in due parti, la prima riguarda l’Attore, il Coro, le Maschere, i Costumi, il Pubblico, le Macchine sceniche, la seconda affronta i testi di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane e Menandro.
Per quanto riguarda l’Attore, Albini si intrattiene sul «tritagonista», una specie di promiscuo che, però, non risultava sempre adatto alle parti, tanto che non gli venivano risparmiate delle critiche, anche eccessive. Per fare un esempio, Demostene, in una delle sue Orazioni, a proposito di Eschine, diceva che si trattasse di un «attorucolo», inoltre riferisce delle reazioni del pubblico, durante la rappresentazione di Antigone, dove faceva talmente male la parte di Tiresia, che non solo lo fischiò, ma volle «cacciarlo via». Un motivo in più, per Albini, per analizzare il problema dei ruoli e, quindi, della vocalità, della tonalità, delle superflue leziosaggini, senza dimenticare le gelosie tra gli attori, come quella di Minnisco, molto caro a Eschilo, che insultava Callipide, chiamandolo «scimmia».
Sia ben chiaro che anche i pettegolezzi, per Albini, facevano parte degli spettacoli, le sue analisi sono sempre comprovate dai testi a cui fa riferimento, nulla è affidato al caso. Tutte le sue ricostruzioni, sia degli attori che del coro, di cui analizza i movimenti, la sincronia dei gesti, lo dimostrano, con rimandi precisi a tragedie e commedie, metodologia che utilizza quando riferisce sull’uso delle maschere, «elementi immobili», da distinguere dalla voce, «elemento mobile», benché le maschere creassero: «un’atmosfera alta», per la tragedia, e una bassa per la commedia.
Certamente il capitolo più interessante è quello che riguarda le macchine teatrali e l’attrezzeria, a dimostrazione di come il teatro greco, pur essendo povero di scenografie, utilizzasse dei marchingegni che rendevano dinamica l’azione teatrale, a cominciare dell’«enciclema» che, col suo movimento, essendo una specie di girevole o di carrello, faceva vedere ciò che avveniva all’interno di una reggia o di una abitazione. Come oggi il teatro va in cerca di effetti spettacolari, vedi l’Orestea di Livermore, anche, alle sue origini, il teatro classico non disdegnava le apparizioni degli dei, grazie a delle macchine, specie di gru, che li posizionavano in alto, e sembra che, per l’occasione, avessero inventato dei cavalli alati. Molto usato era il «theologeion», una specie di pedana rialzata che veniva utilizzata per l’arrivo degli eroi.
A dire il vero, Aristotele, nella Poetica, sosteneva di non amare le invenzioni artificiose a cui si ricorre quando non si hanno idee critiche, necessarie per una analisi profonda dei testi. Egli, infatti, sosteneva che il vero dramma non avesse bisogno né di scenografie, né di congegni tecnici, come ha dimostrato Carsen nel suo Edipo, tutto costruito sul potere della parola.
Per quanto riguarda le attrezzerie, sulla scena antica, abbondavano i bauli, le statue, funzionali alla vicenda rappresentata ed ancora simulacri, archi, grandi scudi, ghirlande, ricche bigiotterie, collane, cinture dorate e, in particolare, oggetti sacri per agganciare il presente col mistero religioso.
Nella seconda parte, Albini si intrattiene sui testi degli autori citati, ne ricorda le origini, generalmente legate al patrimonio mitico e leggendario, con tutte le sue varianti e con i significati «secondi», con i loro riscontri etici, così come ricorda che, a base delle loro storie, ci fossero le due saghe principali, quella degli Atridi e quella dei Labdacidi, senza dimenticare le diverse avventure che coinvolgevano personaggi come Eracle, Aiace o Filottete. Insomma, una lettura che arricchisce le conoscenze di chi ama il Teatro Antico.
