Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Gigigiacobbe
25 Luglio 2022

Bob Wilson in Italia, Giacobbe e la costruzione di una memoria che manca

«Gazzetta del Sud»

Quale funzione può avere il ritratto di un regista teatrale texano ottantantunenne che ha lavorato per molti anni in Italia? È questa la domanda che ha posto il giornalista Franco Cicero nell’introdurre il critico teatrale Gigi Giacobbe alla presentazione della sua ultima fatica, Bob Wilson in Italia, edito dalla Cue Press, sabato scorso nello spazio della strada S. Giacomo, ospiti nel dehor della Cucchiara. La risposta è meno ovvia di quanto si possa pensare, se, come ricordava lo stesso Cicero, ci si scandalizza per un rapper milanese, Fedez, che ignora Strehler. Semmai la domanda dovrebbe essere, più semplicemente, cosa si è fatto perché Fedez conoscesse Strehler? Ecco allora che il lavoro di Gigi Giacobbe, un excursus trentennale attraverso le produzioni di Bob Wilson in Italia, seguite pedissequamente e coronate da riflessioni, articoli e interviste, trova una sua collocazione importantissima nella costruzione di una memoria che ai nostri giovani manca. Perché Wilson, come Strehler, non si studia a scuola.

Il ruolo, dunque, di Bob Wilson in Italia è quello di riempire un vacuum nella storia teatrale e culturale, perché finora in Italia ci si era occupati poco del grande regista, o perlomeno c’è stato un interesse di nicchia. Ma l’intento assume anche una forte connotazione comunicativa grazie a Gigi Giacobbe, che non si è mai risparmiato nella divulgazione culturale a tutto tondo, e in particolare in quella teatrale, nel corso della sua esperienza di critico teatrale. Il dialogo con Wilson, sempre mediato dagli interpreti occasionali, dando luogo a una serie di aneddoti gustosamente raccontati da Giacobbe, sembra quasi intimo e soprattutto si allarga sempre su un orizzonte che da intimista diventa universale, toccando la sfera privata (le preferenze e i gusti del regista, le sue esperienze, i suoi pensieri) per arrivare alla sua idea di teatro, alla sua visone dell’arte, alle commistioni fra i generi teatrali.

Tutto quel che Giacobbe racconta, vive attraverso le righe scritte, forte di immagini, suoni e colori raccontati da Wilson, vissuti da Giacobbe critico ma, soprattutto, spettatore. E, d’altra parte, dell’importanza di vivere il palcoscenico, sopra, dietro e non solo davanti per poter capire appieno il teatro, è convinto anche il prof. Dario Tomasello, intervenuto alla presentazione e promotore della pubblicazione proprio perché consapevole della peculiarità dello scritto e della rilevanza del contenuto. Per Tomasello il teatro è presenza, molto più di quanto possano prevedere altre forme d’arte come il cinema, la letteratura, la musica; e da docente ai suoi universitari consiglia sempre di partecipare attivamente (e quindi non solo da spettatori passivi) alla messa in scena di uno spettacolo. Il teatro, per dirla con Wilson, è il compendio di tutte le arti. A teatro coesistono arte, architettura, musica, letteratura e nell’ultimo secolo anche fotografia e cinema. Non stupisce dunque che il militante Giacobbe riesca a catturare preziose informazioni dal regista non prima o dopo, ma durante la messa in scena, spesso nell’intervallo. Quasi ad avvalorare la necessità di un discorso in itinere che è dentro la messa in scena. Anche la presentazione del libro, affatto noiosa, è stata intervallata dalla lettura di alcune pagine da parte dell’attore Gianfranco Quero, perché la discussione – come in una mise-en-scène – s’intrecciasse ancor di più col teatro.

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Beckett scena
22 Luglio 2022

È nei Quaderni di regia l’origine del suo stile unico

Andrea Bisicchia, «Il Giornale»

C’erano, una volta, le «Note di regia», che generalmente accompagnavano i «Quaderni di Sala» di uno spettacolo e che cercavano di spiegare quanto accadesse sul palcoscenico, ben diversi dai «Quaderni di regia» che riguardano il lavoro sul testo, con tutti i possibili ripensamenti, riscritture, cancellazioni e revisioni da parte degli autori. In questi casi, per dare ordine a quella che dovrebbe essere l’edizione princeps, occorre un lavoro specifico che appartiene solo al filologo, il cui compito consiste nel restituire il modello originario.

L’editore Cue Press ha appena pubblicato, in due volumi separati, curati di Luca Scarlini, i Quaderni di regia di Aspettando Godot e Finale di partita, con tutte le correzioni fatte da Samuel Beckett, in gran parte autografe, a dimostrazione di come la storia di un testo teatrale non sia altro che la storia delle sue interpretazioni, non solo critiche, ma anche testuali. Tanto che quella che potrebbe sembrare l’ultima stesura è, in fondo, una versione diversa dalla precedente. Grazie a queste pubblicazioni, i giovani registi che intendano portare in scena i due capolavori, potranno usufruire di un vero e proprio laboratorio, fatto di molteplici varianti, di approfondimenti, di nuove versioni delle battute, di tagli, di piccole modifiche e persino di annotazioni sui movimenti, sulle luci, sulle didascalie, per pervenire a quella che dovrebbe essere la fase finale del processo creativo.

