Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Dostoevskij
12 Dicembre 2024

La vita di Dostoevskij

Giuseppe Costigliola, «Eurocomunicazione»

«L’incontro con uno scrittore è sempre una verifica del proprio sistema di vita»: apre così Fausto Malcovati la premessa al suo Un’idea di Dostoevskij (Cue Press, pp. 128), spigliata e conchiusa guida introduttiva alla biografia e alle opere del grande romanziere russo. Concetto fondamentale, valido non soltanto per chi, come lui, è apprezzato docente di lingua e letteratura russa, traduttore e critico teatrale, ma per tutti coloro che si approcciano all’arte narrativa con spirito critico, cuore e mente aperti, con la consapevolezza che una lettura può anche mutare il corso della propria vita.

Pericolo (o desiderio) ben concreto nel caso di Dostoevskij, considerati gli immortali capolavori che ci ha donato, che pongono quesiti fondamentali sul significato dell’esistenza, sulla umanità della nostra specie.

Un invito alla lettura

In uno stile piano e coinvolgente, con un linguaggio accessibile che evita tecnicismi eccessivi, il lucido uso di fonti primarie, in particolare le lettere, Malcovati conduce il lettore – neofita o avvertito che sia – in un percorso affascinante attraverso la vita e le opere dello scrittore russo, offrendoci una chiave per comprendere la complessità del corpus letterario di Dostoevskij. Si sofferma sui punti salienti della biografia, dall’adolescente ‘serio e pensoso’ alle drammatiche esperienze della detenzione e dei lavori forzati in Siberia, la viscerale passione per la politica, i complicati rapporti con l’editore Stellovskij, gli amori e i lutti familiari. L’esistenza tormentata è abilmente intrecciata all’analisi dei romanzi: emerge da queste pagine il legame indissolubile tra vita e letteratura, forse il ‘segreto’ della grande forza di autenticità dell’immortale arte dostoevskijana.

L’autore non si concentra sulla pura analisi testuale: questo è un invito alla lettura, uno stimolo a immergersi direttamente nei romanzi, a riflettere sulla complessità della natura umana e sulle ineludibili domande esistenziali. Maggiore attenzione è dedicata alle opere maggiori – Delitto e castigoL’idiotaI fratelli Karamazov – con spunti di riflessione sulla psicologia dei personaggi e sulle universali tematiche ivi affrontate. Ecco quindi scorrere sulle pagine i grandi temi dostoevskijani: il bene e il male, la fede e l’ateismo, la sofferenza e la redenzione, la libertà e il determinismo, l’amore e l’odio, la rivoluzione e l’organizzazione della società.

Scoprire la gioia

Non manca l’ultimo atto dell’attività letteraria di Dostoevskij: il discorso su Puškin, pronunciato in occasione dell’inaugurazione del monumento eretto per il leggendario personaggio, nel 1860; Dostoevskij vedeva in lui il grande interprete dell’anima russa, il paladino di una missione grandiosa: rappresentare l’universalità dell’anima russa, capace di realizzare il messaggio evangelico. Il volume si chiude con una sezione dedicata al dibattito critico, una cronologia della vita e delle opere e un’utile bibliografia di riferimento. Questo libro giunge in un momento delicato, segnato dal tragico conflitto in atto tra Russia e Ucraina. Il messaggio di pace e di concordia che si leva poderoso dalle pagine del grande scrittore russo, che seppe indagare con indomito coraggio i luoghi più bui dell’animo umano, assume dunque maggior forza, ci indica una nuova via. E, come ci indica l’autore, leggendo Dostoevskij potremmo imparare a scoprire la gioia, rarità quasi estinta nel Mondo odierno.

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Fellini set amarcord
5 Dicembre 2024

Cosa vuol dire fare il regista? Ce lo dice Fellini in un libro

Davide Dal Sasso, «Artribune»

Di tutta quella meravigliosa impresa che solitamente chiamiamo ‘fare arte’, ne sappiamo davvero poco. Va così perché dalle opere difficilmente possiamo risalire con agilità a quello che hanno fatto le artiste e gli artisti per crearle. Avere una idea dei processi e delle attività che determinano la realizzazione di dipinti o sculture, di pièce di teatro e danza o dei frutti della musica, non è facile. Le cose sono ancora più complicate quando abbiamo a che fare con il cinema, arte nella quale oltre alle immagini in movimento dobbiamo considerare anche regie e sceneggiature, abilità attoriali e strutture narrative, usi della macchina da presa e montaggio, costumi scene suoni e musiche. Dunque, come si procede? 

Il libro Il mestiere del regista con le parole di Federico Fellini 

Reagendo alla rassegnazione, la strada percorribile è tracciata dalle riflessioni delle artiste e degli artisti sui momenti di escogitazione e sviluppo del loro lavoro. Se possibile, dunque, la via è parlarne direttamente con loro. Sono infatti proprio le parole di Federico Fellini (Rimini, 1920 – Roma, 1993), in risposta alle domande ben poste da Cirio, a dare forma alle tre conversazioni che compongono il libro. La prima è dedicata alla figura dell’attore, la seconda a quelle dei produttori e del regista, la terza al mestiere di quest’ultimo. A contraddistinguerle sono sicuramente la schiettezza e la puntualità di uno dei più grandi registi del Novecento che con freschezza intona ricordi e fantasie muovendosi nel tempo tra esperienze teatrali e cinematografiche. Completa il libro l’intervista di Ottavio Cirio Zanetti a Nicola Piovani dedicata al lavoro con Fellini e al suo rapporto con la musica. 

Inquietudini e fosforescenze. Il cinema di Federico Fellini 

Il libro pubblicato da Cue Press ha il merito di offrire a lettrici e lettori quell’invito speciale ad avvicinarsi a Fellini senza girare troppo intorno ai temi che vengono brillantemente evocati da Cirio che guida con metodo le conversazioni. C’è sempre qualcosa di sorprendente nelle imprese di attrici e attori. Fellini descrive questa condizione ricordando come già da bambino avvertisse la forza della recitazione quasi fosse un fenomeno che potesse essere «contagioso» (p. 11), una esperienza basata su un misto di irrequietezza e sorpresa. Sentimenti non così elementari come potrebbero sembrare, specie se si pensa al modello di attore prediletto da Fellini, che non era né quello incarnato dai divi del cinema internazionale né quello dei cowboy. Piuttosto che l’eroe vittorioso il regista de La dolce vita apprezzava l’eroe positivo, «un eroe buffo, sfortunato a cui capitano le cose più catastrofiche» (p. 12). Ecco anche da dove traeva origine quel suo beffardo interesse per i pagliacci del circo, nonché – ampliando la prospettiva – direttamente per quest’ultimo più volte raffigurato nei suoi film.  

La recitazione secondo Federico Fellini 

Ora, se da una parte la questione della recitazione era influenzata da una inquietudine, descritta da Fellini che si rimette nei panni del (giovanissimo) osservatore quale era stato più volte; dall’altra, la medesima questione risentiva inevitabilmente di fascinazioni rese possibili da doti umane e più che umane proprie di attrici e attori. Recitare significa mostrarsi, affrontare il buio della sala o la vicinanza della macchina da presa, esporsi ai giudizi. Fellini, che ha spesso lavorato guidato dall’ingegno del disegnatore nella costruzione delle scene e dalla sua sensibilità rispetto alle vicende attoriali, era interessato a quella linea sottile tra realtà e finzione senza tuttavia perdere di vista anche la compresenza del ‘fattore umano’. Le attrici e gli attori, osservava, si portano addosso una sorta di aura, «una sorta di fosforescenza, che poi riesce a mantenersi anche nella vita, non solo sul palcoscenico» (p.15) e neppure solo sullo schermo. 

Fellini: attore, sceneggiatore e infine regista 

A questo punto si dirà che non sia del tutto chiaro che cosa c’entrino queste acute osservazioni con l’esercizio della professione di Fellini. Quello del regista è un mestiere che ha origine ben prima dell’uso della macchina da presa e della direzione di attrici e attori. Si radica e si sviluppa nelle pagine piene zeppe di note e appunti, in abbozzi di volti e scene, nei canovacci preliminari di qualche storia: soprattutto, nella fine osservazione delle attività umane. Fellini ne dava già prova con le sue esperienze da sceneggiatore e con le poche apparizioni come attore, rispetto alle quali si esprime nel libro con numerose osservazioni senza tralasciare di menzionare la sua naturale timidezza. 

