Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

30 Gennaio 2023

Sono gli allestimenti trasgressivi a tenere in vita la tragedia

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Ci siamo occupati, sulle pagine di questo giornale, del Teatro Postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, il volume più venduto e più adottato dalle Università italiane, edito da Cue Press, che ora ci propone Tragedia e Teatro drammatico, un saggio complementare al primo e, pertanto, necessario per meglio conoscere che cosa intendesse Lehmann per Teatro Postdrammatico, e in che rapporto si trovasse con la tragedia.

Intanto chiariamo subito che Lehmann intendeva, per postdrammatico, non intendeva uno stile, né un genere, né tantomeno una tipologia di forme affini, bensì una vera e propria estensione teatrale, che scavalcava la composizione mentale degli autori dei testi. Inoltre, riferendosi al teatro che si avviava al terzo millennio, intuì nuove forme di estetica da ricercare nella comunicazione elettronica, nel suono, nell’apporto dei mezzi audiovisivi; insomma, nell’allestimento che corrispondeva, a suo avviso, alla vera scrittura di quello che doveva intendersi come nuovo teatro.

Nel suo libro, Lehmann porta avanti le tesi di Lukács sul Dramma moderno, di Steiner sulla Morte della tragedia, di Von Balthasar sulla Teodrammatica, di Artaud sul Teatro della crudeltà, di Szondi sulla Teoria del dramma moderno. Testi ai quali, da giovani, ci siamo letteralmente abbeverati. Sappiamo bene che, nel secondo Ottocento, il genere tragico subì la trasformazione in genere drammatico, poiché l’uso della Ragione bastava per sconfiggere gli elementi irrazionali che stavano a base della tragedia. Era sufficiente che, in un salotto borghese, si potesse ragionare per risolvere qualsiasi situazione tragica. Lehmann, però, è andato oltre, ha capito e vuol farci capire che oggi la forma drammatica ha perso il suo valore di una volta, perché è stata messa in discussione la scrittura a vantaggio di un teatro performativo che ha permesso la decostruzione dei testi e, persino, la stessa cornice teatrale in cui vengono realizzati. Secondo lui, il modello postdrammatico si esaurì con Eliot, Sartre, Anouilh, Brecht, Camus, Singe. Inoltre, era convinto che, in Occidente, si fosse verificato, a partire da Aristotele, il predominio della cultura scritta, che aveva avuto un rapporto determinante col pensiero, ovvero col Logos.

Nella modernità, il pensiero è diventato sempre più debole, tanto da lasciare il posto a una falsa cultura e a una debolezza intellettuale che ha messo in crisi il genere tragico. Nello stesso tempo c’è anche da dire che, sempre la cultura moderna, ha elaborato una sua filosofia del tragico, che, a partire da Nietzsche, Jaspers, Heidegger e De Unamuno, arriva fino a Bataille e Lacan, tanto che si può parlare di morte della tragedia allo stesso modo in cui si può parlare di resurrezione del tragico. Il teatro ne ha parecchio risentito e ha assunto, su di sé, le forme della conoscenza, riscoprendo il Logos aristotelico solo per quanto riguarda la messinscena, che è diventata la referente essenziale della tragedia, il cui recupero avviene grazie all’imporsi del teatro postdrammatico e all’uso che ne viene fatto durante le realizzazioni sceniche.

Lehmann, per fare capire questa sua teoria, cita una serie di registi e di spettacoli, anche se incompleta, che la dimostrino: si va da Kantor a Jean Fabre, a Romeo Castellucci, a Einar Schleef, a Heiner Muller, a Sarah Kane, tutti attenti a utilizzare la trasgressione, di origine tragica, come metodo compositivo, col ricorso ad un uso spettacolare della violenza, se non addirittura della crudeltà. Avviene, così, una sorta di messa a nudo della tragedia scelta fino a disossarla, ad emanciparla dalla centralità del testo e a radicalizzarla sulla scena, generando la stessa indignazione negli spettatori di oggi, che non è dissimile da quella degli spettatori del Teatro Predrammatico.

C’è da dire che questo tipo di interventi era già stato fatto da Ronconi quando realizzò la sua Orestea e quando, al Teatro Greco di Siracusa, portò in scena, nel rispetto assoluto del testo, Prometeo e Le Baccanti. E ancora non si può non citare il lavoro registico di Livermore e di Carson sull’Orestea e sull’Edipo. Ultima considerazione: la tragedia è «morta», anche perché non ci sono più poeti capaci di scrivere dei testi che sappiano drammatizzare le violenze della storia postmoderna. Il volume è a cura di Milena Massalongo, che è anche autrice della traduzione e di una illuminante presentazione, ed è seguito da una magistrale postfazione di Gerardo Guccini.

20 Gennaio 2023

Il laboratorio creativo di Beckett nei Quaderni di regia

Nicola Arrigoni, «Sipario»

È forse una delle operazioni editoriali più interessanti degli ultimi anni, senza dubbio un contributo alla conoscenza del drammaturgo novecentesco per eccellenza, Samuel Beckett; è un’occasione per rivedere e ripensare l’autore di Aspettando Godot, Finale di partita e L’ultimo nastro di Krapp, attraverso i quaderni di appunti registici, per la prima volta pubblicati in Italia. È questa la scommessa che la casa editrice ha fatto con sé stessa e con i suoi lettori, nel decimo anno della sua fondazione: offrire al mondo del teatro la pubblicazione dei Quaderni di regia e testi riveduti, di cui sono usciti i volumi sulle pièce Aspettando Godot, nell’edizione critica a cura di James Knowlson e Dougald McMillan, Finale di partita, a cura di Stanley E. Gontarski e L’ultimo nastro di Krapp, a cura di James Knowlson. Tutti i volumi hanno la firma curatoriale italiana di Luca Scarlini, che nella prefazione osserva come la restituzione dei quaderni di appunti legati alla messinscena dei testi e alle loro modifiche offra un’occasione pressoché unica di «entrare nel laboratorio di azioni verbali e gestuali di un autore capitale del secolo scorso, la cui influenza rimane capitale nelle forme più diverse del presente. Lo scrittore qui diventa progressivamente anche regista della sua opera, affrontando con piglio assai personale lo specifico della radio, della televisione».

Ed è questo che promette di fare la collana dei Quaderni di regia e testi riveduti: offrire al lettore, allo spettatore, ai professionisti del teatro una serie di indicazioni concrete del dialogo registico di Samuel Beckett con le sue opere; ma soprattutto dell’evoluzione, parola dopo parola, ripensamento dopo ripensamento di testi che, nella vulgata, sembrano destinati all’immobilità della pubblicazione della parola scritta su pagina. Ed è questo il primo suggestivo effetto che producono questi quaderni: liberarci dalla figura di un Beckett uomo di libro, intransigente nel rispetto della parola scritta; anzi, ci offrono un’immagine lontanissima dal Beckett scrittore e ce lo restituiscono come l’autore teatrale del continuo tornare e ritornare su parole e posture degli attori, movimenti nello spazio, in base alla messinscena e alla produzione, agli attori che di volta in volta dovevano interpretare i suoi testi. Ad esempio, nel volume dedicato ai quaderni registici per Aspettando Godot, scrive James Knowlson nella Prefazione: «Il testo riveduto risultante può essere visto come una nuova versione di Aspettando Godot, più breve, più concisa nella struttura e pensata molto più chiaramente in termini teatrali, oltre che più convincente dal punto di vista estetico».

Come dire che dall’analisi filologica e dall’esito critico che esce dai quaderni si raggiungono nuove convinzioni e nuove versioni dei testi beckettiani che possono rappresentare nuova linfa per future messinscene. Che si tratti di Aspettando Godot, piuttosto che di Finale di partita, gli appunti di Beckett permettono di entrare nel laboratorio creativo dell’autore, di compartecipare ai cambiamenti, ai ripensamenti, alle aggiunte e più volte ai tagli che Beckett fa dei suoi testi, mettendosi in relazione con lo spazio, con gli attori, interrogandosi sul movimento, sull’immagine e sullo sguardo dello spettatore. E osserva sempre Knowlson: «Sia come regista sia come scrittore, Beckett lavorava attraverso suggestioni, piuttosto che affermazioni, creando immagini che si rimandano a vicenda nell’immaginazione. […] I quaderni di regia di Beckett rivelano come stesse sostanzialmente cercando di fare due cose simultaneamente. La prima: rappresentare alcuni degli aspetti fondamentali della sua visione nell’organizzazione, sistemazione e manipolazione delle immagini nello spazio teatrale. La seconda: creare un motivo esteticamente soddisfacente di forme, movimenti e suoni partendo dalla sua manipolazione di queste immagini».

Tutto ciò appare evidente non solo nei quaderni registici di Aspettando Godot, ma in particolar modo in quelli di Finale di partita, che documentano, a dieci anni dalla versione registica al Royal Court Theatre di Londra, sotto la direzione di Roger Blin, come nel 1967 Beckett decise di assumere la regia del testo, portando in scena Finale di partita allo Schiller Theater di Berlino, replicando tale esperienza, più tardi, nel 1980, al Riverside Studios di Londra. Queste due produzioni offrono la possibilità ritornare sul testo e ridefinirne non solo il ritmo verbale, ma anche le geometrie spaziali e visive. E così infatti scrive Stanley E. Gontarski nella Prefazione al volume: «Il teatro (non la scrittura dei testi, ma la messinscena) offriva a Beckett l’opportunità di avere a che fare con la forma (figura, relazione, bilanciamento, ma solo occasionalmente tono) in un modo che il linguaggio da solo non avrebbe mai potuto, nemmeno la poesia. Alla musica e alla poesia delle parole avrebbe potuto aggiungere, o piuttosto affiancare, la disposizione delle forme in uno spazio controllato, incorniciato (da cui l’interesse persistente di Beckett per il proscenio e la televisione, essendo entrambi delimitati da una sorta di cornice)».

I Quaderni di regia mostrano l’attenzione di Beckett alle dinamiche spaziali e relazionali fra i personaggi, dimostrano quanto lo stesso Beckett ebbe modo di osservare: «il medium del dramma non è nelle parole, ma nelle persone che si muovono per il palcoscenico usando le parole». Molto interessante appare anche il lavoro portato avanti da Samuel Beckett su L’ultimo nastro di Krapp, testo scritto nei primi due mesi del 1958, con in mente un attore ben preciso, Patrick Magee. Scrive James Knowlson in apertura della Prefazione al volume: «Era la distinta tonalità incrinata, stanca della vita, ‘rovinata’ della voce di Magee, oltre che al ritmo e all’intonazione irlandese del suo accento, ad attrarre Beckett, che per qualche tempo si riferì a questo spettacolo semplicemente come Monologo per Magee».

