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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

1 Marzo 2023

Quaderni scritti a penna di un futuro Premio Nobel: Samuel Beckett

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali»

Ma insomma Samuel Beckett si può toccare o no? Si sa: il burbero premio Nobel scriveva testi teatrali che erano delle partiture, misurate al secondo. Tra didascalie, parole e pause vi è una tensione continua e il dettato beckettiano è stato a lungo ritenuto – e ancora lo è – per l’appunto, intoccabile. Complice anche la ferrea tutela dei doverosi diritti d’autore: Beckett o lo si fa à-la-Beckett, senza toccare una virgola, o non si fa.

A parte il fatto che qui da noi lo recitiamo in italiano, ossia in una lingua altra (e già questo è un poderoso modificar l’originale, per quanto filologica sia la traduzione), è chiaro che, tanto per far un paragone, se affrontiamo Verdi o Puccini, non ci viene in testa di prendersi licenze, ossia modificare, tagliare, riscrivere, sfumare. Per quel che mi riguarda appartengo a questa scuola: con il repertorio classico bisogna fare i conti, per quel che è, senza stare tanto a riscrivere. Ma il teatro, nato nel politeismo greco, suggerisce sempre la molteplicità, lo sguardo aperto, l’alternarsi e il convivere di possibili: e, come nella vita, è meglio il pluralismo, accogliere possibilità diverse, mettersi in discussione, ascoltare, essere smentiti nelle proprie certezze (non è poi che i monoteismi abbiano fatto bene alla salute o allo spirito…).

Di fatto, la ricerca, in teatro come in musica, è cresciuta anche violentando i cosiddetti classici, che proprio in quanto tali si prestano ad ogni misfatto; uscendone peraltro spesso vincitori loro, i classici, ‘ché ne hanno da dire rispetto alle visioni e alle letture e ai riadattamenti, magari in salsa «contemporanea», di tanti volenterosi registi-autori o registe-autrici.

La questione beckettiana, però, è tornata fuori in occasione dell’allestimento di Aspettando Godot, ovvero la summa dell’irlandese, ad opera del maestro greco Theodoros Terzopolous, che, con i suoi straordinari interpreti, ha giocato assai liberamente con l’originale. Intanto perché ha attinto alla traduzione greca, ben diversa da quella canonica italiana (dunque traduzione della traduzione); e, come nel suo stile, ha dato di forbici di gran lena. Cosa che ha comportato una levata di scudi di parte della critica e del pubblico, indignati, entrambi, di tale e tanto ardire, sorta di lesa maestà beckettiana intenzionale e dolosa.

Altri, più comprensivi, hanno apprezzato l’esito scenico, magari cogliendo anche lo slancio di Terzopoulos di fare dell’Aspettando Godot una tragedia classica, invocando un’interpretazione attorale conseguente: non solo e non più un dramma dell’incomunicabilità degli anni Cinquanta, ma una vera tragedia eterna sul destino dell’umanità. E l’esito, almeno a mio parere, è quanto di più beckettiano abbia visto in molti anni, per tensione, suggestione e poeticità. Dunque ha fatto bene o ha fatto male il regista ad affrontar così di petto Samuel Beckett? Per far chiarezza, è bene tornare a consultare le fonti. E qui arriva in prezioso aiuto l’instancabile lavoro di Mattia Visani e della sua Cue Press, casa editrice emiliano-romagnola specializzata in teatro, cinema e arti (ho il piacere di aver pubblicato qualche cosa con questa giovane e gagliarda casa editrice).

Insomma, nel giro di pochissimo tempo, Cue ha mandato in libreria tre volumoni che raccolgono, in versione italiana, i diari di lavoro del genio dublinese. Non solo Aspettando Godot, ma anche Finale di Partita e L’ultimo nastro di Krapp (ed è in arrivo un altro libro dedicato ai Drammi brevi). Edizioni critiche dei quaderni di regia, opere di grande bellezza e nitore che svelano proprio il processo creativo beckettiano. Sono libri esaltanti, minuziosi nel ricostruire, battuta dopo battuta, il farsi vita del teatro, testimoniato dalla copia riprodotta dei quaderni originali, prontamente tradotti. C’è la grafia minimale di Beckett, i suoi schizzi, il piano luci, gli appunti, i cambiamenti.

Ecco il fatto: Beckett ovviamente non si considerava un «classico» e bellamente procedeva, stesura dopo stesura, a migliorare e adattare il proprio lavoro, lasciando poi alla regia una certa libertà. Ad aprire il volume dedicato a Godot arriva subito un chiarimento, grazie al curatore dell’edizione originale inglese, James Knowlson: «Nel teatro niente si può etichettare come definitivo. Un’opera o un ruolo sono costantemente aperti alla reinterpretazione […]. Le produzioni di Beckett delle proprie opere illustrano questo chiaramente, allo stesso modo delle produzioni dirette da qualsiasi altro regista. Pensare che Beckett credesse che lui, o chiunque altro, potesse ‘rendere fisse’ le sue opere è un luogo comune sbagliato: del resto, più volte chiarì che altre produzioni avrebbero avuto una ‘musica’ differente dalla sua, e così accettò differenti sistemazioni del palco. Nelle poche occasioni in cui mosse obiezioni a certe proposte registiche era perché pensava che fossero stati fatti cambiamenti a elementi base che avrebbero alterato radicalmente le opere» (pag. 7).

E aggiunge Luca Scarlini, ottimo curatore della versione italiana, presentando l’opera: «Samuel Beckett in tutta la sua esistenza torna continuamente ai suoi testi, li rivisita, aggiunge, toglie. […] è possibile entrare nel laboratorio di azioni verbali e gestuali di un autore capitale del secolo scorso, la cui influenza rimane capillare nelle forme più diverse del presente […]. Le produzioni di Berlino allo Schiller Theater, quelle con il San Quintino Theatre Workshop, sono altrettante tappe di una conoscenza della forma-scena, che egli mette assai fortemente in discussione» (pag. 9).

A sfogliare i libri si è quasi colti da una vertigine. Quanto è bello vedere quelle pagine vergate a mano, quegli schemi, quegli improvvisi guizzi di genio che scaturiscono da un metodico e certosino lavorio di limatura. Aspetti che emergono chiari anche in Finale di partita, con l’edizione critica a cura di Stanley E. Gontarski; e in L’ultimo nastro di Krapp, con l’edizione critica ancora di Knowlson (anche questi volumi vantano l’edizione italiana a cura di Scarlini).

Libri, dunque, ma con la peculiarità straordinaria di trascinare il lettore nella fucina, nella fabbrica di un artigiano a lavoro: non genio e sregolatezza, ma metodo e rigore cui si assiste, pagina dopo pagina, con commossa partecipazione. Nel 1952 Beckett scriveva quei suoi appunti su Aspettando Godot; meno di venti anni dopo sarà premio Nobel.

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28 Febbraio 2023

Pino Tierno. Il teatro nell’esistenza umana

Giancarlo Mancini, «Pulp Libri»

Molti hanno riflettuto sulla natura effimera dell’evento teatrale, il suo accadere qui e ora, cosa che rende difficile, se non impossibile, la sua trasmissione al di là del ricordo soggettivo. Spesso sono state proprio quelle che vengono chiamate le «prime», ovvero le occasioni nelle quali un testo ha debuttato sulla scena, ad offrire un concentrato emotivo che va ben oltre quello che accade sulla scena, abbracciando anche lo spettatore.

Prime tempestose di Pino Tierno, traduttore e saggista di opere di teatro classico e contemporaneo, offre una carrellata di alcune di queste serate «notevoli» per il teatro di tutti i tempi. Ne è venuto fuori un libro utile, anche e soprattutto per il lettore non addetto ai lavori, poiché scritto con una rimarchevole chiarezza. Si sarebbe potuto definirlo un «libro per le scuole» se qui il teatro non fosse ancora relegato ad «attività extra-pomeridiana», ovvero ad un utile passatempo posto al termine delle cose importanti.

