Logbook
Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.
Vittorio Gassman attore multimediale
Pubblicato in occasione del centenario della nascita di Vittorio Gassman, il libro essenziale e dettagliato di Arianna Frattali pennella un ritratto del grande Mattatore con colori assai poco enfatici e celebrativi; illuminano, invece, con rigore scientifico e analitico la personalità di attore multimediale quale «ultimo erede della tradizione mattatoriale ottocentesca», come solitamente Gassman viene considerato, ma anche e soprattutto «attivo nel definire un nuovo ruolo di teatro nella società a lui contemporanea», evidente nel suo precoce e vivo interesse per la regia critica e sperimentale, unitamente all’attenzione per i nuovi media.
Seguendo un’impostazione cronologica, che compre un arco temporale dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, la ricerca di Frattali si concentra soprattutto su alcuni passaggi decisivi della carriera artistica del sempre pensieroso e dubbioso Gassman.
Gli inizi negli anni Quaranta sono vissuti nel solco della tradizione e registrano partecipazioni a spettacoli al fianco di attrici esperte e di grido quali Laura Adani, Alda Borelli, Elsa Merlini; poi arriva la prima scossa provocata da Luchino Visconti, «l’esperienza più importante» la definisce lo stesso Gassman, perché lo pone a contatto con una visione di teatro basata sull’interpretazione «storica» dei testi con elementi onirici finalizzata al superamento della tradizionale centralità dell’attore.
L’attività artistica con Visconti – tra cui il celebre Oreste di Alfieri e Un tram chiamato desiderio di Williams – avvicina l’eclettico Gassman all’idea di regia moderna tanto che, in parallelo all’avventura con la Compagnia del Teatro Nazionale diretta da Guido Salvini con la quale si distingue in Baccanti e Persiani al Teatro Greco di Siracusa, firma le sue prime regie con Amleto e Peer Gynt, da lui stesso interpretati.
Siamo nel 1950. Cinque anni dopo nasce la compagnia Vittorio Gassman, preludio al varo dell’ambizioso e complicato progetto del Teatro Popolare Italiano o Teatro-Circo (1958-62), il cui modello è la politica culturale del milanese Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, con il quale l’attore-regista aveva stabilito proficui contatti e collaborazioni. Il tormentato debutto avviene a Roma con la manzoniana Adelchi e l’obiettivo dichiarato è «fare dello spettacolo dal vivo uno strumento di riqualificazione sociale, popolare, ma organizzato per raggiungere e coinvolgere un grande numero di spettatori», sottolinea Frattali, che poi analizza il repertorio concentrandosi anche su Oreste e la pirandelliana Questa sera si recita a soggetto.
Si apre la parentesi cinematografica, impreziosita dai successi ottenuti con Il sorpasso nel 1962, I mostri e L’armata Brancaleone (1966). Di riflesso Gassman cambia registro: da attore tragico e drammatico diventa comico, e tale si presenta anche in televisione con il programma Il Mattatore. Gassman ritorna a teatro nel 1968 con lo shakespeariano Riccardo III, diretto da Luca Ronconi. Lo spettacolo lascia un altro segno indelebile: eliminate tirate individuali e pezzi di bravura, Vittorio è protagonista – evidenzia Frattali – di «una nuova coralità che vede l’attore come parte integrante e perfettamente integrata di una macchina scenica progettata sin nei minimi dettagli in tutte le sue componenti». Si tratta del definitivo declino della recitazione mattatoriale che, in un certo senso, destabilizza l’attore tanto che si concede una nuova lunga pausa «di ripensamento, un momento di crisi», durante la quale si occupa principalmente di cinema e televisione (Il Musichiere, Galà, Canzonissima di cui è ospite fisso).
Il libro di Frattali, agile e essenziale, si conclude con un capitolo dal titolo emblematico, L’eredità fra cinema e schermo: Vittorio vs Alessandro, che si apre con la considerazione del film autobiografico Di padre in figlio (1982), il cui tema di fondo è il rapporto fra padre, figli e nipoti. Vi recitano, infatti, anche gli altri due figli di Vittorio, Paola e Jacopo. La collaborazione artistica con Alessandro produce nel 1985 un secondo e significativo spettacolo, Affabulazione di Pasolini: si tratta della parafrasi di un rapporto drammatico, uno scontro generazionale, sottintendendo una sorta di passaggio di consegne tra padre e figlio Alessandro che, non a caso, si materializza nel 2014, quando il primo erede debutta come attore-regista con il Riccardo III, fiore all’occhiello del capostipite Vittorio.