È nel 1969 allo Schiller Theater Werkstatt di Berlino che Beckett assume la regia dell’Ultimo nastro di Krapp, e a quell’esperienza si riferiscono i quaderni di regia. Ma il volume si completa anche con l’analisi dei tagli e delle modifiche ai testi tedeschi e francesi. Tutto ciò – come nel caso degli altri due volumi dedicati ad Aspettando Godot e a Finale di partita – permette di avere in mano il testo dell’Ultimo nastro di Krapp nella sua versione finale, riveduta e corretta dal suo autore. In questo senso e con uno sguardo che abbraccia l’intera operazione editoriale, meritoriamente portata avanti da Cue Press, si può godere appieno delle varianti, dei ripensamenti, delle aggiunte che in base alle condizioni legate alle relazioni di sala e teatrali l’autore apporta, mostrando come la sua controllatissima scrittura viva di un respiro corporeo e spaziale assoluto, e regalando al lettore/spettatore la possibilità di spiare i meccanismi creativi delle drammaturgie beckettiane, in una sorta di testimonianza partecipata in presa diretta.

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15 Gennaio 2023

Sul «per ora e per sempre»

Simona Busni, «Fata Morgana Web»

«Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, come il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare. […] Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone. […] Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì» (Friedrich W. Nietzsche).

Che la ricerca della felicità sia un «diritto inalienabile» – insieme alla vita e alla libertà – ce lo insegna il testo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Che esso possa riguardare altresì il cinema e la commedia ce lo insegna un filosofo, Stanley Cavell, colui che ha, di fatto, incontestabilmente trasformato la filosofia in un qualcosa di americano, e lo ha fatto (anche) attraverso i film. Uso il verbo «insegnare» al presente, nonostante il libro in questione, Pursuits of Happiness. The Hollywood Comedy of Remarriage, risalga al 1981, per due motivi: il primo è l’occorrenza legata alla pubblicazione di una nuova edizione italiana dell’opera, curata da Piergiorgio Donatelli (Cue Press 2022); il secondo concerne il valore etico inestimabile della sua eredità teorica negli studi sul cinema, il quale merita, oggi più che mai, a quattro anni dalla scomparsa dell’autore, di essere ancora pienamente riscoperto e riaffermato.

Curioso constatare che, in italiano, c’è sempre di mezzo un «ri-» quando si parla di Cavell, a partire dall’eccentrico neologismo «rimatrimonio», ormai normalizzato dal lessico specialistico, che il suo inventore, Emiliano Morreale, ripristina con fierezza in questa (ri)traduzione, definita nella nota, maggiormente «anfibia rispetto a quella realizzata per Einaudi nel 1999 perché ispirata talvolta ‘[…] a criteri di scioltezza per non perdere del tutto il contatto con lo stile di Cavell’, più spesso attenta alla lettera del testo» (Morreale 2022, p. 21). Al di là degli aspetti più tecnici – seppure evidentemente imprescindibili, essendo Cavell un filosofo del linguaggio ordinario che «parla al filosofo il linguaggio del cinema e al cinefilo il linguaggio della filosofia» (ibidem) – tutto ciò che richiama il senso della «ripetizione» ha nel pensiero cavelliano un valore molto preciso, che dalle altezze teoretiche prefigurate dalle visioni di autori come Platone, Kierkeegard, Nietzsche e Freud (tra gli altri), si innesta nell’impianto retorico dei generi cinematografici, creando un ibrido critico portentoso, estremamente dinamico e versatile. Ecco, allora, qual è un’altra cosa che continua a insegnarci Cavell: a riconoscere un certo tipo di commedia quando la vediamo al cinema.

«Il film […] pone una questione riguardante la convalida del matrimonio, la realtà del suo legame, nel modo in cui tale questione è posta nel genere della commedia del rimatrimonio. La sua risposta partecipa (o contribuisce con la sua particolare tonalità) alla risposta che tale struttura fornisce: che la validità del matrimonio esige la disponibilità [willingness] alla ripetizione, la disponibilità al rimatrimonio. L’obiettivo della conclusione è far tornare i due a un particolare momento della loro passata vita comune. Non è richiesta una nuova risoluzione, ma soltanto la ripresa di un’azione che è stata, per così dire, interrotta; non si deve ricominciare da capo, ma ricominciare un’altra volta, trovando il filo e riprendendolo» (Cavell 2022, p. 133).

Sette film soltanto, accuratamente selezionati tra le cosiddette screwball comedy degli anni Trenta e Quaranta – perché l’atto critico, sostiene Cavell, è sempre arrogante. Di generazione in rigenerazione, queste commedie incorporano nell’impasto ontologico del cinema classico sostanze drammatiche di matrice shakespeariana, addizionate al succo che il filosofo estrae direttamente dalla riflessione sullo scetticismo (e dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein). Dietro ai sofisticati rimatrimoni tra Katherine Hepburn e Cary Grant, tra Barbara Stanwyck e Peter Fonda, tra Claudette Colbert e Clarke Gable – senza dimenticare gli incroci trasversali con James Stewart, Spencer Tracy, Irene Dunne e Rosalind Russel – magistralmente orchestrati dal genio di registi come Howard Hawks, George Cukor, Preston Sturges, Frank Capra e Leo McCarey, si spalanca un ventaglio di questioni enormi riguardanti l’identità, l’uguaglianza, il limite e la trasgressione, l’educazione, la separatezza, il dubbio, il rischio dell’elusione reciproca, il narcisismo, il peso delle scelte, il ruolo dei figli, la condivisione del tempo, l’avventura, l’importanza della conversazione, l’uso delle parole in relazione al contesto, la redenzione del quotidiano, le prime volte, la battaglia dei sessi.

Accadde una notte, certo, ma Cavell ci assicura che può accadere ancora. Forse per il lettore contemporaneo potrebbe essere stimolante accogliere una nuova sfida critica e tentare di rispondere al quesito che si pone lo stesso autore nell’introduzione di Alla ricerca della felicità in merito all’ipotetico esaurimento del genere. Vale a dire, è possibile girare al giorno d’oggi altre commedie del rimatrimonio in un contesto storico-culturale-produttivo completamente diverso? A seguire, Cavell segnala alcuni titoli più «recenti» di film che iniziano con un divorzio e poi riflettono sul matrimonio: Una donna tutta sola (An Unmarried Woman, P. Mazursky, 1978), E ora: punto e a capo (Starting Over, A. J. Pakula, 1979) e Kramer contro Kramer (Kramer vs. Kramer, R. Benton, 1980). Certo, le premesse sono altre; molti passaggi topici non sussistono, ma il critico motivato (e arrogante!) può giocare a ridefinire la categoria, motivando eventuali divergenze e introducendo nuove proprietà.

Cavell si ferma qui, anche se in alcuni saggi, scritti tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila (tra cui, Cavell 1999 e 2005), timidamente ci riprova e abbozza una nuova lista di film eredi: Stregata dalla luna (Moonstruck, N. Jewison, 1987), Tootsie (id., S. Pollack, 1982), Insonnia d’amore (Sleepless in Seattle, N. Ephron, 1992), Ragazze a Beverly Hills (Clueless, A. Heckerling, 1996), Ricomincio da capo (Groundhog Day, H. Ramis, 1992), Joe contro il vulcano (Joe vs. the Volcano, J. P. Shanley, 1990), Mr. Crocodile Dundee (Crocodile Dundee, P. Faiman, 1986), Una donna in carriera (Working Girl, M. Nichols, 1988), Qualcuno da amare (Untamed Heart, T. Bill, 1993), Innocenza infranta (Inventing the Abbots, P. O’Connor, 1997), Quattro matrimoni e un funerale (Four Weddings and a Funeral, M. Newell, 1994), Il matrimonio del mio migliore amico (My Best Friend’s Wedding, J. P. Hogan, 1997), Tutti dicono I love you (Everyone Says I Love You, W. Allen, 1996), La Fortuna di Cookie (Cookie’s Fortune, R. Altman, 1999) Qualcosa è cambiato (As Good As It Gets, J. L. Brooks, 1997).

A questo primo blocco, Cavell aggiunge un trittico di film tutti interpretati dall’attore John Cusack, la cui sensibilità fisica si imporrebbe nella contemporaneità cinematografica, ricalcando in qualche maniera la tipologia attoriale classica dello star-system hollywoodiano alla Cary Grant: Sacco a pelo a tre piazze (The Sure Thing, R. Reiner, 1985), Non per soldi… ma per amore (Say Anything, C. Crowe, 1989) e L’ultimo contratto (Grosse Point Blank, G. Armitage, 1997). Senza approfondire l’argomento, Cavell sottolinea il fatto che esistono almeno due differenze eclatanti tra le coppie delle commedie del rimatrimonio e quelle delle «nuove commedie»: prima di tutto, le nuove coppie (tranne in qualche caso) sono più giovani, meno sofisticate; secondo, persiste l’impressione che vi sia un’incapacità di immaginare e desiderare il futuro da parte di questi giovani protagonisti.

Non è questa la sede appropriata per un’indagine sulle nuove commedie, ma chi scrive ha la netta impressione che il modello di Cavell non abbia mai realmente esaurito la sua carica ermeneutica e che al cinema i rimatrimoni continuino a essere celebrati. Si prenda un film recentissimo come Ticket to Paradise (O. Parker, 2022) con George Clooney e Julia Roberts, attrice già presente in almeno tre pellicole della sopracitata lista, a cui se ne può aggiungere un’altra, a impianto incontestabilmente rimatrimoniale, come Se scappi ti sposo (Runaway Bride, G. Marshall, 1999). Gli ex coniugi, David e Georgia Cotton, si ritrovano insieme in occasione del matrimonio «a sorpresa» della loro unica figlia Lily nello scenario esotico dell’isola di Bali; un mondo verde in piena regola, per citare una delle strutture più note della commedia cavelliana (mutuata da Anatomia della critica di Northrop Frye), la quale prevede un passaggio obbligato da parte della coppia protagonista attraverso un luogo diverso, per certi versi magico, ameno, un paradiso perduto in cui diventa possibile conquistare una prospettiva rinnovata sulle cose (il più delle volte, si tratta del Connecticut).

David e Georgia non si sopportano, fanno fatica perfino a stare seduti vicini, ma decidono comunque di allearsi per sabotare le nozze della figlia, mettendo in pratica l’infallibile tattica del «cavallo di Troia». Non vogliono che lei commetta il loro stesso errore. In cosa consista realmente quell’errore i due non sono in grado di spiegarlo, così come non riescono a sostenere una conversazione senza litigare, rivangando vecchie questioni irrisolte. Perché non si sono mai capiti e ognuno ha nutrito le proprie convinzioni con la grammatica assurda di un linguaggio privato. Alla fine del film scatta il miracolo: di fronte al «per ora e per sempre» pronunciato dalla coppia giovane, anche gli adulti finalmente si riconoscono e accettano di dare la loro benedizione. Pertanto, decidono di ri-scommettere sulla loro unione, concedendosi quell’agognato nuovo inizio che riavvolge il tempo intorno alla nudità assordante dell’unica risposta che conta davvero: sì. Sì alle domande poste con il giusto tempismo, al presente che non smette mai di accadere, alla realtà dell’altro/a e dei suoi pensieri più reconditi, a un atteggiamento comune da abitare, al sogno di una vita possibile.