Tornando al tema del libro, il primo nodo da chiarire prima di tutti, visto che ci si pone spericolatamente davanti a tremila anni di storia (almeno) è: come sono state scelte queste prime dal contenuto brontianamente (nel senso delle sorelle Brontë) tempestoso? Tierno risponde, nella premessa: per il loro «carattere innovatore o pionieristico». Insomma, si ha a che fare con testi, o spettacoli, in grado di portare avanti una visione tanto originale e dirompente da stravolgere il modo di stare sul palcoscenico o la sua funzione stessa. Questo punto di vista problematizza anche, per forza di cose, il discorso sulla ricezione. Non poche sono state infatti quelle opere che, nonostante abbiano in pieno corrisposto ai criteri sopra descritti, siano state avversate dal pubblico o, in altri casi, siano financo passate inosservate.

Il racconto di queste prime, corredato anche da un brano del testo, tradotto sempre da Tierno, inizia con la Medea di Euripide, andata in scena in una data imprecisata del 431 a. C., in occasione delle consuete festività greche intitolate a Dioniso, il Dio dell’ebbrezza e dell’uscita di sé. Due concetti divenuti poi intrinseci all’arte teatrale. La storia della donna che uccide i propri figli per punire il marito Giasone, fuggito con Glauce (sua promessa sposa) è anche, scrive Tierno, la rappresentazione di una figura che «esemplifica, attraverso il dolore e la violenza, una nuova immagine di donna, anticonformista, indomita e consapevole». Dall’antica Grecia si passa poi attraverso la Roma imperiale, l’Inghilterra elisabettiana, la corte del Re Sole, snocciolando le storie di prime come Macbeth, Tartufo, e poi La locandiera di Goldoni, Il Gabbiano di Cechov e così via.

Fondamentale per il teatro così come lo conosciamo oggi, è la prima di Hernani di Victor Hugo, avvenuta il 25 febbraio 1830, al Théâtre François di Parigi. Il dramma dell’autore dei Miserabili, ambientato nella Spagna del sedicesimo secolo, il siglo de oro dei giganti Calderon de la Barca e Lope de Vega, mette in scena la storia della passione travolgente di Donna Sol, una ragazza ambita da molti potenti ma innamorata di un nobile esiliato, Ernani. Quella sera di febbraio, a Parigi, non va però in scena solo un testo, pur importante, ma una vera e propria «battaglia», termine che oggi fa sorridere, ma che all’epoca (siamo in pieno Romanticismo) pare consono per descrivere lo scontro fra chi difende la tradizione impersonata dalla rigida osservanza dei dettami aristotelici e da chi, come Hugo, vuole far prevalere l’emozione al rispetto delle regole classiciste. Fra il pubblico, a parteggiare per Hugo, ci sono anche giovani studenti come Théophile Gautier, Gérard de Nerval, Hector Berlioz.

E se Hernani è stato la chiave di volta del teatro moderno, Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello lo è stato per tutto il teatro novecentesco, alla costante ricerca del modo per poter tornare ad essere al centro della società. La prima di questo testo avviene il 9 maggio 1921 al teatro Valle di Roma. Recentemente, la genesi di questo testo drammaturgico cruciale per tutto il secolo scorso è stata ricostruita nel film di Roberto Andò, La stranezza, dove si mostra il turbine di polemiche, le zuffe verificatesi quella notte al Valle, a parte quel grido di «Manicomio!» urlato da qualcuno in platea e diventato poi oggetto di varie ricostruzioni. Tierno non ricostruisce però lo sconcerto che quella sera lo spettacolo provoca fra i critici – alcuni anche molto importanti – e tratta solo molto velocemente delle circostanze per cui, poi, il testo fu riconosciuto come un punto di riferimento imprescindibile per chiunque volesse scardinare i meccanismi della tradizione.

Il percorso termina nel 2012, con Sul concetto di volto nel figlio di Dio della Societas Raffaello Sanzio, con le roventi polemiche che coinvolgono anche la curia milanese. L’ultima, ma solo perché la più vicina, fra le tante prime raccontate.

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27 Febbraio 2023

Nel 1960, L’«Orestiade», tradotta da Pasolini, per Vittorio Gassman, fu una prima tempestosa

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Cercare una catalogazione nella quale includere il libro di Pino Tierno pubblicato da Cue Press potrebbe sembrare difficile, non potendolo inserire in un «genere», poiché non appartiene né alla saggistica né alla storiografia teatrale da intendere in senso tradizionale. Anche se, al suo interno, si può trovare l’una e l’altra, lo si potrebbe inserire in una collana di «Guide», come ha fatto l’editore, ma si tratta di una «Guida» molto oculata e ricca di indagini, di tipo erudito.

L’autore ha scelto venticinque esemplari che sono diventati veri e propri classici del teatro mondiale per raccontare al lettore cosa sia avvenuto dopo il loro debutto, benché non di tutti si posseggano dei documenti che possano attestare l’esito del pubblico e dei critici del tempo; mentre risultano numerosi, per quanto riguarda gli spettacoli, a cominciare dal Settecento o dall’Ottocento.

I testi scelti sono organizzati dall’autore in maniera tale che il lettore possa, per prima cosa, conoscere la sinossi, a cui fa seguire un’indagine di tipo saggistico che si conclude col riferimento alle «tempeste» avvenute la sera della «Prima», tempeste che divennero, nel caso di Ernani (1830), una vera e propria «battaglia» tra chi sosteneva il classicismo e chi parteggiava per il romanticismo, di cui la tragedia di Hugo era un fulgido rappresentante. Il piano di lavoro ha previsto anche la presenza di pagine antologiche a corredo dei venticinque testi analizzati.

Pino Tierno parte dalla Medea di Euripide, che, certamente, non fu accettata dal pubblico ateniese per diversi motivi, tra i quali quello di accettare una straniera o, addirittura, una maga che aveva poco a che fare con la cultura occidentale; in particolare con quella di Corinto, la città che l’aveva ospitata ma che l’aveva separata dal marito, avendola costui ripudiata per sposare la figlia di Creonte, con le conseguenze note a tutti.

Segue la Lisistrata di Aristofane, anch’essa contestata per la scelta controcorrente fatta da una donna che decide e che fa decidere tutte le donne della comunità di non concedere il proprio corpo ai mariti finché non metteranno fine alla guerra tra Sparta e Atene.

Seguiranno altre prime contestate, come I Menecmi di Plauto, La Locandiera, Il Misantropo, ecc.

Se arriviamo ai secoli più vicini a noi, come non ricordare l’altra «battaglia», quella combattuta al Teatro Valle di Roma in occasione della «Prima» dei Sei personaggi, su cui si abbatté una vera tempesta di fischi, di urla come «manicomio, manicomio!», con l’autore costretto a fuggire, insieme alla figlia, che ne rimase turbata per lungo tempo. Qualcosa di simile era accaduto con Risveglio di Primavera di Wedekind, che osò portare in scena le pulsioni sessuali di una giovane generazione, con tragiche conseguenze.

Tra le «Prime Tempestose», come non ricordare i due testi che hanno rivoluzionato il teatro del secondo Novecento: La cantatrice calva di Ionesco (1950) e Aspettando Godot di Beckett (1953), entrambi apostrofati con accuse un po’ simili: assenza di una trama, mancanza di nessi logici, accumulo di frasi strampalate. I due teatri dove avvennero i debutti, il Théâtre de la Huchette e il Théâtre de Babylone, pur se dovettero sopportare fischi, abbandoni da parte degli spettatori e lettere di protesta, attuarono una vera e propria resistenza nei confronti dei due autori, ai quali il successo fu riconosciuto qualche anno dopo.

Altre «Tempeste» si abbatterono sul Living, quando portò a Milano Paradise Now, lo spettacolo più contestato e più censurato della Compagnia americana, al quale parecchi di noi hanno partecipato, rimanendo ultimi testimoni di quella «Prima» carica di fischi, urla, invasione dello spazio scenico, con alcuni critici a loro volta contestati da giovani spettatori e accusati di passatismo.

