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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

31 Marzo 2023

Un romanzo di santi e buffoni. Intervista a Franco Perrelli

Ludovico Cantisani, «Mimesis-Scenari»

Franco Perrelli, professore ordinario, ha insegnato Discipline dello Spettacolo nelle Università di Torino e di Bari. Ha vinto il Premio Pirandello 2009 per la saggistica teatrale ed è stato insignito dello Strindbergspris della Società Strindberg di Stoccolma nel 2014. Fra le sue recenti pubblicazioni si segnalano: Le origini del teatro moderno (2016), Poetiche e teorie del teatro (2018), On Ibsen and Strindberg. The Reversed Telescope (2019), Kaj Munk e i suoi doppi (2020). Ha inoltre curato il volume delle Lettere di Strindberg per Cue Press. Negli ultimi tre anni, Perrelli ha tradotto e curato le edizioni italiane dei romanzi della Trilogia della solitudine di Strindberg, tutti e tre pubblicati dall’editore Carbonio: Solo, La festa del coronamento e Il capro espiatorio, che rimase l’ultimo romanzo di Strindberg.

Come è nato il suo interesse per August Strindberg? Adesso, dopo i suoi lunghi studi sul drammaturgo svedese, quale pensa che sia il ruolo che Strindberg ha giocato nell’evoluzione del teatro e della letteratura occidentale tra Ottocento e Novecento?

L’interesse è nato quand’ero studente. Mi capitò fra le mani, casualmente, in una libreria una vecchia traduzione del dramma Un sogno e restai affascinato dalla forma e dalla filosofia, insieme pessimista, ma quotidiana, straordinariamente umana, immediata. Uno Schopenhauer alla portata dell’esperienza di ognuno, potrei dire; il dolore che si stende sul mondo («Che pena gli uomini!»), l’inevitabilità del male, il mistero di questo squilibrato assetto del mondo, la domanda posta a un Dio insondabile. In seguito, in un’altra libreria, a Edimburgo, dove stavo studiando inglese, m’imbattei in una versione del suo ultimo dramma, il suo testamento spirituale, La grande strada maestra. Rimasi folgorato dall’intensità del monologo finale. Non era tradotto in italiano e decisi di studiare lo svedese e farlo io. Ero già laureato, ma – oltre a studiare privatamente – potei seguire i corsi di un grande germanista, e anche scandinavista, Aloisio Rendi. In seguito, sarei andato ad approfondire la lingua svedese a Lund e a Stoccolma, dove fui subito aiutato dalla Società Strindberg. Insomma, nel 1980 uscì il mio primo Strindberg per i tipi del Formichiere, una casa editrice aperta alle novità, diretta da Stefano Jacini, che era molto interessato a questo autore. Gli anni Ottanta furono del resto, in Italia, anni di un’intensa e straordinaria riscoperta, in editoria e sulle scene, di Strindberg, che si capiva essere chiave nella cultura moderna, ma più che mai attraente in un periodo in cui, dopo il Sessantotto, ci si confrontava ancora con le avanguardie, si aveva il gusto del rinnovamento dei repertori e della riscoperta, anche dell’utopia. Noterò incidentalmente che, non a caso, lo Strindberg di quegli anni è spesso più colorato di socialismo di quanto non fosse opportuno. Comunque la centralità di Strindberg nella cultura occidentale, in assoluto e in poche parole, tra gli altri, l’hanno certificata Kafka («Non lo leggo per leggerlo, ma per stringermi al suo petto») e O’Neill (è «il più moderno dei moderni»).

Da dove nasce la definizione di «Trilogia della solitudine»?

Potrei cavarmela asserendo: nei fatti, vale a dire nei testi. Strindberg lavora in questi romanzi direttamente sul tema della solitudine, che però percorre in fondo gran parte della sua opera: «Sono solo, naufrago, un relitto, gettato su uno scoglio nell’oceano, ci sono attimi in cui mi afferra la vertigine di fronte all’azzurro nulla» (August Strindberg, Leggende).