Se Julia Roberts sia o meno l’erede di Katherine Hepburn o se queste nuove commedie possano lontanamente reggere il confronto con i testi filmici analizzati in Alla ricerca della felicità, non sta a noi stabilirlo. Limitiamoci a incorporare la verità della grande lezione promossa dalla filosofia del cinema di Cavell, una verità che suona quasi come una benedizione. Tutto, prima o poi, ritorna: i miti, i generi, i racconti, le star, i vecchi amori, le (seconde) possibilità. Ma, soprattutto, ritornano le parole. Sta a noi essere in grado di riconoscere ciò che abbiamo davanti agli occhi.

Riferimenti Bibliografici

S. Cavell, “The Good of Film”, in Cavell on Film, a cura di W. Rothman, State University of New York Press Cavell, New York 2005.
Id., Les comédies du remariage: une histoire du lien conjugal, in “Esprit”, n. 252, 1999.
N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 2000.

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15 Gennaio 2023

Il mio amato Beckett

Antonio Borriello, «La Tófa della Domenica», XVIII-337

L’intera produzione beckettiana è colma di un immenso fascino drammaturgico, di una bellezza della parola che anticipa un orizzonte di profonda suggestione scenica: tutto è incredibilmente consueto… «Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile».

Samuel Beckett, raffinato architetto della parola, lavora su una sola nota, immaginifica ed inesauribile, proiettandola in riverberi di pensieri che racchiudono miriadi di emozioni, di quelle più recondite. La sacralità della parola nelle sue opere è sovrana, sicché assume contestualmente significato e suono: melodiosa fonetica e meravigliosa valenza concettuale.

Per l’ortodosso quacchero Beckett, la parola, ossigeno puro per continuare ad essere, nei suoi drammi è intoccabile. Sarò esagerato, di sicuro lo sono, nel rimandare quei testi al Libro della Sapienza: «Omnia in mensura et numero et pondere disposuisti». Per me, fedele interprete di Beckett, è così.

L’opera del dubliner di Parigi, Maestro riconosciuto dell’Assurdo, è pervasa da una incommensurabile suggestività che salta magistralmente dai romanzi alla poesia, dalle novelle alla drammaturgia, ai saggi.

In Beckett non ci sono confini tra testo drammaturgico e scenico, tra testo narrativo e poetico, tra la sceneggiatura e la saggistica, tra la danza, la radio e il cinema: il suo lavoro è da considerarsi un unicum. Beckett è un autore totale. Ogni suo scritto è possente, di una forza evocativa senza pari. Oggi ancora di più, tanto che di recente sono stati realizzati ben tre film e un romanzo su Beckett: Un Triomphe (regia Emmanuel Courcol, Francia 2020), Dance First (regia James Marsh, Regno Unito 2022), Grazie ragazzi (regia Riccardo Milani, Italia 2022) e, pubblicato da Voland 2022, L’ultimo atto del signor Beckett di Maylis Besserie, in cui la scrittrice immagina gli ultimi giorni di vita di Beckett trascorsi nella casa di riposo di Tiers-Temps a Parigi.

Tante le sue profetiche visioni che si stanno, purtroppo, avverando (solitudine urbana, feti buttati nelle discariche, smarrimento di sé, diffusa incomunicabilità, insoddisfazione e noia, aumento dei senza tetto e dei poveri, catastrofi imminenti, minaccia di un nemico invisibile, di una incombente desertificazione, di una possibile terza guerra mondiale, con attacchi nucleari). Un panorama agghiacciante, ma effettivo. Attualmente Beckett più che mai si presta ad ulteriori studi, quelli volti a raggiungere le più segrete pieghe dell’anima.

Nelle sue opere, pur dominando il bianco che evoca tele di Lucio Fontana o di Piet Mondrian, di Angelo Savelli o di Raimund Girke, come stabilito, d’incanto tutto si muove nella presenza o nell’assenza di un impercettibile gesto dei personaggi che spesso «restano rigorosamente di faccia e immobili dal principio alla fine dell’atto». Ed allora, prendono forma immagini che si sovrappongono e si dissolvono per riapparire ad ogni istante, tra una pausa breve ed una lunga. Tra il Silenzio, l’Urlo ed il Bisbiglio.

Le storie o non storie si rivelano a mano a mano intrise di serenità esistenziale che attraversa una moltitudine di allusioni. Un flusso perenne dove scorrono le nostre storie, nel bene e nel male. Dall’inizio alla fine di ogni pièce è così, ovvero uno scenario perpetuo proiettato all’infinito, in cui si ritorna sempre al punto di partenza. L’inizio è la fine: «Nascere fu la sua morte».

Lungo questo tracciato arrivano all’interprete spunti di alto rilievo su cui riflettere – nello status in cui si trova a fare i conti con sé stesso – che lo conduce a Leopardi… «La terra. Amaro e noia. La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo».

Al riguardo, mi piace riferire quanto tempo fa mi disse Dario Fo: «Beckett è un autore gotico che va avanti per follie, come follia è un arco rampante». Sicuramente in questa cornice, un’opera che offre una chiave di lettura integrale e significativa (altissima «summa» beckettiana) è L’Innominabile. Autentica epitome del suo pensiero.

Intanto, nel sepolcreto beckettiano, le disarmanti creature sostano in una perenne penitenza purgatoriale: eppure, malgrado le atroci lacerazioni, si svelano piene di spirito e avide di vivere. Quanta tenerezza in quelle preferite creature che, nonostante il loro tormento, eternamente cantano… Giorni felici. Di più. I sopravvissuti in Beckett parlano senza sosta (a volte pregano), dicono sempre di altri «giorni divini», un po’ come nelle opere di Leopardi o di Pascoli, in cui emerge lo stupore del fanciullino per le piccole cose del quotidiano. Quanta poesia ed esaltazione della Vita e dell’Intelligenza dell’uomo traboccano in quei vecchi, dignitosi e colti clochard. In quelle pagine, battuta dopo battuta, si intravede un barlume di Speranza, nonostante il diffuso senso di vuoto, nonostante la nostra fragilità e tristezza.

In Finale di partita gli anziani Nagg e Nell, dai famosi bidoni della spazzatura, benché mozziconi umani e prossimi alla fine, hanno tanta voglia di rievocare i bei ricordi andati, raccontare barzellette, litigare per un biscotto e di… «scopare»! Mai un rimpianto per la giovinezza, mai una restituzione di un frammento di Tempo. Altrettanto Krapp: «Dopo mezzanotte. Mai sentito tanto silenzio. La Terra potrebbe essere disabitata. (Pausa). Qui termino questo nastro. Scatola… (pausa)… tre, bobina… (pausa)… cinque. Forse i miei anni migliori sono finiti. Quando la felicità era forse ancora possibile. Ma non li rivorrei indietro. Non col fuoco che sento in me ora. No, non li rivorrei indietro».

Allora, anche se disperati, immersi nel «fallimento… non importa», non si può abbandonare la lotta, non si può andare via… «Aspettiamo Godot». Viepiù. Nelle condizioni di day after postatomico, come quelle patite dai protagonisti in Finale di partita, Clov al termine dello spettacolo non va via, non esce dal bunker, rimane «immobile» sulla soglia della porta creando non poche perplessità nello spettatore: abbandonerà Hamm? Al riguardo, non ho dubbi: Clov, sebbene avvolto nell’angoscia di quell’opprimente non-vita al chiuso, da buon servo di scena «resterà» per sempre nella stanza-cranio con Hamm.

Relativamente alla perentoria domanda, non solo del crudele Pozzo, «Chi è Godot?», mi piace citare Antonio Ricci, il povero attacchino comunale di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, per il quale Godot è nientemeno la sua bicicletta, che «rappresenta per lui un provvidenziale strumento di lavoro» (Cesare Zavattini). Dunque, a ciascuno il suo Godot.

La mia passione per Beckett ha origini lontane, sin dai tempi dei miei studi all’Accademia di Belle Arti di Napoli con Franco Mancini e Antonio Capodanno, poi proseguiti con Achille Mango all’Università di Salerno. Un interesse che mi ha spinto ad ampliare le mie ricerche a New York, Los Angeles, Dublino, Berlino. Studi che mi hanno permesso di pubblicare diversi saggi. Ed ancora, incontrare amici e interpreti di Beckett: John Calder, James Knowlson, Jean Martin, Pierre Chabert, Peter Brook, Rick Cluchey, Dario Fo, Alessandro Fersen, Stanley E. Gontarski, Leo De Berardinis, Fiorenzo Fiorentini, Giulia Lazzarini, Shimon Levy, Glauco Mauri, David Kelly, Carlo Quartucci, Marie Rooney, Mario Scaccia. Anno dopo anno aspettavo con gioia l’ultima sua pubblicazione, che diventava di volta in volta più minimale, più asciutta, più ridotta, da paragonarla ad una filiforme e scheletrica scultura, come quella dell’emblematico albero in En attendant Godot del 1961 di Alberto Giacometti, caro amico di Beckett.

Sin dalle prime conoscenze delle coppie Krapp-Magnetofono, Wladimiro-Estragone, Pozzo-Luky, Hamm-Clov, Nagg-Nell e Winnie-Willie, dalle letture di Mercier e Camier, Murphy, Molloy, Malone, Watt e L’Innominabile, sono stato attratto da questi personaggi poiché in loro vedevo me stesso. Quei libri li volevo con me. E, infatti, credo di avere la più copiosa raccolta dei libri di e su Beckett in Italia. Un fondo di notevole valore, con volumi in inglese, francese, italiano, giapponese, ebraico, russo, ungherese, tedesco, dal 1939 a oggi; alcuni autografati dall’autore. A cui si aggiungono interventi introvabili pubblicati su: «La Fiera Letteraria», «Corriere della sera», «La Repubblica», «L’Espresso», sia di grandi della Letteratura, come Salvatore Quasimodo, Ennio Flaiano, Carlo Bo, Giuliano Gramigna, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, Giovanni Raboni, Dario Fo, Luciano Codignola, Andrea Camilleri sia di eccezionali attori e registi, come Walter Chiari, Vittorio Gassman, Renato Rascel, Giorgio Strehler.