Renato Palazzi. Il critico traumatizzato
Metti un giovane aspirante critico teatrale, un tetragono caporedattore del maggiore quotidiano nazionale che lo costringe, forse con una punta di sadismo, a visionare il peggio delle uscite cinematografiche del momento; metti l’esplosivo e mutevole contesto degli anni Settanta, un universo cinematografico in continua fioritura ma già indelebilmente avvelenato dal decadimento morale e dal cattivo gusto: metti tutto questo ed ecco Esotici, erotici, psicotici. Il peggio degli anni Settanta in 120 film, un volume che raccoglie le recensioni del docente, critico teatrale e giornalista Renato Palazzi, uscite tra il 1974 e il 1978 sul «Corriere della Sera», edito da Cue Press, piccola ma agguerrita casa editrice che sforna volumi pregevoli sul cinema e sul teatro.
Il libro è corredato di una prefazione di Maurizio Porro, un «avviso al lettore» dell’autore, una postfazione di Cristina Battocletti e un suggestivo apparato iconografico con riproduzioni di locandine a colori, il titolo echeggia un film del 1972, Esotika Erotika Psikotica, scelto a simbolo di un’intera categoria, pellicola bollata come «assolutamente senza capo né coda» (per curiosità, Andy Warhol invece la definì «un capolavoro oltraggiosamente stravagante»). Le recensioni, accompagnate da sintetiche schede dei film, sono raggruppate in capitoli secondo generi, sottogeneri, rivoli e scorie di generi: voyeurismo casareccio, declinazioni di erotismo nelle cinematografie estere, porno-inchieste, sexy carceri e lager, poliziotteschi, spaghetti horror, rimasugli del western, alieni e mostri vari, Bruce Lee e dintorni, pugni e fagioli, coppole e lupare, nazional-popolari, lacrima movies, e una sezione, «Effetti collaterali», dove appaiono recensioni interessanti dal punto di vista sociologico, che rendono testimonianza dell’inarrestabile avanzata dei cinema a luci rosse, nonché una lettera di protesta di un lettore.
Un esperto di cinematografia trash del periodo troverà senz’altro dei buchi nel campionario di pellicole presentate, ma l’autore avverte che i film sono quelli da lui recensiti, non si tratta dunque di una classifica del peggio in assoluto (che sarebbe peraltro altamente soggettiva). Sono per lo più prodotti confezionati con lo stampino, che salvo rarissime eccezioni si attengono ai più vieti cliché, a formule consolidate dal successo commerciale. Nelle sue vivaci e pittoresche analisi Palazzi sembra voler compensare la mancanza di possibilità critica dell’«opera» visionata (regie maldestre, trame inesistenti, sceneggiature abborracciate, bozzetti mal assemblati) con notazioni sociologiche e di costume che oggi risultano di grande interesse. Ecco allora le descrizioni, tra la repulsione e il divertito, dell’affezionatissima clientela maschile di quei film che si soffermava nelle toilette ben oltre i tempi di una necessità fisiologica, l’inquietante tremito d’una fila di poltroncine dove i più sfacciati sedevano, il mistero d’una platea traboccante di pubblico per ammirare un’attrice «dal fascino insignificante» (Franca Gonella, nel film La bolognese).
Il critico stronca senza pietà film non di rado ignobili (tanto per chiarire la qualità di ciò che era costretto a visionare, l’autore spiega con lampante sarcasmo che pellicole come Giovannona coscialunga o Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda appartenevano a una categoria premium a cui per diktat redazionali non aveva accesso), esercitando in tal modo il ruolo civile di critico militante che, da «ex sessantottino con la tipica presunzione di essere sempre dalla parte del giusto», avvertiva come suo, e difendendosi dalle immagini che lo tormentano fino al disgusto con l’affilatissima arma dell’ironia, che rende imperdibili queste recensioni.