Collegamenti
All you need is… Pirandello
Pirandello Luigi, lettore della realtà dove non c’è posto per l’ideologia e nemmeno per la poesia ma soltanto l’istintivo inoltrarsi nell’epicità quasi magica, paradossale, dove l’intuizione si sfrangia nella parola riscattata da ogni aridità. Per ridurre ogni possibilità di arbitraria interpretazione.
Pirandello Stefano, sulle orme del padre brucia rapidamente le tappe della violenta, irreversibile trasformazione culturale per divenire il testimone più acuto e sofferto di un malessere privato in cui non è difficile intravedere in filigrana il dimidiato rapporto con il padre. All’apice dello strazio, la scrittura dolente si sostituisce definitivamente all’immagine e la narrazione diviene l’ultima provocazione nel tentativo di un impossibile riscatto. Non in questi termini, non così.
Scrittore raffinato e appartato, afflitto dalle ferite emotive nate dall’irrisolto rapporto con la figura paterna, Stefano Pirandello attraversa gli eventi più tormentati del Novecento finendo per portarli nel suo antro, fatto dal riconoscimento della centralità della figura paterna e dall’impossibile scambio di ruoli, come da sempre avviene con il procedere degli anni, che tutto mettono in discussione e capovolgono.
Un padre ci vuole, commedia in tre atti a firma di Stefano Pirandello, gode delle significative parole interpretative dello stesso Stefano, che, rivolgendosi a Silvio D’Amico in occasione del primo rifacimento dell’opera (1955), così afferma a proposito del lavoro giovanile: «…non soltanto l’ho riscritto. L’ho proprio rifatto. Approfondendo il tema, liberandolo nella sostanza e nella forma…»
Di questo scritto per il teatro, accanto all’edizione in italiano curata da Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, abbiamo la versione in inglese All you need is a father, per la traduzione di Enza De Francisci e Susan Bassnett. Operazione di traduzione che si colloca nel più ampio progetto di portare i nostri autori migliori nel mondo, per promuovere la nostra cultura fatta di icone che resistono all’urto del tempo, delle mode, delle correnti. E se Stefano «molto deve, e non poteva essere altrimenti, al magistero paterno», come osservano i due studiosi siciliani Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla nelle pagine introduttive al testo, la sua intera produzione drammaturgica appare segnata oltre che dalla guerra anche dalla «famiglia amorosa e crudele, di cui è stato analista acuto».
La commedia è apparsa nella traduzione in più lingue: francese, greco, bulgaro, serbo, arabo, spagnolo. Quella in inglese, di cui si parla, firmata dalle due studiose De Francisci e Bassnett, ha ottenuto il Premio del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale per la migliore traduzione di un’opera italiana in lingua straniera. Enza De Francisci, lecturer all’Università di Glasgow e consulente linguistica al National Theatre a Londra, e Susan Bassnett hanno di fatto messo in campo una traduzione teatrale qualificabile come attività collaborativa tra il testo e chi lo traduce sulla scena. Perché numerosi e tutti corposi i nodi che i traduttori si trovano a risolvere, innanzitutto l’attualizzazione della lingua e poi lo stabilire un registro stilistico per ogni personaggio. Sulla traccia di questi imprescindibili principi, l’incanto tematico e l’equilibrio della traduzione, che deve custodire un pensiero oltre la tirannia del tempo, il vigore appassionato della parola vengono incontro al lettore con un’operazione culturale di compiuta analisi. Non c’è, davvero, molto altro da dire e chiosare.
Bob Wilson. La magia del teatro totale
Dice di considerarsi «soltanto un artista», rifiutando tutti gli sforzi di etichettature e di distinzione tra regista, pittore, scenografo. Bob Wilson, nell’intervista che apre il libro di Gigi Giacobbe, ribadisce che «il teatro è la somma di tutte le arti». Era il 1994 quando il grande regista texano portava al teatro Vittorio Emanuele di Messina, con la sua Alice, che s’era sforzato di vedere «con gli occhi di Lewis Carroll».
Al teatro visionario di Bob Wilson in Italia è dedicato il volume del critico teatrale messinese (edito da Cue Press), che mette assieme le suggestioni degli spettacoli-cardine del regista inseguiti lungo il Paese, da Spoleto alla Sicilia: diverse, infatti, sono state le incursioni di Wilson nell’isola, da T.S.E., la sua indimenticabile versione della Terra desolata di Eliot alle Orestiadi di Gibellina, da Persefone a Taormina per il Premio Europa a La donna del mare di Ibsen al teatro Biondo di Palermo per il Festival sul Novecento del 1999, fino a Ortigia, 2003, con La tentazione di sant’Antonio.