Ho amato ed amo tanto Beckett come intellettuale e come uomo. Un umile grande genio del Novecento, che poteva essere miliardario: nel 1969 gli venne assegnato il Nobel per la Letteratura (che ammontava a circa un miliardo e seicento milioni di vecchie lire), ma Beckett non si presentò alla premiazione e offrì l’importo in donazione, ai poveri. Tale circostanza si è verificata soltanto altre due volte: nel 1947 con i Quaccheri, nel 1979 con Madre Teresa di Calcutta.

Non mancano altri nobili gesti dell’impegno umano e civile dell’autore di Aspettando Godot: dalla convinta collaborazione con la Croce Rossa in Francia, durante la Seconda guerra mondiale, all’aperta opposizione nel 1967 ai tribunali di Franco che avevano accusato Fernand Arrabal di «insulto alla patria» e di «blasfemia». In quella circostanza, Beckett si schierò energicamente a favore del visionario giovane intellettuale-artista, tra i fondatori del «Mouvement Panique» insieme a Roland Topor e Alejandro Jodorowsky. Nella medesima misura, manifestò nel 1982 la sua solidarietà allo scrittore cecoslovacco Václav Havel perseguitato politico, poi divenuto il primo Presidente della Repubblica Ceca, a cui Beckett dedicò Catastrophe quando era in prigione.

A riprova del suo essere un drammaturgo insensibile al successo e alla notorietà, un altro evento da menzionare è quello relativo alla sua dipartita: il 22 dicembre 1989 si spense, ma il mondo seppe della sua morte dopo tre giorni, a sepoltura avvenuta.

È noto che Beckett era una persona felicemente pigra, di un’inerzia accostabile a quell’otium letterario più che a quell’indolenza ancestrale del suo benamato Belacqua dantesco. Tuttavia, va sottolineato come abbia tradotto, diretto e tutelato le sue opere con irreprensibile rigore euclideo. Seguì con attenzione le riprese di Film, con un impeccabile ed ossequente Buster Keaton, recandosi a New York suo malgrado; temeva che le riprese sarebbero state eccessivamente chiassose, con inutili cocktail party, a cui partecipare con troppe (e indesiderate) interviste da rilasciare. A questo sceglieva la quiete dell’appagante rifugio di campagna a Ussy-sur-Marne.

Nel 1959, a seguito dell’insistenza della moglie Suzanne, si recò a Sorrento: in occasione del Prix Italia, quando lo invitarono a ritirare il Premio per la migliore opera radiofonica Embers (Ceneri, trad. it., nella preziosa pubblicazione: Samuel Beckett, Teatro completo. Drammi, Sceneggiature, Radiodrammi, Pièces televisive, Torino-Parigi, Einaudi-Gallimard, 1994, pp. 219-234). Beckett in quell’occasione visitò fugacemente Capri ed altri luoghi della costiera amalfitana per ritornare subito a Ussy.

Ho sempre difeso quell’indiscussa intransigenza voluta dall’autore e assegnata specificamente al regista, all’attore, allo scenografo, al tecnico delle luci, addirittura al trovarobe. Sono convinto che la fedeltà a quanto «sta scritto nel copione» di eduardiana memoria, incessantemente invocata da Beckett, vada ad ogni costo rispettata, quindi adempiere la scrittura drammaturgica è fondamentale. Pertanto, non ho esitato a contestare gli arbitrari allestimenti di registi e attori del calibro di Peter Brook e Robert Wilson, due giganti dello Spazio e del Tempo scenico.

Ho conosciuto personalmente Brook e conservo ammirazione per le sue regie; cionondimeno desidero ribadire quanto già espresso in altre occasioni in ordine alle messinscene beckettiane concepite in gratuiti adattamenti. Ad esempio, le tre figurine della favolosa pièce Va e vieni sono una sorta di Moire o Parche misteriose e intimamente poetiche; deboli soffi colorati: «viola smorto (Ru), rosso smorto (Vi), giallo smorto (Flo)». Sbuffi leggiadri, che fluttuano, vanno e vengono dalla e nella oscurità più assoluta; presenze femminili alate, silenziose. Femminili e non di natura diversa, come nella messinscena Come and Go di Brook. È vero che i volti di Ru, Vi e Flo sono coperti da cappelli con ampie tese che lasciano intravedere solo la bocca e il mento occultati dalla penombra, un quadro che potrebbe giustificare l’interpretazione di un attore maschio. Ma lo spirito attoriale, la gestualità, la timbrica vocale e soprattutto il rigido testo di Beckett impongono quanto pensato dall’Autore. Sul peso del testo, va aggiunto che nel tempo Beckett ha avuto dei «ripensamenti» su alcune opere. In merito, si vedano le pregevoli pubblicazioni: Samuel Beckett, Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot, edizione critica di James Knowlson e Douglas McMillan, a cura di Luca Scarlini, Cue Press, Imola, 2021; Samuel Beckett, Quaderni di regia e testi riveduti. Finale di Partita, edizione critica di Stanley E. Gontarski, a cura di Luca Scarlini, Cue Press, Imola, 2022; e inoltre Samuel Beckett, Quaderni di regia e testi riveduti. L’ultimo nastro di Krapp, edizione critica di James Knowlson, a cura di Luca Scarlini, Cue Press, Imola, 2022.

E, perciò, ritornando alla peculiare fedeltà del testo, ho valutato negativamente anche la messinscena di Krapp’s Last Tape di Robert Wilson. Una rappresentazione che non ci azzecca nulla con l’opera di Beckett, un testo integralmente stravolto che disattende i contenuti di una delle più coinvolgenti pièces di Beckett. Lo spettacolo, già prima dell’apertura del sipario, preannunciava delle sorprese. Sotto un fascio di luce alla ribalta c’era (non si comprende il perché) uno spropositato plico di fogli sparsi. Al levar della tela, la platea era assalita da accecanti fulmini, fragorosi tuoni e un crescente scroscio di pioggia. L’incomprensibile «aggiunta» era rimarcata da effetti illuminotecnici intermittenti che proseguivano per l’intera performance. La scenografia, priva di fughe, rinviava ad uno spazio-garage, data la sequenza di lucernari rettangolari e una grossa grata-saracinesca. La scena aveva due uscite: una dietro la grata e l’altra indicata da una folgorante luce sulla quinta di destra. Ai lati, grossi banconi coperti da scatole. Al centro vi era una scrivania con sei cassetti, tre a destra e tre a sinistra, rivolti al pubblico (in Beckett «un piccolo tavolo… due cassetti»). La lampada, che avrebbe dovuto illuminare il piano e l’attore, senza posa si accendeva e si spegneva. Il costume di Krapp-Wilson: un ampio pantalone con pieghe regolari. Camicia e giubbotto ordinati, sgargianti calzini rossi vermiglio e pantofole. Il perfetto contrario in Krapp’s Last Tape. Il trucco di Wilson ricordava un giovane Harry Langdon: faccia e mani bianche, capelli lucidi ben pettinati con piega a lato. La postura era attiva ed energica. Altro che «un vecchio sfatto… capelli grigi in disordine», espressamente voluto da Beckett. Le gag di Wilson, a tratti robotizzate, accennavano inaccettabili passi di danza, con sculettamenti in faccia al pubblico. La recitazione, mescolata a miagolii amplificati da potenti esplosioni sonore, si confondevano con il registrato delle bobine. Tantissimi i rumori fuori scena, da un frequente scampanio a pesanti tonfi e sparate di decibel, in particolare quando Krapp-Wilson estraeva e sbucciava la banana, impugnandola a mo’ di pistola verso il pubblico. In quel momento, lo scroscio della pioggia faceva rimpiangere i più duri concerti heavy metal. Una rimbombante mitragliata. La traduzione in italiano, che scorreva sull’arlecchino in alto, era priva delle dettagliate didascalie, nonché delle pause e dei silenzi imposti categoricamente da Beckett. In Wilson risultavano molteplici imperfezioni per quanto concerne i segni di interpunzione. Gravi omissioni. Sull’importanza e rispetto della punteggiatura, dei «sospensivi», del ritmo, dei tempi scenici, delle didascalie e l’amore per la parola, si veda Uomo e galantuomo di Eduardo. Una divertente opera, sorta di vademecum sulla teoria e la pratica teatrale, con evidenti inflessibilità tecnico strumentali, identiche a quelle pretese da Beckett.

Quanto descritto è in contraddizione con il «poema lirico della solitudine», così ritenuto dal noto critico belga Robert Kanters. Con Krapp, Beckett scrive (e mette in scena) un testo di incommensurabile poesia e amore, di sfrenata voglia di vivere, anche se… «la Terra potrebbe essere disabitata». Un monologo straordinario, denso di richiami alla Bibbia, alla Cabala, al Manicheismo, al mistero dei Numeri, composto di pochissime pagine, in cui primeggiano ferree consegne per il regista, l’interprete, lo scenografo, i tecnici delle luci e del suono e il costumista, al quale si raccomanda che Krapp calzi «un paio di stupefacenti stivaletti bianchi, molto sporchi, strettissimi e appuntiti, d’una misura spropositata, almeno 48». Beckett non si tradisce, a lui si ubbidisce.

È vero che sul palcoscenico ci sarà l’attore con il suo corpo e la sua voce, «medium del dramma» forte del suo background esperienziale e quant’altro, ma le parole devono restare quelle dell’autore, del suo testo, preciso come uno spartito musicale, a cui si impone un’incondizionata fedeltà, e va eseguito nella sua interezza.

Sull’argomento, mi sovviene quanto scritto da Deirdre Bair in Samuel Beckett. Una biografia (Garzanti). La studiosa, vicinissima a Beckett, nel suo poderoso saggio afferma che «secondo Beckett, il miglior spettacolo teatrale è quello in cui non vi sono attori o registi, ma soltanto l’opera. Interrogato sul modo di rendere possibile un simile teatro, Beckett ha risposto che l’autore ha il dovere di cercare l’attore migliore, cioè quello che esegue alla perfezione le sue istruzioni e che ha la capacità di annullarsi completamente nell’opera».