Il Fellini regista. Le sfide al mestiere 

Come noto, spesso inaspettatamente, la ritrosia si rivela essere un’ottima risorsa proprio per affinare l’osservazione. Già, ma per fare cosa? Per esempio, per riuscire a ‘coltivare la propria immaginazione’ stando anche lontano dai riflettori. Il mestiere del regista trae origine anche da tali possibilità. Fellini, infatti, chiarisce a un certo punto: «nei miei film alcuni sono degli attori veri, dei professionisti, altri soltanto delle facce che mi seducono, che ho scelto perché rispondevano a quello che avevo immaginato» (p. 18). Nel libro aneddoti e riflessioni a proposito di attrici e attori sono numerose: da Anita Ekberg a Franco Fabrizi, da Totò e Donald Sutherland a Marcello Mastroianni e Anna Magnani. Ma a tornare sempre in primo piano sono due temi in particolare: le scelte del regista e la sfida tutta rivolta direttamente a quel suo mestiere. Infatti, se da una parte Fellini precisa il suo interesse a lavorare con attrici e attori in modo da «raccontarli al meglio, anche a loro insaputa qualche volta, o nonostante loro» (p. 32); dall’altra, egli ammette anche che «un attore può suggerirti continuamente delle soluzioni, magari anche in contraddizione con quello che avevi immaginato» (p. 37). Il mestiere, dunque, prende forma mentre lo si svolge.  

Il ruolo dello spettatore secondo Federico Fellini 

Lasciando affiorare nelle sue risposte reminiscenze ed esperienze lavorative, quello che Fellini traccia è innanzitutto il profilo dello spettatore, non subito quello dell’autore. «Pensavo, come pensa ancora molta gente, che facessero tutto gli attori, che fossero gli attori a fare il cinema» (p. 55). Lo stesso vale per quelle forme di spettacolo che sono il teatro e il circo: «tutto quello che vedevi era fatto da loro, dagli acrobati, dai clown, dai prestigiatori, dai giocolieri» (ibidem). Rispetto ai diversi ruoli professionali, imprescindibili affinché il cinema come arte possa esistere, Fellini si esprime pertanto attraverso quelle sue due prospettive mantenendo quale primo riferimento proprio lo spettacolo.  

Federico Fellini e la figura del produttore cinematografico 

La produzione del cinema richiede di tenerle in considerazione entrambe, ma il cuore delle sue riflessioni è esattamente lo spettacolo, o più precisamente la sua possibile riuscita in relazione a come può essere organizzato. Quello con i produttori è un rapporto basato sul conseguimento di armonie tra gusti diversi, sui limiti e le possibilità della effettiva organizzazione del lavoro, su proposte e controproposte. Dopo molte considerazioni, Fellini formula una sintesi della sua idea di quei momenti, non scevra di mitologia come sottolinea anche Cirio: il produttore è colui «che prepara anche la configurazione e il carattere del film, non soltanto l’aspetto economico-finanziario ma l’identità del film» (p. 78). Una questione organizzativa imprescindibile, Fellini ne era fermamente convinto. 

Il cinema: arte o tecnica? 

Di nuovo, così come appare chiaro nell’ultima conversazione raccolta nel libro, attraverso il discorso sull’organizzazione la questione di fondo torna a essere quella del mestiere del regista: dell’autore che per fare quelle sue opere, basate sulla combinazione di scrittura recitazione e riproduzione audiovisiva, non può trascurare il piano organizzativo che ne rende possibile la creazione. Ma l’aspetto interessante che emerge in questo terzo scambio è che il movente di quel mestiere è evidentemente artistico. Con sincerità, infatti, Fellini ammette che il lato tecnico del lavoro con la macchina da presa per lui «resta un mistero. È come il motore dell’automobile. So guidare, sono stato un guidatore precoce, ma non riesco a capire cosa succede lì dentro» (p. 83). 

Il ruolo degli imprevisti nel cinema di Federico Fellini 

Che il movente non sia tecnico ma artistico, per l’autore di Giulietta degli spiriti e di Fellini Satyricon significa anche avere bene in chiaro una questione essenzialmente umana che influenza costantemente anche i processi creativi: il ruolo degli imprevisti. Quando Cirio gli chiede quante volte un evento improvviso lo abbia costretto a cambiare i suoi piani, Fellini risponde: «mi sembra pericoloso, almeno per me, tentare di sezionare il film in tante ipotetiche forme» semmai, prosegue, quello che «è diventato indispensabile è un modo di preparare il film che non soffra di questa separazione» (p. 85). Se, infatti, per un verso, egli segnala che quella separazione causerebbe la perdita di un senso unitario dell’opera, dall’altro ammette che vi siano comunque punti di vista diversi che possono interferire con la sua creazione «ma solo perché la cosa che stai facendo è vitale, non perché è stata anatomizzata in questo modo» (ibidem).  

La regia è una questione di sensibilità artistica 

L’artisticità si fa poi tutt’uno con la sensibilità del regista Fellini che non smette mai di essere anche spettatore e fine osservatore. Così, quando Cirio gli chiede quale sia un momento irrinunciabile del suo lavoro, Fellini risponde: «è una specie – sono quasi impacciato a tradurlo sul piano verbale – di contatto che mi sembra di avvertire quasi con una sorta di solletico e di sentimento gioioso» (p. 85). È il momento in cui si palesa «la prima lontanissima e improbabile, ineffabile, sensazione di aver visto il film. Un sentimento che riguarda questa cosa che già esiste, perfettissima in tutti i suoi dettagli ma che in quel momento ti appare nella sua totalità e comincia a trasmettere la sua amicizia con te» (pp. 85-86). 
D’altra parte, qualsiasi dubbio sulla presenza del movente artistico è fugato dal fatto che, come ricorda Fellini, parallelamente a quella sua «vaga speranza» di diventare un giornalista egli coltivava anche altre ambizioni: «mi sarebbe piaciuto anche fare il direttore di un circo ma anche il pittore, insomma qualcosa che aveva più o meno vagamente a che fare con l’arte» (p. 82). 

La nuova edizione de Il mestiere del regista 

Quello pubblicato da Cue Press nella sua nuova edizione è un libro sicuramente prezioso che, grazie al fruttuoso scambio dialogico mantenuto da Cirio di pagina in pagina, invita a riflettere non solo sulla poetica di uno dei più grandi registi del Novecento ma anche sul suo modo di intendere quella pratica artistica che ha svolto per una vita mettendosi in più panni senza mai smettere di interrogarla. L’intervista conclusiva con il compositore Piovani aggiunge ulteriore valore al volume. 

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Craig
25 Novembre 2024

Gordon Craig, e la sua Supermarionetta. La formula di una recitazione libera dalla realtà. Come un rituale orientale

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Ci siamo più volte occupati, sulle pagine di questo giornale, di Gordon Craig, oggi aggiungiamo un nuovo tassello, in occasione della pubblicazione di L’arte del teatro. Il mio teatro, a cura di Ferruccio Marotti, autore anche di una Premessa e di un Itinerario che ne ricostruisce la vita professionale, essendo stato egli il primo a farlo conoscere in Italia, con la sua monografia edita da Cappelli.

Il volume raccoglie una serie di saggi, tra i quali: La Supermarionetta, di cui abbiamo già riferito, oltre che interventi sul teatro naturalista, sulla sua poetica, sul suo rapporto con l’attore, prima di arrivare alla formula che lo ha reso famoso, quella, appunto, della Supermarionetta, ovvero dell’attore che si libera da qualsiasi rapporto con la realtà, per poterla sublimare, grazie a una recitazione che lo affranchi da ogni forma di artificio e di esuberanza e che lo accosti a quella degli attori del teatro orientale, più attenti alla ritualità che alla immedesimazione.

Ci troviamo nel primo decennio del Novecento, quando nasce il teatro di regia che si impegnava a liberare l’attore da certi vizi, acquisiti nel tempo, e da certi ‘appoggi’, per epurarlo, renderlo nuovo e pronto a esperienze diverse. Forse i tempi non erano molto favorevoli, anche perché, per provvedere a un nuovo teatro, bisognava preparare un nuovo pubblico, fino a trasformarlo, proprio come si cercava di trasformare l’attore che Craig non considerava un artista, a meno che non fosse stato capace di raggiungere quella recitazione creativa, lontana dal pericolo naturalista e dal peccato, ancora più grave, della vanità.

