Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

1 Novembre 2022

Il corpo in testa

«Hystrio», XXXV-4

L’attività di Alessandro Garzella viene presentata tramite un lavoro difficile da definire, se non – forse – per via negativa, come nota Porcheddu nell’introduzione. E se il libro «non è un romanzo, non è un racconto, non è un saggio, non è un manuale, non è una testimonianza, non è un pamphlet, non è un diario intimo ma è tutte queste cose insieme», è proprio in questa complessità che troviamo il modo per rispecchiare l’attività di un artista difficile da etichettare.

1 Novembre 2022

Tennessee Williams. Modernismo in t-shirt e i rinnovamenti del teatro

«Hystrio», XXXV-4

Grazie ai suoi personaggi, eroi e antieroi che emergevano dal contesto dell’America del secondo dopoguerra, Tennessee Williams diede vita a un’estetica drammaturgica innovativa e rivoluzionaria. Attraverso l’analisi dei suoi personaggi, il volume disegna un ritratto a tuttotondo, umano e artistico, dell’autore statunitense di alcuni degli indiscussi capolavori della drammaturgia del Novecento.

1 Novembre 2022

Beckett fra le righe. Appunti di lavoro

Pierfrancesco Giannangeli, «Hystrio», XXXV-4

Sentite questa: «Il teatro per me è prima di tutto svago dal lavoro sulla narrativa. Abbiamo a che fare con un certo spazio e con persone in quello spazio. Questo è rilassante». La frase la pronunciò Samuel Beckett parlando con Michael Haerdter, suo assistente per la messinscena di Finale di partita allo Schiller Theater di Berlino, nel settembre del 1967. A riportarla è Stanley E. Gontarski nell’introduzione alla pubblicazione del quaderno di regia dedicato appunto al testo e alla sua revisione da parte dell’autore, in versione italiana meritoriamente pubblicato dall’editore Cue Press. Lasciando da parte il piacere del dettaglio che tale revisione produce, insieme alla pura emozione suscitata dal poter leggere gli appunti nella scrittura di Beckett – cose preziose che si devono lasciare alla relazione personale del lettore con il libro – bastano queste parole per capire come anche un autore considerato, a buon diritto, uno scrittore di letteratura, comprenda la necessità di un’altra grammatica quando si tratta di uno spettacolo. Insomma, anche Beckett venne rapito dalle necessità della «scrittura scenica», indispensabile sviluppo della «scrittura drammaturgica», poiché chi scrive per il teatro, o quando si scrive per il teatro, lo si fa per essere rappresentati piuttosto che letti. In precedenza era accaduto a un altro immenso autore, il nostro Pirandello, che a contatto con gli attori, in verità più Ruggeri e Melato (con sullo sfondo Talli) che Musco, comprese che quella che si parla sul palcoscenico è un’altra lingua da quella che si scrive sulla carta. In più, Beckett nella sua dichiarazione sottolinea per ben due volte la parola «spazio». Il segreto sta proprio lì, nell’intuizione di ciò che rende possibile la messinscena e dunque il teatro: lo spazio, dove azione e movimento producono il tempo. Il luogo dove tutto diviene grazie alla determinante presenza dell’attore, insieme al respiro dello spettatore.

20 Ottobre 2022

Dedicato a chi crede che scrivere un monologo sia facile. Intervista di Marina Cappa a Josep Maria Miró

Marina Cappa, «Tortuga Magazine»

Qualche giorno fa, mentre stava sbarcando dall’aereo a Firenze, una telefonata gli ha annunciato che aveva vinto ventimila euro. I soldi contano, anche per gli scrittori. Ma ben di più pesa stavolta il valore artistico di questo Premio nazionale della letteratura drammatica 2022.

Il ministero della Cultura spagnola lo ha assegnato a Josep Maria Miró, scegliendolo fra diverse centinaia di autori che avevano pubblicato nell’ultimo anno un testo di drammaturgia.

Il suo era Il corpo più bello che si sia mai visto da queste parti. Qualche mese fa – al Teatro Rifredi di Firenze, in anteprima mondiale – Maddalena Crippa diede appunto «corpo» a questo «testo per unico interprete (a sette voci)», che ricostruisce una morte e un incontro.

Adesso Miró è tornato a Firenze, sempre al Teatro di Rifredi diretto da Giancarlo Mordini, in occasione della presentazione del suo ultimo spettacolo: L’amico ritrovato, adattamento del libro di Fred Uhlman che in passato era stato sceneggiato per il cinema da Harold Pinter.

Per l’occasione ha partecipato anche alla presentazione del nuovo libro in cui Fabio Francione (per la serie Scheiwiller Sguardi sul teatro contemporaneo) intervista 16 protagonisti del teatro contemporaneo, fra cui appunto lui.

L’autore è catalano e i suoi testi sono tradotti in diverse lingue, compreso lo spagnolo. Ha 45 anni, scrive (fra i suoi lavori più noti, Il principio di Archimede e Nerium Park) ma dirige anche, regista di opere non necessariamente sue.

Attivo fuori dalle scene, Josep Maria ha raccontato di essere pure andato a un convegno di Vox per fotografare i partecipanti, che si sono subito tolti la maglietta per esporre toraci e muscoli. Non che gli uomini politici siano meno narcisi dei loro seguaci, è convinto. Come ha spesso osservato: la loro presenza nelle sale cinematografiche o teatrali si nota solo quando fuori li aspettano un red carpet, fotografi e televisioni, e dichiarazioni a uso auto-promozionale.

Restiamo in tema: per lei, fare teatro è fare politica?

Tutto è politica, vivere è politica. Il teatro lo è perché è un incontro di spettatori che condividono uno sguardo sul mondo, con posizioni uguali oppure diverse, e l’occasione di mettere in dubbio le proprie posizioni e il sistema intero in cui vivono. In teatro noi rinnoviamo il nostro patto di convivenza e i nostri principi. Anche quando si tratta di spettacoli di puro intrattenimento. Pure questa è un punto di vista politico, anche se conservatore.

Che cosa vede quando guarda oggi all’Italia?