Sulla messinscena, Bair ci comunica un’ulteriore e più estrema ricerca voluta da Beckett: «La miglior opera teatrale possibile è quella in cui non ci sono attori, ma soltanto il testo. Sto cercando il modo di scriverne una». Lo farà con Non io, sorta di epistassi della parola, uno dei monologhi più intensi della storia del teatro, in cui il corpo dell’attore sarà ridotto ad una Bocca nel buio. Ebbene, tutto questo non è apparso in Wilson. Un performer prodigioso, artista-sperimentatore tra i più importanti al mondo – ricordo ancora il suo memorabile Einstein on the beach al Gran Teatro La Fenice di Venezia, orchestrata da Philip Glass del 1976 – ma con Beckett, con Krapp’s Last Tape, non ho visto alcuna affinità. Inoltre, nella «fotocopia», distribuita in guisa di programma di sala, l’americano riportava eclatanti inesattezze, ovvero che per Krapp «è il settantesimo compleanno»: errore gravissimo. È il sessantanovesimo. Un numero preciso, specialmente in questa pièce, carica di significati e riferimenti numerici, in cui il settanta non appare, né si ricava da nessuna parte. In proposito, mi permetto di citare un mio studio: Numerical references in «Krapp’s Last Tape», in Samuel Beckett: Endlessnes in the Year 2000. Samuel Beckett: Fin sans fin en l’an 2000, eds. Angela Moorjani and Carola Veit, Amsterdam – New York, Rodopi, 2001.

In generale una riscrittura soggettiva di un testo che dia conto della traduzione, del suono, della cultura e dei gusti dell’interprete può andare bene; penso alla rivisitazione della drammaturgia classica greco-romana, di Shakespeare, Molière e Brecht, ma per le opere beckettiane (come per quelle di Eduardo) il discorso muta. La fedeltà al copione deve concludersi in una sincera consustanziazione scenica. Rammento che Beckett, in alcuni casi, ha chiesto la sospensione di messinscene estranee alla sua originaria stesura. Non a caso Beckett passa alla realizzazione delle sue opere, proprio come i grandi Euripide e Shakespeare, Eduardo e Pinter. Le lunghe didascalie beckettiane, o meglio «le indicazioni di regia, così puntigliosamente descritte», come opportunamente evidenzia Gabriele Frasca in un suo studio Catastrofe: l’albero, la luna e i pantaloni, rientrano nell’impalcatura testuale, sono necessarie nell’insieme del testo drammaturgico e scenico. Vedi quelle maniacali del prediletto Krapp da me interpretato, con l’affettuoso imprimatur dello stesso Beckett. Una messinscena vissuta con immedesimazione alla Konstantin Sergeevič Stanislavskij: io dovevo essere Krapp. I suoi pensieri, gesti, memorie e azioni, divenire i miei. Insomma, vivere una forte empatia con il personaggio, come sosteneva Antonin Artaud: «Sentire, vivere, pensare realmente, questo dev’essere lo scopo del vero attore».

Così è stato per le mie altre messinscene di: Aspettando Godot, Cosa dove, Non io, Dondolo, Giorni felici, Commedia, Testi per nulla, Improvviso dell’Ohio, Passi, Assunzione e Respiro.

Una volta il sublime Carmelo Bene ha detto: «Per interpretare Shakespeare, bisogna essere Shakespeare: io sono Shakespeare».

In tal senso, ogni attore-regista dovrebbe dimostrare affinità con l’autore, per approvare obiettivi e valori, segnatamente nell’amore, nell’amicizia, nell’attesa di un mondo migliore e, perché no? nella politica. In questa ottica, attraverso un attento approccio filologico drammaturgico, ho inteso L’ultimo nastro di Krapp, vivendolo in simbiosi, per poi trasferirlo in scena, col trasportare le analisi in termini speculari nel segno di un confronto tout court con il corpo, il gesto e la parola, lo spazio scenico e gli oggetti. Nel tempo, in Beckett ho privilegiato la parola, il testo drammaturgico e il suo concepimento, per poi accedere e superare il Silenzio ed immettermi in quella collocazione ipnotica esteriore, di Moving-Static, con un’esaltante agitazione dei sentimenti.

Per la traduzione delle opere di Beckett in Italia, grazie a scrupolosi studiosi, tra cui Gabriele Frasca, Giancarlo Alfano, Franca Cavagnoli, Andrea Cortellessa, Massimo Bocchiola, Leonardo Marcello Pignataro, Luca Scarlini, Rosanna Sebellin e Laura Santini, emergono novità relative ad alcune storiche traduzioni. Secondo Rosanna Sebellin: «L’ipotesi di ricerca è se sia necessario o meno procedere a una ritraduzione dei drammi beckettiani in Italia, considerato che di per sé le traduzioni attualmente in commercio, per lo meno quelle ad opera di Carlo Fruttero, non sono né obsolete da un punto di vista linguistico né superate da un punto di vista pragmatico o lessicale. Le considerazioni che spingono a considerare legittima la necessità di ritradurre vanno ricercate in altri ambiti, soprattutto di carattere filologico, di ricostruzione testuale ed editoriale».

Tanto è stato scritto su Beckett. Nessuno dei più grandi pensatori si è sottratto. Impossibile elencarli tutti, pertanto, anche se risale al 1992, si veda il mio: Samuel Beckett, L’ultimo nastro di Krapp: dalla pagina alla messinscena, Edizioni Scientifiche Italiane, in cui vi è un copioso e ragionato apparato bibliografico di oltre duemila voci di prima mano.

Pur consapevole che sovente operatori dello spettacolo ritengono Beckett un autore difficile da interpretare, per quanto mi riguarda, in particolare sotto il profilo scenico-recitativo, posso dire che Beckett non si interpreta, si gusta per quello che è, curando con diligenza le tassative disposizioni presenti nel testo. Peraltro, in tutte le sue opere, le geometriche ed inviolabili didascalie abbondano di puntualizzazioni afferenti allo spazio-tempo, alla durata delle pause, alla scena e alle sue dimensioni, all’impianto luci e alla densità da impegnare, nonché di dati analitici riferiti al costume, al trucco, agli oggetti, alla postura, alle entrate e alle uscite di scena, agli innumerevoli e rilevanti gesti, seppur infinitesimali da osservare, come ad esempio il battito o meno di ciglia di Winnie, Krapp o di Og/Oc ed altri. Solo con questi imprescindibili presupposti nasce e vive una messinscena del mio amatissimo Samuel Beckett.

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11 Gennaio 2023

Claudia Bertolé, Il cinema di Kore’eda Hirokazu. Memoria, assenza, famiglie

Giacomo Calorio, «Sonatine»

Della folta schiera di registi giapponesi emersi negli ultimi decenni – schiera delle cui dimensioni ci si può fare un’idea su queste pagine – al momento Kore’eda Hirokazu è l’unico a essersi guadagnato un posto stabile nella nicchia della distribuzione italiana. Il merito di questo piccolo miracolo non va solo ai caratteri universalmente declinabili del suo cinema, tali da incontrare gli interessi di platee lontane e più vaste di quelle di solito attratte dalle cinematografie cult e dal Giappone «di per sé», né soltanto alla presenza costante dei suoi film nei programmi dei principali festival europei, che più di una volta li hanno insigniti di premi prestigiosi. Il merito va anche, se non soprattutto, all’intraprendenza di giovani case di distribuzione locali come Tucker Film e Double Line che, proseguendo la strada tracciata da BIM con Father and Son, primo film di Kore’eda a essere distribuito nel nostro paese, hanno evitato che si trattasse di un caso isolato, portando tutta l’opera successiva del cineasta giapponese nelle nostre sale e nei nostri salotti, e rendendo così i suoi film, poco alla volta, familiari anche ai non addetti ai lavori. Quanto basta per rendere non solo più che giustificata, ma anche assai utile e gradita, se non doverosa, la presenza di una monografia italiana dedicata al regista.

Il cinema di Koreeda Hirokazu – Memoria, assenza, famiglie di Claudia Bertolé è la riedizione, rivista e aggiornata, di una precedente monografia che l’autrice aveva già dedicato al regista giapponese: Splendidi riflessi di ciò che manca, edito nel 2013 dal «Foglio». Va tuttavia considerato che, nei dieci anni intercorsi da tale edizione, la filmografia di Kore’eda si è arricchita di sei nuovi film, tutti usciti in Italia, laddove all’epoca della precedente versione del libro solo il già citato Father and Son aveva goduto di una distribuzione nostrana. Non solo: in questo arco di tempo, l’eclettismo (di superficie, per lo meno) dell’opera di Koreeda si è arricchito, da un lato, di un ulteriore genere prima d’allora rimasto inesplorato dal regista, ovvero il dramma giudiziario del Terzo omicidio (‘ché, va ricordato, la filmografia del regista non si compone solo di drammi familiari, ma comprende anche documentari, un film in costume, un film fantastico e un dramma «metafisico»); dall’altro, di due titoli realizzati all’estero: Le verità, girato in Francia, e Le buone stelle – Broker, girato in Corea del Sud; infine, di una Palma d’Oro al festival di Cannes (andata a Affari di famiglia) che ne ha confermato, rinnovandolo, lo status di grande autore internazionale. Si tratta di sviluppi importanti che esigevano senz’altro un’edizione aggiornata che ne rendesse conto e li collocasse al contempo nel contesto di una produzione, avviatasi molti anni addietro, coerente tanto sul piano tematico quanto su quello stilistico.

La struttura del libro è in buona parte simile a quella della monografia edita dal «Foglio»: a una parte in cui Bertolé sviscera quelli che lei individua come i tratti fondamentali del cinema del regista dedicando a ognuno di essi un capitolo, ne segue un’altra in cui l’autrice si concentra invece sui singoli film. Completano il libro una prefazione a firma di Dario Tomasi, assente nella prima edizione, un’introduzione dal taglio più personale in cui la stessa Bertolé rende conto del suo amore ormai più che ventennale per il cinema del regista, e infine gli utili apparati finali quali una sintetica biografia, la filmografia completa del regista e la bibliografia. A corredo del tutto, una piccola galleria iconografica posta alla fine di ciascun capitolo. Per quanto concerne gli approfondimenti della prima parte, tutti aggiornati in questa nuova edizione, così da includere anche i nuovi lavori del regista, sono rispettivamente dedicati ai seguenti argomenti: lo sguardo documentario del regista (sguardo, va ribadito, presente anche nelle opere di fiction), il tema della memoria, strettamente legato a quello dell’assenza (il cui contraltare è la presenza dell’ambiente circostante, umano o naturale che sia), quello della famiglia (o meglio «delle famiglie»), le figure femminili del cinema di Kore’eda e infine il rapporto stilistico, oltre che tematico, con il cinema di Ozu, l’autore del cinema classico che, insieme a Naruse, più spesso viene chiamato in causa quando si parla del cineasta oggetto del libro. Ciascuno di questi temi viene poi declinato sui singoli film nella seconda parte del libro in cui Bertolé analizza punto per punto l’intera produzione del regista, compresi i documentari televisivi e la serie Going My Home.