Il «teatro che divide» continua con Jesus Christ Superstar, di cui si possono leggere tutte le accuse e le proteste raccolte da Pino Tierno, che continua lo stesso lavoro di ricerca con Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo, lo spettacolo che ha subito quaranta processi per diffamazione, più volte censurato per motivi di ordine pubblico, ma che sarà tradotto in cinquanta lingue.

E, per finire, come non ricordare Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, della Societas Raffaello Sanzio, spettacolo contestatissimo in tutto il mondo e, in particolare, a Milano, al Franco Parenti, quando tutte le sere un gruppo di suore, affiancato da altri religiosi, in un angolo della strada, recitavano insieme preghiere per assolvere il pubblico dal peccato di aver partecipato a qualcosa di sacrilego.

20 Febbraio 2023

La fine del mondo: una vita in serie

Alfredo Sgroi, «Mangialibri»

La sfilata dell’ordinaria follia comincia. In un ambiente asettico, cioè un anonimo ufficio, si consuma il dramma a distanza di un’anziana costretta da familiari cinici a lasciare la sua abitazione… Ancora più violenta è la vita di un mostro che si cela sotto i panni di un placido pensionato precoce: costui confessa con sconcertante distacco una catena di atroci delitti. Pura espressione di una brutalità senza senso. Di una follia che esplode tra le calli veneziane, declinando verso la perversione sessuale, all’interno di una sfera familiare in cui il mostro si acquatta, pronto a colpire a tradimento. Perché è all’interno della famiglia che esplodono i drammi più dilanianti… Così è in un monologo in cui è riformulata l’immagine di un figlio giunto al capolinea di un’esistenza sordida da voyeur, incagliata tra l’edipica ostilità nei confronti del padre e la rancorosa relazione con gli altri familiari… E così è per un tarato scrittore frustrato e vagamente omosessuale, inferocito con la sorella lesbica e coinvolto in una devastante crisi coniugale, che si incrocia con il fallimento professionale. Come ossessionato è Lorenzo, genero di Shylock. O il lupo che, in un’atmosfera surreale, racconta a suo modo la vera storia di Cappuccetto rosso, dilaniata da un branco di lupi. Dal surreale si passa al virtuale – ma è un virtuale tristemente ancorato alla peggiore realtà – e poi a un insieme di schegge diaristiche…

L’apocalissi è già tra noi. Perché le perversioni, le mostruosità, le più sboccate crudeltà dilagano in un mondo segnato dalla cieca violenza e dalla brutale legge della sopraffazione. Questo è ciò che rappresenta con sguardo lucido Paolo Puppa. Per portarlo sulla scena, concepita come il luogo in cui precipitano e rapprendono fantasticamente i distillati di un’umanità sempre inquieta, mai capace di coltivare autentici sentimenti positivi, incancrenita da un contesto sociale e culturale in cui l’ossessione diventa la norma. Perché, anche quando il drammaturgo procede alla deformazione violenta, talvolta indugiando con calcolata strategia su particolari truculenti, si ha la molesta sensazione di restare comunque ancorati a situazioni quotidiane. Nel senso che in un quotidiano illividito dalle mostruosità, dai violenti conflitti alimentati dalle pulsioni primordiali che nessuna patina cosiddetta «civile» può occultare, l’eccesso, il gesto estremo, il rancore distruttivo diventano la norma. Atrocemente. Puppa scava insomma negli abissi dell’inferno mondano per portare a galla, e alla ribalta, il male che sedimenta nell’animo umano. E lo fa senza mai indugiare su facili sentimentalismi. Senza infingimenti edulcoranti. Al contrario, con la lucidità del chirurgo che affonda il bisturi là dove è necessario, per smascherare inganni, imposture o gratuite malvagità. In nome di un amaro realismo che impone di rappresentare il mondo nella sua crudezza.

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14 Febbraio 2023

Pensieri dal set di Kore’eda Hirokazu. A cura di Francesco Vitucci

Claudia Bertolé, «Sonatine»

«Non amo parlare delle mie opere e non credo nemmeno di essere particolarmente abile nel farlo. Sebbene abbia creduto invano di poter sfuggire all’invito, alla fine mi sono trovato giocoforza a pubblicare questo volume. Non che sia mia intenzione lamentarmi, anzi, sono molto grato per l’occasione che mi è stata offerta».

Così esordisce Kore’eda Hirokazu nella Pseudo-prefazione, quasi postfazione di questa interessante opera, pubblicata la prima volta in Giappone nel 2016, ora tradotta dal giapponese in italiano da Francesco Vitucci e edita da Cue Press nella collana «Le Teorie». Pensieri dal set si rivela una lettura preziosa perché, nonostante la prudente affermazione d’apertura, nel libro il regista si «svela», raccontando, come egli stesso puntualizza, la regia delle opere dall’interno, e cogliendo allo stesso tempo l’occasione per parlare di cinema contemporaneo.

Kore’eda è un autore che oramai non ha quasi bisogno di presentazioni. I suoi film sono spesso stati inseriti nei programmi di festival cinematografici internazionali di rilievo, ricevendo premi prestigiosi: è il caso, per citarne alcuni, di Father and Son (2013), premio della Giuria al Festival del cinema di Cannes, oppure di Un affare di famiglia, Palma d’Oro al Festival del cinema di Cannes 2018. Anche la distribuzione delle sue opere nelle sale italiane, a partire da Father and Son, fino a Le buone stelle – Broker del 2022, e l’organizzazione di rassegne, hanno contribuito a rendere la sua opera familiare anche alle platee italiane.

Il cineasta, che in Pensieri dal set non manca di sottolineare quanto la televisione sia profondamente impressa nel suo DNA di regista, fin dagli esordi nel mondo del documentario televisivo (ricordiamo ad esempio Lessons from a Calf o However… del 1991), quando ha rivolto la propria attenzione al tema della memoria, all’elaborazione del lutto, alle relazioni familiari anche non convenzionali. Il libro è una sorta di diario autobiografico che raccoglie i ricordi e le osservazioni del regista, da quei primi documentari ai film successivi, con una scansione per periodi: da un primo sguardo alle opere d’esordio, Maborosi e After Life (1995-98), passando dal «periodo giovanile e le sue frustrazioni» (1989-91), fino al «convivere con l’assenza» (2004-09) e agli anni più recenti (2011-16). L’autore offre il proprio punto di vista, ripercorre i momenti antecedenti alle riprese di un film, si sofferma su aspetti anche tecnici dell’arte cinematografica, o sulla direzione degli attori.

Non mancano considerazioni più generali sulle dinamiche dei festival internazionali, sulla regia televisiva e sulle prospettive future del cinema giapponese. Completano la pubblicazione le puntuali note del curatore, nonché appunti e stralci da storyboard originali di alcune sequenze. Un’opera di stimolante approfondimento del pensiero di un regista che, nel corso della carriera, non ha mancato in ogni suo film di proporre riflessioni acute sulle relazioni umane e sul contesto sociale nel quale si esprimono.

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12 Febbraio 2023

La sfida di Achab

Elisabetta Raimondi, «Fata Morgana Web»

Nell’occuparsi di tutti gli aspetti relativi al complicato intreccio di relazioni interne ed esterne al lavoro registico e attoriale, il grande maestro Peter Brook parla di «rappresentazione nascosta» per definire «la rete invisibile di rapporti tra personaggi e temi» che gli attori sviluppano nelle fasi di prove degli spettacoli, creando dentro di sé forme autonome rispetto alla «rappresentazione esterna» che vedono gli spettatori. La citazione si trova nel libro di Laura Mariani L’America di Elio De Capitani, uscito per Cue Press in un’edizione aggiornata ed ampliata dopo quella del 2016, nella quale la storica e docente universitaria di Storia dell’Attore prende in esame l’intera carriera artistica dell’attore e regista milanese, co-direttore del Teatro Elfo-Puccini di Milano insieme a Ferdinando Bruni, soffermandosi in particolare sul suo percorso di esplorazione della società e della drammaturgia americana.