Beckett aveva capito – come a suo tempo aveva capito Luigi Pirandello – che allestire un testo è diverso che scriverlo, perché, oltre che alla parola, bisogna stare attenti ai movimenti, al passaggio da una scena all’altra, a evidenziare il contrasto tra parole e gesti, a creare simmetrie e opposizioni, tutti elementi che appartengono al linguaggio della scena.

A guardare i testi, così come ci vengono proposti, con le edizioni critiche di James Knowlson e Dougald McMillan, per quanto riguarda Aspettando Godot, e di Stanley E. Gontarski per quanto riguarda Finale di partita, appaiono evidenti le scelte registiche di Beckett, che alternano l’elemento clownesco con quello filosofico, la comicità umoristica con la tragicità che sta dietro di essa. Attraverso il filtro della regia, Beckett era riuscito a dare nuova vita ai suoi testi, tanto che il pubblico di Berlino, dove erano andati in scena nel 1975, allo Schiller Theater, rimase impressionato dalla profondità della messinscena, avendo assistito a una regia intesa non certo in senso tradizionale. Negli anni Ottanta, su richiesta del San Quentin Drama Workshop, Beckett curò una nuova regia, con altre annotazioni, presenti nei due volumi: i milanesi poterono vedere lo spettacolo, nel 1984, al Teatro Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, e partecipare, numerosissimi, a un rito insolito, perché si respirava una grande emozione.

Finale di Partita, il testo più filosofico, fu maggiormente suscettibile di cambiamenti, di ripensamenti, data l’universalità dei temi trattati, come il dolore, la solitudine, l’emarginazione, la cecità come metafora, il rapporto tra finito e infinito, tra vita e morte, a dimostrazione di come ogni messinscena risenta delle tante circostanze variabili che rendono sempre differente l’interpretazione di un testo.

Beckett 1978 parigi ph. francois marie banier
20 Luglio 2022

Wipes dream away with hand

Mel Gussow, «New York Times»

In our many conversations over the years, Samuel Beckett was always reluctant to discuss the meaning and philosophy behind his work, preferring to stand on the principle of no exegesis where none intended. When pressed, he would talk about the genesis of individual plays and about production and performance. As it turns out, production and performance were central to his concept of his art. Years after he began writing plays, he became an active participant in the theatrical process and a consummate director of his own work. What began as an act of utmost privacy reached into the rehearsal room, where the author, watching actors play his roles, would distill and clarify his plays.

While directing his plays in Germany and England, Beckett kept production notebooks, which are being published in facsimile form together with his final revised texts of the plays. The first volumes of The Theatrical Notebooks of Samuel Beckett deal with Endgame and Krapp’s Last Tape. The notebook on Waiting for Godot, though labeled Volume One, is scheduled to be published in England this spring, and a book on the shorter plays will follow. Beckett himself was actively involved in the project, in the case of Endgame and Krapp’s Last Tape going over the text line by line with the editors. With the publication of the notebooks, we now have a more authoritative view of both the art and the artist.

S. E. Gontarski, the editor of the Endgame notebook, says, «Beckett discovered that theater allowed him to paint (or sculpt), that is, to work directly with form». As is abundantly clear from these volumes, Beckett’s art underwent a continuing evolutionary process. Just as museum conservators use infrared instruments to study paintings and to reveal underlying aspects of an artist’s creative process, James Knowlson — who is the general editor of the series as well as the editor of the Krapp’s Last Tape volume — and Mr. Gontarski use their infrared scholarship to uncover the pentimento behind the plays.

The editors, both of whom are Beckett scholars, decipher Beckett’s handwriting (in English, French and German) and even read beneath his erasures. The texts are densely documented and footnoted, an approach that could have led to a dissection of minutiae. Instead, it leads to illumination.

Although directors have published production logbooks, it is rare that a playwright provides such material. Beckett’s notebooks bring us closer to the author’s mind and, tangentially, to his life. We can see his careful, deliberative method and his serious concern for structure. Those who think of him solely as an intuitive artist will be surprised at the meticulous quality of his writing, self-editing and rewriting. At the same time, it is evident that he was neither dogmatic nor didactic. As Mr. Knowlson says in a prefatory note, «The material reveals a flexibility and an openness of approach that is often considered alien to Beckett’s ways of working in the theater.» Appropriately, the editor views the plays as a «living organism», not as works cast in stone.

Although Beckett wanted to protect his work from deconstructionists, he allowed for a certain amount of directorial (and actorial) interpretation, his own as well as that of others. The journals offer Beckett in purest form, with an added aspect of mystery, of literary sleuthing, as the editors lead us into the intricacies of the author’s choices. We might be sitting next to Beckett as he explores and learns about his work.