Una monografia agile ma completa, quindi, la cui utilità si snoda su due fronti: da una parte, essa servirà al lettore che voglia approfondire e meglio comprendere l’ormai nutrito numero di opere viste e reperibili in Italia attraverso l’attenta analisi critica dell’autrice e la contestualizzazione dei film dell’autore nell’ambito più esteso del cinema e della cultura giapponesi; dall’altro, gli consentirà di ampliare e completare la sua conoscenza della filmografia complessiva del regista, qualora essa sia limitata alle sole opere uscite in Italia, colmando i buchi costituiti dai primi importantissimi lavori mai distribuiti nel nostro paese. Il testo di Bertolé, infine, può essere utilizzato anche in maniera simbiotica e complementare rispetto all’altra preziosa uscita recente che Cue Press ha dedicato al regista, ovvero Pensieri dal set, il saggio al contempo teorico e autobiografico firmato dallo stesso Kore’eda (nella traduzione italiana di Francesco Vitucci) in cui il cineasta guarda al proprio cinema. Se Pensieri dal set ci offre la preziosa opportunità di godere di un punto di vista interno e personale sulla produzione di Koreeda, ugualmente prezioso è il punto di vista esterno e analitico di una studiosa che da anni si dedica ai lavori del regista.

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6 Gennaio 2023

Il meglio e il peggio del cinema anni Settanta racconta l’Italia

Giovanni Scipioni, «Il Domani»

Quando Fellini raccontava con successo la sua infanzia in Amarcord, al cinema si faceva la fila per vedere i giochi erotici di Emmanuelle. Nello stesso periodo Gian Maria Volonté svelava agli spettatori come intraprendere L’indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto mentre l’avventuriero Franco Nero, Cipolla Colt, incastrava i cattivi colpevoli senza versare una lacrima. L’alto e il basso. Il meglio e il peggio del cinema italiano degli anni Settanta.

Tanta diversità ma un comune pensiero audace: trasgressione, libertà, fancazzismo e lotte politiche. Oggi c’è il timore ma anche la speranza di rivivere quegli anni, di passeggiare nello stesso giardino occulto. Dalla politica alla cultura, all’economia, all’educazione. Da quando si usavano i gettoni per telefonare a quando è sufficiente roteare un dito per avere un teatro di comunicazioni.

Paragoni come sempre inadeguati anche perché appare contraddittoria e complessa ancora oggi un’analisi compiuta degli anni Settanta. Favolosi per alcuni, cupi per altri, formativi per alcuni, deleteri per altri. Un perfetto binario emozionale, quasi una sorta di schizofrenia sociale e individuale che il cinema ha saputo raccontare.

Epoca confusa

L’anno inizia con un ritiro, quello dei Beatles. Let it be. E così sarà per tutto il decennio. Terrorismo, bombe e stragi fasciste, brigate rosse, rapimento Moro, scandali politici, radio e TV libere che in poco tempo vengono bullizzate. Sono gli anni in cui Fabrizio De André sostiene di essere di «un’altra razza, son bombarolo». Lucio Battisti ha «un sottile dispiacere nel seguir con gli occhi un airone», mentre Franco Battiato spera che ritorni presto l’era del cinghiale bianco.

In questo quadro confuso e contraddittorio dove, dipinto dalla canzone popolare, cuore e mente fanno allegramente baruffa, il cinema italiano, già arricchito dai successi degli anni Sessanta, continua ad avere un grande seguito di pubblico. Continua a essere il maggiore divertimento degli italiani e la sala buia resta uno dei luoghi più felici per conoscere storie e persone.

Si andava a vedere Amici miei e C’eravamo tanto amati, ma anche La liceale e La moglie vergine staccavano tanti biglietti, per la gioia di produttori, in alcuni casi improvvisati. Tutti successi. Un pubblico in gran parte binario, chi sceglieva Amarcord non cedeva alle lusinghe di Emmanuelle, anche se non mancavano le dovute eccezioni.

Facile dire che il paese (almeno al cinema) era diviso in due. Per dirla con le parole di Renato Palazzi, gli italiani e quei film (Il peggio degli anni Settanta in 120 film, edizioni Cue Press) erano esotici, erotici e psicotici. Palazzi demolisce con efficacia e competenza il cinema trash, quello del buco della serratura, che risulta «un po’ peccaminoso e un po’ parrocchiale».

I film melensi

Accanto all’erotismo da meriggio bianco, prende il sopravvento il filone dei buoni sentimenti. In realtà si tratta di fuorvianti romanticherie, veri e propri sdilinquimenti da pianura paludosa. I veri sentimenti non sono di casa. Come nel caso del melenso Il venditore di palloncini che ha aperto non una porta ma un portone gigantesco per tutte le telenovelas che seguiranno. La scena del padre che piange sul letto del figlio malato è così falsa e male interpretata che sembra una parodia. La sceneggiatura poi un prodigio della natura. «Figlio mio… figlio mio» (e giù lacrime finte) dice il padre abbracciandolo. Il medico interviene, manda via i suoi assistenti e si rivolge al bambino: «Ricordi che cosa mi hai promesso?» Risposta immediata: «Sì, che faccio il bravo». Interviene la suora: «E che ubbidisci a suor Maria». Immediato il colpo di scena. Il bambino si rivolge al padre e indica la suora: «È lei suor Maria».

Uno scorcio di sceneggiatura che sembra uscito involontariamente dalla comicità della TV delle ragazze o in quella lunatica di Valerio Lundini.

Eppure in questo film c’erano attori bravi e importanti come Adolfo Celi, Silvano Tranquilli, Lina Volonghi, Marina Malfatti. Fuori dal cinema si sparava e si contestava, dentro ci si commuoveva con un bambino che muore e va in paradiso salendo come un palloncino. Il basso.

Realismo felliniano

Il realismo magico di Fellini è un perfetto contrappeso, l’altro binario sociale. C’è l’atto nobile di raccontare una storia, tante storie. In Amarcord s’immagina la vita che si svolge nell’anti borgo di Rimini negli anni Trenta. C’è l’anarchico padre operaio sempre in lite affettuosa con la moglie Pupella Maggio, lo zio Lazzo, fascista all’acqua di rose che vive alle spalle dei parenti, e lo zio Ciccio Ingrassia, ricoverato in manicomio, che si arrampica su un albero e comincia a gridare di volere una donna. Ne ha diritto, del resto.

Nella scena del pranzo di famiglia, indicativa della società degli anni Trenta ma anche del decennio Settanta, suonano alla porta mentre tutti sono intorno a un tavolo per mangiare. Il padre: «Chi è a quest’ora?». La moglie stizzosa: «Che ne so io». Tina, che aiuta in casa, va ad aprire, poi rientra e senza farsi sentire dai commensali avverte il padre di una visita. Il padre si alza e va fuori stanza.

Nel frattempo tutti mangiano, ridono e si divertono – oggi diremmo cazzeggiano – visto che il padre, curatore dell’ordine parentale, si è momentaneamente assentato. Poco dopo rientra fischiettando. Si mette a sedere e beve, con apparente tranquillità, un bicchiere di vino. «Buono questo sangiovese», dice. Poi con falsa calma si rivolge al figlio. Si apre un teatrino padre-figlio che fa dire, ricordando Emily Dickinson, come molta follia sia divina saggezza.

«Di’ un po’, dove sei stato ieri sera?».
«Io? Al cinema babbo, al Fulgor».
«Cosa facevano?».
«C’erano gli indiani e gli americani volevano entrare nel territorio dei comanche ma gli indiani tiravano le frecce…».

Improvvisamente il padre si alza per picchiare il figlio, che fugge fuori casa. L’aveva combinata grossa. Poi si rivolge alla moglie: «Mi devi dire di chi è figlio questo pezzo di merda. Domani viene a lavorare con me». Il film si svolge negli anni Trenta ma racconta una società patriarcale, la stessa degli anni Settanta, messa a dura prova da durissime contestazioni. L’alto.

Raccontare il paese

Il successo e il seguito dei film brutti si spiega anche con il tentativo di raccontare la vita reale degli abitanti degli anni Settanta. Toccano corde e sentimenti comuni. Dopo l’avvento dei Beatles c’era stato in tutto il mondo, e anche in Italia, l’esplosione della musica. Con il desiderio di farla, di partecipare attivamente. Nascono numerosi complessi (allora si chiamavano così) e quasi tutti i giovani protestano, partecipano ai collettivi, entrano nella lotta armata e suonano chitarre e batterie. Si vuole diventare cantanti.

Il film Lady Barbara, che vede come protagonista un cantante famoso di quegli anni, Renato dei Profeti, racconta di un attore di fotoromanzi che vuole diventare un cantante di successo e ci riuscirà con l’aiuto di una ragazza inglese, Barbara appunto. Anche nel cinema basso s’indica la strada da seguire o semplicemente si riflette una situazione già esistente. Ecco il punto d’incontro tra cinema basso e quello alto. Raccontano il paese. Ognuno a modo suo.

Un po’ come la supercazzola di Tognazzi in Amici Miei: «Blinda la supercazzola prematura con doppio scappellamento a destra». Una divertente invenzione linguistica per prendere in giro quelli che parlavano male, dai ragionamenti volutamente contorti e ingarbugliati. Un esercito in quegli anni. C’è anche il tentativo di migliorarsi, come fa Gigi Proietti durante una pubblicità televisiva in Febbre da cavallo: «Non prendete fischi per fiaschi solo questo è un fischio maschio senza raschio… un vischio maschio senza rischio… fischio raschio senza maschio [ecc.]».

Parole tortuose per raccontare un decennio cupo, favoloso, contraddittorio e confuso. L’inaudito. C’è somiglianza.

26 Dicembre 2022

Dalle pitture vascolari alla fotografia digitale, l’importanza dell’iconografia

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

L’iconografia è stata, sempre, una fonte per riguardare le arti del passato e lo è stata, in particolare, per il teatro, dato che ad essa sono spesso ricorsi gli storici per ricostruire, insieme ai testi, le particolarità sceniche che hanno caratterizzato le messinscene del tempo. Pertanto, la documentazione figurativa, costituita da pitture vascolari, illustrazioni e immagini pittoriche, è stata determinante per meglio conoscere le tragedie antiche, la Commedia dell’Arte, le interpretazioni degli attori, con i loro costumi d’epoca, finalizzate a meglio conoscere il rapporto esistente tra dimensione visiva, dimensione spaziale e dimensione teatrale.

In un volume pubblicato da Cue Press, In forma di quadro. Note di iconografia teatrale, di Renzo Guardenti, non solo avvertiamo la passione dell’autore per l’argomento trattato, ma anche il suo modo di intendere la ricerca scientifica su alcuni periodi storici del nostro teatro, a cominciare dai primi Italiens che operavano a Parigi, ovvero dai nostri Comici dell’Arte, per arrivare al Settecento e all’Ottocento, con riferimenti a Talma, Marrocchesi e Sarah Bernhardt, attori dei quali Guardenti ha percorso la storia utilizzando non solo gli studi a essi dedicati, ma anche i materiali fotografici rinvenuti, per meglio inquadrare alcuni modelli dell’attorialità italiana ed europea.