Per Palazzi «le vie del cattivo gusto sono davvero infinite» (incipit della recensione de Il compromesso erotico), e «niente è più volgare della stupidità» (a proposito della «farsa pecoreccia» La commessa). I suoi strali passano dal «grossolano e caotico miscuglio di thrilling ed erotismo» di La mogliettina, ai «vieti luoghi comuni e caratteri sbozzati con l’accetta» di Lezioni private, «all’assoluta assenza di trama e di sviluppo logico» del «razzista» Emanuelle nera, a «uno dei prodotti più bolsi e deprimenti degli ultimi anni» (Amore mio spogliati… che poi ti spiego). Lungi dal divertirsi, il critico annota «l’infinita noia delle freddure e la triviale esibizione di luoghi comuni esibiti» in La figliastra, il «sentimentalismo d’accatto», gli «accigliati moralismi», gli «psicologismi da salotto» di Seduzione coniugale, fotografa un’epoca con un incipit fulminante («Con La bellissima estate il cinema italiano della commozione e dello strazio dà la stura alla sua vena più funerea e cimiteriale»), lamenta il mai esaurito «infausto filone erotico-monastico» (La novizia indemoniata), «i brividucci superficiali e i trucchetti da strapaese» di Chi sei?, esecra «l’indegna serie erotico-nazista» che con Fräulein Kitty «prosegue senza il minimo scrupolo di civile pudore», si disgusta per le solite pseudo-inchieste tedesche piene di «sedicenti psicologi che rilasciano deliranti dichiarazioni sulla crisi della coppia come pretesto per sciorinare pesanti barzellette da birreria» (Ninfomania casalinga).
Oggi possono anche sorprendere certe piccate indignazioni, una vena che un lettore dell’epoca con una lettera di protesta definì moralistica e bacchettona, ma è impossibile non solidarizzare con chi scrive una tale frase accorata: «Credetemi, bisogna proprio voler annientare una persona per mandarla a vedere un film con Sabina Ciuffini» (la celeberrima valletta della trasmissione Rischiatutto di Mike Buongiorno, «ex idolo acqua e sapone delle platee televisive» definita «graziosa e patetica» ragazza). Comunque, si apprezza non poco la lingua affilata e pittoresca di Palazzi, l’ammirevole serie di varianti con cui declinava un trito campionario di titoli serialmente simili. E così tra viziosette, minorenni e verginelle precocemente dedite ai piaceri della carne, dottoresse e soldatesse non poco disinibite, mogliettine, cognatine, cuginette e nipotine paraninfomani, la penna del critico si sbizzarrisce in analogie volutamente improbabili (per il film Inhibition evoca Alan Ladd nel finale del Cavaliere nella valle solitaria), cogliendo l’occasione per demolire il cinema trash in ogni sua declinazione, reo di riprodurre una «mezza misura ammiccante e sudaticcia, da buco della serratura, un po’ peccaminosa e un po’ parrocchiale, che non ha nulla a che fare con l’autentica pornografia, per la quale è comunque necessario un certo ingegno», nonché per riflettere sul rapporto tra intrattenimento e cultura di massa.
A uno sguardo attento una cosa però balza evidente: in non poche di queste (e altre coeve) pellicole appaiono fior di attori, la crema degli autori di colonne sonore, tecnici e artisti di primissimo piano, ricordati per ben altri film. Nelle recensioni, dettate com’erano da altre urgenze, di ciò non v’è quasi traccia, ma con lo sguardo retrospettivo questa filmografia assume altri significati, si presta ad analisi sociologiche e di costume, allo studio delle realtà economiche, produttive e creative del sistema cinema italiano che nel ventennio 1960-1970 visse una stagione floridissima, caratterizzata dalla prodigiosa capacità di penetrazione di una cultura (certo, anche di una sottocultura) nei mercati e nell’immaginario d’oltreconfine. In tale ottica, la godibilissima lettura di questo libro non sarà forse fine a se stessa, ma potrà offrire ulteriori spunti critici agli studiosi del come eravamo – e magari del come ancora siamo.
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Il difficile ruolo di figlio di papà. Anche in inglese il rapporto fra i Pirandello
Ci sono scritti che risuonano come un dialogo mai avviato, un complesso insieme di relazioni che riguardano le infinite realtà, i tanti rimpianti, le parole mai dette di una dialettica sospesa. Luigi Pirandello e Stefano, il figlio, ovvero Stefano Pirandello, il figlio paterno, come il titolo del saggio di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla in cui i due studiosi ricompongono la drammaticità del rapporto familiare.