Quello che succede è preoccupante, non solo in Italia ma anche nel Nord Europa, in Francia, in Spagna: mi tocca, non è qualcosa di esterno a me. Oggi alcuni partiti che sono ai margini della democrazia sono usciti dall’armadio, non si vergognano di mostrarsi. Ma è inquietante anche che altri partiti democratici, o che si dicono tali, abbiano permesso loro l’ingresso nelle istituzioni, attraverso patti, accordi. Senza dimenticare il quarto potere, la stampa, che ha fatto loro la campagna.

Il ruolo dell’artista qual è, allora?

Deve essere cronista del suo tempo, raccontarne la complessità, generare riflessioni, dubbi. Mai dogmi, però. Un artista può esprimersi in migliaia di modi diversi, ma l’importante è farlo sempre con una visione etica.

Lei in alcuni casi scrive testi che saranno diretti da altri, a volte invece è regista di se stesso. Che differenza c’è nell’approccio? Non ha paura di essere «tradito» o di «tradire»?

Ho avuto molte esperienze, felici e meno. Quando affido un mio testo a qualcuno sottoscrivo con lui un patto di fiducia, ed è vero che negli ultimi anni sono diventato un po’ geloso, cerco maggiori garanzie. Quando invece dirigo il lavoro di un altro – e ne ho fatti diversi – mi metto al servizio di quel materiale e posso farlo solo se ci credo, anzi dopo un po’ finisce che credo di averlo scritto io quel testo. In ogni caso, io scrivo il teatro che mi piacerebbe vedere, tradimento per me significherebbe scrivere pensando solo alla reazione del pubblico.

Non vorrebbe dedicarsi alla narrativa?

Da tempo lo vorrei fare, ma ho sempre molti dubbi su me stesso, non so se ne sono capace. Ma prima o poi verrà il momento. Il corpo più bello che si sia mai visto da queste parti è il mio primo monologo, un editore lo ha letto e ha detto che sarei pronto.

Non aveva mai scritto monologhi prima?

No, spesso si crede che questa sia la forma teatrale più semplice, ma non è così. Lo puoi scrivere dopo che hai affinato gli strumenti di scrittura, le idee. C’è un’età per ogni cosa, come per gli attori: non puoi fare Re Lear o Giorni felici se non hai una certa esperienza alle spalle. Uno dei vantaggi degli anni che avanzano è che si perde l’ansia di fare tutto subito, di ottenere risultati: adesso prendo molto più sul serio ciò che faccio e sono più cosciente del perché scrivo.

Che cosa la spaventa di più nel provare la narrativa: la storia, i dialoghi?

Come dico sempre ai miei corsi di Drammaturgia, il teatro è un genere molto complesso; quando lo scrivi devi sempre tenere in considerazione la teatralità. Però poi lo monti su un palco, assieme ad altre persone e scopri la sua efficacia, sperimenti, puoi togliere battute, correggere qualcosa con gli attori: si sperimenta mentre lo fai e c’è un lavoro di équipe. Nella narrativa tu sei solo, il riscontro te lo dà solo l’editore, che è un altro mondo ed è un vincolo molto importante, tante carriere letterarie sono dipese da lui. Quando il libro è finito, e già questo mi sembra richieda molto più tempo, si pubblica: l’esposizione al pubblico è un salto nel buio. Ma ammetto che sono tutte scuse per ritardare qualcosa che finirò per fare.

I premi, come questo che ha appena vinto, aiutano?

Fanno piacere. Ma – premi o non premi, successo o non successo – ogni volta che ti metti a scrivere una cosa nuova, ricominci da zero. Lo spettatore in teatro non vedrà le tue statuette e gli applausi che hai ricevuto: vedrà quello spettacolo nuovo, e lo giudicherà. Questo è meraviglioso e terribile al tempo stesso. Anche molto adrenalinico, perché in teatro l’esperienza non è garanzia di nulla. Ogni volta sei messo alla prova. E ti devi confrontare non solo con gli altri drammaturghi, ma anche con te stesso, con quello che hai fatto prima e che ti potrà essere giocato contro.

Il suo rapporto con il Teatro di Rifredi dura da tempo…

C’è un rapporto umano e artistico straordinario. Anche con gli spettatori. Rifredi ha creato un pubblico fedele, ha costruito un’identità in cui lo spettatore si riconosce. Come succede con le librerie. Puoi averne una grossa, dove il commesso impara due cose e ti suggerisce l’ultimo romanzo, quello che piace a tutti, vende molto… Dall’altra parte, c’è il negozio magari piccolino dove il libraio ti consiglia l’opera giusta proprio per te. Questo è il Teatro di Rifredi.

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17 Ottobre 2022

Milo Rau, Realismo globale

Maria Dolores Pesce, «dramma.it»

Che il Teatro sia o possa essere non solo aristotelica mimesi/rappresentazione ma soprattutto uno strumento per cambiare il mondo è oggetto di una riflessione antica che nella modernità si è fatta spesso più consapevole. Come l’alchimista sanguinetiano, il facitore di teatro combina in maniera singolare gli elementi della rappresentazione per produrre una materia estetica nuova da cui sprigionare un’energia che travalica, con la quarta parete, i confini della scena per entrare di diritto tra le forze in campo, dentro le dinamiche attraverso e quali il mondo «si fa» e si evolve. Milo Rau è forse l’artista che più di ogni altro progetta di organizzare ed utilizzare con più consapevolezza questo strumento/teatro, rendendo in qualche modo esplicite le leggi, o meglio le regole implicite, che lo strutturano. Cerca cioè di abbinare la riflessione estetica con la fattiva operatività, in una reciproca condivisione ed influenza di cui il cosiddetto «Manifesto di Gent» (coevo all’assunzione della direzione del teatro di quella città) è espressione dialettica. Da questo «Manifesto», che chiude il volume di cui trattiamo, citiamo in proposito due illuminanti affermazioni: «Il primo passo verso il ‘teatro di città del futuro’ è quindi trasformare le regole implicite in regole esplicite», la prima; «Non si tratta soltanto di rappresentare il mondo. Si tratta di cambiarlo», la seconda. Il libro dunque raccoglie ed anticipa le ragioni di queste conclusioni, attraverso una raccolta di conversazioni sul teatro con critici e studiosi, e con la riproposizione di alcuni testi e discorsi, chiusa appunto con il citato «Manifesto di Gent». La pubblicazione, infine, è introdotta da una partecipata prefazione/presentazione di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari che riconoscono in Milo Rau alcuni degli elementi del loro essere nel teatro, con alcuni punti che si possono percepire sovrapponibili con momenti del loro, più liricamente motivato, «Teatro Politttttttico». Un volume che è una sorta di autopresentazione di uno degli autori più noti e anche controversi del teatro mondiale di oggi.