Some of the material in these volumes has been previously available in books like Beckett in the Theater, by Dougald McMillan and Martha Fehsenfeld, and Mr. Knowlson’s Theater Workbook on Krapp’s Last Tape. The current publication brings together a wealth of information in a finely detailed and highly readable format. These notebooks add to the expanding Beckett library, which now also includes the early, previously unpublished novel Dream of Fair to Middling Women. That book, published late last year in Dublin, is scheduled to be brought out here by Arcade Publishing in the spring.

So many of the alterations in the plays derive from Beckett’s impatience, his apparent urge to make the performance flow more swiftly and precisely. Dialogue is cut and actions are added. In the revised Endgame, Clov the servant is more physically active; Hamm the master yawns less. In his stage directions, Beckett specifies more clearly the moods and reactions of his characters while also stressing the significance of aural and visual imagery as well as of motifs. Both plays seem funnier, though less clownish. Hamm is no longer described as having a very red face, and Krapp does not have a purple nose or trousers that are too short. There is more attention to Krapp’s attachment to his tape recorder and less stage business with bananas. The title character does not sing Now the Day Is Over, because Beckett felt the singing was self-conscious. These changes are part of a larger scheme in which Beckett analyzes the intimations he has aroused and communicates them more evocatively to the audience. In all respects, he expands the dimensions of his theater.

Beckett said that the line «Nothing is funnier than unhappiness» was the most important sentence in Endgame. Reading the author’s notebook, one can see an increasing emphasis on the play as a comedy of pessimism, with the comedy contradicting the dourness of some productions by other directors. Similarly, in Krapp he pointed to the line «The earth might be uninhabited» as pivotal. That line denotes Krapp’s abject isolation, his «incarceration in self», as a man unable to escape his past and equally unable to comfort himself in the present. Krapp is, in Beckett’s words, a «dream-consumed man». Although most of Beckett’s changes were made for clarity, in at least one instance he was moved by discretion. In Endgame, Hamm originally said, «I feel a little queer». At the request of the actor Patrick Magee, Beckett changed «queer» to «strange».

The book on Krapp is particularly instructive, because the play is so brief, self-contained and autobiographical. It is also the play with which Beckett was most involved in production. A scant eight pages in the present edition, Krapp is parsed in the editor’s notes for every undercurrent. It is one of the few Beckett pieces inspired by an actor, in this case Magee. Drawn by his mellifluous voice, the author initially referred to the play as «Magee Monologue». Beckett was also drawn by his own curiosity about the tape recorder, realizing that he could use it as a mechanical equivalent of a photographic album, as a way to transport the character back to his past. That tape recorder could have proved to be a problem in performance; the actor playing the title role has to turn it on and off, forward and backward, exactly on cue. The machine, we are told, is generally operated by an offstage assistant and not by the actor onstage.

There is a triple-edged quality to the reflections as Krapp at the age of 69 listens to himself at 39 commenting on his even more youthful self. Two scenes are crucial to an understanding of Krapp. An epiphany is experienced by the character (as it was in life by Beckett) standing at night on the jetty at Dun Laoghaire and witnessing a life-transforming «memorable equinox». Listening to the tape conjuring that event, Krapp now has a «violent reaction». Equally important is the boating scene, in which the speaker recalls a single romantic interlude and bids «farewell to love». In the revised version, Krapp «wipes dream away with hand, broods, shudders». Throughout the revisions, made over a period of years, Beckett underlined the play’s three primary themes, «solitude, light-darkness and woman» – and in Endgame, depletion and deterioration. And in a curious personal note, for one production of Krapp Beckett brought in his own bedroom slippers for the actor to wear. He wanted him to have the proper shuffle.

In his notebooks, Beckett assiduously warns against stylization and sentimentality. As he said during a production of Endgame: «I would like as much laughter as possible in this play. It is a playful piece». An observer interpreted this as meaning «laughter of his characters, not the audience’s amusement», though, of course, one would lead to the other. Directors of Endgame and Krapp’s Last Tape would certainly benefit from using The Theatrical Notebooks as production guides. They are invaluable maps of Beckett country.

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Endgame fronte
17 Luglio 2022

Revisioni, pentimenti e correzioni. I Quaderni di Beckett. E le esperienze di Pirandello, Eduardo, Fo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Sulle pagine di questo giornale, ci siamo occupati dei Quaderni di regia di Beckett, a proposito di Aspettando Godot, un lavoro certosino, di profondo impegno filologico, il medesimo che contraddistingue la pubblicazione dei Quaderni di regia di Finale di partita, a cura di Luca Scarlini, edito da Cue Press. Si tratta del testo più filosofico di Beckett e, in quanto tale, del più suscettibile di cambiamenti, aggiunte, revisioni, cancellazioni, data anche l’universalità degli argomenti trattati, come il dolore, la solitudine, l’esclusione, la cecità metafisica, il rapporto con l’infinito e quello tra vita e morte.