Chiedendosi se il critico e lo storico debbano guardare «non solo allo spettacolo in sé» ma «anche alla cultura che lo produce» ed entrare «nei processi di lavoro degli artisti» invece di «mantenere la distanza», Mariani condivide l’importanza di tale compito con Peter Brook e con il drammaturgo e critico Claudio Meldolesi, «che ricorda ‘i muti e ossessivi dialoghi fra il proprio inconscio e la scatola magica, i dialoghi fra sé e sé’ con cui Tommaso Salvini (considerato il più grande attore italiano dell’Ottocento) si preparava a entrare in scena, che tanto colpirono Stanislavskij». Con il suo libro, tra i cui intrecci di temi, fonti, analisi e perfino genesi multiple degli spettacoli presi in considerazione spiccano le interviste fatte negli anni a Elio De Capitani – molte delle cui «risposte sono simili a momenti del ‘monologo interiore’ di Salvini» – Laura Mariani dimostra a pieno titolo come il teatro raccontato possa essere estremamente appassionante.

Nell’edizione precedente Mariani si fermava a Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller che De Capitani, interprete del commesso Willy Loman, diresse da solo nel 2016 dopo le co-direzioni con Ferdinando Bruni delle due parti di Angels in America di Tony Kushner (Si avvicina il millennio nel 2007 e Perestroika nel 2009), in cui vestiva i panni del famigerato avvocato Roy Cohn, e di Frost/Nixon (2013) di Peter Morgan, tratto dal famoso duello televisivo tra il giornalista britannico David Frost (Bruni) e l’ex-presidente Richard Nixon (De Capitani). Il volume ora in libreria include il bellissimo e corposo capitolo sull’ultimo capolavoro americano di De Capitani, che ha debuttato l’anno scorso a Milano e Torino. Si tratta di quel Moby Dick alla prova, ora in tournée in Italia fino al 26 di febbraio, che Orson Welles – cui l’autrice dedica un lungo paragrafo – scrisse, diresse e interpretò nel 1955, spinto dal consueto impulso di lanciare a se stesso sfide impossibili, impulso cui anche De Capitani non è affatto estraneo.

Soffermandosi dettagliatamente su tutte le fasi dell’allestimento – comprese le prove fatte quando i teatri erano chiusi al pubblico per il Covid e la nutrita ciurma della baleniera Pequod, nel rispetto quotidiano di regole, tamponi e mascherine, si addestrava sul palco in un’atmosfera tanto concreta quanto surreale – l’autrice evidenzia come questo imponente e strabiliante primo allestimento italiano di Moby Dick – Reharsed fosse quasi inevitabile per De Capitani. L’artista ne ha fatto «Una sorta di preludio grandioso o, viceversa, una summa. Mostra con la potenza dell’epica antica il ‘cuore di tenebra’ degli Stati Uniti, l’altra faccia del suo mito, incarnata dal capitano Achab e da Moby Dick al tempo stesso: oltre l’amore per il lavoro e la spinta capitalistica, lo spirito d’avventura e il vitalismo, il materialismo e la religiosità, fino a trasformare la lotta contro il Male, vero o presunto, in distruzione della natura e di se stessi. (…) L’America che ha sterminato le balene e i bisonti insieme agli Indiani si mostra qui in tutta la sua potenza, affascinante e pericolosa: l’Achab di De Capitani ne è espressione drammatica compiuta, lui e la sua nave, in cui potremmo trovarci anche noi, anzi ci troviamo».

De Capitani, come Orson Welles prima di lui, non interpreta solo Achab, ma anche Padre Mapple, che parla dalla sommità di una scala con la stessa potenza con cui Welles predicava dal pulpito della chiesa nel film di John Huston del 1956. E poi ci sono i due personaggi introdotti da Welles, vuoi per facilitare la messa in scena di ciò che era considerato irrappresentabile, vuoi per segnare la profonda relazione tra Melville e Shakespeare: re Lear e il capocomico di una compagnia di attori che, mentre si sta provando il dramma shakespeariano, decide di cambiare rotta e mettere in scena Moby Dick.

«De Capitani riattiva la riattivazione di Orson Welles, raddoppiando la sfida: conferma che il romanzo pulsa di tale vita da offrirsi a tutti i tipi di teatro, a operazioni tra le più diverse, senza perdere la potenza magnetica del suo nucleo drammatico».

Un nucleo drammatico che, passando dall’Ottocento di Melville al Novecento di Welles al Duemila di De Capitani, ingloba secoli di storia in un intreccio di relazioni in cui tutti gli artisti si rifanno fortemente a Shakespeare, ma dove per Welles pulsa anche il Kurtz di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, a cui De Capitani aggiunge il Marlon Brando di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.

Come si è detto, molti sono i temi che l’autrice affronta nel suo libro: ad esempio il rapporto del drammaturgo americano con i contesti da cui sono nati i testi, le successive scelte registiche teatrali e cinematografiche rispetto alle drammaturgie originali; gli apporti dei diversi attori che si accumulano nel tempo nelle interpretazioni di uno stesso personaggio; gli approcci più o meno mimetici che gli attori danno di personaggi realmente esistiti. Ne risulta insomma un’intricata tessitura che inevitabilmente genera dei punti di confronto con cui anche De Capitani e il suo gruppo di «elfi» devono fare i conti, soprattutto considerando la natura di De Capitani, attentissimo a tutto quanto riguarda le scelte registiche e profondamente convinto dell’importanza del «teatro dell’attore».

Parlando del suo lavoro e del suo doppio ruolo, De Capitani, racconta Laura Mariani, usa «L’espressione ‘alto artigianato’: senza sottovalutare l’appartenenza della regia al dominio dell’arte e dell’autorialità, intende così evidenziarne la natura concreta, pratica, processuale, dettagliata, umile oltre che dirigenziale, in connessione con le libertà dell’attore, il lavoro sul testo e la vita dello spettacolo. […] Bisogna essere registi forti, ma sapersi ritrarre sempre, aperti all’attore, alle contraddizioni dell’attore; saper stare in tutto e per tutto in un teatro dell’attore, assieme all’attore. Essere registi-attori aiuta moltissimo, ma quando stai fuori (e quindi dirigi soltanto) rischi di far vincere il regista e la voglia di controllo, di funzionamento, di composizione: forse perché la spinta che occorre per un teatro del ‘qui e ora’ richiede un attore molto, molto particolare, di grande esperienza e apertura, capace di improvvisazione quanto di controllo».

Tra i tanti personaggi americani presi in considerazione ce n’è uno italiano, reale e per giunta vivente, cui Mariani dedica un capitolo, e non solo per l’opinione di Marlon Brando secondo cui «la preparazione di nessun attore può definirsi completa finché non ha fatto un film», ma per l’importanza che la costruzione di quel ruolo cinematografico ha avuto anche nella costruzione successiva di Cohn e Nixon. Si tratta del Silvio Berlusconi degli anni dell’ascesa (dalla progettazione di Milano 2 nei primi anni Settanta alla discesa in campo del ’94) che De Capitani ha interpretato nel 2006 nel film Il caimano di Nanni Moretti. Per il suo Berlusconi l’attore ha cercato quella sintesi, rappresentata dal personaggio, in cui vanno concentrati i plurimi aspetti dell’individuo reale, evitando dunque la pura mimesi esteriore. Scrive Mariani: «I personaggi di Berlusconi, Roy Cohn e Nixon formano una triade nell’esperienza di De Capitani. ‘Li ho studiati come uomini che hanno dentro diverse caratteristiche del vitalismo della destra, inteso non solo come teoria politica, come estensione antropologica del neoliberismo. Incarnano l’idea, che appartiene molto anche ai grandi personaggi shakespeariani, di prendere la vita e graffiarla con il proprio segno, non importa come, anche al di là dell’etica, purché questo segno resti’. Da attore, è arrivato a nutrire ‘una passione quasi malata’ per queste figure, per la sfida teatrale che gli hanno posto: assumere la loro umanità ‘nera’ dall’interno, mantenendo il riferimento a Brecht, alla sua cruda concezione della vita e alle sue efficaci rappresentazioni dei rapporti sociali».