La definizione di «trilogia della solitudine», in verità, mi è apparsa quasi palpabile durante il periodo dell’isolamento del Covid, quando la maggior parte del lavoro è stato portato avanti. Ognuno, nella propria solitudine, sentiva di dover alleviare in qualche modo quella degli altri. E quale contributo migliore se non offrire opere dove il tema viene approfondito e illuminato comunque da una luce di coraggio? Le edizioni Carbonio – raffinatissime e sensibilissime – hanno subito accompagnato la mia idea di ripubblicare tre romanzi che, a suo tempo, avevo tradotto per un editore che non esiste più. All’epoca, peraltro, i testi avevano subito delle trasformazioni redazionali (sin dal titolo); nel frattempo in Svezia era uscita l’edizione critica, c’erano modifiche da apportare e sempre qualcosa da correggere e migliorare alla luce dell’esperienza. Insomma, un’ottima occasione per un rifacimento consapevole.

Secondo lei, a cosa si deve il fatto che, pur appartenendo alla fase di piena maturità del suo percorso autoriale, questi tre, ultimi romanzi di Strindberg sono meno noti di altri drammi dello stesso periodo?

È un problema che risale addirittura all’epoca di pubblicazione, soprattutto dei due ultimi romanzi del 1906: la critica non li notò particolarmente. Diversi decenni dopo, in pieno Novecento, sono stati reputati quanto di meglio abbia scritto Strindberg e, in assoluto, fra la prosa più notevole della letteratura nordica. Credo che, ai suoi tempi, da Strindberg ci si aspettasse sempre un approccio polemico alla realtà, alla vita, massime nei confronti del sesso e delle donne, ma anche in campo religioso. Solo, La festa del coronamento e Il capro espiatorio hanno un tono più morbido, una considerazione particolarmente sensibile dell’esistenza, un bisogno di consolare e autoconsolarsi. Certo, in filigrana, affiorano il pessimismo e lo gnosticismo strindberghiano, ma bilanciati da una sorta di coraggio di vivere, di fluttuante speranza, di attesa di un esito inusitato e di una qualche risposta al dolore umano.

Nella sua prefazione a Il capro espiatorio lei accenna all’influenza della «formula del romanzo di Balzac», sia pure filtrata in una chiave personale, in un tentativo di «creare una comèdie humaine svedese». L’attenzione al «metodo di Balzac» venne rivendicata dallo stesso Strindberg nel suo epistolario. Quali erano gli altri antecedenti dello Strindberg romanziere?

Fin dal 1879, con la pubblicazione del grande romanzo d’esordio, La Sala rossa, Strindberg fu inteso come un autore sperimentale, «di rottura», e paragonato con quanto di estremo e anche scandaloso si concepisse al tempo, vale a dire: Zola. Credo tuttavia che, oltre a Balzac, soprattutto Dickens abbia lasciato una forte impronta su Strindberg, insieme a Goethe, Hugo e anche Dostoevskij. Nei due ultimi romanzi, poi, si avverte un’atmosfera riscontrabile nella narrativa romantica tedesca.

Al termine della sua prefazione a Il capro espiatorio lei scrive che l’immaginario di Strindberg è attraversato «da quella fine misura d’ironia che muta un cupo piagnisteo in un’onesta testimonianza sull’essere uomini», parole che in una certa misura si potrebbero applicare anche all’esistenzialismo letterario, movimento emerso tre decenni dopo la morte di Strindberg. Dal suo punto di vista, quali sono state le maggiori eredità di Strindberg sugli autori classici del romanzo novecentesco?