Lo scritto apre la pubblicazione del testo di Stefano Pirandello Un padre ci vuole (Cue Press) interamente giocato sull’inversione dei rapporti fra un padre, Ferruccio, e un figlio, Oreste, un legame conflittuale e indissolubile tale «da rendere volutamente fallimentare qualunque tentativo di fuga», come avvertono i curatori. Il volume è stato presentato alla Fondazione Verga nella versione inglese (All you need is a father con traduzione di Enza De Francisci e Susan Bassnett).
Della preziosa operazione di circolazione plurilingue dei due studiosi siciliani, ha parlato il prof. Antonio Di Silvestro ricordando il recupero storico e filologico dei Pirandello condotto da Sarah ed Enzo Zappulla.
La prof. Zappulla Muscarà si è quindi soffermata sul personaggio di Stefano scrittore e drammaturgo, del tutto autonomo pur nella similarità tematica che lo accosta al padre. Una vita dolente e travagliata quella di Stefano, titolare di un dramma destinato a ricomporsi soltanto negli anni.
La studiosa ha innanzitutto posto l’attenzione sulla necessità di rispondere alla curiosità che all’estero si registra intorno ai nomi dei due Pirandello.
Già tradotti in più lingue, i testi, per mantenere inalterato il sapore corretto della vis espressiva, necessitano di una traduzione che superi lo steccato del bello-brutto, infedele-fedele, operando piuttosto nel mantenimento della ratio testuale. Ha sottolineato Sarah Zappulla Muscarà: «Quella in inglese è una traduzione bellissima per la quale le due traduttrici hanno impiegato accuratezza linguistica e storica inserendosi in una linea traduttiva che restituisca al testo la sua essenza».
Enza De Francisci (Università di Glasgow) ha fatto il punto sulla complessa operazione di traduzione condotta con Susan Bassnet parlando dei canali di attualizzazione filologica, della declinazione del rapporto dimidiato padre/figlio, del recupero di nessi storici e linguistici magari desueti.
«Un lavoro egregio, un modello di come oggi si dovrebbe fare una traduzione», ha sottolineato Enzo Zappulla, presidente dell’Istituto di Storia dello spettacolo siciliano. A chiusura dell’incontro, Agostino Zumbo ha letto dei brani del saggio.
Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot
«Gli stivali vanno tolti ogni giorno, perché non mi ascolti?»
«Perché non mi aiuti?»
«Fa male?»
«Ecco l’uomo. Dare agli stivali la colpa dei piedi. Una cosa inquietante».
[…]
«E se te li provi?»
«Ho provato di tutto».
«Parlo degli stivali».
«Sarebbe una cosa buona?»
«Ci farebbe passare il tempo. Sicuro sarebbe un intrattenimento».
«Un rilassamento».
«Un divertimento».
«Un rilassamento».
Aspettando Godot di Samuel Beckett è uno dei testi teatrali che dovrebbero stare alla base della formazione culturale di chiunque senta il bisogno di lavorare non solo col teatro, ma con la scrittura tutta, il linguaggio, la comunicazione.
Su «InGenere Cinema» parliamo raramente di teatro e probabilmente questa è la prima volta che fra le pagine virtuali della nostra Gazzetta del Fantastico vi presentiamo un testo teatrale, ma non potevamo voltarci dall’altra parte quando la Cue Press ha iniziato a pubblicare (questo di cui vi parliamo è un primo volume di una collana) i Quaderni di regia e Testi riveduti di Samuel Beckett, in questo caso quelli riguardanti il suo Aspettando Godot.
Si tratta di un’operazione preziosissima, di un’impresa: testi riveduti e quaderni arrivano per la prima volta in Italia, con la traduzione e l’adattamento di Luca Scarlini, partendo del testo inglese The Theatrical Notebooks of Samuel Beckett, curato da James Knowlson [maggiore biografo di Beckett] e Dougald McMillan.