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10 Ottobre 2022

Graces Anatomy. Dai corpi al testo

Emilio Nigro, «Persinsala»

A Lamezia Terme, Calabria tirrenica e centrale. Tra le province di Cosenza e Catanzaro, a un respiro dalla Costa degli Dei, probabilmente una delle più incantevoli d’Europa. Nella terra di ‘ndrangheta, evitando piagnistei dal sapore della commercializzazione dei dolori a fini di persuasione (pratica diffusa in regione), un presidio culturale, sociale, etico, punto di riferimento per ogni strato sociale.

Tutto pronto per realizzare il bando. Si pensa a Silvia Gribaudi, danzatrice – a stringere la divaricazione tra vocazione e proposta (la passione di Dario Natale per la danza, il ribadire la potenza dei nuovi linguaggi) – l’idea è del laboratorio aperto, professionisti e neofiti, un osservatore critico. E poi il Covid. Il lockdown. La scappatoia: realizzarlo in streaming. Graces Anatomy, a cura di Sandra De Falco, per la penna di Michele Di Donato, edito da Cue Press (69 pagine, € 14,99) è letteralmente il diario di bordo di quella esperienza.

Introduzione di Dario Natale e Domenico D’Agostino (Scenari visibili), in postfazione il resoconto dei partecipanti, parola a chi precedentemente aveva usato il corpo. Emozioni vivide, incanalate e costrette e perciò liberate in meccanismi puri di espressione. La rappresentazione a significare movimenti intimi tradotti in gesti, tentare di incarnare l’irrappresentabilità del presente vivo. La penna di Di Donato, sensibile auditore, pennella a guazzi d’acquerello, descrive a rigore di cronaca e verseggia coinvolto nella partecipazione. Quaranta performer, l’oggetto immaginifico del pensiero tradotto. Un’opera scultorea di riferimento: Tre Grazie, di Antonio Canova, «un nuovo ordinamento degli spazi dettato dai corpi».

Alcune foto prima di calare il sipario, postcards di un remoto tornato a galleggiare. Si fa inconsueta testimonianza, il volumetto, di vissuti umani in situazioni altre da cosa è convenzionalmente accettata come quotidianità. E di come l’arte, qualora ancora ci fosse bisogno di ribadirlo, si sovrapponga ai responsi di anima e psiche settati in modello seriale. La liberazione dei corpi, rianimati quali tracce di linguaggio, di presenza, di comunicazione, di relazione con l’altro. Un pezzo immancabile, nelle biblioteche teatrali.

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9 Ottobre 2022

Compito del teatro, fin dalla sua nascita è stato quello di relazionarsi con l’Altro

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Secondo Claudio Bernardi, il Teatro Sociale non era altro che la «nuova frontiera della scena internazionale», da intendere come una summa del potere relazionale. In verità, si può affermare che compito del teatro, fin dalla sua nascita, è stato quello di utilizzare il palcoscenico per mettersi in relazione con l’Altro, evidenziando la sua funzione sociale che, però, è ben diversa dal vivere una relazione di tipo sociale.

Il Teatro Sociale, a cui fa riferimento Giulia Innocenti Malini nel volume, pubblicato da Cue Press, è un «genere» che si afferma, nel secondo Novecento, durante la rivoluzione sessantottesca, la stessa che registrò la nascita di forme teatrali alternative a quelle degli Stabili che perseguivano il carattere artistico e, pertanto, estetico nelle loro produzioni.

Tra i nuovi generi, il Teatro Sociale si occupò di relazioni, senza però ricorrere con continuità alle esigenze della messinscena e del palcoscenico tradizionale. C’è da dire che, su questo argomento, ha lavorato molto l’Università Cattolica attraverso una serie di ricerche pubblicate sulla prestigiosa rivista Comunicazioni sociali; e attraverso gli studi di Bernardi, Cuminetti, Dalla Palma, Cascetta. In questa sede insegna Giulia Innocenti Malini, che è anche Operatrice e Coordinatrice del corso di Alta Formazione per Operatori nel Sociale. Cercare le origini di questo genere è il traguardo a cui tende l’autrice, convinta che, al di là degli obiettivi artistici o estetici, il Teatro Sociale possegga altri meriti che esercita con metodologie diverse, in particolare nel campo terapeutico ed educativo, da cui sono derivate delle discipline come la Teatroterapia, l’Educazione alla teatralità e il Drama-therapy, crogiolo di parecchie attività performative che utilizzano il gioco, il rito, la festa, il ballo, utili per creare delle interazioni che permettano al Teatro Sociale di intervenire nelle comunità, nei gruppi e persino nei singoli che soffrono forme diverse di disagio nelle case di cura, nelle scuole, nelle periferie, nei campi profughi, nelle carceri. Sulla spinta di questa necessità nacquero il Teatro di Animazione, che ebbe in Franco Passatore il suo punto di forza, esercitato nelle scuole o negli ospedali psichiatrici, ed ancora il Teatro di Base, i cui operatori diedero il loro apporto, anche politico, alle esigenze delle masse popolari.

Ci si imbatte in esperienze eterogenee, libere da esigenze professionistiche e proiettate verso l’essenza primordiale del teatro, sempre più concepito come Laboratorio, con obiettivi non artistici, ma terapeutici e pedagogici. Si tratta di Laboratori diversi da quelli di Grotowski o Barba, citati dalla Malini come fonte ispiratrice di un lavoro che verrà esplicato con attitudini diverse, perché fuori dal teatro, onde venire incontro a chi ne avesse bisogno.