Strindberg non solo ha condizionato effettivamente l’esistenzialismo moderno, essendo stato a sua volta suggestionato da Kierkegaard, ma questo influsso è stato anche chiaramente riconosciuto da romanzieri-pensatori di questa corrente. Infatti, Albert Camus l’ha definito «il guardiano e il testimone della rivolta dell’individuo», che «ci aiuta a ricordare e a sostenere quella follia della creazione ch’è l’onore dell’essere umano». A Kafka ho già accennato.

A livello di prosa, quali sono state le maggiori difficoltà nel tradurre i tre romanzi di Strindberg? Il suo svedese quali specificità ha?

L’opera strindberghiana si segnala per una varietà di fasi e di registri, è immersa in atmosfere che spaziano dal romanticismo, al naturalismo, al simbolismo. Ma questi «-ismi», con Strindberg, vanno considerati in termini meramente convenzionali: Strindberg è Strindberg, e le faccio un esempio. Lo si considera storicamente, e in un certo senso giustamente, alle origini dell’espressionismo, ma il suo espressionismo è in fondo il misticismo barocco di Swedenborg, filtrato e rivissuto dalla sua ipersensibilità. Ciò premesso, la lingua di Strindberg presenta forti scompensi e scarti: da un livello decisamente poetico all’innesto di termini connessi alle scienze, alla tecnologia, alla chimica, che talora originano neologismi. Il traduttore, da un lato, deve centrare bene la fase biografica e storico-letteraria in cui l’opera cui si dedica va a collocarsi, ma, da un altro, essere poi pronto all’imprevisto e attento soprattutto al ritmo della frase. Strindberg, infatti, è uno scrittore eminentemente ritmico; più ritmico che logico. Anche ai suoi attori chiedeva soprattutto il senso del ritmo.

Strindberg si autodefiniva «uno scrittore religioso» e ha spesso costellato i suoi drammi e i suoi testi di citazioni e riferimenti biblici. Il capro espiatorio si rifà all’Antico Testamento sin dal titolo, e non sembra accennare a particolari possibilità di redenzione, a differenza di come l’incarnazione narrata dei Vangeli ha rimodulato il tradizionale archetipo dell’agnello sacrificale. Quali riferimenti biblici ha colto nell’ultimo romanzo di Strindberg, e come li ha resi in traduzione? Il passaggio da un orizzonte concettuale «protestante», incarnato nello svedese, a uno «cattolico», qual è quello italiano, ha comportato qualche complessità di traduzione?

La definizione di scrittore religioso deriva in Strindberg direttamente da Kierkegaard e si lega a un’idea severa del rapporto con Dio, rispetto al quale «si ha sempre torto», che rimanda a sua volta alle radici pietistiche dell’infanzia dell’autore svedese. Essere uno «scrittore religioso», per Strindberg, tuttavia, non significa mai essere un autore pio o edificante, bensì incarnare una figura d’indagatore antagonista che chiede a Dio ragione dell’inesplicabile della vita. Non solo nei romanzi della «trilogia della solitudine», ma in tutta l’opera strindberghiana i modelli eroici sono tratti dalle figure bibliche di Giacobbe che lotta con Dio e di Giobbe che interroga sul senso dell’esistenza e del dolore. Il sacrificio di Cristo resta un mistero affascinante e quasi inafferrabile: in fondo (e si legga proprio Il capro espiatorio), il suo esempio è metafora della condizione umana, la sua incarnazione per antonomasia è al livello di tutti gli esseri umani, come la sua offerta di redenzione – ma perché mai c’è stata e perché l’umanità non l’ha riconosciuta fino alla crocifissione e dopo? A tratti, in Strindberg, questo intenso dissidio metafisico ed esistenziale si muta almeno in una speranza di chiarimento nell’aldilà, occasionalmente, in una rassegnata sottomissione, non di rado nel dubbio gnostico sull’esistenza di un nume malvagio. Insomma: un quadro inquieto e fortemente contrastato; una religione come interrogazione vertiginosa e aperta, mai come pacificata pratica devota. Un grande regista nostro contemporaneo, il polacco Jerzy Grotowski, sosteneva che gli dèi in fondo amano proprio coloro che praticano nei loro confronti la blasfemia, perché sono gli uomini che del divino si ricordano con più insistenza e passione. Insomma, la religione è tutto meno che materia tiepida, e anche Strindberg ce lo ricorda. Il traduttore deve tenere presenti queste inquietudini e questi squilibri, immergersi nella dinamica interiore del conflitto che, in uno scrittore, si fa ovviamente lingua. Cattolici? Protestanti? È l’umanità che ha inventato la teologia, Dio si è dedicato e si dedica a tutt’altro. Anche questo c’insegna Strindberg: il divino resta misterioso, attingibile forse solo nell’abbandono di un salto acrobatico. Per questo, i personaggi strindberghiani risultano spesso clowneschi.