C’è da dire che Craig esplorava il teatro inglese, di fine Ottocento e inizio Novecento, quello della madre, Ellen Terry, e di Irving, mentre, come danzatrice-attrice, come modello, aveva scelto Isadora Duncan. Se avesse guardato bene agli attori italiani, si sarebbe trovato dinanzi a un panorama molto più vasto e a mostri di bravura, come Salvini, Rossi, Zacconi, Ruggeri, Ristori, Duse, con la quale collaborò, in occasione della messinscena di Rosmersholm di Ibsen, ma con cui litigò perché, in tournée, avevano tagliato una parte della sua scenografia.

Non c’è dubbio che Craig volesse rivoluzionare il concetto di messinscena, non ricorrendo però alla regia, il cui interesse, a suo avviso, tendeva all’estetismo, bensì a una scenografia astratta, simbolista, che l’apparentava alle teorie di Appia. Diceva che l’arte del teatro non si riforma con la regia, perché c’era bisogno di qualcosa di nuovo che affermasse l’autonomia del linguaggio scenico, dato che la regia permetteva soltanto il passaggio da un teatro inautentico a un teatro da intendere come esperienza totale. Craig avvertiva attorno al teatro una degenerazione fisica e mentale, dovuta in particolare alla figura dell’attore che amava l’esibizionismo, quello che per fare il geloso, per esempio, roteava gli occhi, andava in tutte le furie, stravolgeva l’espressione del volto, anziché dominarla, niente di tutto questo, perché la gelosia è un fatto mentale ed è, con la mente e non col corpo, che va recitata attraverso un lavoro di preparazione, durante il quale si doveva andare in cerca non di emozioni disordinate, ma controllate, perché l’emozione ha il potere di creare e di distruggere.

In scena, insomma, bisognava portare l’essenza dello spirito e non l’abilità da quattro soldi. Il vero artista è colui che riesce ad essere invisibile. Craig non sopportava le idee morte o le copie. Diceva: «il teatro è come una montagna, nessuno è riuscito a scalarne le vette, per poterne dare notizie certe il nuovo teatro deve essere il pane per nutrirti».

Inoltre, era convinto che, i materiali adoperati per la scena, non servissero per travestire i pensieri, ma dovevano essere adatti per esprimerli. I veri artisti non sono i riformatori, ma i creatori.

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Un'idea di dostoevskij
7 Novembre 2024

Molto più che Un’idea di Dostoevskij, un saggio di Fausto Malcovati

Adele Porzia, «ClassiCult.it»

Ricordo il mio primissimo libro di letteratura russa. Ero al liceo e, in un negozio dell’usato, avevo trovato un’edizione sfatta, senza copertina, con le pagine macchiate di caffè. Era un libro talmente malmesso che il proprietario me lo regalò. E, così, con Il maestro e Margherita di Michail Afanas’evič Bulgakov me ne tornai a casa. Lo lessi qualche giorno dopo e non capì molto della storia, né tanto meno il suo senso profondo. Poi ci ho riprovato un annetto dopo, ma comunque senza grandi differenze.

Eppure, c’era una frase che continuava a saltarmi all’occhio dopo ogni lettura. Quella celeberrima affermazione di Korov’ev, che sostiene ad un certo punto del libro, con fare risentito, che Dostoevskij è immortale. E io, quel nome lì, l’avevo già sentito. Eccome se l’avevo sentito. E di lì a pochi mesi avrei letto Le notti bianche e, poi, Il giocatore, che è ancora adesso il mio romanzo preferito in assoluto.

Poi è toccato, piano piano, a tutti gli altri, ma spesso mi sono sentita come la priva volta che ho letto il capolavoro di Bulgakov: come se non fosse quello il momento giusto, come se non fossi abbastanza matura e attenta per comprendere il senso profondo di quello che stavo leggendo. Quando, infatti, è toccato a Delitto e Castigo non mi era rimasto niente. Poi, a distanza di anni, quando sono tornata sui miei passi, ho ripreso il libro, avvertendo una spinta segreta e irresistibile verso quel tomo di quasi seicento parole, mi si è formata dentro una voragine. Così con Memorie del sottosuolo. Così con L’idiota. Mi si è aperta una ferita che mi costringe a leggere e rileggere. E sono certa che ad ogni lettura e rilettura verrà fuori qualcosa di diverso, di nuovo, di inaspettato.

Eppure, non posso negare che, non avendo studiato russo (cosa che in questi ultimi mesi mi sta pesando particolarmente), mi perdo molto. A chi mancasse qualche nozione sulla lingua e sulla cultura russa, consiglierei di alternare alla lettura di Tolstoj e Dostoevskij, di Gogol e di Turgenev, con qualche bel manuale e saggio, procedura fondamentale per capire meglio l’universo nel quale ci si addentra. Perché ogni letteratura è un universo a sé e merita delle indicazioni preliminari, delle avvertenze. In tal senso può essere una bussola, una cartina, per ambientarsi meglio il saggio, edito da Cuepress, Un’idea di Dostoevskij, che racconta la vita e le opere di questo straordinario scrittore.

Ad averlo scritto è Fausto Malcovati, docente di Lingua e Letteratura Russa presso l’Università di Milano. Oltre ad essere un esperto di cultura russa, il professore ha vinto il premio Ubu per il valore della sua ricerca, ha tradotto tutto il teatro di Cechov, pubblicato scritti sui principali maestri di regia, come Stanislavskij, Mejerchol’d e Vachtangov e si è occupato di simbolismo russo, in particolare nelle opere di Vjaceslav Ivanov e di Valerij Briusov. Ha scritto, inoltre, diversi saggi e monografie dedicate a Gogol’, Tolstoj e Dostoevskij.

Attraverso questo saggio, Malcovati vuole offrire un’agile guida, un valido prontuario ai lettori, siano essi profani o attenti conoscitori dello scrittore. Non mancano le citazioni agli scritti, alle lettere, ad altri saggi, e la vita di Dostoevskij è passata attentamente al setaccio, dall’infanzia sino alla morte. Il professore non dimentica, inoltre, di riassumere la trama delle opere e i temi che vengono trattati.

Si può dire che il grande pregio di questo volume è quello che concentra in pochissime pagine (poco più di centoventi) un numero incredibile di informazioni sullo scrittore. Ne viene inserito ogni singolo aspetto della vita e del pensiero, tanto che posso affermare che sia uno dei libri più completi e precisi scritti sulla vita di Dostoevskij.

Fausto Malcovati elenca finanche le letture che questo grande scrittore russo ha fatto in giovinezza, la sua passione per Schiller (che torna in tante opere, soprattutto in Delitto e Castigo, quando lo stesso Raskolvikov viene considerto uno ‘Schiller’, un idealista, e così anche in Umiliati e offesi), il suo amore per il teatro, cui si recava spesso.

Malcovati ci permette di scoprire come Dostoevskij ha iniziato il suo viaggio nella scrittura proprio con tre opere teatrali – Maria Stuarda, Boris Godunov e L’ebreo Jankel – dalla forte influenza schilleriana e puškiana, che però sono andate perdute. Le informazioni su quello che era Dostoevskij – prima di Povera gente o prima dei grandi capolavori come Delitto e CastigoL’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov – ci aiutano a capire come sia nato e come si sia evoluto il suo talento nella scrittura. Non è un caso, insomma, che una casa editrice che pubblica soprattutto di teatro, come la Cuepress, abbia ospitato un saggio così ben fatto. La ragione si trova proprio nella grande importanza che il teatro ha avuto nella vita e nell’opera di Dostoevskij.

Lo stesso Vladimir Nabokov, in Lezioni di letteratura russa, sostiene che più che un romanziere Dostoevskij fosse uno scrittore di teatro e non ha tutti i torti. Lo stesso Delitto e Castigo sembra un dramma che si consuma a teatro, con gli attori che si esprimono in lunghi monologhi. Nabokov non intendeva elogiare Dostoevkij (anzi, tutto il contrario, perché non lo apprezzava molto come romanziere) ma, seppur nel desiderio di muovergli una critica, ha detto una grande verità. Forse ha anche svelato il segreto di questo scrittore che, come un grande drammaturgo, riusciva a vedere nitidamente i personaggi e a dare loro un linguaggio unico.