Un fatto è certo, per chi volesse mettere in scena, in futuro, i due capolavori di Beckett, non potrebbe fare a meno di confrontarsi con questi Quaderni di regia, benché esistano delle versioni originali alle quali in parecchi hanno attinto precedentemente. Spetterà, pertanto, ai nuovi registi poter scegliere, consapevoli del fatto che ogni messinscena risenta delle circostanze variabili che rendono l’interpretazione di un testo sempre differente. Beckett ne divenne consapevole nel momento in cui decise di diventare regista di se stesso, quando, cioè, si accorse della assoluta autonomia dello spazio scenico rispetto a quello della scrittura.

Il volume è preceduto da una Nota al progetto editoriale di James Knowlson, da una prefazione di Stanley E. Gontarski che è anche autore dell’edizione critica, ottimamente curata da Luca Scarlini.

Cosa ci insegnano le edizioni critiche? Che il lavoro creativo non ha mai una sua stabilità, in particolare quello del teatro, sempre soggetto al parere del pubblico, ed è quindi in continua evoluzione. Se ne accorse Pirandello dopo i fischi alla Prima dei Sei personaggi (1921), su cui intervenne nell’edizione del 1925, se ne accorse Eduardo che, quando non sentiva ridere il pubblico, metteva subito mano al testo, per non parlare di Dario Fo che riscriveva le battute in perfetta sintonia con le reazioni del pubblico. Forse i suoi testi sono quelli che contengono più varianti, in questo è molto simile a Beckett, benché, in una lettera scrivesse: «Il teatro è più rilassante per me che vengo dalla narrativa», sembrano le stesse parole che Pirandello scrisse al figlio Stefano, dopo il debutto complicato del Berretto a sonagli, interpretato da Angelo Musco: «Finalmente posso ritornare alla narrativa», aveva, infatti, momentaneamente messo da parte: Uno, nessuno e centomila.

L’invito a Beckett di dirigere Finale di partita arrivò nel 1967, dallo Schiller Theater di Berlino, dieci anni dopo il debutto al Royal Court di Londra, con la regia di Roger Blin, con cui Beckett si era congratulato.

Gontarski, nella prefazione, riporta qualche lettera e ricostruisce lo stato d’animo dell’autore e del regista che ammette: «Quando l’ho scritta non sapevo nulla di teatro». Sembra che, nel momento in cui iniziò le prove di Finale di partita, Beckett avesse memorizzato tutto, comprese le didascalie e la punteggiatura, proprio per evitare qualsiasi interruzione durante le prove, diceva agli attori «Dobbiamo ridurre tutto ancora di più, deve diventare semplice, appena pochi piccoli movimenti, precisi», insomma, il parto risultava alquanto difficile.

C’è da dire che, al contrario di Aspettando Godot, Finale di partita non ebbe subito successo nelle edizioni precedenti, soltanto nel 1964 si registrano gli esauriti, in occasione della interpretazione di Patrick Magee (Hamm) e Jack MacGowran (Clov).

Nel 1980, su richiesta di Rick Cluchey, Beckett ne diresse un’altra versione, con delle revisioni abbastanza consistenti che i milanesi poterono vedere nella Stagione 1984-85 al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti dove, col San Quentin Drama Workshop, debuttarono sia Aspettando Godot che Finale di partita, con la regia di Beckett, in serate memorabili, dove si poté capire ciò che l’autore irlandese andava sempre ripetendo: «Il medium del dramma non è nelle parole, ma nelle persone che si muovono sul palcoscenico, usando le parole».

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Wade laura foto autore 4
8 Luglio 2022

Laura Wade, Teatro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Laura Wade, commediografa sconosciuta in Italia, riproduce fedelmente il modello del new writer: svolti gli studi universitari a Bristol, matura importanti esperienze formative nella cerchia dei giovani drammaturghi nella fucina del londinese Royal Court Theatre, debuttando quasi ventenne con Limbo nel 1996. Alla proficua collaborazione con la BBC Radio, segue al Royal Court Upstairs la trionfale messinscena di Posh, sua quattordicesima commedia dalla quale Lone Scherfig ha tratto nel 2014 il film The Riot Club.

Un prelibato assaggio della scrittura della pluripremiata Wade è offerto dagli inediti Più freddo che qui e Cadaveri che respirano, due piccoli gioielli del teatro anglosassone allestiti nel 2005 e ora raccolti nel Teatro pubblicato da Cue Press per la traduzione e la cura di Valentina Vetri. I due testi, dotati di scrittura asciutta ma stilisticamente assai diversi tra loro, condividono il tema della morte declinato da prospettive narrative opposte, tantoché i corrispettivi personaggi vivono situazioni antitetiche.

Nel sorprendente Più freddo che qui è centrale la figura di Myra, da tempo malata di cancro e consapevole di avere i giorni contati. Perciò si impegna a coinvolgere le due figlie e il marito a deviare dalla prassi canonica – il funerale, il rito e il cimitero classico – a favore di un funerale green: la sua ultima volontà è, infatti, una sepoltura in un prato tra gli alberi e i fiori, con il suo corpo adagiato in una bara assemblata artigianalmente, decorata da disegni e sistemata nel salotto di casa.