Il libro non ha una struttura saggistica ma mette assieme stralci pubblicati dall’autore, un’antologia di pensieri di Wilson sulla sua idea di teatro e dintorni, un’introduzione di Dario Tomasello e una postfazione di Roberto Andò, ovvero il regista che, da direttore artistico delle Orestiadi, del Festival sul Novecento e infine dell’Ortigia Festival, ha legato il nome del regista americano ai momenti più fecondi della cultura in Sicilia e che ha realizzato un documentario partendo dall’installazione di Wilson alla Biennale di Venezia, Memory loss. Andò cita una frase di Wilson sul suo lavoro, riportata nel florilegio di opinioni sparse: «Per me l’interpretazione non spetta al regista, all’autore o all’interprete, ma al pubblico. Mi piace semplicemente considerare il mio teatro come il lavoro di un artista. Ho lo stesso interesse per il movimento, la parola, la luce, il suono, le immagini. Sono convinto che il teatro sia il luogo dove possono incontrarsi tutte le differenti forme dell’arte». Un autentico manifesto del suo teatro totale, quello che ha sedotto e diviso, da Einstein on the beach in poi.
Dai grandi ai piccoli Festival. Qual è la loro vera funzione?
Siamo reduci dal Festival di Santarcangelo, quest’anno sotto la direzione del polacco Tomasz Kirenczuk, che, tra rito e documento, ha cercato di dare una svolta a un Festival che, per anni, era stato punto di riferimento anche per i critici dei grandi quotidiani che ormai da tempo lo disertano, come disertano altri Festival un tempo importanti.
Ci sarà un motivo? Si fa presto a dire che i Festival risentano la stessa crisi dei teatri istituzionalizzati, ai quali, spesso, si affidano, per non scomparire del tutto. In verità, si tratta di una crisi di identità e, di conseguenza, di progettazione; ma si tratta, anche, di una crisi di creatività, la stessa che, da sempre, ha caratterizzato l’avventura di un Festival. L’argomento fu trattato in un Seminario svoltosi, nel 2018, al Teatro Metastasio di Prato, del quale, con molto ritardo, sono stati ora pubblicati da Cue Press gli Atti, col titolo La funzione culturale del Festival, a cura di Edoardo Donatini e Gerardo Guccini. Moltissimi erano stati gli ospiti, da Andrea Nanni a Velia Papi, da Luca Ricci a Maddalena Giovannelli, Graziano Graziani, Roberta Ferraresi, da Fabio Masi a Fabio Acca, da Massimo Marino a Barbara Regondi, tutti disposti, come si vede anche dall’iconografia presente nel volume in senso circolare, come se partecipassero a un’Agorà, tutti attenti a raccontare le proprie esperienze, le proprie visioni, impegnandosi a dare una diversa lettura di cosa debba intendersi, oggi, per Festival, senza limitarsi a semplici definizioni lessicali.
Le domande, a cui hanno cercato di dare delle risposte vertevano sul senso di un Festival nel terzo millennio inoltrato, sul rapporto col pubblico, sia delle comunità locali sia di quello che viene da lontano, sui concetti di multidisciplinareità, di transdisciplinarietà, di trasversalità, ormai alquanto logori, sulla loro utilità per una nuova generazione di artisti, sulla crisi attuale, dovuta a fattori diversi: assenza di provocatorietà e di controcultura, dato che tutto si limita, ormai, a una programmazione raccogliticcia, con i soliti amici; sull’assenza di quella volontà di ricerca che, nel passato, li aveva caratterizzati, tanto che la domanda spontanea che ne consegue è: che ruolo culturale possono avere ancora i Festival e in che modo possa essere giustificata la loro presenza. Se la ricerca, si fa per dire, tende a una particolare forma di istituzionalizzazione, questa finirà per rinunziare alla sua carica eversiva e a quel senso di rivolta che dovrebbe caratterizzare i piccoli Festival per distinguerli dai grandi, come quello del Teatro Greco di Siracusa, di Spoleto, di Roma Europa Festival, di Napoli, che possono usufruire di ingenti sovvenzioni intorno ai venti milioni di euro, messi a disposizione dallo Stato e dalle Regioni. Insomma, i piccoli non dovrebbero guardare i grandi e scimmiottarli; debbono rimanere degli avamposti, con una ferrea vocazione alternativa, debbono diversificarsi ed esprimere una loro eccezionalità e necessità, debbono liberarsi dagli ostacoli prodotti da interessi politici, dagli assessori o sindaci che ritengano anche un piccolo Festival un’occasione turistica. Quella, per esempio, richiesta a Scena Verticale, unica realtà calabra, che ha sempre costruito un Festival dove era possibile incontrare ancora critici dei grandi quotidiani. I piccoli non hanno i numeri dei grandi Festival, non hanno margini economici per incrementare il turismo. Allora, come fare per evitare la trasformazione di un luogo adibito a Festival dal diventare un ghetto?