Forse, il modello più giusto è quello di Giuliano Scabia con le sue «Azioni teatrali», con l’uso di grandi pupazzi per rappresentare i problemi delle nuove generazioni e la «disumanità» della vita metropolitana, pupazzi che facevano il verso a quelli di Peter Schuman e del «Bread and Puppet», con i suoi complessi spettacoli di strada. Di Scabia, inoltre, bisogna ricordare il suo lavoro accanto a Franco Basaglia e l’esperienza di Marco Cavallo, nata come opera collettiva e integrata dalla partecipazione degli stessi ammalati, con un lavoro molto approfondito, come quello di Armando Punzo nelle Carceri di Volterra, anche se esercitato con maggiore volontà e voluttà artistica.

L’autrice divide il suo lavoro in tre periodi, quello dello Stato nascente, durante il ventennio 1958-78, quello del Periodo rivoluzionario che coincide con gli anni 1978-2008, per concludere con alcune considerazioni che riguardano il presente, dove manca qualsiasi riferimento al lavoro svolto da Nanni Garella con i pazienti della USL di Bologna, con i quali, dopo lunghi percorsi di formazione, ha realizzato alcuni spettacoli, fra i quali il bellissimo Fantasmi (2002), primo abbozzo di Pirandello dei Giganti della montagna, con notevoli risultati artistici, che ebbe grande successo di pubblico e di critica, con i malati applauditi come veri e propri attori. Se vogliamo citare ancora un grosso nome, anche Robert Wilson nel 1968 si conquistò la fama di «terapista» sperimentale per il suo lavoro con un sordomuto e un malato di cerebropatia, per i quali creò delle vere e proprie pièces teatrali.

3 Ottobre 2022

Dalla Grecia arcaica alla Grecia di Pericle, il dualismo è arrivato ai giorni nostri

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Esistono dei periodi e delle culture che sono contrassegnate dalla «scrittura» orale e altri che vedono l’affermazione della scrittura letteraria; entrambe utilizzano la parola con finalità narrative o teatrali. Possono essere, in generale, caratterizzate da periodi più o meno brevi, come accadde nella Grecia antica, prima dell’avvento di Pericle, quando la recitazione orale si contrassegnava come fenomeno di gruppo, oppure da periodi più lunghi, quando la scrittura permetteva che la recitazione fosse un’operazione di tipo individuale.

Com’è noto, la trasmissione orale si era caratterizzata anche per la sua capacità di trasmettere il sapere, grazie alla presenza dei poeti che la trasformarono in generi teatrali, come la tragedia e la commedia. C’è da dire che la trasmissione orale avveniva in spazi liberi che davano soltanto l’idea della scena, dove si esibivano gli Aedi e i Cantori, inventori, a loro volta, della parola come «Azione parlata», che fa venire in mente un saggio giovanile di Pirandello, dallo stesso titolo; azione parlata che, con altri stratagemmi, dovuti all’invenzione dei dialoghi e alla partecipazione del Coro, veniva ereditata da Eschilo, Sofocle, Euripide, con la sola differenza che trattavasi di quella particolare parola poetica che, appena detta, diventava azione, senza ausilio di apparati scenografici.

A dire il vero, questo trapasso si verifica in tutte le culture delle origini, come sarà, per esempio, quella medioevale, quando nacque la tradizione orale ad opera dei Trovatori, prima dell’avvento della grande poesia trecentesca, a cominciare dalla Commedia di Dante. Se poi vogliamo ancora indicare, in tempi più ravvicinati a nostri, una nuova cultura delle origini, bisogna partire dagli anni Settanta, quando cominciò ad affermarsi il Teatro dell’Oralità.

In un volume, pubblicato da Cue Press: Lingua orale e Parola scenica. Risorsa e testimonianza a cura di Vera Cantoni e Nicolò Casella, l’argomento viene trattato con una serie di brevi saggi che mostrano un andamento storico, pur se con qualche indagine spuria che riguarda autori come Chekov, Beckett, Jelinek; per i quali Fausto Malcovati, Tommaso Gennari e Roberto Nicoli — sostenendo che in alcune loro opere si avverte un rapporto con il linguaggio orale, da cui deriverebbe, in parte, la loro scrittura — ricercano elementi che, appunto, possano far pensare a una pseudo oralità, dovuta a certi innesti presi dalla tradizione popolare. Il bisogno dell’oralità, a parte quella «primaria», di cui ha scritto Walter Ong, avviene quando chi scrive per il teatro avverte momenti di stasi, se non di regresso della lingua scritta che, a sua volta, necessita di una linfa vitale che può esserle data da un uso particolare della comicità o dei vari dialetti. Pietro De Sario fa riferimento, per esempio, all’oratoria politica, dalla forte componente orale, presente nell’Ecclesiazuse di Aristofane, mentre Giorgia Bandini evidenzia le «ricorsività foniche» presenti nei Menecmi di Plauto.

Come detto sopra, non potevano mancare gli interventi sul Teatro dell’Oralità, in particolare quello che fa uso di forme dialettali, come accade in Marco Paolini, Gaspare Balsamo, Emilio Isgrò; e ancora, all’uso di «Lingue nuove», a cui ricorrerebbe Federico Tiezzi quando porta in scena testi non teatrali. Il ricorso all’uso dei dialetti non è del tutto nuovo, ma si è reso necessario quando intende dimostrare come la profonda ricchezza fosse dovuta alla capacità, insita in loro, della trasmissione orale, proprio perché contengono componenti non scritte, ma verbali, che risentono della tradizione orale che diventa, a sua volta, una vera e propria risorsa di quella scritta. Questa derivazione è maggiormente presente quando si ricorre al «Cuntu», come fa Gaspare Balsamo e altri cuntisti.