Un altro degli aspetti interessantissimi del libro è l’analisi degli illustri predecessori, teatrali e/o cinematografici, dei vari personaggi interpretati da De Capitani, reali o di finzione che siano. Per Roy Cohn, Mariani cita James Woods in Citizen Cohn, con «una delle migliori interpretazioni» dell’attore americano e soprattutto Al Pacino, alle prese con le stesse scene di De Capitani nella miniserie HBO in sei puntate di Angels in America di Mike Nichols (2003). Pur dovendo fare qualche conto con Al Pacino, De Capitani si concentra sull’uomo di potere di destra «Che percepisce il mondo non come disastro ma come eccitazione […] ‘un carnivoro, uno che considera la storia una giungla’ e il male ‘qualche cosa di spaventosamente vicino alla natura umana’. Per un attore è ‘esaltante’ affrontare un personaggio così, dice De Capitani: ‘Mostrarne l’efferatezza ma al tempo stesso viverlo, riuscire a provare quei sentimenti, riuscire a non farli artificiali ma come cose che ha dentro chiunque’».

De Capitani porta anche «i tratti identitari dell’ebraismo e dell’omosessualità dentro il tema centrale del potere». Perché, come dice l’attore italiano, «il potere è una forma di emancipazione incredibile da ogni tipo di marginalità e dalla sudditanza al destino».

Per quanto riguarda Nixon – sul ricco repertorio di produzioni che lo riguardano, in particolare cinematografiche e televisive, abbiamo qui trattato in cinquant’anni di Watergate – Laura Mariani guarda all’Anthony Hopkins di Gli intrighi del potere di Oliver Stone (1995) e soprattutto al Frank Langella di Frost/Nixon, che l’attore ha interpretato sia a teatro sia nell’omonimo film di Ron Howard (2008), ottenendo una candidatura all’Oscar. Se Mariani vede in Hopkins un personaggio che, per decisione registica, viene relegato al suo essere il perenne «figlio del droghiere, un mastino tarchiato, volgare, incontrollato», lasciando trapelare la sua autorità presidenziale in pochissimi momenti, così non è per Frank Langella al quale De Capitani dichiara di essere debitore, pur non prendendo nulla dalla regia di Howard.

«Prima che un singolo presidente», scrive Mariani, De Capitani vuole incarnare «La Presidenza stessa degli Stati Uniti d’America, cioè un ruolo che comporta recitazione e pose. Dice De Capitani: ‘La cosa bellissima è che fai un personaggio che è un attore e quando fai Nixon, fai un attore che è a disagio, non sa recitare, e l’unica arte che ha è quella della parola, non solo nel senso che è bravo ad usarla: è un avvocato, è un leguleio, è bravo a immergersi nella ragnatela’».

Volendo restituire anche a Nixon tratti della grandezza tragica shakespeariana nella caduta finale, De Capitani dunque «punta sulle capacità seduttive e sulle abilità non solo oratorie di Nixon, contenute in un testo capace di raccontare epicamente la realtà» e che risponde «al bisogno di Bruni e De Capitani di costruire ‘un’archeologia del nostro presente, politico, sociale o nazionale’ attraverso particolari momenti della storia americana».

Nella costruzione di tale archeologia è fondamentale un personaggio di finzione come Willy Loman, vittima del sogno americano ma anche carnefice di sé stesso, «uno dei personaggi più potenti del teatro novecentesco […] fonte preziosa per studiare temi quali la famiglia e il sogno americano, mentre il potere si mostra a rovescio, dalla parte di chi non ce l’ha ma vorrebbe disperatamente il successo». Il Commesso, il cui sottotitolo Inside his head è un’anticipazione degli sdoppiamenti, delle visioni, dei ricordi che si alternano e si mischiano alla realtà nell’ultimo giorno di vita di Willy Loman, è anche «un punto di approdo» per De Capitani, che lo considera «il suo ‘manifesto dal punto di vista recitativo’, perché ha lavorato su più livelli a un grado di complessità mai raggiunto prima», riuscendo a «far transitare il testo dalla carta al palcoscenico, dove Stanislavskij incontra Brecht e la psicologia diventa presenza e azione scenica».

Moltissimi i commessi americani e italiani che Mariani e De Capitani passano in rassegna: dal pioniere Lee J. Cobbs, voluto da Elia Kazan per la prima messinscena del 1949 e interprete anche di una trasposizione TV del 1966; al Fredric March del primo film, diretto nel 1952 da László Benedeck; al Dustin Hoffman del film di Volker Schlöndorff del 1995; all’immenso e compianto Philip Seymour Hoffman in un allestimento teatrale di Mike Nichols nel 2012.

Tra i commessi italiani, oltre a Tino Buazzelli, Enrico Maria Salerno, Eros Pagni, Umberto Orsini, c’è naturalmente Paolo Stoppa, voluto da Luchino Visconti per il primo allestimento italiano del 1951, insieme a Rina Morelli per il ruolo della moglie Linda, che nello spettacolo di De Capitani è interpretata dalla brava attrice e regista Cristina Crippa, altra storica fondatrice dell’Elfo nonché moglie di De Capitani. La coppia Stoppa-Morelli è stata anche interprete della versione televisiva di Sandro Bolchi del 1968, nella quale recitava anche un giovane Umberto Orsini, a sua volta Willy Loman esattamente tre decenni dopo, «molto apprezzato da De Capitani per il suo Biff [il figlio minore di Willy] tormentato e problematico, che anticipa John Malkovich nel film di Schlöndorff».

Tornando circolarmente a Moby Dick alla prova, quasi fosse una sorta di De Capitani alla prova nel crescendo di sfide che l’attore-regista ‘elfo’ pone a sé stesso, concludiamo lasciando di nuovo la parola a Laura Mariani.

«In questa fase della carriera e della vita, alcuni grandi personaggi premono su De Capitani, sembra siano loro a convocarlo come attore oltre che come regista: Achab mette alla prova la sua sapienza e la sua inquietudine di artista, la sua esuberanza fisica e i suoi rovelli politici e intellettuali […] È come se Orson Welles avesse segretamente accompagnato tutto il percorso di Elio De Capitani e della sua ‘ciurma’ con la magia della sua arte e la radicalità della sua pratica della cittadinanza».

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11 Febbraio 2023

Kracauer, teoria del film

Rolando Vitali, «Alias — Il Manifesto»

Allo spettatore smaliziato, avvezzo all’odierno paesaggio multimediale, la tesi secondo cui al medium cinematografico apparterrebbe costitutivamente un rapporto privilegiato con la realtà materiale apparirà, se non ingenua – o tout court scorretta – quanto meno invecchiata. Sono lontani i dibattiti sul realismo e ben poca parte della produzione audiovisiva contemporanea pare rispondere a tale «principio estetico fondamentale», come lo chiama Kracauer. Ma è proprio a partire da questa tesi inattuale che si sviluppa la Teoria del film di Siegfried Kracauer, recentemente riproposta da Cue Press in una nuova edizione corredata da un’importante introduzione di Miriam Bratu Hansen, già curatrice della più recente versione inglese del testo (Teoria del cinema, Cue Press, € 42,99). In effetti, se si dovesse giudicare il cinema a partire dalle grandi produzioni contemporanee, sature di effetti speciali sempre più pervasivi e ormai indistinguibili dalle riprese analogiche, il nesso quasi ontologico istituito da Kracauer tra medium cinematografico e realtà materiale potrebbe apparire del tutto obsoleto.

La sua problematicità era d’altronde già ben presente a Kracauer stesso: ma proprio nel motivare la scelta di un’analisi storico-materiale del mezzo cinematografico incentrata prevalentemente sul cinema delle origini, Kracauer sosteneva che la natura essenziale di un mezzo espressivo andasse determinata a partire dalla sua struttura materiale e non dalle sue possibili declinazioni formali. Per questo la sua «estetica materiale» parte dalla continuità tecnica tra fotografia e cinema, chiedendosi anzitutto cosa li distingua da ogni altro medium.
Che cosa può fare il cinema che nessun’altra arte può fare? La risposta, per Kracauer, risiede nello specifico rapporto che cinema e fotografia intrattengono con il proprio materiale: «Le opere d’arte consumano il materiale grezzo da cui sono tratte, mentre i film, in quanto prodotto della macchina da presa, devono invece mostrarlo».