Dal momento in cui non hanno mercato, non hanno consumi, non percepiscono profitti, in che modo possono sottoporsi al concetto di mercificazione indicato dagli assessori di turno? Eppure una volta i Festival erano degli osservatori importanti, si caratterizzavano per una loro sostenibilità culturale e sociale, persino per aver dato un senso al concetto di festa, laico o religioso che sia — vedi la parabola discendente del Festival di San Miniato — anche perché, nello svilimento nazionale, persino il concetto di festa si è immiserito.
Bernard-Marie Koltès, Lettere
«Ho scoperto il dramma della mia vita: sono scisso tra il sogno di una vita comoda – con una biblioteca, una trapunta, un quartetto d’archi, la vista sul paesaggio – e violente visioni metaforiche, come una scala maya che sale vertiginosamente, sotto una luna piena».
Questo estratto epistolare di Bernard-Marie Koltès, datato 1878 e scritto da Città di Guatemala, è ora pubblicato nel prezioso e importante volume Lettere, a cura di Stefano Casi, che ne contiene cinquecentotrenta, spedite a genitori (soprattutto alla cara madre), parenti, amici e (poche) alle istituzioni, in un arco temporale compreso tra il 1955 e il 1989.
In una lettera del 1970 a Maria Casarès, prestigiosa attrice francese, scriveva: «alla vigilia di una vita che voglio consacrare al teatro, è necessario commettere un atto ambizioso, spontaneo, anarchico forse, libero dagli imperativi esterni della vita professionale, poetico insomma». È l’inizio della luminosa carriera del giovane drammaturgo che, esaurita l’esperienza con la compagnia Théâtre du Quai da lui stesso fondata, compone una serie di commedie destinate a dargli respiro internazionale, tra le quali La notte poco prima della foresta, interpretata da Yves Ferry al Festival Off di Avignone nel 1977 e poi proposta al Festival di Edimburgo (1981), Sallinger, tratto dai racconti di J. D. Salinger (1977), Lotta di negro contro cani (1978), Nella solitudine dei campi di cotone, (1985) che sarà diretto da Patrice Chéreau, fino all’ultimo Roberto Zucco, pièce liberamente ispirata al serial killer italiano Roberto Succo.
Di queste commedie antinaturalistiche e antipsicologiche, caratterizzate da dialoghi animati da personaggi antieroici, nelle lettere, tradotte con maestria da Giorgia Cerruti, si parla poco. Dominano invece i tanti viaggi di Koltès, bohémien maledetto, frenetico e smanioso, omosessuale, colpito dall’AIDS a soli 41 anni, soprattutto sostenitore di una vita «violenta» di pasoliniana memoria («non desidero che una cosa: di correre dei rischi»). Le lettere, di carattere informativo e narrativo, colpiscono per la delicatezza, l’umorismo, la sincerità, l’autoironia e il pudore.
Come nella scrittura drammaturgica, nelle missive abbondano luoghi e ambienti, a partire da Metz, dove Koltès nacque nel 1948, e da Strasburgo, frequentata da giovane, per continuare con la controversa Parigi, vissuta con amore e diffidenza, fino al paesello di Pralognan, in Savoia, dove i Koltès possedevano uno chalet. E poi ci sono i viaggi oltre confine – con lo zaino in spalla, pochi soldi e sistemazioni precarie – che portano, nel 1968, Bernard-Marie in Canada, a Washington e a New York («è davvero come nessun’altra città al mondo») e a Mosca, dove vive «un connubio di silenzio terribilmente pesante, rumori, agitazione, voci agli autoparlanti, che danno una sensazione continua di allerta e di guerra».
Nel 1978 compie un viaggio in Nigeria ed entra in contato con i cantieri di una multinazionale. L’esperienza è destinata a lasciare un segno indelebile: matura una sorta di razzismo «alla rovescia», che diventa avversione dichiarata al «bianco» in quanto reo di cieco sfruttamento del «negro», avvalorando, in questo modo, anche l’ideologia anticapitalistica sviluppata come militante del Partito Comunista. Splendide risultano anche le lettere inviate dall’America Latina, visitata sempre nel 1978, con soste nella solare Città del Messico e a Nicaragua, «una città in stato di guerra un po’ terrificante, molto cara e devastata».