Oggi assistiamo a un fenomeno di quella che, sempre Ong, definisce «oralità secondaria», tipica di una nuova era liminale, dove la scrittura è contaminata dall’uso dell’elettronica che permette all’espressione verbale un maggior coinvolgimento, dovuto a ben noti apparati tecnologici ed elettronici che spesso nascondono, grazie agli alti volumi sonori, pratiche effimere e, a volte, dilettantesche. Il volume contiene anche un «Cantare» di Giuliano Scabia: Nella voce a passo di fiato.

2 Ottobre 2022

Orsini regala un finale a Ivan Karamazov

Fausto Malcovati, «Corriere della Sera»

Un finale. Sì, un finale per Ivan Karamazov. Dostoevskij non lo ha scritto. Nel romanzo tutti i personaggi ne hanno uno: Mitja parte per i lavori forzati con Grušenka, Alëša progetta un futuro con i ragazzi che ha riunito per i funerali di Iljuša. Tutti tranne lui. L’ultima sua apparizione è nell’aula del tribunale dove si svolge il processo per il parricidio. Ormai in preda alla febbre cerebrale in cui lentamente sprofonda, vuole scagionare il fratello. «Non è lui che ha ucciso nostro padre, è Smerdjakov. Ha confessato, ma non può testimoniare, poche ore fa si è impiccato». Nessuno gli crede: farnetica, dicono, è malato. E scompare. Di lui non si sa più nulla. Sì, ci vuole un finale per Ivan Karamazov. Ci ha pensato Umberto Orsini, mitico Ivan dello sceneggiato di Sandro Bolchi, anno 1969. Chi non lo ricorda, biondissimo, quasi albino, gli occhiali rotondi, l’aria concentrata? «Me lo sono inventato io quel trucco. Cercavo la fisionomia di un intellettuale perplesso, di un figlio inquieto di quegli anni tragici (nello stesso anno della pubblicazione del romanzo lo zar Alessandro II viene ucciso dalla bomba di un terrorista). Da allora non ho mai abbandonato quel personaggio. Ce l’ho dentro, è diventato il mio doppio, il mio sosia. Ci sono tornato una decina d’anni fa, portando in teatro il lungo monologo del Grande Inquisitore. Attualissimo. Sconvolgente nella sua lucidità.»

Sì, è lui che ha inventato il finale, insieme al regista Luca Micheletti. Le memorie di Ivan Karamazov (Cue Press), sarà in scena dal 4 al 16 ottobre al Piccolo Teatro Grassi di Milano in prima nazionale. Un lavoro lungo, complesso, sorprendente, un montaggio in cui si intrecciano discorsi di Ivan, battute inventate, frammenti di altre opere di Dostoevskij (per esempio il celebre attacco di Memorie dal sottosuolo, «Sono un uomo cattivo…»), voci di altri personaggi che irrompono, si accavallano, si innestano nell’aggrovigliato flusso di coscienza del protagonista.

Ivan vuole concludere la sua vicenda di allora, vuole giustizia, quella giustizia che ha fallito per causa sua. È solo con la sua coscienza, con la sua storia, con i suoi fantasmi, con le sue ossessioni. È passato un secolo, forse di più, due, tre. Ivan è vecchio, «mi hanno dato per disperso ma sono ancora qui, sono ancora vivo». Ricompare nell’aula di quel tribunale dove per l’ultima volta si era presentato. Tutto intorno è distruzione, rovina, caos, disfacimento, degrado, documenti stracciati, carte sparpagliate ovunque, registri sfasciati. Come se fosse passata una bufera, come se i secoli avessero rimescolato, ingarbugliato, sconquassato tutto. In questo paesaggio corroso, sgretolato dal tempo, lui, Ivan, si aggira, vuole ricostruire la sua storia, vuole dire la sua verità, esige la sua sentenza, chiede ascolto, attenzione, giustizia, come se la sua vita cominciasse dopo la sua scomparsa. Si racconta, e nel discorso si affollano i suoi incubi. Primo fra tutti il diavolo, quel diavolo meschino, banale, petulante, presuntuoso che gli è apparso nell’ultima notte prima della sua devastante deposizione in tribunale: è il suo doppio malvagio, e qui torna a provocarlo, a intralciare i suoi discorsi, a ricordargli i suoi errori, eterno principio del male, alleato e nemico.

«Nello sceneggiato di Bolchi avevamo inventato una soluzione che sottolineava il suo essere la mia coscienza sporca: io dicevo le battute di Ivan e la mia voce registrata diceva le battute del diavolo. Come in fondo vuole Dostoevskij, il diavolo non è altro che il me stesso volgare, il mio sottosuolo turbolento, provocatore, categorico. Anche qui lo aggredisco, lo scaccio, cerco di annullarlo, vorrei strangolarlo ma lui rispunta continuamente a ricordarmi la mia ambiguità, la mia colpa, la mia mancanza di fede. Sì, perché uno dei grandi temi del romanzo è proprio lo scontro tra chi accetta Dio e chi lo rifiuta. C’è un breve scambio di battute tra il beffardo Fëdor Karamazov, padre lascivo, perverso, il cerebrale Ivan e il mite Alëša, proprio sull’esistenza di Dio: un dialogo che abbiamo voluto inserire perché ci sembrava importante per definire lo scetticismo di Ivan. ‘Dio esiste?’, mi chiede mio padre. ‘No, Dio non esiste’, rispondo. ’Dio esiste, Alëša?’. ’Sì, padre, esiste’. ‘Ivan, l’immortalità esiste? Un’immortalità qualunque, anche se piccolissima, minuscola?’. ‘No, neppure l’immortalità esiste’. ‘Di nessun tipo?’. ’Di nessun tipo’. ‘Cioè lo zero assoluto, il nulla? Ma ci sarà almeno qualcosa, sarebbe meglio del nulla!’. ’Zero assoluto’. Ecco, in questo zero assoluto c’è tutto Ivan, l’ateo, il negatore. È una componente fondamentale del mio personaggio che riappare secoli dopo. Ancora il nulla, ancora il vuoto. Ed è per questo che lo ripropongo oggi nello spettacolo la Leggenda del Grande Inquisitore. Anche qui abbiamo trovato un espediente per renderla attualissima e insieme lontanissima: un vecchio fonografo, uno strumento antidiluviano che trasmette la mia interpretazione del 1969. Non tutto il testo, ovviamente, che è lunghissimo, solo i frammenti più forti, più aggressivi, più categorici. A questo proposito voglio raccontare un episodio che mi riguarda, sempre dello sceneggiato del 1969. Diego Fabbri, autore della riduzione, aveva previsto per quella scena uno sdoppiamento, una sorta di dissolvenza in cui scompare la stanza dove sono io e, con un cambio di costume, divento il Grande Inquisitore, con parrucca e tonaca. Mi rifiutai. È Ivan che inventa questo personaggio tremendo, algido, glaciale, perché togliergli la responsabilità di raccontare quella leggenda? È lui che ci guida nell’implacabile requisitoria del vecchio Inquisitore contro Cristo, interlocutore muto, imputato impassibile, presenza-assenza, capace solo di un bacio finale ‘sulle vecchie labbra esangui dell’Inquisitore’. E l’ho spuntata. Mi sono assunto la responsabilità dell’intero monologo, nessun taglio, nessun arrangiamento, le sessanta pagine del copione tutte d’un fiato. Si è deciso di dedicare un’intera puntata, un’ora e passa di trasmissione: sembrava interminabile e invece ha appassionato gli spettatori di allora.»