Tra le sue precedenti pubblicazioni legate a Strindberg c’è anche la curatela del suo epistolario edito da Cue Press. Tra gli scrittori dell’Ottocento, Strindberg è stato uno dei più espliciti e franchi nel parlare della propria vita interiore, anche nei suoi aspetti maggiormente morbosi e patologici. Le tre vicende raccontate nella «trilogia della solitudine» fino a che punto riflettono esperienze e sensazioni vissute personalmente e biograficamente dallo scrittore svedese?

Strindberg ha teorizzato esplicitamente che l’autobiografia è la prima materia di una letteratura che voglia andare a fondo del cuore umano e, proprio in un passo dell’epistolario (che è, tra l’altro, uno straordinario documento personale e storico), si paragona per questo a una «cavia». Ciò, sin dal principio, ha orientato la critica (penso alla prestigiosa monografia di Martin Lamm) verso una forte identificazione fra vita e opera. In gioventù, ero più vicino alle correnti critiche d’avanguardia che miravano a smontare questo approccio, che, in effetti, può essere riduttivo sul piano estetico per un’opera letteraria. Con gli anni, però, il diavolo si fa frate (mi pare fosse un motto di Hegel), e pur non schiacciandomi mai sulla mera equivalenza opera-vita, non trascuro di evidenziare il nesso autobiografico. Mi pare più corretto: se uno scrittore si costruisce così, perché smontargli del tutto il giocattolo? In ogni caso, è una costruzione che va descritta. Il lavoro di critico, di storico della letteratura, a ben vedere, è il più simile a quello dell’attore: bisogna entrare nella pelle dell’orso (come dicevano in gergo i comici di un tempo) per penetrare il più possibile in personaggi, epoche e atmosfere, spesso remotissime. Ci si riesce? Gli attori (anche se non tutti lo ammettono) sanno bene che la cosa è possibile solo fino a un certo punto, e nessun critico sosterebbe il contrario, ma lo sforzo d’immersione va fatto (ed è pure l’aspetto più affascinante e gratificante del mestiere), anche se non si riesce mai a perdere la propria contemporaneità. Con Strindberg, quindi, cerco di vestirmi con la sua pelle, di ragionare nelle sue categorie e in quelle del suo tempo. Poi so bene che l’arte – autobiografica o meno che sia – è strutture, simboli, idee e lingua, e soprattutto con questo, fuori dalla semplice aneddotica, debbo confrontarmi. Alla fine, cerco di adottare un metodo che potrei definire comprensivo e analitico-comparativo insieme. Vengo da studi filosofici e do molta importanza alle idee dell’autore e del suo tempo; credo che sia necessario (anzi ovvio) essere rigorosi, ma anche che scienza, per la critica, significhi ben altro rispetto a ciò che il termine può evocare in campi differenti e più consoni, e non mi fa orrore, col giusto distacco, l’invito crociano al giudizio personale. È un’ipocrisia della critica scientifica credere che non vada espresso o non lo si esprima mai.