Il penultimo viaggio è datato 1985, in Brasile: dalla spiaggia di San Paolo, «dove stanno tutti i miliardari del continente», annota «l’impossibilità di mettermi in costume dea bagno, di nuotare e di sdraiarmi sulla sabbia, e con piuttosto la voglia di rinchiudermi in una sala d’albergo e non vedere più niente». L’ultima trasferta è a Barcellona, nel marzo 1989. Scrive ai fratelli: «In God we trust. Do we?».
Collegamenti
Bob Wilson in Italia, Giacobbe e la costruzione di una memoria che manca
Quale funzione può avere il ritratto di un regista teatrale texano ottantantunenne che ha lavorato per molti anni in Italia? È questa la domanda che ha posto il giornalista Franco Cicero nell’introdurre il critico teatrale Gigi Giacobbe alla presentazione della sua ultima fatica, Bob Wilson in Italia, edito dalla Cue Press, sabato scorso nello spazio della strada S. Giacomo, ospiti nel dehor della Cucchiara. La risposta è meno ovvia di quanto si possa pensare, se, come ricordava lo stesso Cicero, ci si scandalizza per un rapper milanese, Fedez, che ignora Strehler. Semmai la domanda dovrebbe essere, più semplicemente, cosa si è fatto perché Fedez conoscesse Strehler? Ecco allora che il lavoro di Gigi Giacobbe, un excursus trentennale attraverso le produzioni di Bob Wilson in Italia, seguite pedissequamente e coronate da riflessioni, articoli e interviste, trova una sua collocazione importantissima nella costruzione di una memoria che ai nostri giovani manca. Perché Wilson, come Strehler, non si studia a scuola.
Il ruolo, dunque, di Bob Wilson in Italia è quello di riempire un vacuum nella storia teatrale e culturale, perché finora in Italia ci si era occupati poco del grande regista, o perlomeno c’è stato un interesse di nicchia. Ma l’intento assume anche una forte connotazione comunicativa grazie a Gigi Giacobbe, che non si è mai risparmiato nella divulgazione culturale a tutto tondo, e in particolare in quella teatrale, nel corso della sua esperienza di critico teatrale. Il dialogo con Wilson, sempre mediato dagli interpreti occasionali, dando luogo a una serie di aneddoti gustosamente raccontati da Giacobbe, sembra quasi intimo e soprattutto si allarga sempre su un orizzonte che da intimista diventa universale, toccando la sfera privata (le preferenze e i gusti del regista, le sue esperienze, i suoi pensieri) per arrivare alla sua idea di teatro, alla sua visone dell’arte, alle commistioni fra i generi teatrali.
Tutto quel che Giacobbe racconta, vive attraverso le righe scritte, forte di immagini, suoni e colori raccontati da Wilson, vissuti da Giacobbe critico ma, soprattutto, spettatore. E, d’altra parte, dell’importanza di vivere il palcoscenico, sopra, dietro e non solo davanti per poter capire appieno il teatro, è convinto anche il prof. Dario Tomasello, intervenuto alla presentazione e promotore della pubblicazione proprio perché consapevole della peculiarità dello scritto e della rilevanza del contenuto. Per Tomasello il teatro è presenza, molto più di quanto possano prevedere altre forme d’arte come il cinema, la letteratura, la musica; e da docente ai suoi universitari consiglia sempre di partecipare attivamente (e quindi non solo da spettatori passivi) alla messa in scena di uno spettacolo. Il teatro, per dirla con Wilson, è il compendio di tutte le arti. A teatro coesistono arte, architettura, musica, letteratura e nell’ultimo secolo anche fotografia e cinema. Non stupisce dunque che il militante Giacobbe riesca a catturare preziose informazioni dal regista non prima o dopo, ma durante la messa in scena, spesso nell’intervallo. Quasi ad avvalorare la necessità di un discorso in itinere che è dentro la messa in scena. Anche la presentazione del libro, affatto noiosa, è stata intervallata dalla lettura di alcune pagine da parte dell’attore Gianfranco Quero, perché la discussione – come in una mise-en-scène – s’intrecciasse ancor di più col teatro.
Collegamenti
È nei Quaderni di regia l’origine del suo stile unico
C’erano, una volta, le «Note di regia», che generalmente accompagnavano i «Quaderni di Sala» di uno spettacolo e che cercavano di spiegare quanto accadesse sul palcoscenico, ben diversi dai «Quaderni di regia» che riguardano il lavoro sul testo, con tutti i possibili ripensamenti, riscritture, cancellazioni e revisioni da parte degli autori. In questi casi, per dare ordine a quella che dovrebbe essere l’edizione princeps, occorre un lavoro specifico che appartiene solo al filologo, il cui compito consiste nel restituire il modello originario.