Certo il tema del Grande Inquisitore appassiona Orsini. «L’ho voluto perché è un momento fondamentale nell’ideologia di Ivan, il contestatore, il cattivo maestro che rifiuta ogni fede ma insieme rifiuta ogni azione.» Un tema che non ha tempo, che pone interrogativi all’uomo di allora come all’uomo di oggi. Ecco dunque il senso dello spettacolo: spingere gli spettatori a ragionare su questioni troppo in fretta accantonate o troppo semplicisticamente risolte. Questioni che invece premono ancora, disturbano ancora. Che cos’è la religione oggi? Qual è il vero insegnamento di Cristo? Quanto c’è di formale, abitudinario, esteriore nei nostri atti di fede? Ci domandiamo mai se la nostra non sia una devozione svuotata del senso profondo di quello che diciamo, ripetiamo, ascoltiamo? Obbediamo forse solo a comodi precetti stabiliti dalla Chiesa, da tutte le chiese, che poco hanno a che fare con l’autentico insegnamento evangelico? Il Grande Inquisitore, quando ha di fronte il misterioso predicatore che ha fatto arrestare perché troppo popolare, lo riconosce, non ha dubbi, è il Cristo reincarnato nella Spagna dei processi, dei roghi, degli autodafé e gli dice: vattene, hai detto secoli fa quello che dovevi, non abbiamo più bisogno di te, disturbi il nostro sistema solido, concreto.

Ecco la modernità, la lucidità delle pagine dostoevskiane: che cosa hanno fatto le chiese, l’ortodossa come la cattolica, se non rendere meccanico, asfittico l’insegnamento del Cristo? Norme, dogmi, precetti, regole, costrizioni, imposizioni. Il contrario di quello che ci dicono i Vangeli: Cristo ha dato all’uomo la libertà, la possibilità di scegliere, di autodeterminarsi. Ma l’uomo non vuole la libertà, troppo impegnativa, troppo scomoda. Un tema che a Orsini sta molto a cuore. Vuole, con il suo spettacolo, ricordare agli uomini: abbiate il coraggio di essere liberi, non cercate sottomissione, obbedienza, consenso, rifiutate il conformismo, siate autonomi da leggi che riducono il vostro libero arbitrio. E invece il Grande Inquisitore lo sa: l’uomo ha paura della libertà, troppo complicato valutare ogni gesto, cercarne la giustificazione, meglio che qualcuno decida per lui. Ecco il grande dilemma dell’uomo da secoli: più facile delegare che assumersi responsabilità, più facile seguire il gregge che difendere le proprie scelte, accettarne le conseguenze, positive o negative, felici o dolorose che siano, più facile l’acquiescenza che la rivolta. Dice Orsini: «Lo spettacolo si apre con una citazione evangelica, che è anche l’epigrafe del romanzo: ‘In verità, in verità vi dico: se il chicco di frumento caduto nella terra non muore, resterà solo, ma se muore, allora produrrà gran frutto’. Credo che queste parole siano importanti, perché ci aiutano a capire il percorso di Ivan, la sua solitudine, la sua inquietudine, la sua rivolta. Sì, Ivan è un chicco che non muore, che non dà frutto, che resiste, che rifiuta, è un ribelle, un contestatore, un sovversivo. Rifiuta il mondo così com’è, divorato da ingiustizie, discriminazioni, violenze. Si sofferma soprattutto sulla sofferenza dei bambini. Perché un innocente deve soffrire, se non ha commesso alcun peccato? Perché esistono uomini che violentano, stuprano, torturano piccole creature inermi, pure, candide? No, dice Ivan, questo mondo io non lo capisco, non lo voglio, lo rifiuto, mi ribello, protesto, prendo le distanze e restituisco il biglietto d’ingresso. Ma se rifiuta la creazione, allora rifiuta anche il suo Creatore. E senza un principio superiore che guidi le azioni degli uomini, allora ‘tutto è permesso’. Frase famosissima che è la vera molla del personaggio Ivan. Tutto è permesso, dunque non ci sono limiti, non ci sono freni, non ci sono ostacoli ai comportamenti umani. È una frase che risuona più volte nello spettacolo: è un monito ai ribelli, ai chicchi che non muoiono, perché tra la libertà del tutto è permesso e la depravazione non c’è più linea di demarcazione. Dunque anche il delitto è permesso. Una teoria che Smerdjakov afferra, fa sua, e uccide. Ma c’è un confine al ‘tutto è permesso’, un confine che Ivan non esplicita, tralascia, ma matura nel tempo: di ogni atto, anche il più perverso, bisogna avere il coraggio di assumersi la responsabilità. Cosa che non fa Smerdjakov: pur di non confessare si suicida. Ivan non lo farà mai: nonostante il suo rifiuto del mondo, ama la vita a dispetto della logica, ama ‘le foglioline vischiose, che spuntano a primavera, il cielo azzurro, certe persone, senza sapere il perché’; ha sete di vita, di passioni, nonostante tutto, di condivisione. E nella conclusione dello spettacolo c’è proprio la confessione di Ivan: Smerdjakov ha ucciso, ma il vero assassino sono io. Io che ho istigato, ho autorizzato, ho acconsentito, dunque condannatemi. Chiede, ormai vecchio, quella giustizia che gli è stata negata da giovane, perché nessuno gli ha creduto. Una giustizia che lo metta di fronte alle sue responsabilità, che condanni le parole oltre che i gesti. ‘Solo allora ci sarà la pace, solo allora il chicco morirà e darà gran frutto, un giorno o l’altro, con il tempo…’. Chiudo con questa battuta sul tempo, il grande nemico… Eccolo il finale che manca, che l’autore non ha scritto: la vecchiaia di Ivan, che capisce di avere parlato troppo e male, e che tuttavia ama la vita e attende la morte.»