In passato lei ha tradotto Strindberg anche direttamente per il teatro, per una messa in scena di Gabriele Lavia; più di recente è apparso, in un volume collettivo dell’Istituto degli Studi Germanici, il suo testo Appunti di un traduttore di teatro. Per la sua esperienza, quanto cambia il mestiere del traduttore dalla carta alla scena? E quando traduce per il teatro, in che misura instaura un dialogo, oltre che con il testo di partenza, anche con l’attore che fisicamente dovrà recitare le battute?

Ho una discreta esperienza di traduttore per il teatro (un ambiente, tra l’altro, che ho avuto modo di conoscere bene e che confesso di amare per la sua serietà e per le sue debolezze). Anche in questo caso, ammetto di avere avuto un’evoluzione: nelle mie prime versioni, in assoluto, cercavo di perseguire il più impervio degli ideali umani, la fedeltà. Che cosa sia in una traduzione potremmo discuterne per decenni, ma diciamo che, per me, significava una stretta aderenza di termini, ricorrenza di didascalie, al limite anche una certa rigidità formale. Oggi non rinnego nulla di tutto ciò, ma – proprio lavorando recentemente su Ibsen per un Meridiano Mondadori che sto curando – mi ha colpito il richiamo di questo drammaturgo all’assoluta necessità che un testo riviva in un’altra lingua nelle categorie e nella sensibilità per l’appunto della lingua nella quale viene riportato. Svedese, norvegese, danese (le lingue da cui di norma traduco io) sono diversissime strutturalmente dall’italiano, non sono di ascendenza latina, ma oggi tendo ad assecondare più le ragioni del mio idioma che la logica stringente di quello scandinavo. In questo caso, so che esistono biblioteche di filosofia della traduzione e ponderosi trattati scientifici nel merito; li ho pure letti. Poi però, nel lavoro, vince la vita, l’esperienza, il gusto della letteratura, e tradurre (come anche il lavoro critico) resta un’operazione di alto artigianato, con imponderabili margini soggettivi. Ho mai tradotto pensando agli attori? Non so: in genere, tendo a vivere il dialogo drammatico dentro di me. Di norma i registi e gli attori mi chiedono traduzioni «moderne»; io credo di assecondare, ma tanto so che in scena cambierà tutto o quasi. Il teatro sulla pagina e quello vissuto sono intraducibili a vicenda; a un certo punto, lo fa intendere persino Hegel nelle sue lezioni di estetica.

Dopo il completamento della «trilogia della solitudine», ci sono altri scritti di Strindberg inediti in italiano che spera di portare a traduzione?

Sì. Mi piacerebbe affrontare I libri blu, l’immenso zibaldone, dedicato a Swedenborg, della vecchiaia di Strindberg. E magari lasciare un’edizione aggiornata della sua drammaturgia più importante, come in questo momento sto facendo con Ibsen. Ahimè, è però noto il motto: «ars longa, vita brevis»… e, a una certa età, si sbircia più di frequente la clessidra sullo scrittorio.

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30 Marzo 2023

Il Romanzo teatrale di Bulgakov e Elogio del disordine di Louis Jouvet editi da Cue Press

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Due pubblicazioni di Cue Press: Romanzo teatrale di Bulgakov, nel quale il romanziere traccia in modo ironico il profilo di Konstantin Stanislavskij, e Elogio del disordine di Louis Jouvet, con le sue considerazioni sull’arte dell’attore e sul teatro.