Lungo le nove scene del dramma si sviluppa con ironia e tenerezza un processo di ricomposizione di questa famiglia della media borghesia britannica composta da anime solitarie, che progressivamente imparano ad ascoltarsi e a guardarsi negli occhi. Si considerano e si riconoscono. I dialoghi sono allusivi, costruiti su frasi non dette e sospese che prima manifestano timore e formalità poi, per effetto delle profonde trasformazioni interiori dei personaggi, diventano espliciti in materia di morte e di dolore, in quanto padroneggiati con consapevole serenità.

L’assunto narrativo di Cadaveri che respirano è completamente diverso. Si tratta di una sorta di thriller animato da tre personaggi uniti dal comune ritrovamento, del tutto occasionale, di un cadavere: Amy, cameriera di albergo, rinviene un morto suicida in una stanza che si appresta a pulire; Jim, proprietario di un magazzino, scopre il cadavere in una cella affittata ai clienti; all’imprenditrice Kate succede, invece, portando a spasso il cane.

Memore della lezione di Sarah Kane e Mark Ravenhill, il linguaggio della commedia esprime violenza trasferita in un sistema di battute aspre e asciutte, taglienti come lame. I dialoghi risultano segnati da continue interruzioni, gli interlocutori non si ascoltano, sembrano parlare a se stessi. Anche se nei tre personaggi la scoperta dei cadaveri avrà ripercussioni significative sulle loro vite, rimane in loro radicata e inalterata la condizione di solitudine e di infelicità. «I cadaveri – spiega Vetri nell’Introduzione – non sono altro che le immagini riflesse dei personaggi vivi, uno specchio terribile di che cosa è l’uomo davanti alla disperazione».

Così Più freddo di qui e Cadaveri che respirano possono essere letti come il rovescio della medaglia dello stesso oggetto-morte che diventa, nel primo testo, tramite per riscoprire e rigenerare una dimensione umana di sana e poetica leggerezza di fronte all’evento funebre il quale, nella seconda commedia, determina invece la cementificazione di una condizione di autoreferenzialità connessa ai personaggi, soprattutto priva di via d’uscita.

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5 Luglio 2022

Sergio Blanco, Teatro II

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Anche la scena italiana, a piccoli passi, sta considerando il repertorio di Sergio Blanco, drammaturgo e regista teatrale franco-uruguaiano pluripremiato e da anni presente in pianta stabile nei quartieri alti del panorama internazionale. Altri segnali di marcato interesse provengono soprattutto dal mondo dell’editoria, segnatamente dall’intraprendente Cue Press di Imola che ha recentemente pubblicato Teatro II con luminosa introduzione di Renato Palazzi, preceduto dall’antologia Teatro del 2019.

Quello che colpisce della scrittura di Blanco è la sua limpida e originale adesione agli orientamenti drammaturgici contemporanei, riconoscibili nella mancanza di un intreccio canonico e di personaggi autentici che, di contro, sembrano dissolversi e ritrovarsi nelle parole autobiografiche dello stesso autore. Si crea, in questo modo, un sottile e bizzarro gioco di entrata e di uscita dal testo, attraverso frequenti dichiarazioni metateatrali e spiegazioni relative alla genesi dell’opera e alle difficoltà incontrate e ai procedimenti di scrittura.

Si tratta di commedie dall’andamento narrativo imprevedibile e a tratti paradossale, mosse dall’assunto definito dallo stesso Blanco: «Il mio lavoro è mentire la verità». In Kassandra (2008) e in Traffico (2020), monologhi posti in apertura e in chiusura di Teatro II, i due protagonisti si prostituiscono. Sono rispettivamente una migrante che parla di intolleranza e di cultura del diverso rivivendo le stesse sorti della profetessa Cassandra in fuga dalla guerra di Troia; il giovane di Traffico si trasforma in un killer della mafia in un crescendo esplosivo di azioni atroci e ripugnanti.

Ostia (2013) è un dialogo tra sorella e fratello il quale afferma: «la scrittura trasforma tutto in finzione». Così rimane, per esempio, irrisolto il loro presunto rapporto incestuoso; come è avvolto nel mistero il ritrovamento di un cadavere nella spiaggia, forse il corpo di un desaparecido gettato nel lontano Rio de la Plata, oppure identificato in quello di Pier Paolo Pasolini. Sono situazioni mentali e paesaggistiche assai ambigue alle quali Blanco non dà alcuna spiegazione perché «la verità è che le domande e le risposte sono dentro di noi».