Il volume contiene anche un saggio sulla iconografia viscontiana, applicato ai suoi spettacoli, a cominciare da A porte chiuse di Sartre del 1945, con Rina Morelli, Paolo Stoppa, Vivi Gioi, un saggio che va considerato anche come una riflessione sul modo di mettere in scena da parte di Visconti. Lo studio di Guardenti, che insegna Storia del teatro presso l’Università di Firenze, aiuta a capire meglio in che modo avvenga il processo compositivo, cosa determina l’arte della visione e in che cosa consista la traslazione tra visione esteriore e visione interiore. Gli apparati metodologici utilizzati dall’autore fanno riferimento agli studi ormai classici di Kernodle, Panofsky, Warburg, Zorzi, Ragghianti, tutti attenti a ricercare i significati intrinseci e simbolici di un’opera d’arte, oltre che quelli della sua doppia natura. Ma ciò che interessa maggiormente all’autore è capire il rapporto esistente tra immagine e pratica scenica, tra linguaggio figurativo e linguaggio rappresentativo, tra teatralità della pittura e la sua correlazione con la resa scenica.

Secondo Guardenti, la memoria di uno spettacolo tende a depositarsi e a sedimentarsi nelle arti figurative – con particolare riferimento a spettacoli dei secoli scorsi – fino a creare un vero e proprio processo di «traduzione» e di «trasmutazione» che offre delle tracce o delle indicazioni per meglio comprendere e, magari, approfondire un evento spettacolare, del quale ci sono rimaste delle immagini visive che a loro volta si possono scomporre, ingigantire, grazie ai recenti mezzi tecnologici. Ciò permette, attraverso i dettagli, di capire il significato di un’azione o di un’interpretazione.

In simili casi, lo storico procede nella sua indagine, utilizzando il metodo dell’assemblaggio o dell’analisi del frammento, per ricostruirne una forma di archetipo e restituire al mosaico ricomposto una specie di unità. Del resto, il frammento è stato oggetto di teorie estetiche che lo hanno reso un «segno» autonomo, il cui risultato è percepibile nella «contemplazione dell’istante». Il frammento possiede una sua fissità, ma, come sosteneva Benjamin, è nell’immobilità che s’insinua la dialettica. Tutto questo è ancora percepibile nella fissità delle immagini che riguardano, per esempio, attori e spettacoli della Commedia dell’Arte, ripetutamente studiata da Guardenti, oppure attori e attrici tra Settecento e Ottocento, che, grazie al materiale iconografico, mostrano delle posture utili per conoscere le loro pratiche interpretative.

Questo lavoro rende più moderna la coscienza storiografica, applicata alla voga figurativa e ai riscontri in contesti diversi, come quelli che si trovano nei castelli, nei palazzi signorili e, in forma ridotta, persino nelle porcellane.

Come non fare riferimento a Tiepolo, alla qualità teatrale della sua pittura e ai suoi ben noti Pulcinella?

Il volume è diviso in due parti, una teorica (pp. 145) e una figurativa (pp. 120), a dimostrazione di come certe tesi sostenute dall’autore siano fondamentali per capire il rapporto esistente tra teatro e iconografia.

20 Dicembre 2022

Finzione & morale

Andrea Ottieri, «succedeoggi»

Storico del teatro tra i più prestigiosi in Italia, Paolo Puppa da tempo è anche – come dire? – un performer che mette in scena la sua perizia critica. Si può sostenere a buona ragione, anzi, che abbia inventato un nuovo genere di derivazione saggistica, ma di fatto pienamente teatrale, poiché Puppa i suoi «testi» (fiction scenica con un solido aggancio alla critica delle idee) li mette in scena in prima persona, esponendosi come attore. O performer, appunto, come è meglio affermare.

La casa editrice Cue Press ora raccoglie una serie di questi testi, che sono «monologhi, dialoghi interrotti, frammenti ‘apocalittici’», sotto il titolo La fine del mondo: una vita in serie (86 pagine, € 19.99). E si tratta di testi sostanzialmente di due tipi.

Da un lato, ci sono fantasie rabbiose nelle quali l’Io narrante sottolinea i caratteri di una società che ha smarrito senso (compreso quello della misura). Come in Tatuaggi, per esempio, dove la voce immagina di attrarre giovani provinanti non per abusare di loro ma per distruggere i loro telefonini, cancellandone – per qualche tempo almeno – la loro dipendenza dal dio selfie. E, del resto, è pur vero che proprio questa pervasività dello schermo, della dimensione virtuale, è ciò che ci ha condotto «alla fine del mondo», impedendoci di riconoscere l’unicità delle nostre esperienze: tutto affoga in una serialità coatta priva di qualsivoglia accensione.

Ed ecco, allora, che nel «diario» che, chiudendolo, dà titolo al volume, Paolo Puppa accatasta esperienze autentiche ancorché minimali (una passeggiata al mercato, la visione di uno spettacolo, una serata davanti alla TV, ecc.) per cercare lì dentro lo scampo al vuoto nel quale tutti quanti siamo precipitati. Confondendo il vero dal contraffatto, e per ciò stesso incapaci di cogliere il senso della metafora: tutto è squadernato su una galleria di schermi dove le immagini rimandano solo a se stesse. E invece l’Io narrante de La fine del mondo: una vita in serie vorrebbe distinguere, vorrebbe non perdersi, vorrebbe annotare quel che c’era e non c’è più. Perché solo nel dar vita alla finzione (vissuta come tale, il teatro, insomma) c’è spazio per la realtà, in questo nostro mondo.

Dall’altro lato, invece, ci sono testi peculiari di una mente critica: creatività di «secondo livello», applicata, come si dice in gergo. Nel senso che Puppa immagina sequel o spin off di grandi classici, da Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello rivisto con gli occhi del Ragazzo, a un delizioso apologo sul Mercante di Venezia di Shakespeare, nel quale Lorenzo, giovane sposo di Jessica, la figlia di Shylock, rivela i difetti della ragazza che, invece, da fidanzata «sembrava innamorata come una fanciulla, pura, una bambina, quasi. Una ragazzina inesperta di tutto». Si tratta di giochi interni ai classici, illazioni tramite le quali lo studioso duetta ora con Pirandello ora con Shakespeare, trasformando una sua intuizione critica in un gioco scenico. E portando il lettore – anche quello digiuno di Jessica o dei Sei personaggi – in una dimensione fantastica dove tutto pare noto, riconoscibile.

E, in verità, il senso di questa raccolta è proprio nella contrapposizione tra i due «generi» che la compongono: non avrebbe senso lo svago moralista (nel senso alfieriano del termine) che cerca la realtà oltre la serialità, se di fronte, contrapposto, non ci fosse il gioco di chi l’unica realtà possibile la trova nella finzione.

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17 Dicembre 2022

Lotte H. Eisner. Un classico della saggistica cinematografica

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Per gli appassionati e i cultori di cinema e di teatro, l’agguerrita casa editrice Cue Press è una manna dal cielo. Il suo catalogo, tra i più interessanti nel panorama editoriale delle arti dello spettacolo per qualità ed estensione, continua ad arricchirsi di titoli. Di recente uscita è un classico della saggistica cinematografica, fondamentale per chi desideri avvicinarsi alla conoscenza di uno dei più grandi registi di sempre: Friedrich Wilhem Murnau. Si tratta del celebre lavoro di una nota studiosa del cinema novecentesco, Lotte H. Eisner. Costretta a lasciare la Germania nel 1933 in quanto ebrea, stabilitasi a Parigi dove morì nel 1983, Eisner fu caporedattrice di Cinémathèque Française, appassionata ed esperta collezionista della scenografia di Weimar, autrice di altri studi seminali come Lo schermo demoniaco (1952) e di una monografia sul suo grande amico Fritz Lang. Personaggio non poco influente, negli anni Sessanta divenne il simbolo della rinascita del cinema della Germania occidentale per registi come Werner Herzog, Wim Wenders, Margarethe von Trotta e Rainer Werner Fassbinder.

In questo volume dalla lunga gestazione (fu iniziato, apprendiamo dalla prefazione dell’autrice, nel 1957 e dato alle stampe nel 1964) la studiosa berlinese ricostruisce con acume filologico e lucida intelligenza la vita e le opere di Friedrich Wilhelm Plumpe, in arte Murnau. Con esso, l’autrice si propone di «tracciare lo sviluppo dello stile di Murnau», nonché di «dimostrare la spesso intransigente coerenza della sua volontà artistica», e lo fa attraverso la raccolta di testimonianze di artisti, collaboratori e colleghi del regista, soffermandosi sul minuzioso esame del lavoro creativo di capolavori dell’espressionismo tedesco, analizzando film e sceneggiature (alcune delle quali affidatele dal fratello di Murnau, Robert) e ricostruendo, mediante articoli, recensioni e programmi di sala, l’accoglienza delle sue opere, non sempre benevola.

Il libro si compone di quattordici capitoli; nel primo si lascia la parola a Robert Plumpe, che traccia un profilo biografico attraverso i ricordi familiari, in cui rivive vividamente un’epoca remota di grande suggestione. Seguono uno studio particolarmente interessante sul rapporto tra il cineasta e i suoi sceneggiatori (tra i quali il leggendario Carl Mayer), la testimonianza del suo scenografo e arredatore Robert Herlth, una sezione dedicata all’uso delle luci e alla tecnica di ripresa, capitoli che analizzano i singoli film, da quelli prodotti in Germania (tra cui Nosferatu), a quelli realizzati negli Stati Uniti (Aurora, I quattro diavoli e Il nostro pane quotidiano) e l’ultimo (Tabù, opera della maturità), girato in un’isola del Pacifico.

Non manca una parte dedicata ai film smarriti (nove su ventuno produzioni) e ai progetti irrealizzati, una sul periodo hollywoodiano e un capitolo sulla morte di Murnau, avvenuta nel 1931 e circondata da «storie e dettagli inverosimili», qui ricostruita con il piglio realistico dello storico e con trascinante empatia, con i dettagli dell’incidente automobilistico, l’ultimo addio nel funeral saloon cui erano presenti «poche coraggiose persone», tra cui la divina Greta Garbo («donna sola quanto lo fu lui»), il trasporto pieno di intoppi della salma fino a Berlino e la cerimonia funebre, durante la quale il grande antagonista di Murnau, Fritz Lang, tenne un toccante discorso di commemorazione, concedendo l’onore delle armi al geniale collega. È l’unico capitolo in cui Eisner tocca, con garbo estremo, il tema dell’omosessualità di Murnau, che in qualche modo si legò al tragico epilogo della sua vita.