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19 Marzo 2023

Potere mediceo e teatro negli studi di Zorzi

Luca Scarlini, «Corriere Fiorentino»

Ludovico Zorzi (1928-1983) dalla natìa Venezia giunse a Firenze negli anni Settanta, dopo una lunga esperienza nelle attività culturali Olivetti, avendo svolto compiti come recensore e introducendo numerosi volumi della prestigiosa collezione di teatro Einaudi, da La Veniexiana, a Ruzante, a Goldoni. Fondatore in Italia della storia dello spettacolo, insieme a Cesare Molinari ed altri studiosi, realizzò mostre importanti in città insieme ad altri: Il luogo teatrale (1975) e La scena del principe (1981), nel quadro del complesso progetto di mostre di quell’anno. Il suo libro maggiore, Il teatro e la città uscì nel 1977 da Einaudi e ora lo ripropone Cue Press. La parte fiorentina di questo volume, complesso e affascinante, (gli altri capitoli sono dedicati a Ferrara e a Venezia) ricostruisce magistralmente la relazione tra il teatro e il potere mediceo. Simbolico è l’occhio che dal corridoio vasariano dà su Borgo San Jacopo, presenza tangibile dello sguardo del principe sulla città, per cui si apriva improvviso un palco all’interno di Santa Felicita. Non meno complesso era il legame tra il Teatro degli Uffizi, di cui non rimane traccia nell’organizzazione del museo, più ufficiale, e dello spazio dei comici dell’arte, dal nome esplicito: di Baldracca, legato al clamoroso andirivieni del porto fluviale, dove i Medici assistevano dietro gelosie a spettacoli salaci di donne discinte e attori intenti a lazzi di ogni tipo. Zorzi ha fondato un percorso di studio complesso, che ha esercitato larga influenza sulle generazioni successive.

18 Marzo 2023

Stanley Gontarski, Tennessee Williams

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Mancava in Italia un saggio monografico dedicato a Tennessee Williams, fondamentale autore noto per commedie accompagnate da allestimenti importanti come Lo zoo di vetro, Un tram che si chiama desiderio, Improvvisamente l’estate scorsa e La rosa tatuata. Colma la lacuna Cue Press, con la pubblicazione di un volume molto interessante a appassionante, Tennessee Williams. Modernismo in t-shirt e rinnovamenti del teatro, compilato da Stanley E. Gontarski, apprezzato scrittore, drammaturgo, direttore teatrale e regista.

L’obiettivo della ricerca è dichiarato con esplicita chiarezza: «Estende[re] la rivalutazione di Tennessee Williams per contrastare l’opinione diffusa secondo cui il suo lavoro sarebbe caduto in un precipitoso declino negli anni Sessanta, quando il naturalismo cui era associato, non sempre per scelta sua, fu sostituito da innovazioni e sperimentazioni più europee, meta-teatrali, e quando la cultura vide una ricalibratura dinamica del desiderio sessuale e dei suoi costumi».

A guidare le interpretazioni testuali secondo i codici linguistici del teatro e a spareggiare le sorti storiche del repertorio dello scrittore americano interviene la contestualizzazione socio-culturale della ricezione di personaggi disegnati senza filtri e finzioni, immortalati nelle loro pulsioni erotiche e passioni, nelle paure e i desideri, con i loro incubi e i loro limiti anche fisici (Laura dello Zoo di vetro è zoppa). Soprattutto si proiettano nel perimetro di sé stessi prima di relazionarsi alla realtà, insidiosa e complicata.

Perciò i temi trattati, che spesso hanno attivato la censura, risultano trattati in modo autentico e con feroce realismo: l’alcolismo, il sesso e l’omosessualità, la perversione e i disagi mentali non sono accessori letterari descrittivi, assurgono invece a filtri narrativi attraverso un linguaggio privo di mediazioni, vitale, violento e palpitante, che si sostanzia in una vetrina di personaggi genuinamente perdenti, solitari e controversi, senza presente e senza futuro ma sostenuti da autentica vitalità.