L’editore Cue Press ha appena pubblicato, in due volumi separati, curati di Luca Scarlini, i Quaderni di regia di Aspettando Godot e Finale di partita, con tutte le correzioni fatte da Samuel Beckett, in gran parte autografe, a dimostrazione di come la storia di un testo teatrale non sia altro che la storia delle sue interpretazioni, non solo critiche, ma anche testuali. Tanto che quella che potrebbe sembrare l’ultima stesura è, in fondo, una versione diversa dalla precedente. Grazie a queste pubblicazioni, i giovani registi che intendano portare in scena i due capolavori, potranno usufruire di un vero e proprio laboratorio, fatto di molteplici varianti, di approfondimenti, di nuove versioni delle battute, di tagli, di piccole modifiche e persino di annotazioni sui movimenti, sulle luci, sulle didascalie, per pervenire a quella che dovrebbe essere la fase finale del processo creativo.
Beckett aveva capito – come a suo tempo aveva capito Luigi Pirandello – che allestire un testo è diverso che scriverlo, perché, oltre che alla parola, bisogna stare attenti ai movimenti, al passaggio da una scena all’altra, a evidenziare il contrasto tra parole e gesti, a creare simmetrie e opposizioni, tutti elementi che appartengono al linguaggio della scena.
A guardare i testi, così come ci vengono proposti, con le edizioni critiche di James Knowlson e Dougald McMillan, per quanto riguarda Aspettando Godot, e di Stanley E. Gontarski per quanto riguarda Finale di partita, appaiono evidenti le scelte registiche di Beckett, che alternano l’elemento clownesco con quello filosofico, la comicità umoristica con la tragicità che sta dietro di essa. Attraverso il filtro della regia, Beckett era riuscito a dare nuova vita ai suoi testi, tanto che il pubblico di Berlino, dove erano andati in scena nel 1975, allo Schiller Theater, rimase impressionato dalla profondità della messinscena, avendo assistito a una regia intesa non certo in senso tradizionale. Negli anni Ottanta, su richiesta del San Quentin Drama Workshop, Beckett curò una nuova regia, con altre annotazioni, presenti nei due volumi: i milanesi poterono vedere lo spettacolo, nel 1984, al Teatro Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, e partecipare, numerosissimi, a un rito insolito, perché si respirava una grande emozione.
Finale di Partita, il testo più filosofico, fu maggiormente suscettibile di cambiamenti, di ripensamenti, data l’universalità dei temi trattati, come il dolore, la solitudine, l’emarginazione, la cecità come metafora, il rapporto tra finito e infinito, tra vita e morte, a dimostrazione di come ogni messinscena risenta delle tante circostanze variabili che rendono sempre differente l’interpretazione di un testo.
Wipes dream away with hand
In our many conversations over the years, Samuel Beckett was always reluctant to discuss the meaning and philosophy behind his work, preferring to stand on the principle of no exegesis where none intended. When pressed, he would talk about the genesis of individual plays and about production and performance. As it turns out, production and performance were central to his concept of his art. Years after he began writing plays, he became an active participant in the theatrical process and a consummate director of his own work. What began as an act of utmost privacy reached into the rehearsal room, where the author, watching actors play his roles, would distill and clarify his plays.
While directing his plays in Germany and England, Beckett kept production notebooks, which are being published in facsimile form together with his final revised texts of the plays. The first volumes of The Theatrical Notebooks of Samuel Beckett deal with Endgame and Krapp’s Last Tape. The notebook on Waiting for Godot, though labeled Volume One, is scheduled to be published in England this spring, and a book on the shorter plays will follow. Beckett himself was actively involved in the project, in the case of Endgame and Krapp’s Last Tape going over the text line by line with the editors. With the publication of the notebooks, we now have a more authoritative view of both the art and the artist.
S. E. Gontarski, the editor of the Endgame notebook, says, «Beckett discovered that theater allowed him to paint (or sculpt), that is, to work directly with form». As is abundantly clear from these volumes, Beckett’s art underwent a continuing evolutionary process. Just as museum conservators use infrared instruments to study paintings and to reveal underlying aspects of an artist’s creative process, James Knowlson — who is the general editor of the series as well as the editor of the Krapp’s Last Tape volume — and Mr. Gontarski use their infrared scholarship to uncover the pentimento behind the plays.
The editors, both of whom are Beckett scholars, decipher Beckett’s handwriting (in English, French and German) and even read beneath his erasures. The texts are densely documented and footnoted, an approach that could have led to a dissection of minutiae. Instead, it leads to illumination.