Le parole… le parole possono anche uccidere. In questi tempi di infiniti sproloqui, di incessanti chiacchiericci, di assordanti dichiarazioni, Orsini con il suo spettacolo ci mette in guardia. Le parole hanno un peso, una forza, una penetrazione nelle coscienze che troppo spesso sottovalutiamo. Stiamo attenti. L’attrazione per gli slogan sensazionali, per le teorie a effetto, può avere conseguenze incalcolabili. Lo spettatore si porti a casa le crisi, le inquietudini, i tormenti, la protervia di Ivan, ma anche la sua ansia di pace, di serenità. E non dimentichi che siamo tutti un po’ Ivan, che lo ammettiamo oppure no.

2 Gennaio 2016

Farsi luogo: lo sguardo di Martinelli

Massimo Marino, «Corriere di Bologna»

È un librettino da leggersi tutto d’un fiato, Farsi luogo di Marco Martinelli. Lo pubblica, come ebook ma anche a stampa Cue Press, una giovane casa editrice di Imola specializzata in editoria teatrale, che sta recuperando alcuni saggi ormai introvabili (tra gli altri Brecht regista di Claudio Meldolesi) e molti nuovi testi. Questo di Martinelli […]
1 Gennaio 2016

Pim, quando il successo è essere off

Diego Vincenti, «Hystrio», XXIX-1

La storia di un’anomalia. Di un esperimento in grado di divenire realtà solida, per certi aspetti seminale. Si sa, i compleanni sono il pretesto per fare i conti con sé stessi. Per tracciare bilanci. O forse semplicemente per festeggiarsi. La pubblicazione di Pim Off è un po’ tutto questo, all’interno di un volume ibrido dove, […]
31 Dicembre 2015

Per un teatro vivente

Massimo Marino, «Doppiozero»

Procede per tesi, Marco Martinelli, intrecciando una spirale di 101 argomenti rivolti come riflessioni al lettore con un piglio fortemente discorsivo, quasi dialogico. D’altra parte l’idea di teatro (e di società) che traspare da questo scritto è proprio quella di una relazione costante, che abbandoni ogni narcisismo, ogni esibizionismo cui spinge la società dello spettacolo, […]
16 Dicembre 2015

Cue Press, la ribalta digitale del teatro

Nicola Arrigoni, «Pac – Magazine di Arte e Cultura»

Sta portando avanti una piccola e grande rivoluzione, sta cambiando l’editoria teatrale divisa fra l’urgenza dell’attualità e la possibilità di dare corpo a instant book che leghino pagina scritta e spettacolo, ma anche con un’attenzione alla memoria, che in campo editoriale vuol dire rimettere in circolo libri ormai introvabili. Sembra essere questa in estrema sintesi […]
14 Dicembre 2015

Cue Press, il teatro in ebook e su carta

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Le case editrici di spettacolo sono rare ma tenaci. Basterebbe citare la Ubulibri di Franco Quadri che ha resistito indomita fino alla morte del suo fondatore e che ci ha fatto conoscere i migliori testi della drammaturgia contemporanea. Oppure la Casa Usher con il grande lavoro che sta compiendo su Grotowski con tutti gli scritti […]
30 Novembre 2015

Premi Ubu

Segnalazione come Progetto Speciale

Nella cornice del Piccolo Teatro Grassi di Milano, Cue Press è finalista ai Premi Ubu 2015 nella categoria Progetto Speciale, un riconoscimento che celebra l’innovazione e l’eccellenza nel panorama teatrale italiano. I Premi Ubu, istituiti nel 1978, sono considerati tra i più prestigiosi del settore e vengono assegnati a progetti e personalità che si distinguono […]
25 Novembre 2015

La danza degli opposti nelle Strategie fatali

Adriana Malandrino, «Il Messaggero»

Una coppia di attori, autori, registi tra le più promettenti del teatro italiano, Lino Musella (vincitore del Premio Hystrio Anct 2015) e Paolo Mazzarelli, da stasera a domenica, sono al Teatro Sperimentale con il loro nuovo spettacolo, Strategie fatali, prodotto da Marche Teatro. Dopo La società (2012), la coppia torna a lavorare con il teatro […]
11 Settembre 2015

Nasce la prima impresa sostenuta dal fondo: è Cue Srl

Cristina degli Esposti, «Il Resto del Carlino»

Da associazione a Srl, questa la parabola dell’impresa che ‘non c’è’. La casa editrice digitale Cue Press, nata da un’idea dell’imolese Mattia Visani, è il primo progetto che verrà sostenuto dal Fondo Strategico Territoriale voluto da Con.Ami e nato a giugno con l’intenzione di superare l’esperienza dell’incubatore d’impresa Innovami. Fst – la Spa costituita da […]
10 Settembre 2015

Premio Nico Garrone

Sostenuto dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro e da Radicandoli Arte

Il Premio Nico Garrone è un riconoscimento dedicato alla memoria di Nico Garrone, critico teatrale e giornalista italiano, noto per il suo impegno nella promozione del teatro e della cultura. Il premio viene assegnato annualmente a figure o realtà che si distinguono per il contributo significativo al panorama teatrale italiano, con particolare attenzione ai valori […]
25 Giugno 2015