Che dire? Che altro si può dire? Da lettrice della letteratura russa, da neofita e profana, da appassionata dei libri e della vita di Dostoevskij, non posso che consigliare questo libro agli addetti ai lavori come ai profani. Sarà un modo per entrare intimamente e profondamente nella vita e nell’opera di Fedor Dostoevskij. Un viaggio che non può che risultare straordinario. E, visto che ‘un’idea di Dostoevskij’ me la sono fatta, ora vado a (ri)leggere L’idiota con ancora più godimento. Chissà che non scopra altro su questo profondo romanziere e, come accade con la grande letteratura, qualcosa in più su di me.

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68 mostra internazionale del cinema di venezia
4 Novembre 2024

Sei protagonisti un po’ anomali. Nel tracciato della cultura registica di Eduardo e Strehler. Con Pirandello da raccordo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Claudio Meldolesi (1942-2009) raccolse questi saggi nel 1987, quattro anni dopo la pubblicazione del volume che sarebbe diventato un classico, Fondamenti di teatro italiano. La generazione di registi, nel quale sono da ricercare le premesse di quel discorso che a suo avviso riguardava «il ritardo qualitativo» del nostro teatro, compreso «l’aggiornamento registico» che definiva un po’ anomalo, perché, negli anni Quaranta-Cinquanta, prima e dopo il conflitto mondiale, non esprimeva una sua particolarità nel campo della regia, della quale Meldolesi ha preferito analizzare la sua nascita, sia durante il periodo della formazione che in quello della maturità.

Per parecchi di noi Fondamenti di teatro italiano è stata una guida storica, oltre che metodologica, sia per la conoscenza pratica (Meldolesi aveva un diploma di attore), sia per il particolare uso di strumenti analitici, gli stessi che troviamo nel libro pubblicato da Cue Press, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, preceduto da una premessa di Laura Mariani che ben conosceva l’autore.

Come si può intuire, lo studio di Meldolesi riguarda sei protagonisti un po’ anomali del teatro italiano, si va da Totò, di cui analizza soltanto il suo lungo impegno di attore di teatro, prima dei successi cinematografici, al primo Eduardo, ovvero dell’attore che scrive del suo giovanile mondo poetico, dal Caffé Teatro all’Avanspettacolo, alla Rivista, prima delle grandi commedie dei Giorni dispari e della nuova tecnica rappresentativa, libera dagli influssi farseschi e dagli influssi pirandelliani, di cui aveva assimilato la scrittura, ma non certo la creatività.

Ritengo fondamentale il saggio su Mario Apollonio, essendo stato anche mio maestro, di cui analizza il doppio ruolo di teorico e di critico, quello esercitato sulle pagine della rivista «Drammaturgia» che, non aveva accettato del tutto l’avvento della regia, non ancora definita ‘critica’, perché esercitata tra gli anni Quaranta-Cinquanta, benché Apollonio avesse intravisto il passaggio dell’’attore versus regia’, riferendosi, in particolare, a Giorgio Strehler che, pur rispettando, in un primo momento, la cultura dell’attore, solo successivamente imporrà la cultura del regista.

Meldolesi riconosce lo sguardo dottrinario di Apollonio, la sua idea di teatro comunitario, inteso come coro, come assemblea, idea ripresa dai suoi allievi e portata avanti in maniera pratica, con la nascita del CRT, inoltre gli riconosce la certezza che nella regia si dovesse vedere una parte concreta di teatro. Un simile passaggio Meldolesi lo nota nel giovane Strehler, in quel suo primo approccio alla regia che sapeva di ‘avanguardia’, soprattutto nei dieci spettacoli che realizzò prima della nascita del Piccolo Teatro, quando, pur accettando il manierismo degli attori che dirigeva, si sforzò di indirizzarli verso una forma di compromesso con le esigenze della cultura registica, ovvero di quel senso critico che bisognava dare all’interpretazione, senso che maturò, secondo Meldolesi, già nella prima delle quattro edizioni dei Giganti della montagna che, messe insieme, designano un tracciato evolutivo della regia critica.

Proprio a Pirandello è dedicato il saggio successivo, essendo lo scrittore che segna un raccordo tra Eduardo e Strehler, ritenuto anche inventore di pratiche sceniche che avevano a che fare con la regia, non per nulla, Meldolesi analizza alcune messinscene che appartengono alla storia, come Questa sera si recita a soggetto del Living e I giganti della montagna di Strehler. L’ultimo capitolo è dedicato a Gadda, quello del suo lavoro alla RAI, durante il quale ebbe modo di conoscere attori e registi e quindi la pratica scenica che egli trasformò in una specie di laboratorio personale che segnò un confine tra narrazione e rappresentazione, confine che scoprì Luca Ronconi quando decise di portare in scena Quel pasticciaccio brutto di via Merulana. Gadda aveva scritto per il teatro un solo testo, Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, per un programma radiofonico nel 1958, di cui ricordo la prima messinscena, al Teatro Filodrammatici di Milano, con Paolo Bonacelli, nel 1966, regia Sandro Rossi.

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Boll
27 Ottobre 2024

Un sorso di terra agli affamati

Alessandra Iadicicco, «Corriere della Sera»

Alzando lo sguardo non si vede che acqua, a perdita d’occhio. È il mare, ma la sua immensa distesa azzurra non suscita quiete, desiderio, ristoro, voglia di partire o di tuffarsi e nuotare. Ha divorato la terra, è un emblema di morte. Ci sono i pesci dentro, certo, ma è vietato mangiarli, perfino nominarli, come è vietato buttarsi in acqua, e d’altra parte a chi mai verrebbe in mente di farlo? L’immersione corrisponde a una punizione, dosata in crescendo col calare giù giù il castigato, che è rinchiuso in una gabbia, anche fino alla gola. È un battesimo al contrario, il ‘cattivo battesimo’ somministrato da quelli che comandano ai poveri Cresti, un nome che richiama evidentemente per assonanza certi ben noti ‘poveri cristi’, ma, si vedrà, anche qualcosa d’altro, qualcosa che inevitabilmente sfugge e che anche volendo non si può eliminare.

Nel paesaggio post-apocalittico o post-diluviano, immaginato per una scena teatrale da Heinrich Böll (1917-1985), la società dei sopravvissuti, aggrappati a un isolotto artificiale e disperatamente bramosi di Un sorso di terra, il titolo del dramma, è rigidamente gerarchizzata. I Cresti stanno sul gradino più basso, rivestono un abito grigiastro-incolore e via via, risalendo questa schematica quanto rudimentale scala sociale, i vari personaggi indossano vesti, ovvero delle specie di tute, blu, o verdi, o rosse, o bianche, fino al colore dorato. La loro attività principale consiste nel ripescare dai fondali reperti del passato, del mondo che fu, per lo più vecchie lattine sommerse, scatolame vario e, vera pesca miracolosa, perfino arrugginiti frigoriferi ricoperti di alghe, scrigni di viveri insomma.

Il privilegio di cui, salendo di grado, si può godere, è misurato in base alla quantità di cibo cui si ha diritto, e si badi che le quantità sono minime, che le differenze tra le porzioni di nutrimento concesse sono dell’ordine di pochi grammi. Il motore che aziona e scatena moti dell’animo, che risveglia i sentimenti, i vizi e le virtù – cioè avidità, ambizione, compassione, spirito di sacrificio, vitalità dei sensi, spirito di contraddizione – è la fame.

Lo scenario è fantascientifico, distopia di un mondo a venire che fa ripiombare l’umanità in una situazione primitiva-elementare. Lo scrittore tedesco, premio Nobel 1972, lo immaginò nel 1962, un anno dopo la costruzione del Muro di Berlino, in piena guerra fredda, ma con ben viva la memoria del secondo conflitto mondiale che lo vide combattente e ‘libero prigioniero’ – nel senso che quella prigionia fu per lui il principio della libertà – degli americani, e che lasciò un segno indelebile nella sua intera opera, ascritta alla Trümmerliteratur, alla letteratura di quelle macerie presenti ovunque nella Germania devastata anche quando rimosse: in forma di edifici distrutti – nella Colonia di Böll, per esempio, in cui restò in piedi solo il campanile del Duomo – , di cumuli di detriti, di quella polvere di cemento che anche anni dopo si infilava in ogni cosa: «Nella zuppa, nei letti, nei vestiti, nei denti, nelle ferite…». Si fosse potuta mangiare quella polvere…

La fame è indimenticabile per chi l’ha provata ed è un motivo presente e ricorrente nei testi di Böll, si pensi solo a Das Brot der frühen Jahre (Il pane dei verdi anni), romanzo del 1955 in cui al giovane protagonista, nell’immediato dopoguerra, una pagnotta appena sfornata sembrava un animale vivo.