La collana ha avuto già un secondo momento editoriale, con Finale di partita, e andrà avanti con L’ultimo nastro di Krapp e con i testi brevi ma si parte, appunto, con Godot, di cui Beckett ebbe modo di curare la regia – per la prima volta – a Berlino, nel 1975. La prima assoluta, parigina (senza la regia dell’autore, ma con quella di Roger Blin), era stata del 1953.
A oltre vent’anni di distanza, quindi, Beckett si trova a poter rileggere e rivivere il suo testo più famoso con un’esperienza d’autore maturo e importante. A riguardare il suo scritto con lenti completamente differenti e occhi interessati non solo alla composizione grafica, ma anche alla traduzione delle parole in gesti, all’incarnarsi dei personaggi in attori. Cosa che farà nuovamente – e in lingua inglese – al San Quentin Drama Workshop di Londra nel 1984.
Inizia così un lungo processo che porterà ad una completa revisione (in alcuni casi radicale) del testo, che da quel momento conterrà uno scheletro rigido di riferimenti di messa in scena registici e studio sulla composizione, sui movimenti, sull’interpretazione dei personaggi.
Non vi parliamo di tutto quello che racchiude narrativamente Aspettando Godot, invitando chi ancora non si sia mai approcciato a questa lettura a provvedere immediatamente, in quanto nessuno (né prima, né dopo) è riuscito a raccontare l’immobilità e l’assenza (di voglia, di spirito, di comunicazione, di vita…) in modo così semplice e allo stesso tempo feroce; immediato ma profondo.
Un lavoro decisamente complesso, che trova specchio nel volume Cue Press che è altrettanto stratificato e pretende una fruizione attenta e impegnata: oltre quattrocentocinquanta pagine che, dopo una serie di note introduttive e la prefazione storico-letteraria, propone la versione riveduta (lavorata durante la prima messa in scena da regista) del testo di Beckett con una serie di segni tipografici ad evidenziarne aggiunte, tagli e revisioni rispetto alla versione originale.
Quello proposto da Cue è innanzitutto – cosa assolutamente da non sottovalutare – un modo nuovo e molto interessante di approcciarsi all’Aspettando Godot, respirando un’aria per molti versi diversa da quella dell’edizione Einaudi che, finora, aveva proposto in Italia unicamente la traduzione anni Sessanta curata da Carlo Fruttero.
Ma nel volume c’è tanto di più: il testo beckettiano viene seguito da una corposa appendice di note, che esplicano nel dettaglio quanto inserito fra parentesi e grassetti nel testo di nuova traduzione, contestualizzando ogni modifica all’originale nell’ambito delle aggiunte e delle revisioni.
Il fiore all’occhiello dell’edizione Cue Press, poi, è di certo la riproduzione fotografica del quaderno di regia [il famoso ‘quaderno rosso’, per il colore della copertina, riprodotta anche su quella del volume di cui stiamo parlando] scritto da Samuel Beckett durante la lavorazione per la produzione tedesca del suo spettacolo, allo Schiller Theater. Un modo davvero unico e diretto per agganciarsi ad una delle menti più brillanti della letteratura e del teatro novecentesco, provando ad assaporarne e immaginarne anche spiragli di personalità, attraverso la grafia degli appunti, l’ossessivo studio per gli schemi dei movimenti delle presenze in scena, gli schemi e i disegni elementari, ma anche le cancellature [talvolta davvero grafiche e ingombranti]. Il tutto è poi ripreso e reso editorialmente più leggibile per darci il modo di essere quasi testimoni a posteriori di prove e tentativi; del formarsi di un regista nel corpo di un meraviglioso pensatore e scrittore. Si viaggia tra il letterario e l’artigianalità, tra l’elucubrazione più raffinata e la soluzione pratica, ma soprattutto si sente il battito che ancora oggi si nasconde all’interno di un testo che racconta lo smarrimento, la perdita, la solitudine, l’incomunicabilità, la bassezza, la convenienza bieca, ma anche l’aspirazione irraggiungibile, la fede cieca, l’attesa di qualcosa che possa in qualche modo scardinare una vita andata a male.