In Cartografia di una sparizione è centrale il tema dell’autofinzione evidente nel personaggio dello Spettro di Alfonso-Blanco. Invitato a Barcellona a tenere una commemorazione dedicata a Joan Brossa, grande esponente delle arti visive, diventa esso stesso il personaggio in oggetto: esplora e rivive il suo pensiero e immaginario artistico in un’ottica strettamente personale. Il testo emblematico di questa preziosa antologia di Cue Press è sicuramente Quando passerai sulla mia tomba, vero manifesto di perversione. Il protagonista sta organizzando la propria morte per eutanasia in una lussuosa struttura ospedaliera svizzera; sua volontà è lasciare il proprio colpo insepolto e al servizio di un giovane necrofilo in modo che costui lo possa possedere ogni notte. Il dialogo, sciolto e ordinario, crea situazioni di comicità surreale cui non mancano elementi grotteschi. E l’amplesso postumo diventa un modo per capire se «alla fine, dopo la morte, può esserci ancora qualcosa». Subentra, infine, una coincidenza del tutto emblematica: la camera 228, dove avviene la morte solitaria del paziente, è molto vicina alla villa dove Mary Shelley aveva scritto Frankenstein.

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Cover quaderni godot
28 Giugno 2022

Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot

Gigi Giacobbe, «Sipario»

Samuel Beckett ha fatto quel che ha voluto del suo Aspettando Godot dopo essere andato in scena la prima volta nel gennaio del 1953 al Théâtre de Babylone di Parigi con la regia di Roger Blin, anche quello di dirigerlo personalmente in tedesco (col titolo Warten auf Godot) il 7 marzo 1975 allo Schiller Theater di Berlino e dopo quasi dieci anni (nel 1984), quando sulla soglia dei settantotto anni di età, su invito dell’amico Rick Cluckey, accetta di fare la regia nel carcere di San Quintino, dirigendo gli attori del San Quentin Drama Workshop.

Il prezioso volume rivolto non soltanto agli addetti ai lavori, pubblicato dalla Cue Press e curato da Luca Scarlini con gli interventi critici di James Knowlson e Douglas McMillan, riproduce non solo il testo riveduto di Aspettando Godot corredato di duemilaseicentodue note, ma anche la copia anastatica dell’originale documento, detto il «quaderno rosso» per via della copertina d’identico colore, su cui sta scritto a mano di Beckett «Godot Berlin 75 II». Le note sono scritte con inchiostro nero su paginette a quadretti con molte aggiunte e modifiche apportate in penna rossa durante le prove e qui riprodotte in grassetto. Spiccano parole cancellate, ugualmente leggibili, disegnini dello spazio scenico indicando con le sole iniziali dei personaggi i loro nuovi spostamenti, mentre un numerino in alto rimanda alle note di regia inserite nell’ultima parte del rocambolesco volume che sarebbe molto piaciuto a Jorge Luis Borges.

Pare che Beckett ogni volta che metteva mano al suo testo operasse cambianti significativi, aggiungeva levava modificava interi brani, comprese le didascalie, movimenti e gesti degli attori in scena. Come esempio vale l’incipit della pièce in cui Estragon da solo sul palcoscenico, seduto su una pietra sta cercando di togliersi uno stivale, dicendo: «Niente da fare», mentre Vladimir si trova fuori scena in penombra accanto all’albero. Beckett cambiò radicalmente questo inizio sia a Berlino che al San Quintino, tenendo i due vagabondi in scena, inseparabili sin dal primo momento.

Il secondo cambiamento è stato quello di creare momenti d’attesa, durante i quali i personaggi restano immobili e silenziosi. Momenti chiamati da Beckett tableau statici, ripetuti strategicamente dodici volte nel corso dello spettacolo giusto per fornire allo spettatore la pressante realtà del silenzio e dell’attesa. Le note che accompagnano Aspettando Godot, in un continuo passaggio da una lingua all’altra (francese, inglese e tedesco), si caricano «di segreti leitmotiven come voleva la lezione di James Joyce», argomenta Scarlini, con Beckett che diventa anche regista della sua opera, «affrontando con piglio assai personale lo specifico della radio e della televisione». Si individuano nel testo riveduto dei cambiamenti che danno maggiore vitalità e umorismo ai dialoghi con netti rimandi al varietà o al circo, resi evidenti, ad esempio, allorquando arrivano in scena Pozzo e Lucky e sia Estragon che Vladimir confondono il nome di Pozzo con Bozzo, tagliando l’uno le battute dell’altro mentre si tolgono il cappello come facevano Stan Laurel e Oliver Hardy nelle loro comiche.

Insomma questi Quaderni di regia di Beckett, chiarisce James Knowlson, possono illuminarci su alcuni temi dell’opera in cui la parola chiave è «forse»: come quando Estragon e Vlamidir dicono d’impiccarsi ma non lo fanno o quando bofonchiano di lasciare quel luogo ma non ci riescono, speranzosi sempre che possa giungere Godot. Anche alla fine non si muovono, stanno fermi sul palco, sebbene il Ragazzo abbia detto loro che quella sera Godot non sarebbe arrivato. Tutto è incerto, come la vita, come quando i due beniamini non riconoscono, nel secondo atto, Pozzo e Lucky e lo stesso Ragazzo non li riconosce in nessuna delle sue due visite.

Vi sono altri due esempi cruciali, aggiunge ancora Knowlson, che ci rimandano alle immagini della crocifissione, non si sa se intenzionale da parte di Beckett, lì dove i corpi di Pozzo e Lucky cadendo a terra formano una croce e Vladimir e Estragon si ritrovano spesso ai lati dell’albero con netti richiami alla croce. «Quello che posso dire», dice in conclusione Scarlini, «è che le due produzioni di Beckett allo Schiller Theater e al San Quentin, furono due delle più belle produzioni di quell’opera che abbia mai visto».