In altri termini, il cinema non possiede, come le altre arti, il proprio materiale; ma proprio per questo, esso è anche l’unica arte che, in virtù della propria procedura creativa, lo «lascia intatto», permettendo di portarlo come tale a visibilità. Di qui, secondo Kracauer, l’affinità elettiva del cinema e della fotografia con la conoscenza della realtà naturale, ossia del mondo materiale colto nella sua immediatezza. La possibilità di una teoria critica del cinema – capace di distinguere tra opere adeguate e opere inadeguate – viene così fatta derivare direttamente dalla costituzione specifica del mezzo fotografico.
Per Kracauer, quindi, solo il cinema che mira a esprimere esteticamente la natura e la realtà materiale risponde adeguatamente alle qualità uniche e specifiche del proprio mezzo espressivo. Anche questa pretesa critica potrebbe apparire oggi inadeguata e fuori tempo massimo. Leggendo il testo appare però evidente come Kracauer sia ben consapevole non solo della possibilità di un uso diverso – non «realista» – del mezzo cinematografico, ma anche della relazione necessariamente dialettica che sussiste tra intenzione descrittiva e momento costruttivo nella produzione dell’immagine. Che poi la teoria di Kracauer veda nel cinema la possibilità di una redenzione della realtà fisica – come recita il sottotitolo dell’opera – è probabilmente quanto di più lontano dalla nostra disincantata sensibilità contemporanea. Ma è invece proprio a partire da questi elementi di radicale inattualità che dovremmo cogliere il valore analitico e critico del lavoro di Kracauer.
Il suo interesse, in questo come in altri testi, si rivolge non tanto alle opere in quanto beni culturali, quanto a quelle «manifestazioni della superficie» che, «in quanto non rischiarate dalla coscienza, garantiscono un accesso immediato al contenuto profondo dell’esistente». Proprio in questi momenti quotidiani eppure invisibili si mostra infatti tutta la ferocia della repressione sociale sulla vita del particolare qualitativo: per questo, redimerne la visibilità attraverso il cinema può diventare indice di un’emancipazione possibile. Ed è questa attitudine ad un tempo analitica e critica che troppo spesso manca in molte delle analisi estetiche contemporanee e che, forse, dovremmo invece recuperare.

6 Febbraio 2023

Le visioni spietate. Il Premio Nobel della Letteratura assegnato a Jon Fosse

Luca Scarlini, «La Falena», VI-2

Gli onori non sono mancati a Jon Fosse, assai prima del Premio Nobel gli è stato concesso l’onore di risiedere come artista nazionale nel castello di Grotten dalla corona di Norvegia e nel 2007 il governo francese gli ha assegnato il cavalierato per l’Ordre National du Mérite. Proprio Parigi è stata la città che gli ha tributato i primi riconoscimenti: la casa editrice L’Arche, eccellente per le proposte nel repertorio contemporaneo, ha tradotto quasi tutta la sua produzione, spesso per le cure sapienti di Terje Sinding, che ha lavorato a lungo con l’autore. Risuonava subito, per la critica d’Oltralpe, un evidente legame con il teatro simbolista, e specialmente con il repertorio di Maurice Maeterlinck, scrittore che sembra più rilevante come fonte di meccanismi scenici, rispetto al connazionale Ibsen e a Beckett, che sono diventati centrali nella «vulgata» internazionale.

Fondamentale è stato l’impegno di Claude Régy (scomparso nel 2019) per la diffusione della sua opera. Non per caso aveva firmato un’edizione magistrale de La mort de Tintagiles del maestro fiammingo delle attese e dei silenzi nel 1996 e da lì era passato nel 1999 al lancio di Fosse con una regia magistrale di Qualcuno verrà, testo magnifico, intriso di minacce metafisiche, in cui si narra la presenza inquietante, presso una dimora, di forze oscure che sono in agguato e che stanno per attaccare. Delle produzioni seguenti del regista francese è stata memorabile anche Variazioni di morte (2003), uno dei punti massimi dell’opera dello scrittore norvegese. Sempre Régy ha rivelato al pubblico francese l’altro drammaturgo norvegese di grande rilievo, assai meno noto da noi, Arne Lygre, autore di apocalittiche saghe familiari, tra i Buddenbrook e Festen, di cui ha realizzato Homme sans but nel 2007 (che Jacopo Gassmann ha allestito con il titolo L’uomo senza meta).

L’opera di Fosse nasceva in primo luogo in confronto con il doppio registro della lingua norvegese, scegliendo le suggestioni minimali del nynorsk o neonorvegese, versione essenziale della lingua, praticata in origine nelle aree rurali, ma poi utilizzata da numerosi intellettuali e contrapposta al più complesso idioma bokmål, parlato dalla maggioranza della popolazione. Usare il neonorvegese è una scelta polemica, contro la tradizione recente della cultura canonica.

I primi testi lo dichiarano: l’affermazione dello scrittore nel suo paese arriva con Il nome nel 1995. Una dinamica familiare tesa, intorno alla gravidanza della figlia, induce scontri continui sul nome da dare al nascituro, che è l’innesco per la denotazione di un’intera serie di conflitti. La determinazione di quell’appellativo concerne identità turbate, agitate, che trovano se stesse solo nello scontro.

La sintesi estrema dei percorsi linguistici scelti deriva anche dall’intensa frequentazione giovanile del mondo rock come chitarrista. Fosse suonava in una band e ha sempre ribadito la centralità dell’esperienza musicale per la sua scrittura. Nel mondo di Fosse teatro e narrativa hanno le stesse forme: identico ritmo, non per caso spesso i romanzi trovano la via della scena.

Il maggiore tra i lavori narrativi ad oggi è Melancholia 1 e 2, uscito in Italia da Fandango nel 2009. Si tratta di un monologo disperato e fratturato dalla follia, che porta al centro l’identità dolente di Lars Hertervig, tra i massimi artisti norvegesi all’epoca del Romanticismo, che dopo gli studi a Düsseldorf, divenne preda della follia, e venne rinchiuso in manicomio, terminando la sua esistenza ramingo, vivendo di elemosina. Basti citare l’esordio, nella traduzione di Cristiana Falcinella: «Düsseldorf, pomeriggio, tardo autunno 1853: sono sdraiato sul letto, indosso il mio abito di velluto color malva, il mio bellissimo abito, e non voglio incontrare Hans Gude. Non voglio sentire Hans Gude dire che non riesce a farsi piacere il quadro che sta dipingendo».

La prima parte della produzione, fino a una dichiarata conversione al cattolicesimo nel 2012, spesso è segnata da una visione spietata, quasi nichilista, dell’impossibilità della comunicazione, dello scambio di energie per tramite di parole, come dichiara la tormentosa ricerca ne Il nome, in cui ogni appellativo proposto è specialmente problematico.

In Italia all’inizio Fosse è stato pubblicato da Editoria & Spettacolo, a cura di Rodolfo Di Giammarco, insieme a Titivillus, da Fandango per la narrativa. Ora invece l’edizione è curata da Nave di Teseo per i romanzi (Mattino e sera, agile e assai incisivo, e la complessa Settologia, riassunto di tutte le sue ricerche e enorme opera, di cui sono usciti intanto i due primi capitoli L’altro nome e Io è un altro, esplicita citazione da Rimbaud), in cui sono distillate all’estremo le ossessioni e le tematiche ricorrenti dello scrittore. Esce in questi giorni di novembre 2023 una ristampa necessaria di Melancholia, da molto tempo non più reperibile. Cue Press ha invece pubblicato i maggiori testi teatrali Caldo (nella bella traduzione di Franco Perrelli), un’antologia di Teatro, a cura di Vanda Monaco Westerståhl e gli interessanti Saggi gnostici (sempre a cura di Perrelli), scelta di testi dagli anni Novanta, in cui affronta i nodi principali della sua drammaturgia (differente dalla sua produzione più recente).