Recensione de La supplica

Giulio Fogliata, «Rivista!unaspecie»

Non è difficile, al giorno d’oggi, incappare nella lettura, o nella visione, di commedie del Seicento. Rimane tuttavia raro cogliere da vicino quali fossero lo spirito e il genio ma anche le cure e le preoccupazioni di quelli che furono i protagonisti della Commedia dell’Arte; ce ne fornisce un prezioso esempio Nicolò Barbieri, attore nato […]
26 Aprile 2015

Fuochi, scoppi, crolli in dodici quadri. Addio al sogno europeo

Anna Bandettini, «La Repubblica»

Facciamo tutti il tifo per gli autori nuovi, ma certo devono essere molto volenterosi per farsi strada nei teatri italiani. È il caso di Davide Carnevali, trentaquattrenne scrittore, professore milanese, pieno di premi per i suoi testi teatrali: Variazioni sul modello di Kraepel, Calciobailla, Come fu che in Italia scoppiò la rivoluzione ma nessuno se […]
17 Aprile 2015

Killed by the hand that feeds you: Rafael Spregelburd’s Spam

Joseph Paerson, «schaubuehne»

Rafael Spregelburd is telling me the story of David Hume’s chicken. It was first recounted by the philosopher Bertrand Russell, and later retold in a different form by Nassim Nicholas Taleb. The chicken believes the hand that feeds him loves him. «They feed me, they like me, I love them!» The chicken is, of course, […]
6 Marzo 2015

Ribalta digitale. Nuove esperienze di lettura

Rossella Consoli, «Rivista!unaspecie»

In Italia l’avvento del digitale, dalla sua nascita, ha scatenato dubbi e reazioni di perplessità nei lettori più ‘conservatori’ e negli ‘affezionati alla carta’: al suo odore, all’ingiallimento delle pagine col tempo, all’oggetto libro, insomma; quelli abituati alla compra-vendita dal vivo, nelle librerie, circondati da scaffali strabordanti, per intenderci. Ma quanto sappiamo dell’editoria digitale? Ecco […]
29 Gennaio 2015

Schimmelpfennig va in Visita al padre

Fabio Francione, «Il Cittadino»

Si recupera il primo titolo uscito nella collana di drammaturgia I testi della Cue Press di Mattia Visani: Visita al padre del drammaturgo tedesco Roland Schimmelpfennig. Tra gli ultimi numeri ci sono Totò e Vicé del compianto Franco Scaldati e La donna che legge di Renato Gabrielli, quest’ultimo attualmente fino all’8 febbraio in scena al […]
13 Gennaio 2015

Siamo asini o pedanti?

Maria Dolores Pesce, «Dramma»

Probabilmente programmato da tempo ma, per una di quelle casuali coincidenze o interferenze del destino che, anche loro malgrado, assumono il significato di una testimonianza feconda, esce per l’editore Cue Press di Imola, quasi contestualmente alla morte di uno dei protagonisti di quella stagione, questo testo di fine anni Ottanta del secolo scorso, una delle […]
4 Dicembre 2014

Cue Press, l’editoria digitale è un business da primo premio

Federico Spadoni, «La Voce»

I migliori per sostenibilità del progetto, carattere innovativo e fattibilità. Così Cue Press si aggiudica il premio Impresa Creativa, il concorso orientato a sviluppare e favorire la nascita di startup. Tra le dieci idee imprenditoriali selezionate al termine di un percorso formativo di sviluppo, il progetto imolese pensato da Mattia Visani è stato selezionato fra […]
2 Dicembre 2014

Premio Impresa Creativa

Promosso dalle province di Rimini e Forlì-Cesena

Cue Press ha vinto il Premio Impresa Creativa 2014, un concorso promosso dalle province di Rimini e Forlì-Cesena per premiare le migliori iniziative imprenditoriali nel settore creativo. Il premio riconosce Cue Press come il miglior progetto d’impresa dell’anno, evidenziando il valore innovativo e culturale della sua proposta editoriale. Questo riconoscimento sottolinea l’impegno della casa editrice […]
10 Ottobre 2014

Totò e Vicé di Franco Scaldati

Paolo Randazzo, «Dramma»

Quando l’anno scorso, il 13 giugno 2013, Franco Scaldati è venuto a mancare, fatta la tara all’ipocrisia di chi, dopo averlo lasciato una vita senza un teatro, voleva magari dedicargli una strada o una piazzetta a Palermo, tutti coloro che gli sono stati vicino negli anni e hanno amato la sua arte si sono chiesti […]
25 Settembre 2014

L’orgoglio delle idee del Brecht regista

Fabio Francione, «Il Cittadino»

Ristampa in e-book con nuova prefazione a cura di Marco De Marinis di uno dei libri che ha portato all’attenzione del pubblico la capacità di lavoro sui testi non solo teorica di Brecht. Infatti Brecht regista. Memorie dal Berliner Ensemble, oltre a reggersi sulla riproposizione del diario che Hans Bunge (assistente di Brecht nella messinscena […]
19 Settembre 2014

Il trionfo dell’asinità: dalla prefazione di Siamo asini o pedanti? di Marco Martinelli

Oliviero Ponte di Pino, «Ateatro»

Come i primi apologhi composti da Marco Martinelli, Siamo asini o pedanti? evita ogni facile e consolatoria certezza. Rifiuta chiavi immediatamente utilizzabili, risposte univoche. A livello comunicativo, esplora e mescola diversi livelli di realtà e alterna varie forme di comunicazione: la fantascienza (come dice la didascalia iniziale, la pièce è ambientata a «Ravenna felice, anno… […]
20 Agosto 2014

Tutti i palchi portano a Parigi

Camilla Tagliabue, «Il Fatto Quotidiano»

Parigi val bene una messa in scena: con le sue centinaia di sale, le sue decine di teatri pubblici e privati, i suoi numerosi festival ed eventi, la Ville Lumière può, a buon diritto, essere considerata una delle capitali mondiali dello spettacolo dal vivo. Non a caso, la piccola casa editrice Cue Press ha deciso […]