Qui, in questo testo teatrale – che è un caso quasi unico nell’opera di Böll, il quale scrisse solo un secondo dramma, Lebbra, portato in scena nel 1970 – invece è proprio la terra a prendere vita e a simboleggiare la vita: «Era pane e fiori la terra, era alberi e letto per chi sapeva volere e godere, era quiete per i morti… ma l’acqua la inghiottì».

Il testo non è evidentemente una novità editoriale. Uscì in Italia poco dopo la prima edizione tedesca, nel 1964, da Einaudi, ristampato varie volte da allora come volume numero 49 della Collezione di Teatro, nella traduzione di Hansi Cominotti e con prefazione di Claudio Magris. La nuova, eccellente versione, tradotta e curata da Milena Massalongo, pubblicata da Cue Press sessant’anni dopo la prima edizione italiana, merita per molte ragioni un prolungato sguardo di attenzione. È un testo critico dotato di svariati e accuratissimi apparati. Oltre al copione con le note di scena dell’autore – e lo sforzo immaginativo richiesto a chi è eccezionalmente lettore e non spettatore per figurarsi lo spettacolo è estremamente stimolante –, sono numerosissime, dotte e acute le notazioni della curatrice, volte non solo a far risuonare nelle orecchie di chi legge la stratificazione della lingua ironica inventata da Böll, ma a situare il testo nella scrittura continua dell’intera opera del Nobel. La vera perla di questo libretto, stampato in agile formato rivista, è però la lunga, ricchissima introduzione di Massalongo, perfetta per mettere a fuoco non già l’’attualità’ di questa fantasia teatrale di Böll – anacronistica per un testo concepito oltre sessant’anni fa in un contesto storico ormai più volte radicalmente cambiato – bensì la sua profonda, innegabile contemporaneità. Un sorso di terra ci riguarda. Parla di noi, gli immaginari sommersi nella platea del teatro, cui, nella multiforme e metamorfica smania di controllo, di potere, di dominio, di possesso che dilaga, manca la terra sotto i piedi. La perdita di realtà, di quella realtà che si vorrebbe inquadrata dentro il progetto politico totalitario, di qualsiasi colore esso sia – e siamo letterariamente nel solco delle utopie negative à la George Orwell o à la Aldous Huxley, 1984 e Il mondo nuovo – non è alla fine così diversa dalla perdita di realtà che il raddoppio virtuale del mondo – leggi: «posto, dunque esisto» – oggi comporta. La salvezza sta nel residuo, nello scarto, nel resto – o (C)resto – : in quello spazio di vita incalcolabile, non progettabile, non governabile, imprevedibile e imprevisto che nutre l’ultimo fondo di umanità resistente di «un sorso di terra».

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30 Settembre 2024

I cinecomics senza la Marvel: un’insolita visione

Paolo Garrone, «Lo Spazio Bianco»

Abbiamo intervistato Alessandro Mastandrea, autore di un interessante saggio sui cinecomics, caratterizzato da precise scelte e punti di vista, che approfondiremo con lo stesso autore. Il libro è un’opera che si aggiunge a una bibliografia – in espansione – sui film tratti dai fumetti, arricchendola di alcuni spunti di riflessione non banali. In questo volume l’attenzione va esclusivamente alle opere derivate dai comics di supereroi ma si noterà come, nonostante le mode, in questo libro si accenna appena ai film Marvel, i quali non sono in alcun modo oggetto della trattazione, che si incentra invece sulle vite cinematografiche di Superman e Batman, sviscerate in modo approfondito; a concludere, un capitolo mirato sugli adattamenti degli editori indipendenti, con particolare riferimento ad autori come Alan Moore e Frank Miller. Una prospettiva originale per inquadrare questo ormai consolidato sottogenere, che ci spiegherà meglio Mastandrea in una breve ma intensa intervista.

Prima di tutto, ciao Alessandro, e benvenuto su Lo Spazio Bianco. Partiamo subito con le domande: all’inizio del libro c’è un lungo capitolo introduttivo sui comics, quasi una mini-storia della loro origine ed evoluzione con particolari riferimenti al pulp. Dal momento che non tutti i cinecomics sono così cupi, la domanda è: quale inquadramento volevi fornire con questo interessante e documentato articolo introduttivo?

Ciao Paolo e grazie per lo spazio che mi state concedendo, ne sono davvero onorato.
In merito alla tua domanda, la mia intenzione era quella di fornire – al lettore in primis, ma anche a me stesso – alcune coordinate storiche, culturali e sociologiche che chiarissero i perché dietro la nascita e la massiccia diffusione di quel peculiare fenomeno della cultura di massa che sono i comics di supereroi. Per provare, in buona sostanza, a motivarne tematiche e cliché ricorrenti, che oggi diamo per scontati. Mi riferisco, per esempio, alla propensione di alcuni di questi personaggi al vigilantismo, oppure all’utilizzo della violenza come mezzo di pacificazione o risoluzione della maggior parte degli intrecci, ponendosi, in una modalità che potremmo definire ‘reazionaria’, al di sopra e al di fuori delle garanzie costituzionali come oggi le conosciamo.
È, molto banalmente, il mio modo di pormi nei confronti di qualcosa che sto studiando e di cui voglio scrivere.
Avevo intenzione, inoltre, di inquadrare i cinecomics che tratto nel libro con i giusti riferimenti alla storia dei fumetti cui sono ispirati. Molto spesso sui giornali questi riferimenti sono riportati in maniera approssimativa, se non peggio. Concludo dicendo che le prime trasposizioni cinematografiche e televisive degli anni ’40 e ’50, non credo siano state mai trattate in precedenza.

Il taglio del tuo volume, pur agile, è ‘alto’. Riferimenti culturali accademici, linguaggio molto ricercato seppur scorrevole, c’è persino un riferimento all’esiziale teorizzazione di Walter Benjamin, fondamentale ma forse non proprio nota a tutti, per così dire. Quindi: cinecomics sì ma non solo pop?

All’interno del volume ho provato a citare più di una volta, tra gli altri, Umberto Eco (spero non a sproposito).
Nel suo Apocalittici e integrati, il semiologo torinese dedica moltissimo spazio allo studio del medium fumetto e a personaggi iconici tra i quali anche Superman. Facendolo senza alcun preconcetto ‘aristocratico’ nei confronti di un mezzo che, anche oggi, per definizione, è spesso associato alla cultura ‘bassa’. Fumetto, televisione e cinema, sino ad arrivare agli odierni social media, se inquadrati nella giusta prospettiva possono fornire a chi osserva una ‘fotografia’ dello spirito del tempo. Tutti i fenomeni della cultura di massa possono essere letti in questa duplice chiave: alta e bassa, anche quelli dai contenuti all’apparenza più banali.

Nonostante il noto disinteresse di Alan Moore, se non astio, verso gli adattamenti delle sue opere, hai dedicato diverse pagine all’argomento. Sei polemico col Bardo di Northampton o semplicemente li ritieni comunque importanti, seppur non approvati dal loro autore?

Nessun intento polemico nei confronti di Alan Moore: non ne avrei il coraggio. La scelta di non farsi accreditare nelle trasposizioni cinematografiche delle sue opere fumettistiche può lasciare interdetti, ma reputo che sia coerente con la sua figura di uomo e di autore fuori dal sistema e fuori dagli schemi. D’altro canto, è abbastanza noto quanto siano stati travagliati i rapporti tra lui e le Big Two statunitensi dei comics. Una sorte non dissimile da quanto capitato a Frank Miller, scottato dall’esperienza avuta con l’industria Hollywoodiana, ai tempi di Robocop 2. Quello dei rapporti ‘difficili’ tra autori (registi o fumettisti che siano) e industria culturale statunitense è un problema ricorrente e ampiamente dibattuto. Mi interessava, perciò, darne conto, sia in ottica generale che attraverso le opere e le trasposizioni di questi due autori emblematici.
Inoltre, in particolare per Frank Miller, questa sua ossessiva ricerca di una trasposizione totalmente e incondizionatamente fedele al ‘prevenduto’ fumettistico, è stata lo spunto per pormi alcune domande in merito al dibattito circa la fedeltà dell’opera cinematografica rispetto a quella fumettistica. 
È in tale contesto che ho provato a prendere in prestito le parole di Walter Benjamin e del compianto Mario Perniola, mio professore ai tempi dell’università. Credo non si potesse prescindere dall’utilizzare gli strumenti forniti dall’estetica per analizzare questo fenomeno.