In un testo del 1992 dichiara il suo profondo legame con il nynorsk: «Sono uno di quelli che ha sempre scritto in nynorsk che ho imparato alla scuola elementare, media e superiore, con un’istruzione basata su principi tradizionali, e sono contento di aver ricevuto un’educazione tradizionale; la scuola non ha tentato d’insegnarmi a scrivere bene, ma più che altro correttamente, in modo che potessi tenere per me il piacere della scrittura letteraria, ed è stata una buona cosa, giacché andare a scuola non è mai stato e non sarà mai una cosa gradevole per tutti, trattandosi, al contrario, di un impegno che susciterà sempre riluttanza in alcuni studenti, come me, una resistenza che in parte si proietta anche sulle materie che vengono impartite. Per esempio può farmi ancora piacere usare in nynorsk certe parole di norvegese bokmål che gli insegnanti all’epoca segnavano in rosso, e mi fa piacere scrivere periodi lunghi e impossibili e via dicendo, ma, a onor del vero, dovrei pure ricordare che questo piacere è assai diminuito con gli anni».

La scelta dell’idioma e quindi la definizione del nome sono altrettanti elementi principali di una scrittura che scava all’estremo nella psicologia.

L’avventura scenica di Fosse in Italia è stata ricca di appuntamenti, ma con produzioni che talvolta non hanno lasciato il segno. In ogni caso l’autore è ormai tra i contemporanei più rappresentati, forse anche per l’ingannevole semplicità che propone: interni domestici, dialoghi scarni di solito orchestrati per pochi attori. Renzo Martinelli aveva firmato Il nome (1994), Sandro Mabellini Qualcuno arriverà (2001), Barbara Nativi (il magnifico, bergmaniano Sogno d’autunno nel Festival Intercity Oslo, 2001), Beno Mazzone (E la note canta, 2004) e Valter Malosti ha colto uno dei risultati più felici con Inverno, interpretato dal regista insieme a Michela Cescon (2003).

Il Nobel ha onorato un autore che ha saputo trovare una forma sintetica ed evocativa allo stesso tempo, per riportare in epoca postmoderna il discorso sull’anima, punto centrale di una corrente assai forte della produzione nordica dal simbolismo ad oggi, che agisce in dialettica con un’altra visione di realismo estremo, che pure si carica di risonanze simboliste. Non per caso, come scrive Fosse, per lui è stata centrale la visione di Comunione di Lars Norén, straordinario autore svedese, oggi poco frequentato da noi, di cui ha scritto in omaggio (sempre in Saggi gnostici): «In vita mia, ho avuto una grande esperienza teatrale ed è stata, a metà degli anni Ottanta, una cupa sera d’autunno, in una grande sala teatrale semivuota, alcune anime sedute sparse per la sala, alcuni attori sulla scena. E a un certo punto avvenne qualcosa, sulla scena, fra la scena e la sala, non saprei, qualcosa avvenne e ad accadere non era nessun particolare relativo al dramma, né altro che si possa indicare nella regia o nell’interpretazione, bensì il dramma nella sua durata si concentrava in un’esperienza intensa che posso ancora avvertire viva dentro di me. Allora e in seguito ho visto cattivo teatro, ma se una volta sola hai visto buon teatro, ti riscatta da tuto il cattivo in cui t’imbatterai».

1 Febbraio 2023

Bernard-Marie Koltès, Lettere

Gianni Poli, «Teatro Contemporaneo e Cinema», XIV-44

Dal 1955 al 1989 Koltès ha tenuto una fitta corrispondenza con i famigliari e gli amici: mezzo di comunicazione e soprattutto d’espressione di sentimenti intimi, sinceri, a volte censurati. Inventore d’una mitologia tortuosa in uno stile classicamente sorvegliato, sui temi d’una ricerca esistenziale tormentata, ha scritto lettere (cinquecento trenta invii) di profondo significato umano e culturale. Impressionano la delicatezza, l’umorismo e l’autoironia; la sincerità e il pudore, la lealtà e la riservatezza nei confronti dell’interlocutore ai diversi livelli di relazione. Specialmente con la madre sorgono rapporti nitidi e dolorosi, per senso di inadeguatezza e d’amore sconfinato; con le donne amiche, un’affettuosa partecipazione agli interessi comuni. Il teatrante cercherà la vocazione dell’artista, perseguita con fedeltà e sacrificio, in dedizione assoluta alla propria visione del mondo da esprimere in scena. Esigente con se stesso dall’inizio, pretende l’originalità: «Detesto la mediocrità nell’arte… Farò questo solo se le mie idee saranno realmente ed effettivamente interessanti e nuove».

Dagli anni Sessanta, aspira a frequentare la Scuola del Théâtre National de Strasbourg, per formarsi adeguatamente alla sua arte d’elezione. In ciò aiutato da Hubert Gignoux, che riconosce il talento dell’aspirante regista e drammaturgo e lo mette alla prova proprio in quella Scuola. Cresce d’allora il bisogno di «un atto poetico», testimoniato in una lettera programmatica e appassionata alla già famosa Maria Casarès. Le scelte estetiche appaiono, sempre più chiare in intuizioni e scopi, orientate a una drammaturgia ambiguamente autobiografica, esemplata in Les amertumes e Procès ivre; poi in L’héritage, recitata alla radio da Maria Casarès nel 1972.
La solitudine è accolta come «stato [mio] normale» (p. 174), e i viaggi frequenti sono avventure dello spirito in luoghi poi specchiati nella sua opera. Così riferisce della nuova intenzione al fratello François: «Ho iniziato un lavoro in cui invento un modo di scrivere assolutamente rivoluzionario».

Dopo l’incontro con Patrice Chéreau, nel giugno 1982 discute alla pari con l’autore del film L’uomo che piange (poi L’Homme blessé), ancor prima di assistere alla sua regia di Combat de nègre, allestito a Nanterre. Purtroppo, solo scarse note riflettono sulle pièces maggiori, da La nuit juste avant les forêts (1977) e Combat de nègre et de chiens (1978) a Quai Ouest (1985) e Dans la solitude des champs de coton (1986); né sulle regie decisive di Chéreau, né su Roberto Zucco, allestita postuma.

9 Ottobre 2019

Milo Rau, l’artista che vuole cambiare il mondo

Christian Raimo, «Internazionale»

Alla fine di settembre il regista svizzero Milo Rau ha portato al RomaEuropa festival Orestes in Mosul, il suo ultimo lavoro, parzialmente ambientato in Iraq. Il 1 ottobre al Fit, il Festival internazionale di teatro al Lac di Lugano, ha presentato il suo film del 2017 The Congo tribunal, già proiettato al RomaEuropa festival nel […]
7 Ottobre 2019

Travestimento, solo virtuosismo? Anche ricerca sul mistero dell’identità sessuale e scenica, tra maschera e personaggio

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Mentre Galatea Ranzi interpreta il personaggio della Bernhardt in Lezioni di Sarah, regia Ferdinando Ceriani, che prende spunto da L’arte del teatro e, in particolare, da tre lezioni della famosa attrice, Mattia Visani pubblica, per Cue Press, il testo esauritissimo di Laura Mariani: Sarah Bernhardt, Colette e l’arte del travestimento (prima edizione, Il Mulino, 1996). […]
9 Settembre 2019

Il teatro del futuro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Non è un capriccio editoriale la pubblicazione de Il teatro del futuro di Georg Fuchs. Nelle pagine di questo scritto teorico si ritrovano tanti rivolti artistici seguiti dalle avanguardie storiche del Novecento in merito alla definizione e funzione aggregativa del luogo teatrale, dell’arte, dell’attore, della funzione del regista. Prima critico d’arte, poi direttore teatrale e drammaturgo, […]
9 Settembre 2019

Il teatro del futuro di Georg Fuchs

Andrea Bisicchia, «Graphie», XXI-88

Il teatro è soprattutto luce. In un momento in cui il teatro italiano si caratterizza per la sua inessenzialità, o meglio, per assenza di necessità, avendo abiurato alla sua funzione, per scimmiottare con le contaminazioni provenienti dalla tecnologia più sofisticata, dalla letteratura, dalla filosofia, forme considerate spurie, leggere II teatro del futuro di Georg Fuchs, […]
20 Luglio 2019