Un viaggio unico, che oggi possiamo fare proprio grazie alla corposa edizione Cue Press, in cui prende corpo proprio la meraviglia del teatro [non solo di Beckett]: la vita scenica che ha pieno possesso del pensiero su carta e a volte ne stravolge convinzioni preventive. Di certo ne modifica parte del DNA.
Un libro di Storia del Teatro, da studiare e ristudiare, per arrivare ad un’assimilazione davvero profonda.
Probabilmente troppo impegnativo per un primo approccio alla drammaturgia delle drammaturgie, ma un testo davvero imprescindibile per chi ama il teatro, la scrittura tutta, il linguaggio, la comunicazione. E Beckett.
«Andiamo».
«No».
«Perché?»
«Aspettiamo […]».
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Umberto Albini, Nel nome di Dioniso
Come si legge nel sito istituzionale della casa editrice di Imola: «[…] alla fine del 2012 intorno a Mattia Visani, ultimo autore della Ubulibri di Franco Quadri, nasce la prima casa editrice digital first interamente dedicata alle arti dello spettacolo.
Un laboratorio di idee per costruire modelli nuovi per l’editoria e moderne modalità di produzione culturale. A fronte di una materialità che va assottigliandosi sempre di più, non pensiamo il libro come oggetto ma come progetto. Sfruttando l’agilità del digitale, Cue Press propone il meglio della produzione viva di settore, in vista di un pubblico che esiste ed è reattivo, ma non raggiunto – e forse non più raggiungibile – dai metodi dell’editoria tradizionale».
Proprio per questa particolarità adottata da Cue, cioè il pubblicare sia in digitale che su carta (secondo il desiderio e l’esigenza del lettore), il ricco catalogo fornisce una moltitudine di titoli di primissimo piano, toccando disparati argomenti con un unico comune denominatore, la qualità dei contenuti.
Nel presente libro (collana I Saggi del Teatro, 312 pagine) si riscontrano i principali fondamenti del mondo teatrale nell’Atene classica. Si parla dell’attore, del coro, senza tralasciare maschere e costumi, le macchine teatrali e l’attrezzeria, gli edifici teatrali e i festival, il pubblico, e al contempo si toccano i testi, con un’ampia sezione dedicata ad Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane e Menandro.
Non mancano le note musicali e negli apparati finali una bibliografia ed un indice dei nomi e delle opere. L’autore così dona una lettura scorrevole, agile e con illuminata singolarità consegna un excursus storico e culturale del teatro greco, senza adombrare riferimenti a quello moderno.
Il titolo fa riferimento alla convinzione che il teatro greco abbia fatto la sua comparsa grazie alle feste religiose in onore di Dioniso. Infatti gli studi ci riportano al VI secolo a.C., periodo in cui si fa risalire l’origine del teatro che fino all’era ellenistica (III-I sec. a.C.) si basava completamente sul culto della divinità (Dioniso inizialmente fu associato al dio arcaico della vegetazione, per poi essere aggregato all’estasi, al vino, all’ebbrezza, e alla liberazione dei sensi).
Pagina dopo pagina, Umberto Albini, con la sua opera di carattere argomentativo, documenta particolari studi e ricerche sul tema del teatro (ed anche perché fosse così particolarmente importante allora; ed oggi così valido a comprendere la società ateniese, anche detta ‘l’età d’oro della città’) tastando con fascino l’intero mondo greco.
Umberto Albini ha insegnato nelle università di Bonn, Colonia e Firenze, divenendo infine direttore del Dipartimento di Filologia Classica presso l’Università di Genova. Fra i massimi esperti e traduttori del teatro classico, è stato presidente dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Tra i suoi saggi si ricorda: Riso alla greca, Testo e palcoscenico. Divagazioni sul teatro antico, Atene: l’udienza è aperta, Euripide o dell’invenzione.
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