Although directors have published production logbooks, it is rare that a playwright provides such material. Beckett’s notebooks bring us closer to the author’s mind and, tangentially, to his life. We can see his careful, deliberative method and his serious concern for structure. Those who think of him solely as an intuitive artist will be surprised at the meticulous quality of his writing, self-editing and rewriting. At the same time, it is evident that he was neither dogmatic nor didactic. As Mr. Knowlson says in a prefatory note, «The material reveals a flexibility and an openness of approach that is often considered alien to Beckett’s ways of working in the theater.» Appropriately, the editor views the plays as a «living organism», not as works cast in stone.
Although Beckett wanted to protect his work from deconstructionists, he allowed for a certain amount of directorial (and actorial) interpretation, his own as well as that of others. The journals offer Beckett in purest form, with an added aspect of mystery, of literary sleuthing, as the editors lead us into the intricacies of the author’s choices. We might be sitting next to Beckett as he explores and learns about his work.
Some of the material in these volumes has been previously available in books like Beckett in the Theater, by Dougald McMillan and Martha Fehsenfeld, and Mr. Knowlson’s Theater Workbook on Krapp’s Last Tape. The current publication brings together a wealth of information in a finely detailed and highly readable format. These notebooks add to the expanding Beckett library, which now also includes the early, previously unpublished novel Dream of Fair to Middling Women. That book, published late last year in Dublin, is scheduled to be brought out here by Arcade Publishing in the spring.
So many of the alterations in the plays derive from Beckett’s impatience, his apparent urge to make the performance flow more swiftly and precisely. Dialogue is cut and actions are added. In the revised Endgame, Clov the servant is more physically active; Hamm the master yawns less. In his stage directions, Beckett specifies more clearly the moods and reactions of his characters while also stressing the significance of aural and visual imagery as well as of motifs. Both plays seem funnier, though less clownish. Hamm is no longer described as having a very red face, and Krapp does not have a purple nose or trousers that are too short. There is more attention to Krapp’s attachment to his tape recorder and less stage business with bananas. The title character does not sing Now the Day Is Over, because Beckett felt the singing was self-conscious. These changes are part of a larger scheme in which Beckett analyzes the intimations he has aroused and communicates them more evocatively to the audience. In all respects, he expands the dimensions of his theater.
Beckett said that the line «Nothing is funnier than unhappiness» was the most important sentence in Endgame. Reading the author’s notebook, one can see an increasing emphasis on the play as a comedy of pessimism, with the comedy contradicting the dourness of some productions by other directors. Similarly, in Krapp he pointed to the line «The earth might be uninhabited» as pivotal. That line denotes Krapp’s abject isolation, his «incarceration in self», as a man unable to escape his past and equally unable to comfort himself in the present. Krapp is, in Beckett’s words, a «dream-consumed man». Although most of Beckett’s changes were made for clarity, in at least one instance he was moved by discretion. In Endgame, Hamm originally said, «I feel a little queer». At the request of the actor Patrick Magee, Beckett changed «queer» to «strange».
The book on Krapp is particularly instructive, because the play is so brief, self-contained and autobiographical. It is also the play with which Beckett was most involved in production. A scant eight pages in the present edition, Krapp is parsed in the editor’s notes for every undercurrent. It is one of the few Beckett pieces inspired by an actor, in this case Magee. Drawn by his mellifluous voice, the author initially referred to the play as «Magee Monologue». Beckett was also drawn by his own curiosity about the tape recorder, realizing that he could use it as a mechanical equivalent of a photographic album, as a way to transport the character back to his past. That tape recorder could have proved to be a problem in performance; the actor playing the title role has to turn it on and off, forward and backward, exactly on cue. The machine, we are told, is generally operated by an offstage assistant and not by the actor onstage.
There is a triple-edged quality to the reflections as Krapp at the age of 69 listens to himself at 39 commenting on his even more youthful self. Two scenes are crucial to an understanding of Krapp. An epiphany is experienced by the character (as it was in life by Beckett) standing at night on the jetty at Dun Laoghaire and witnessing a life-transforming «memorable equinox». Listening to the tape conjuring that event, Krapp now has a «violent reaction». Equally important is the boating scene, in which the speaker recalls a single romantic interlude and bids «farewell to love». In the revised version, Krapp «wipes dream away with hand, broods, shudders». Throughout the revisions, made over a period of years, Beckett underlined the play’s three primary themes, «solitude, light-darkness and woman» – and in Endgame, depletion and deterioration. And in a curious personal note, for one production of Krapp Beckett brought in his own bedroom slippers for the actor to wear. He wanted him to have the proper shuffle.