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27 Giugno 2022

Le varie forme della comicità nel teatro dell’antica Grecia

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Sulle pagine di questo giornale, ci siamo interessati di Nel nome di Dioniso di Umberto Albini, dedicato, in particolare, all’analisi dei grandi tragici e delle tecniche spettacolari utilizzate nel V secolo a. C. Sempre di Umberto Albini, l’Editore Cue Press, ha pubblicato Riso alla greca. Aristofane e la fabbrica del comico, in cui l’autore analizza le varie forme di comicità e in che modo veniva declinandosi nelle commedie di Aristofane, evidenziandone tutti gli ingredienti, ovvero lo sberleffo, il qui-pro-quo, lo scambio delle parti, il travestimento, l’oscenità, la parodia, le buffonerie, le clownerie, le pagliacciate, le volgarità, soprattutto, quelle che suscitavano il riso immediato di cui, Aristofane, era un calcolatore perfetto, vero Maestro per il Premio Nobel Dario Fo.

Eppure, Albini sosteneva che, nelle commedie di Aristofane, esistessero anche delle impennate elegiache e delle riflessioni di carattere sociale, oltre che politiche. Insomma, non si rideva per nulla, per il «non senso», perché quello che lo si poteva classificare come tale, aveva sempre un senso, come dimostreranno, secoli dopo, Ionesco, Campanile, Beckett, perché, in fondo, in tutti i secoli, si ride delle crisi, sia sociali che politiche. Non per nulla, al centro delle commedie aristofanesche, c’è sempre una crisi che può essere di tipo familiare, di tipo economico, di tipo femministico, vedi Lisistrata.

La capacità di Aristofane consisteva nell’analizzare le varie fasi delle crisi che traduceva in situazioni, a volte, farsesche, a volte, grottesche, anche perché, alla fine, il suo interesse principale era quello di appagare il pubblico, grazie anche all’uso di una particolare brillantezza che inseriva nel suo modo di intendere la comicità che affrontava problemi reali, col ricorso alla pura teatralità e ai suoi stilemi.

In Aristofane non ci sono «caratteri», ma «tipi», per i caratteri bisogna attendere Menandro, anche l’uso dei servi è ben meditato e perfezionato, tanto da diventare modello per autori come Goldoni, benché non assumessero ruoli di primo piano e non fossero artefici veri di trame ben definite, insomma sono assenti i virtuosi dell’intrigo, come Arlecchino, servitore di due padroni, essendo, semplicemente, dei meccanismi che mettono in moto la macchina del «riso alla greca», più adatta ad essere ripresa dalla Commedia dell’Arte.

In genere, osserva Albini, i servi si limitavano a creare degli intrighi modesti, delle bricconerie fasulle, perché ciò che veramente interessava ad Aristofane era la vita quotidiana con la sua vivacità. Non è un caso, ricorda Albini, che Dionigi, tiranno di Siracusa, noto per il suo «Orecchio», fatto costruire nelle Latomie, attraverso il quale voleva conoscere i segreti dei detenuti, non soddisfatto perché voleva anche conoscere quanto accadesse nella sua città, si rivolse a Platone per come fare e il filosofo, come risposta, gli inviò, come modello da seguire, le Opere di Aristofane, dove poteva trovare di tutto.

Un tema che affascina Aristofane e gli autori comici, in genere, è quello del sesso e delle sue turbolenze, basti ricordare la già citata Lisistrata, sia per il linguaggio sboccato che per la volontà di inseguire la risata grassa. L’occhio irriverente del commediografo non trascura nulla, vedi anche gli «Acarnesi», con i due invertiti ateniesi travestiti da eunuchi persiani, con processioni falloforiche, con espressioni «proibite», con l’uso di vocaboli grossolani, il tutto per creare una facile intesa tra scena e platea. Altre forme di comicità le individuava nel ricorso alla «fame», basti pensare all’uso che ne farà Arlecchino nel famoso spettacolo di Strehler, ai banchetti che si trasformavano in azioni ad alto tasso di comicità.

Anche gli intellettuali e filosofi diventavano oggetto del riso alla greca, vedi Le Nuvole, dove assistiamo alla caricatura grottesca di Socrate e dove era presa di mira l’arroganza intellettuale e i danni di certa educazione. E vedi ancora in che modo tragediografi come Eschilo ed Euripide vengano parodiati nelle Rane, il tutto per creare situazioni esilaranti che rendevano le azioni spettacolari, alquanto audaci, persino nella ferocia con cui Aristofane utilizzava la comicità, di cui fu il primo, vero Maestro.