Ultima domanda, a proposito di una tua scelta, a parere di chi scrive, coraggiosa: un libro sui cinecomics che accenna appena ai film del Marvel Cinematic Universe. Ci spieghi le motivazioni di tale peculiare selezione?

Effettivamente, quella che mi fai è la domanda delle domande. La mia intenzione era quella di arrivare sino ai giorni nostri, ma proseguendo nella scrittura del libro ho cominciato a maturare l’idea che forse, questa scelta, non aveva troppo senso e che il saggio avrebbe perso in compattezza.
Ho preferito, dunque, concentrarmi sui due personaggi più iconici dell’intero universo supereroistico, gli archetipi di tutto quello che è venuto dopo, oltre alle trasposizioni di Moore e Miller di cui abbiamo parlato. Queste, a mio avviso – concedimi una sintesi un pochino approssimativa –, pur rientrando a pieno titolo nelle pratiche industriali dei blockbusters, conservano due elementi che ritengo fondamentali: il primo è che, spesso, tali pellicole si inseriscono a pieno titolo nella ‘poetica’ dei registi che le hanno dirette, come nei casi di Burton e Nolan; in secondo luogo, la loro prassi realizzativa e industriale, pur aderendo a logiche di sfruttamento di un franchise, non ha raggiunto il livello quasi ingegnerizzato come avviene oggi con l’MCU.
Penso inoltre che l’MCU debba essere indagato con altri strumenti rispetto a quelli che ho utilizzato in questo saggio, perché, a mio modesto parere, l’elemento industriale e finanziario costituito dalla Disney abbia un ruolo preponderante in questa analisi.

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Alexander moissi
26 Agosto 2024

Alexander Moissi. Grande attore europeo (1879-1935)

Francesca Simoncini, «Drammaturgia»

Il libro di Massimo Bertoldi Alexander Moissi. Grande attore europeo (1879-1935), dedicato alla biografia artistica di Alessandro Moissi, ha il grande merito di colmare, con profondità e rigore storiografico, una lacuna della storia del teatro. Attore ‘scomodo’, difficilmente inquadrabile, ritenuto tra i più grandi dai suoi contemporanei, Moissi non era stato finora oggetto di un completo ed esaustivo studio monografico in grado di illuminarne pienamente il valore, ma soprattutto la complessità e le originali doti e caratteristiche.

Nato a Trieste nel 1879, Moissi fin da piccolo attraversa ripetutamente i confini europei compiendo spostamenti che lo portano a dimorare in varie città. Oltre alla città natale, dalla peculiare cultura mitteleuropea, anche Durazzo e Vienna, a cui si aggiungono presto altre capitali come Praga e Berlino. I numerosi viaggi, i cambi ripetuti di residenza, un destino esistenziale che lo caratterizza fin dai primi anni di vita come apolide, lo portano a cimentarsi nell’uso di un flessibile plurilinguismo (italiano, greco e albanese, tedesco) e a sviluppare non comuni capacità di adattamento e di duttilità che lo accompagneranno anche nell’esercizio del mestiere.

Dopo aver frequentato il Conservatorio a Vienna, con l’intenzione di diventare un cantante d’opera, si avvia al palcoscenico del teatro di prosa recitando al Burgtheater, dove viene notato per la melodiosità della sua voce e per la sua personalità scenica, ancora acerba e resa imperfetta da una pronuncia con forti inflessioni italo-venete, ma già originale e potente. Il tirocinio formativo compiuto a Praga ne fortifica le doti espressive, ma è a Berlino che Moissi trova la sua maturità professionale, soprattutto grazie al fondamentale incontro con Max Reinhardt che ne riconosce talento e potenzialità. Con il regista austriaco instaura un forte e duraturo sodalizio artistico che gli permette di perfezionare e disciplinare le sue già forti doti espressive, simili per caratteristiche a quelle dei Grandi Attori del teatro italiano a lui contemporaneo, mache Moissi sa mettere al servizio dei dettami di una regia in Italia ancora balbettante e in Europa ormai compiutamente affermata.

Le ‘costrizioni’ imposte dalle direzioni sceniche dei registi a cui presta il proprio talento gli negano probabilmente la libertà di azione e di creazione scenica ancora concessa ai nostri Grandi Attori nazionali, ma aggiungono rigore e disciplina al suo stile recitativo che riesce comunque a mantenere forti caratteri di originalità e che lo porta a diventare attore capace di rivelare l’intima essenza dell’animo umano, declinata principalmente in senso passionale, lirico e decadente.

Il libro di Massimo Bertoldi sa raccontare con chiarezza espositiva e continuo ricorso a fonti dirette (soprattutto di lingua tedesca) tutte le fasi del singolare e complesso percorso artistico di questo originale e bravo attore che, per cultura, vicende esistenziali e soggettive caratteristiche, si colloca in una peculiare dimensione liminare, decisamente al di là di ogni ‘confine’, sia geografico sia storiografico, ma che, nonostante tutto, riesce comunque a compiere una straordinaria, fertile e quasi miracolosa sintesi tra prassi teatrali tra loro per definizione ritenute inconciliabili: il teatro d’attore di tradizione italiana, ancora resistente nel nostro Paese, e il teatro di regia europea di inizio Novecento.

Il libro divide in due parti la trattazione dedicando la prima a una ordinata ricostruzione cronologica delle fasi biografiche e artistiche dell’attore, la seconda a una approfondita analisi delle sue più importanti e celebri interpretazioni. Ne scaturisce un ritratto articolato e completo che attribuisce giusto valore a uno dei più interessanti protagonisti del teatro di prosa europeo di fine Ottocento e primo Novecento. Arricchiscono e completano il saggio l’intervento di Leonardo Quaresima su Moissi e il cinema, una bella sezione iconografica, dedicata a ritratti significativi dell’attore, e le utili Appendici che riassumono in schematica sintesi i fatti salienti della vita e dell’arte di Moissi rendendo conto del suo complesso repertorio e fornendo brevi biografie dei principali attori e registi con cui l’attore ha collaborato nel corso della sua esistenza.

La premessa al libro di Siro Ferrone, oltre a fornire al lettore le corrette coordinate di lettura del saggio, svela come con questo libro Massimo Bertoldi riesca a ‘riempire un vuoto’ della storiografia del teatro, costretta ora a fare i conti con la storia di una vita artistica eccezionale che riesce a trovare una sua sofferta e significativa dimensione nonostante l’attraversamento di contesti e prassi teatrali tra loro considerate agli antipodi. L’esperienza di Alexander Moissi, così correttamente raccontata e così in bilico tra teatro d’attore e teatro di regia, apre infatti interrogativi fondamentali per lo storico del teatro e fornisce ulteriori basilari indicazioni sulle conseguenze artistiche determinate dalla inevitabile conflittualità esistente tra l’arte di un attore-creatore e le coercitive direttive di una sempre più predominante, e soffocante per l’attore, supremazia registica. 

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Età dell'innocenza
20 Agosto 2024

L’età dell’innocenza

Stefano Locati, «Film TV», XXXII-34

Il fiume del cinema

«In quasi vent’anni in cui sono stato ospite di svariate manifestazioni all’estero è maturata in me una nuova consapevolezza, ovvero che la storia del cinema non è ancora finita. Ben cento anni di produzioni cinematografiche mi hanno preceduto, e quel grande fiume se così mi è concesso definirlo è ben lungi dall’esaurirsi. Dal mio punto divista, molto probabilmente continuerà a scorrere anche in futuro, pur adattandosi ai tempi che verranno. Chi come me ha vissuto la propria giovinezza negli anni ’80 credendo in modo del tutto plausibile che ormai il cinema non avesse più nulla da raccontare, si chiede ancora se le opere che produce possano davvero essere etichettate come cinema. Personalmente mi pongo sempre questo quesito. Tuttavia, devo ammettere che lo strano senso di colpevolezza che mi affligge è come se volesse tramutarsi in una goccia di quello stesso fiume».