Mai morti

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Circolano testi teatrali che valgono un manuale di storia per il modo in cui articolano la ricostruzione e il racconto il flusso caotico di azioni collettive di matrice ideologica. Se poi l’onda silenziosa del passato bagna le spiagge del nostro presente, l’incontro tra il Teatro e la Storia diventa una visione e uno strumento che […]
7 Luglio 2019

Lettere, August Strindberg: una sana follia

Alfio Petrini, «Liminateatri»

Con la rigorosa introduzione di Franco Perrelli, la Casa Editrice Cue Press ha dato alle stampe una parte (delle diecimila!) Lettere di August Strindberg, con note a margine, indice delle opere e indice dei nomi . Uno scrittore è tale quando scrive. Quando non scrive è un cittadino qualunque. Questo vale anche per lo scrittore […]
27 Maggio 2019

Animali da Bar

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

«Nasciamo e moriamo. Bene, lei non crede che, forse, bisognerebbe dare un minimo di importanza a quello che succede nel mezzo? E quella roba lì si chiama vita, caro amico. Vita!« L’affermazione è di Colpo di frusta, un uomo così soprannominato per le conseguenze dalle violenze domestiche subite da parte della moglie piuttosto aggressiva; inoltre […]
27 Aprile 2019

Zombitudine

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Dal clima surreale e sospeso del beckettiano En Attendant Godot a un tumultuoso e pauroso En Attendant Zombie: è questo il segno del trapasso proprio della poetica maligna e spiazzante di Zombitudine di Elvira Frosini e Daniele Timpano. Come in Beckett, alla semplicità dello sviluppo narrativo, regolato dal principio secondo il quale tutto o nulla […]
20 Aprile 2019

I teatri di Pasolini, recensione di Paolo Pizzimento

Paolo Pizzimento, «Oblio», IX-33

Con I teatri di Pasolini, Stefano Casi ripropone l’omonimo volume del 2005, che a sua volta aveva portato a compimento uno studio comparso in Pasolini un’idea di teatro (1990). In questa nuova edizione sono state operate numerose integrazioni, chiarimenti formali e concettuali e aggiornamenti sulle messinscene italiane delle opere di Pasolini, che arrivano ora fino […]
9 Aprile 2019

Teatro d’origine

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Che Angela Demattè sia, da un lato, nata e cresciuta in Trentino e, dall’altro lato, sia anche un’attrice, lo si capisce bene dai testi antologizzati in questo prezioso volume che significativamente porta il titolo di Teatro d’origine, che per l’autrice significa un dialogo con i pilastri della propria identità, dal dialetto ai valori della famiglia […]
7 Aprile 2019

Itinerario indimenticabile nel teatro italiano fra Ottocento e Novecento. Quando il ‘fenomeno’ Duse diventò leggenda

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Cesare Molinari scrisse L’attrice divina nel 1985, anticipando il volume, più volte annunziato, di Gerardo Guerrieri che, da circa un trentennio, aveva svolto una serie di ricerche attorno all’attrice, culminate in alcuni saggi, in uno spettacolo teatrale: Immagini e tempi di Eleonora Duse, e in una monografia pubblicata nei Quaderni del Piccolo Teatro nel 1962. […]
7 Aprile 2019

Le Lettere di Strindberg. A nudo il cuore del genio.

Mattia Mantovani, «La Provincia»

August Strindberg ha regalato alla storia della letteratura opere teatrali quali ad esempio Signorina Giulia, Un sogno, Danza di morte e Sonata di spettri, che hanno riscritto e riposizionato i confini e gli ambiti dell’espressione teatrale, tracciando il solco nel quale si sono poi inserite tutte le più importanti avanguardie del Novecento, in particolare l’espressionismo […]
1 Aprile 2019

I maestri di domani in viaggio verso il futuro

Renata Savo, «Hystrio», XXXII-2

Indimenticabile, per chi lo ha vissuto, il corposo progetto Futuri Maestri del Teatro dell’Argine, che racchiudeva l’«epica, folle e utopica» (citando A. Pa­olucci) impresa, durata due anni dello spettacolo omoni­mo che ha ospitato tra il 3 e il 10 giugno 2017 all’Arena del Sole di Bologna mille bambini, bambine, adolescenti, e un ‘maestro del nostro tempo’ diverso […]
1 Aprile 2019

Bergman, uno specchio in bianco e nero

Giuseppe Liotta, «Hystrio», XXXII-2

La bella immagine di coperti­na mostra un giovane Berg­man in posa da divo di Hol­lywood, come il fotogramma in bianco e nero di un film di Frank Capra. Lui, che più lonta­no dalla mitologia del cinema americano del dopoguerra non poteva essere, profonda­mente radicato nel suo am­biente nord-europeo e nella cultura scandinava da cui traeva […]
26 Marzo 2019

Caldo

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Nel percorso creativo dell’infaticabile Jon Fosse – puntellato di opere diventate fondamentali per la drammaturgia contemporanea, tradotte e rappresentate anche in Italia come Qualcuno arriverà, Sogno d’autunno, La ragazza sul divano – il testo Caldo (Varmt) aggiunge un altro prezioso tassello al processo di scarnificazione del linguaggio e della struttura dei personaggio proprio dell’autore. La […]
8 Marzo 2019

Roland Schimmelpfennig. In un chiaro, gelido mattino

Fabrizio Sinisi, «Doppiozero»

Il nome è molto difficile da pronunciare. E anche da ricordare. Ma bisogna farlo, questo sforzo, giacché Ronald Schimmelpfennig è sicuramente tra i massimi scrittori contemporanei tedeschi e non solo. Generazione 1967, originario di Göttingen e formatosi a Monaco, Schimmelpfennig è tra i drammaturghi viventi più rappresentati al mondo. La sua più importante messinscena italiana […]
16 Febbraio 2019

«Il teatro è un coro del noi», il manifesto di Marco Martinelli

Felice Sblendorio, «BonCulture»

«Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, perché il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte». Lo immaginava così il teatro Leo De Berardinis in uno dei suoi tanti scritti sul cosa e come deve essere […]
11 Febbraio 2019

L’irrefrenabile Savinio. Non solo musica e pittura. Visionario di una scena mitico-surrealista, scardinò il teatro borghese

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Ad Alessandro Tinterri, che insegna Storia del teatro all’Università di Perugia, dobbiamo un libro fondamentale su Piandello capocomico, edito da Sellerio nel 1987, dove sono elencati, con relative distribuzioni, i cinquanta spettacoli realizzati al Teatro D’Arte, nelle Stagioni 1925-28, dove figurano autori come Massimo Bontempelli con Nostra Dea (22 aprile 1925), Alberto Savinio con La […]
21 Gennaio 2019

Un vigile contro la ʼndrangheta. In Calabria? No, in un tranquillo paesino romagnolo. La piovra ormai è dappertutto

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Recensire un testo che è nato per la scena è diverso che recensire lo spettacolo da cui è tratto. Si utilizzano metodologie d’approccio diverse perché, se il lettore è portato a fantasticare, lo spettatore di professione ricorre a canoni di giudizio diversi. Il testo trattato è Va pensiero di Marco Martinelli, pubblicato da Cue Press […]
17 Gennaio 2019

Necessità e utopie degli Stracci della memoria

Viviana Raciti, «Teatro e Critica»

«Ricucire i resti delle nostre differenti memorie (individuali, storiche, antropologiche) e ripararne i traumi nell’unità di uno spettacolo-rito». Una proposta deflagrante, utopica, forse la diremmo provocatoriamente fuori moda, oggi, e perciò più che mai necessaria. È questo il senso di Stracci della Memoria, progetto internazionale pluridecennale di ricerca e formazione nelle arti performative a cura […]
17 Gennaio 2019

Una stagione teatrale lontana dal presente

Andrea Bisicchia, «il Giornale»

Il teatro non è mai immune da ciò che accade nella vita sociale, anzi ne è il testimone visibile e invisibile, suo compito è quello di sviluppare il pensiero critico col solo mezzo che ha a disposizione, quello del linguaggio scenico che può essere di tipo rappresentativo o performativo. Milano ha scelto, con i suoi […]