In his notebooks, Beckett assiduously warns against stylization and sentimentality. As he said during a production of Endgame: «I would like as much laughter as possible in this play. It is a playful piece». An observer interpreted this as meaning «laughter of his characters, not the audience’s amusement», though, of course, one would lead to the other. Directors of Endgame and Krapp’s Last Tape would certainly benefit from using The Theatrical Notebooks as production guides. They are invaluable maps of Beckett country.
Collegamenti
Revisioni, pentimenti e correzioni. I Quaderni di Beckett. E le esperienze di Pirandello, Eduardo, Fo
Sulle pagine di questo giornale, ci siamo occupati dei Quaderni di regia di Beckett, a proposito di Aspettando Godot, un lavoro certosino, di profondo impegno filologico, il medesimo che contraddistingue la pubblicazione dei Quaderni di regia di Finale di partita, a cura di Luca Scarlini, edito da Cue Press. Si tratta del testo più filosofico di Beckett e, in quanto tale, del più suscettibile di cambiamenti, aggiunte, revisioni, cancellazioni, data anche l’universalità degli argomenti trattati, come il dolore, la solitudine, l’esclusione, la cecità metafisica, il rapporto con l’infinito e quello tra vita e morte.
Un fatto è certo, per chi volesse mettere in scena, in futuro, i due capolavori di Beckett, non potrebbe fare a meno di confrontarsi con questi Quaderni di regia, benché esistano delle versioni originali alle quali in parecchi hanno attinto precedentemente. Spetterà, pertanto, ai nuovi registi poter scegliere, consapevoli del fatto che ogni messinscena risenta delle circostanze variabili che rendono l’interpretazione di un testo sempre differente. Beckett ne divenne consapevole nel momento in cui decise di diventare regista di se stesso, quando, cioè, si accorse della assoluta autonomia dello spazio scenico rispetto a quello della scrittura.
Il volume è preceduto da una Nota al progetto editoriale di James Knowlson, da una prefazione di Stanley E. Gontarski che è anche autore dell’edizione critica, ottimamente curata da Luca Scarlini.
Cosa ci insegnano le edizioni critiche? Che il lavoro creativo non ha mai una sua stabilità, in particolare quello del teatro, sempre soggetto al parere del pubblico, ed è quindi in continua evoluzione. Se ne accorse Pirandello dopo i fischi alla Prima dei Sei personaggi (1921), su cui intervenne nell’edizione del 1925, se ne accorse Eduardo che, quando non sentiva ridere il pubblico, metteva subito mano al testo, per non parlare di Dario Fo che riscriveva le battute in perfetta sintonia con le reazioni del pubblico. Forse i suoi testi sono quelli che contengono più varianti, in questo è molto simile a Beckett, benché, in una lettera scrivesse: «Il teatro è più rilassante per me che vengo dalla narrativa», sembrano le stesse parole che Pirandello scrisse al figlio Stefano, dopo il debutto complicato del Berretto a sonagli, interpretato da Angelo Musco: «Finalmente posso ritornare alla narrativa», aveva, infatti, momentaneamente messo da parte: Uno, nessuno e centomila.
L’invito a Beckett di dirigere Finale di partita arrivò nel 1967, dallo Schiller Theater di Berlino, dieci anni dopo il debutto al Royal Court di Londra, con la regia di Roger Blin, con cui Beckett si era congratulato.
Gontarski, nella prefazione, riporta qualche lettera e ricostruisce lo stato d’animo dell’autore e del regista che ammette: «Quando l’ho scritta non sapevo nulla di teatro». Sembra che, nel momento in cui iniziò le prove di Finale di partita, Beckett avesse memorizzato tutto, comprese le didascalie e la punteggiatura, proprio per evitare qualsiasi interruzione durante le prove, diceva agli attori «Dobbiamo ridurre tutto ancora di più, deve diventare semplice, appena pochi piccoli movimenti, precisi», insomma, il parto risultava alquanto difficile.
C’è da dire che, al contrario di Aspettando Godot, Finale di partita non ebbe subito successo nelle edizioni precedenti, soltanto nel 1964 si registrano gli esauriti, in occasione della interpretazione di Patrick Magee (Hamm) e Jack MacGowran (Clov).
Nel 1980, su richiesta di Rick Cluchey, Beckett ne diresse un’altra versione, con delle revisioni abbastanza consistenti che i milanesi poterono vedere nella Stagione 1984-85 al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti dove, col San Quentin Drama Workshop, debuttarono sia Aspettando Godot che Finale di partita, con la regia di Beckett, in serate memorabili, dove si poté capire ciò che l’autore irlandese andava sempre ripetendo: «Il medium del dramma non è nelle parole, ma nelle persone che si muovono sul palcoscenico, usando le parole».
Collegamenti