Capire chi documenta

«Qualcuno ha affermato che i documentari hanno il compito di raccontare la verità attraverso i fatti: questo concetto mi è stato ripetuto infinite volte quando lavoravo in televisione, anche se quando mi trovavo sul set mi rendevo conto che parole quali fatti, verità, neutralità o imparzialità altro non erano che termini privi di un vero e proprio contenuto. Piuttosto, definirei un documentario una tra le tante interpretazioni possibili della realtà, proprio come mi disse Ushiyama Jun’ichi (1930-1997), regista e produttore per l’emittente Nippon Television Network. Stando alle sue parole: ‘Il segreto non è tanto documentare i fatti, quanto piuttosto capire chi li documenta’, affermazione sulla quale non posso che trovarmi d’accordo».

Cinema e giudizi etici

«Al festival di Cannes feci quasi ottanta interviste per Nobody Knows e tra i commenti che ricordo con maggiore intensità ci fu quello di un giornalista che affermò: ‘Lei non esprime mai un giudizio etico sui personaggi del film. Nemmeno per la madre che ha abbandonato i figli’. Ricordo di avere risposto nei seguenti termini: ‘Non si fanno film per condannare le persone, e un regista non è né un giudice, né tantomeno dio. Se avessi fatto ricorso a personaggi malvagi, di sicuro sarebbe stato molto più semplice seguire la storia. Tuttavia, andare nella direzione opposta penso dia la possibilità agli spettatori di tornarsene a casa facendo propria la vicenda’. Nonostante gli anni, oggi la penso allo stesso modo».

Ozu e Naruse

«Al fine di acquisire maggiori conoscenze tecniche in ambito di regia, prima di girare Still Walking mi riguardai svariate volte le opere di Naruse Mikio (1905-1969). Dal punto di vista delle inquadrature, per esempio, se è vero che Ozu Yasujiro (1903-1963) aveva l’abitudine di riprendere di fronte, se si osservano con attenzione le scene di Naruse, si nota come fosse solito indirizzare la camera in direzione dell’oggetto ripreso. Non che ci fosse una grossa differenza, ma grazie a questa tecnica gli interni delle case in stile tradizionale, ad esempio, apparivano del tutto diversi. Difatti, grazie alle sue prospettive, Naruse riusciva a riprendere con estrema nitidezza gli interni e la posizione degli arredi garantendo altresì una certa libertà di movimento agli attori: nei film di Ozu, invece, appare sempre difficile per lo spettatore farsi un’idea degli spazi scenici».

Terra di confine

«Dal punto di vista di chi ha cominciato la propria carriera come documentarista, sono cosciente del fatto che i film non nascono semplicemente da noi stessi, quanto piuttosto da quella terra di confine che esiste tra il mondo esterno e il nostro io; se poi pensiamo che tutto è mediato dalla presenza di una macchina da presa è davvero straordinario. In particolare, nel caso dei documentari, si parte proprio dal presupposto che non si gira mai per sé stessi, ma per raccontare il mondo, ed è qui che si rintracciala differenza più vistosa rispetto al cinema».

Festival del cinema

«Dopo Cannes, in ordine di importanza c’è il Festival internazionale del cinema di Berlino […]. La terza manifestazione in ordine di importanza è la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nata nel 1932, e alla quale ho partecipato in più di un’occasione. È di certo il festival più longevo al mondo e si svolge […] presso il Lido di Venezia in un’atmosfera rilassata, lontano dal caos turistico della famosa città lagunare. Tuttavia, poiché è un po’ ostico da raggiungere e attira opere con un contenuto più estetico, ricordo che nel 2002, per esempio, registrò un’affluenza piuttosto scarsa da parte dei buyer cinematografici. […] Per ciò che concerne la storia, poiché nel 1951 Akira Kurosawa ottenne il Leone d’oro con Rashomon, in Giappone è ancora considerato il festival per eccellenza. Ciononostante, sebbene rientri nelle tre manifestazioni più storiche in ambito europeo, bisogna altresì ammettere che di recente attira meno attenzione (anche in termini di affluenza) rispetto a Cannes e Berlino».

Le sfumature e i critici

«Di norma non riesco mai a mettere a fuoco il tema di un film prima di girarlo, poiché nella stragrande maggioranza dei casi emerge man mano che aggiungo dettagli. Si tratta di qualcosa che percepisco a livello personale e che spesso non mi va di esternare a parole durante le interviste dato che coinvolge il mio mondo e le mie convinzioni personali. A mio avviso, verbalizzare il tema di un film può comportare la perdita di alcune sfumature che magari non riesco a percepire nemmeno io; al contrario, sono molto lusingato della presenza dei giornalisti e dei critici durante le conferenze stampa poiché, a differenza mia, sono in grado di coglierle in piena autonomia senza dovermi chiamare necessariamente in causa».

Il cinema di Koreeda Hirokazu. Memoria, assenze, famiglie

Per integrare le parole di Kore-eda raccolte in Pensieri dal set è fondamentale la complessa analisi di Claudia Bertolé, studiosa di cinema giapponese, tra le firme storiche del blog «Sonatine» e collaboratrice di «Cineforum». Il volume è diviso in due parti. Nella prima, Bertolé analizza tematicamente e stilisticamente il cinema di Kore-eda, tracciando con acume i sottili fili di continuità che legano tutte le sue opere. Nella seconda presenta analisi puntuali e stratificate di tutti i suoi film, dagli esordi nel documentario fino a Le buone stelle – Broker (2022). I punti di forza sono una scrittura appassionata, capace di tenere insieme l’analisi generale e quella più puntuale di singole scene chiave, e la profonda conoscenza del contesto giapponese, che non presenta Kore-eda come una monade a sé stante, ma lo colloca in un orizzonte storico e cinematografico più ampio.

15 Giugno 2024

Chi ha paura dei premi Nobel? Tre piccoli gioielli...

Alessandra Calanchi, «Girodivite»

Ho trovato questi tre piccoli gioielli contestualmente – mea culpa – alla scoperta di una piccola e formidabile casa editrice di nicchia (CUE Press). I tre volumetti in questione riguardano Jon Fosse, norvegese, premio Nobel per la Letteratura 2023, passato quasi inosservato ai più, anche se considerato dai critici il nuovo Ibsen o il nuovo […]
12 Maggio 2024

Il dolce stil no

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

È indicata come ‘avvertenza’ nel volume, quasi un voler mettere le mani avanti, l’informazione che le pagine che abbiamo tra le mani non sono nate da un progetto autonomo bensì prendono vita in forma di ‘resto’, di ‘avanzo’ del poderoso Meridiano dedicato a Beckett uscito solo pochi mesi fa. Sto parlando del volume Il dolce stil no di Gabriele […]
3 Maggio 2024

Jon Fosse a Ravenna, il premio Nobel per la Letter...

Piero Di Domenico, «Corriere di Bologna»

Premi Nobel per la Letteratura in visita in Emilia-Romagna. Una prassi che negli ultimi anni sta trovando una certa continuità, dalla francese Annie Ernaux, nel 2022 ospite a Bologna del festival «Archivio Aperto» di Home Movies, al tanzaniano Abdulrazak Gurnah, l’anno scorso al «Festival delle Culture» di Ravenna. La città romagnola quest’anno concede anche il […]
20 Aprile 2024

Il teatro è il momento in cui un angelo attravers...

Simone Sormani, «Proscenio», IX-4

Non era di certo tra gli autori più conosciuti in Italia, Jon Fosse. Almeno fino al 5 ottobre scorso, quando è stato proclamato vincitore del Nobel per la Letteratura 2023. Quel giorno le richieste di suoi volumi alla Cue Press sono schizzate da circa uno o due all’anno a duemila cinquecento in un’ora. Lo ha […]
19 Aprile 2024

La violenza del potere. Eterna. Come le vicende um...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

L’idea del libro Perché il Teatro? è di Milo Rau, il regista svizzero, molto impegnato socialmente, con spettacoli ambientati in Amazzonia o a Monsul, in Kurdistan, utilizzando personaggi del mito, alquanto famosi, come Oreste e Antigone, facendoli diventare, attraverso le loro storie tragiche, emblemi dei giovani d’oggi che vivono, drammaticamente, gli stessi problemi, come a […]
15 Aprile 2024

Why Theatre?/Perché il teatro?