Dioniso 1
20 Giugno 2022

Una lettura che arricchisce la cultura del teatro antico

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Tra il 1990 e il 2005, l’Editore Garzanti pubblicò una serie di volumi di Umberto Albini che determinarono una svolta nell’ambito della ricerca filologica, dato che l’interesse dello studioso non si limitò allo studio dei testi o della lingua o della società greca, essendosi indirizzato verso il mondo misterioso delle realizzazioni sceniche che erano frutto di una costruzione collettiva, di cui facevano parte non solo gli attori, allora non sempre professionisti, ma anche scenografi, musicisti, tecnici, organizzatori, e il Corego che, essendo un cittadino facoltoso, finanziava il coro, senza dimenticare l’Arconte, il vero responsabile degli spettacoli, che aveva il compito di ricercare finanziamenti presso i cittadini più ricchi, gli sponsor di allora.

Pur essendo stato un filologo classico, Albini era amico di teatranti come Aldo Trionfo, Lele Luzzati, Franco Parenti e Andrée Shammah, nel cui teatro tenne dei seminari sull’Orestea, inoltre era stato Sovrintendente dell’INDA dal 1995 al 1998. Insomma, aveva ben capito che anche la ricerca filologica avesse bisogno delle conoscenze pratiche, indispensabili per fare teatro o per tradurre dal greco.

L’Editore Cue Press ha appena pubblicato Nel nome di Dioniso. Vita teatrale nell’Atene classica, un volume diviso in due parti, la prima riguarda l’Attore, il Coro, le Maschere, i Costumi, il Pubblico, le Macchine sceniche, la seconda affronta i testi di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane e Menandro.

Per quanto riguarda l’Attore, Albini si intrattiene sul «tritagonista», una specie di promiscuo che, però, non risultava sempre adatto alle parti, tanto che non gli venivano risparmiate delle critiche, anche eccessive. Per fare un esempio, Demostene, in una delle sue Orazioni, a proposito di Eschine, diceva che si trattasse di un «attorucolo», inoltre riferisce delle reazioni del pubblico, durante la rappresentazione di Antigone, dove faceva talmente male la parte di Tiresia, che non solo lo fischiò, ma volle «cacciarlo via». Un motivo in più, per Albini, per analizzare il problema dei ruoli e, quindi, della vocalità, della tonalità, delle superflue leziosaggini, senza dimenticare le gelosie tra gli attori, come quella di Minnisco, molto caro a Eschilo, che insultava Callipide, chiamandolo «scimmia».

Sia ben chiaro che anche i pettegolezzi, per Albini, facevano parte degli spettacoli, le sue analisi sono sempre comprovate dai testi a cui fa riferimento, nulla è affidato al caso. Tutte le sue ricostruzioni, sia degli attori che del coro, di cui analizza i movimenti, la sincronia dei gesti, lo dimostrano, con rimandi precisi a tragedie e commedie, metodologia che utilizza quando riferisce sull’uso delle maschere, «elementi immobili», da distinguere dalla voce, «elemento mobile», benché le maschere creassero: «un’atmosfera alta», per la tragedia, e una bassa per la commedia.

Certamente il capitolo più interessante è quello che riguarda le macchine teatrali e l’attrezzeria, a dimostrazione di come il teatro greco, pur essendo povero di scenografie, utilizzasse dei marchingegni che rendevano dinamica l’azione teatrale, a cominciare dell’«enciclema» che, col suo movimento, essendo una specie di girevole o di carrello, faceva vedere ciò che avveniva all’interno di una reggia o di una abitazione. Come oggi il teatro va in cerca di effetti spettacolari, vedi l’Orestea di Livermore, anche, alle sue origini, il teatro classico non disdegnava le apparizioni degli dei, grazie a delle macchine, specie di gru, che li posizionavano in alto, e sembra che, per l’occasione, avessero inventato dei cavalli alati. Molto usato era il «theologeion», una specie di pedana rialzata che veniva utilizzata per l’arrivo degli eroi.

A dire il vero, Aristotele, nella Poetica, sosteneva di non amare le invenzioni artificiose a cui si ricorre quando non si hanno idee critiche, necessarie per una analisi profonda dei testi. Egli, infatti, sosteneva che il vero dramma non avesse bisogno né di scenografie, né di congegni tecnici, come ha dimostrato Carsen nel suo Edipo, tutto costruito sul potere della parola.

Per quanto riguarda le attrezzerie, sulla scena antica, abbondavano i bauli, le statue, funzionali alla vicenda rappresentata ed ancora simulacri, archi, grandi scudi, ghirlande, ricche bigiotterie, collane, cinture dorate e, in particolare, oggetti sacri per agganciare il presente col mistero religioso.

Nella seconda parte, Albini si intrattiene sui testi degli autori citati, ne ricorda le origini, generalmente legate al patrimonio mitico e leggendario, con tutte le sue varianti e con i significati «secondi», con i loro riscontri etici, così come ricorda che, a base delle loro storie, ci fossero le due saghe principali, quella degli Atridi e quella dei Labdacidi, senza dimenticare le diverse avventure che coinvolgevano personaggi come Eracle, Aiace o Filottete. Insomma, una lettura che arricchisce le conoscenze di chi ama il Teatro Antico.