Imperdibile la raccolta di fotografie d’epoca che chiudono il volume, insieme a una necessaria filmografia, che permette di orientarsi nella produzione del grande regista tedesco prematuramente scomparso, la cui opera, è indubbio, «resta intramontabile».

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10 Gennaio 2019

Martinelli, drammaturgo tra testo e scena nel libro di Maria Dolores Pesce

Franco Acquaviva, «Pac – Magazine di Arte e Cultura»

In che modo l’atto dello scrivere si innesta nella disciplina di un gruppo teatrale? Sappiamo quanto l’autore sia sempre una sorta di terzo incomodo alle prove. Un caso esemplare è quello raccontato in Romanzo teatrale di Bulgakov, che ci consente di entrare in pieno nell’universo frustrante (per l’autore), ma non meno sconcertante per gli attori […]
8 Gennaio 2019

Teatro d’origine di Angela Demattè

Marcello Isidori, «Dramma»

I testi di Angela Demattè raccolti in questa elegante pubblicazione a cura di Cue Press sono effettivamente, come da titolo, legati tra loro dalla tematica dell’origine. In genere si potrebbe parlare di ispirazioni autobiografiche dell’autrice, ma il termine origine non è soltanto questo, è molto di più. Origine è la terra da cui veniamo, la […]
24 Dicembre 2018

Uno spettacolo senza spettacolo. Cioè performance. Finché non ebbe a che fare con crisi e drammi di popoli. E fu Living

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Consiglio a tutti gli amanti del teatro, della danza, della musica, di leggere il volume di Richard Schechner: Introduzione ai Performance Studies, edito da Cue Press, trattandosi di un viaggio, ricco di mappe, annotazioni, interventi di studiosi, bibliografia comparata, che permette di addentrarci in un argomento di cui, in maniera impropria, si è fatto un […]
10 Dicembre 2018

Anna Barsotti, Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile

Simona Scattina, «Arabeschi»

Anna Barsotti con Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile (Cue Press, 2018) torna ad occuparsi di uno degli autori-attori più emblematici della drammaturgia italiana del Novecento. Non nuova al teatro di Eduardo (ricordiamo Introduzione a Eduardo, per Laterza, 1992; Eduardo drammaturgo, per i tipi Bulzoni, 1995; la cura per Einaudi dell’edizione della Cantata dei […]
6 Dicembre 2018

Eleonora Duse torna sulla scena

Roberto De Monticelli, «Corriere della Sera»

Improvvisamente ritorna all’attenzione del pubblico, sui giornali e alla televisione, l’immagine di Eleonora Duse. Perché? Non ricorre in questi giorni alcun anniversario, nessuna particolare occasione celebrativa è prevista. Che succede? Da quale soprassalto della memoria collettiva scaturisce una volta di più questo fantasma inquietante? Per iniziativa dell’Ente Festival di Asolo una mostra sulla ‘divina’ si […]
28 Novembre 2018

Quei maestri del teatro russo tra disciplina e rivoluzione

Andrea Bisicchia, «il Giornale»

La morte di Nekrosius, di matrice lituana, rivoluzionario quanto il suo maestro Mejerchol’d e altrettanto innovatore del linguaggio scenico soprattutto con i suoi Shakespeare barbaraci, grazie all’uso, sulla scena, di elementi primordiali come aria, acqua, fuoco e terra, è l’occasione per poter ritornare a parlare del regista che andò oltre Stanislanskij per traghettare la regia […]
27 Novembre 2018

Stracci della memoria

Vincenzo Carboni, «Persinsala»

Il libro, di fatto, è la raccolta dei diari di lavoro, di dodici anni di ricerca, intorno al tema della memoria. Questa è intesa dagli autori come una borsa, ma una borsa bucata, simile a quel vaso forato a cui Lucrezio nel De Rerum natura paragona l’essere umano. I ricordi sono la prima cosa che […]
31 Ottobre 2018

Anna Barsotti, Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile

Giovanni Antonucci, «Teatro contemporaneo e cinema»

Anna Barsotti, ordinario di Discipline dello Spettacolo all’Università di Pisa, ha dedicato a Eduardo De Filippo una parte importante della sua attività, sia come autrice di alcune importanti monografie che come curatrice di una fortunata edizione della Cantata dei giorni dispari e della Cantata dei giorni pari. Ora ripubblica uno dei suoi saggi più significativi, […]
21 Ottobre 2018

L’ossessione di Eduardo nel creare i suoi personaggi, le loro storie di miserie, di sofferenze e di solitudini. E i loro silenzi

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Anna Barsotti, da vent’anni, lavora al teatro di Eduardo. Ha curato, per Einaudi, la nuova edizione della Cantata dei giorni dispari (1995) e della Cantata dei giorni pari (1998), precedute da una monografia: Eduardo drammaturgo (1988). Il testo Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile era stato pubblicato da Laterza nel 1992, col titolo: Introduzione […]
12 Ottobre 2018

Il mondo nel corpo dell’attore

Ilaria Angelone, «Hystrio», XXXI-3

Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, registi e performer, rivelano la dote preziosa di saper raccontare le pratiche del proprio lavoro e il loro senso. Stracci della memoria è un progetto internazionale di ricerca e formazione nelle arti performative nato insieme alla compagnia Instabili Vaganti nel 2006, «trasfigurando in modo creativo la precarietà» di un […]
1 Ottobre 2018

Strindberg femminista? Beh, non la pensava certo come Ibsen. Il rapporto tra i sessi? La via più facile per l’inferno

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nel 1986, Franco Perrelli, uno dei più accreditati studiosi di Strindberg, oltre che traduttore, pubblicò, per l’editore Olschki di Firenze: Sul dramma moderno e il teatro moderno, dove figuravano alcuni saggi dell’autore svedese: Omicidio psichico, Prefazione alla Signorina Giulia, Sul dramma moderno e il teatro moderno che dava il titolo al volume citato, il Memorandum […]
25 Settembre 2018

Dal tragico al dramma borghese. E infine il postdrammatico. Un nuovo modo di fare teatro. Che valorizzò anche gli eretici.

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Il teatro postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, fu pubblicato nel 1999; in Italia arriva oggi con un ritardo impensabile, grazie a Mattia Visani, editore di Cue Press e alla traduzione di Sonia Antinori. Il ritardo non ha intaccato per nulla il lavoro di Lehmann che è la diretta prosecuzione di quello di Peter Szondi, autore di […]
17 Settembre 2018

I cent’anni che posero le basi di spazi, meccanica, costumi, luci, recitazione professionale. E nacque il teatro all’italiana

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nella ormai sterminata bibliografia sul teatro rinascimentale, il volume di Sara Mamone Il teatro della Firenze medicea, edito da Cue Press, può considerarsi un piccolo classico, non solo per la teorizzazione che l’autrice fa di quel periodo, ma anche per i documenti che ha utilizzato, parte dei quali si può leggere nel capitolo a loro […]
20 Giugno 2018

Vita di Hans-Thies Lehmann che inventò il teatro moderno

Andrea Bisicchia, «Libero»

Mentre si celebra il cinquantesimo anniversario del Sessantotto con pubblicazioni teoriche, mostre, dibattiti, il teatro lo ricorda come uno dei momenti più rivoluzionari del secondo Novecento, quando a un’idea ormai formalizzante dei teatri stabili, si contrappose quella di un teatro alternativo che riguardava, non più il testo, bensì la lingua scenica. La crisi fu tale […]
1 Gennaio 2018

L’esplosione di graffi teatrali di fine Novecento

Doriana Legge, «L’Indice», XXXV-1

ll libro di Hans-Thies Lehmann, a leggerlo come non avesse già la maggiore età, ci parla di una serie di urgenze che il teatro, nel finire del XX secolo, ha esibito sullo sfondo di un paesaggio in rovina. È per lo più un testo che si interroga sull’approccio semiotico dello spettacolo e si concentra sulla […]
1 Gennaio 2018

Dal mito all’istinto, un discorso sul metodo

Roberto Rizzente, «Hystrio», XXXI-1

Non ha bisogno di presentazioni, Theodoros Terzopoulos. Ospite, da qualche anno, al Vie Festival modenese, si distingue per l’originalità delle messinscene e la ferocia animalesca degli attori, entro i limiti di una geometria precisa, quasi wilsoniana, conciliando i poli della ragione e dell’istinto. Di quell’universo misterico, Il ritorno di Dionysos svela i retroscena. Perché non […]
10 Dicembre 2017

Le 2 (3, 4…) Americhe di De Capitani

Laura Zangarini, «Corriere della Sera»

«Fino agli anni Settanta le contraddizioni della società americana non erano le nostre, dagli anni Ottanta e con la globalizzazione non possiamo che rispecchiarci in essa per decifrare questo nostro complesso presente». A parlare è Elio De Capitani, attore e regista che con Ferdinando Bruni guida la tribù dell’Elfo di Milano, sul cui palco porta […]
1 Dicembre 2017

Il teatro postdrammatico

Alfio Petrini, «LiminaTeatri»

La prima edizione del libro risale al 1999. La progettazione a dieci anni prima. Con la traduzione di Sonia Antinori e la postfazione di Gerardo Guccini, la casa editrice Cue Press ha compiuto un’opera meritoria, pubblicando il saggio di Hans-Thies Lehmann Il teatro postdrammatico (Bologna, 2017). In una breve antologia di osservazioni e dialoghi figurano […]
23 Ottobre 2017

Il teatro postdrammatico di Lehmann. Un paesaggio di rovine?

Doriana Legge, «Teatro e Critica»

Vent’anni fa parlare di postdrammatico suggeriva il riferimento a una categoria fluida in cui riconoscere alcune pratiche già attive nella cultura teatrale, dare voce a qualcosa di cui già si percepiva la forma, in maniera forse ancora poco cosciente per chi quella scena la viveva. L’edizione italiana del libro di Hans-Thies Lehmann (con la traduzione […]
13 Ottobre 2017

Oltre la performance

Francesco Ceraolo, «Fata Morgana»

La pubblicazione in italiano de Il teatro postdrammatico di Hans-Thies Lehmann è un avvenimento di grande rilevanza che la teatrologia italiana non può assolutamente sottovalutare. Si tratta, senza dubbio, del più importante studio sistematico sul teatro contemporaneo post-drammatico (cioè puramente performativo) della seconda metà del Novecento, che ha influenzato una generazione di studiosi e che, […]
1 Ottobre 2017

Hans-Thies Lehmann arriva in Italia

Diego Vincenti, «Hystrio», XXX-4

Alla sua prima edizione in italiano (finalmente), Il teatro postdrammatico di Lehmann è uno di quei pochi saggi che hanno davvero segnato il loro tempo. Un frame. Di una scena in profonda evoluzione a fine millennio. Teorica e pratica. Ma si ferma mai il teatro? Non che sia invecchiato dunque il libro di Lehmann, tre […]