Massimo Bertoldi, «Centro di cultura dell’Alto Adige — Il Cristallo»

È da quando esiste il teatro che si sollevano domande intorno al suo motivo di essere e al suo relazionarsi al mondo. Le risposte, ovviamente tante e diverse, derivano dal tempo storico e dal contesto socioculturale, cha alimentano anche sogni, utopie, progetti su quello che lo stesso teatro potrebbe diventare e trasformarsi in una prospettiva […]
7 Aprile 2024

La parola, come viaggio nella deriva. Dialogo con...

Tiziana Bonsignore, «Teatro e Critica»

Raggiungiamo Lina Prosa al telefono poco dopo il suo ritorno dall’America Latina: «Un’esperienza straordinaria, magari si potesse più spesso». Prima autrice italiana a entrare nel repertorio della Comédie Française, con la sua Trilogia del Naufragio sulle migrazioni nel Mediterraneo, ha scritto testi legati al recupero contemporaneo di moduli e temi della drammaturgia classica. Assieme ad Anna Barbera è fondatrice del Centro […]
30 Marzo 2024

Madri e attori: i piccoli eroi di Lina Prosa in un...

Guido Valdini, «la Repubblica»

La drammaturgia di Lina Prosa, radicata nel mito classico (è nata a due passi dal tempio dorico di Segesta), ambisce a fare scivolare le profondità degli archetipi nel moderno (o post moderno); combina, così, l’eroico col minimale e la metafora con la denuncia politico-sociale, in una struttura linguistica antiletteraria e fratturata che aggira l’oggettività del […]
30 Marzo 2024

Top Girls di Caryl Churchill

Andrea Pocosgnich, «Teatro e Critica»

La produzione di Top Girls del Teatro Due di Parma ha prodotto non solo uno spettacolo che nella regia di Monica Nappo è un oggetto molto interessante e inaspettato, ma anche la pubblicazione del testo di Caryl Churchill. Opera drammaturgica del 1982 che squaderna sul palco prima un gruppo di «signore del passato» (come le […]
30 Marzo 2024

Edoardo Fadini, Scritti sul teatro, a cura di Arma...

Andrea Pocosgnich, «Teatro e Critica»

«Uno sguardo fortemente politico ma mai piegato a ragioni semplicemente ideologiche, segnato in profondità dal metodo dialettico eppure molto netto nel giudizio. Un punto di vista che si sviluppa compiutamente all’interno delle dinamiche, delle tensione e delle contraddizioni del tempo che attraversa e per questo ancora più interessante per noi lettori ormai inevitabilmente distanti da […]
26 Marzo 2024

Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett

Massimo Bertoldi, «Centro di Cultura dell’Alto Adige»

Nel catalogo dell’imolese Cue Press il nome di Samuel Beckett è una sorta di fiore all’occhiello tanti sono i libri inediti per l’Italia pubblicati in questi anni, dai fondamentali Un canone di Ruby Cohn a Capire Samuel Beckett di Alan Astro cui si affianca la serie Quaderni di regia e testi riveduti curata da Luca Scarlini finora rivolti ad Aspettando […]
22 Marzo 2024

Condannato alla fama: chi se non Beckett?

Anna Maria Sorbo, «Limina Teatri»

Grazie alla Cue Press, casa editrice specializzata in teatro, cinema e arti, di stanza a Imola e di larghe vedute riguadagniamo una delle più appassionanti biografie letterarie dei nostri tempi, incredibilmente da noi fuori catalogo da anni: Condannato alla fama: la vita di Samuel Beckett di James Knowlson, riproposta con la cura di Gabriele Frasca e la […]
18 Marzo 2024

Per il Nobel Jon Fosse è difficile riconciliarsi...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

L’investitura del Nobel è molto simile all’investitura di un Papa, nel senso che, grazie alla popolarità raggiunta, anche gli scritti, che si tenevano nel cassetto, trovano immediata pubblicazione. In Italia, Jon Fosse non vantava certo una grande popolarità, si deve a case editrici che hanno scelto di pubblicare solo teatro, sia per quanto riguarda i […]
11 Marzo 2024

I supereroi al cinema

Alessandro Mastandrea, «fantascienza.com»

Dopo decenni in cui erano poco più che macchiette, dalla fine degli anni Settanta, lentamente ma costantemente, i supereroi si sono ricavati spazi e attenzione sempre maggiori nel mondo del cinema. Prima il Superman di Donner, poi il Batman di Burton, poi via via Iron Man, 300 e Watchmen di Zack Snyder, il Batman di […]
1 Marzo 2024

Ecco i primi titoli della Cue Press

Federico Platania, «SamuelBeckett.it»

Dopo essere stati annunciati, ecco i nuovi titoli pubblicati dalla casa editrice Cue Press che porta per la prima volta in Italia alcuni importanti saggi critici dedicati a Samuel Beckett, insieme alla ri-edizione dell’unica biografia autorizzata dello scrittore, Condannato alla fama di James Knowlson, pubblicata per la prima volta nel nostro paese da Einaudi, ma […]
18 Febbraio 2024

Il problema delle origini, tra miti greci e miti o...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Il primo libro che lessi di Antonio Attisani fu Teatro come differenza, edito da Feltrinelli nel 1968, contemporaneo del mio Teatro a Milano 1968-78. Il Pier Lombardo e altri spazi alternativi, edito da Mursia. Entrambi cercavamo un teatro che si differenziasse da quello istituzionale, diventato, malgrado tutto, un teatro che ammiccava ad operazioni di tipo […]
15 Febbraio 2024

Carrozzeria Orfeo, quindici anni di successi ben c...

Andrea Malosio, «Hystrio», XXXVII-2

Quindici anni, un tranche de vie significativo per un’impresa, sufficiente a fare una storia. Per Carrozzeria Orfeo, compagnia itinerante, nata dall’incontro casuale nelle sale prova d’accademia, questi quindici anni sono stati il principio, la crescita, il consolidarsi di un progetto artistico e imprenditoriale ben raccontato in questo volume edito da Cue Press e scritto dal […]
13 Febbraio 2024

Per una sociologia di Stranger Things

Ludovico Cantisani, «ODG Magazine»

La casa editrice Cue Press di Bologna ha dato di recente alle stampe il volume collettivo I segreti di Stranger Things, raccolta eterogenea di saggi a cura di Kevin Wetmore jr., professore di teatro e cinema in Marymount. Sin dal sottotitolo del libro – Nostalgia degli anni Ottanta, cinismo e innocenza – si intuiscono alcune […]
10 Febbraio 2024

Samuel Beckett, un vademecum per affrontarlo

Michele Casella, «la Repubblica»

Entrare nelle opere di Samuel Beckett, autore ‘assurdo’ per antonomasia, precursore di una visione artistica omnicomprensiva, deve essere stato facile per Enzo Mansueto. Perché il lavoro di sottrazione continua che caratterizza il ‘non’ stile dell’autore irlandese si sovrappone al calibratissimo senso ritmico nell’uso della parola. Questa familiarità col ritmo Enzo Mansueto di sicuro la possiede, […]
6 Febbraio 2024

Ruby Cohn — Beckett: un canone. Intervista a Enz...

Sergio Rotino, «Satisfiction»

Erano decenni che in Italia non si vedeva una simile attenzione verso l’opera di uno dei più grandi geni letterari che abbia prodotto il Novecento. Si vede che finalmente era tempo di dare a Cesare quanto gli spettava, quindi a Samuel Beckett quel che è di Samuel Beckett. E se il Meridiano mondadoriano, Romanzi, teatro […]
3 Febbraio 2024

Intervista di Mario Mattia Giorgetti a Gigi Giacob...

Mario Mattia Giorgetti, «Sipario»

Gigi Giacobbe da oltre undici anni collabora alla rivista «Sipario», e puntualmente ad ogni stagione segue spettacoli in Sicilia e in varie città d’Italia compresi i Festival che vengono proposti. Quando scopri il regista Bob Wilson e quale è stato il primo spettacolo che hai visto? Bob Wilson non è solo un regista ma un […]