Nel momento in cui queste figure diventarono soggetti cinematografici o teatrali, provocarono scalpore, lasciarono un segno indelebile nel perbenismo e nella morale dominante. È il caso dello scandalo prodotto da Marlon Brando nel 1947, quando interpretò la parte di Stanley Kowalsky in Un tram chiamato desiderio, indossando una maglietta a maniche corte aderente e sudata e recitando anche a torso nudo. Si rovesciava l’idea di esibizione del corpo, di norma scenica, declinata al femminile, e si affermava la mascolinità come espressione di erotismo e di oggetto di desiderio. Si infrangeva un tabù e si dimostravano le potenzialità del teatro e del cinema di procedere in quella direzione e a questo, nell’ombra silenziosa della lezione di Williams, lo spettacolo degli anni Sessanta e Settanta aggiunse la contestazione.

In parallelo inizia la seconda fase creativa del drammaturgo americano. Al realismo subentra un percorso sperimentale (The two-character play, Clothes for a summer hotel) che lo avvicina a Beckett, come pare alludere e indicare il titolo di una commedia dell’epoca, Slapstick tragedy.

Forse condizionata dall’immagine dell’uomo Williams – dichiaratamente omosessuale e vittima di frequenti crisi depressive sedate con abuso di alcol e barbiturici – oppure perché autore di una pungente rappresentazione della società (americana), il suo declino è rapido e inesorabile, mentre in Europa una maggiore considerazione è riscontrabile a partire dagli anni Ottanta, dopo la sua morte nel 1983 a New York.

È l’esatto contrario dell’andamento americano. In merito, Gontarski analizza anche i contributi italiani, ricordando le regie di Elio De Capitani e Antonio Latella.

Da questa biografia di agile nella lettura, impreziosita da un accurato apparato iconografico e da una ricca e aggiornata bibliografia, emerge il profilo a tutto tondo di un grande drammaturgo, inquieto e geniale, che seppe stravolgere il linguaggio teatrale del secondo Novecento, al quale molti percorsi di avanguardia e di ricerca gli sono consapevolmente o inconsciamente debitori.

Sotto forma di postilla, piace, infine, ricordare la messinscena pionieristica dello Zoo di vetro da parte di Fantasio Piccoli, fondatore e direttore del Teatro Stabile di Bolzano, nella stagione 1959-1960, con la partecipazione di Armida Gavazzeni, Giaco Giachetti, Lucia Romanoni e Alberto Terrani.

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6 Marzo 2023

Ridurre la distanza. Breve storia del teatro sociale in Italia

Francesca Lupo, «Theatron 2.0»

«Le pratiche di teatro sociale sembrano anche svolgere una funzione di mediazione politica, in particolare nelle relazioni tra le istituzioni e gli individui e i piccoli gruppi, con specifico riferimento a soggetti marginali e fragili. Una funzione che nutre il capitale sociale e riduce la distanza e la possibile conflittualità, generando occasioni di contatto e di allineamento tra le diverse parti».

Difficile essere più eloquenti di Giulia Innocenti Malini, professoressa di teatro sociale presso l’Università di Pavia e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, autrice del volume Breve storia del teatro sociale in Italia, edito da Cue Press nel 2021. Come difficile è il compito che si prefissa, ovvero tirare le fila di una forma teatrale il cui percorso si delinea tortuoso fin dalla sua stessa nomenclatura. Il teatro non è sociale per definizione? E cosa si intende quando lo si pone in contrapposizione ad una spettacolarità da cartellone? Innocenti Malini, nella premessa al libro, accenna alla sua ampia esperienza sul campo (che condivide nel corso di alta formazione per operatori di teatro sociale e di comunità sempre alla Cattolica) che comunque, dice, non le è bastata per configurare un metodo che possa soddisfare tutte le sfaccettature di questa particolare spettacolarità. Dà avvio ad una ricerca che si pone l’obiettivo di essere «prima di tutto, performativa».

«Insomma, interpretare il teatro sociale ci mette di fronte a tutte le complessità metodologiche dello studio del fatto teatrale contemporaneo, a cui si aggiunge la specifica complessità di studiare una pratica performativa teatrale che intende perseguire risultati artistici ed estetici, e anche realizzare intenzionalmente obiettivi di ordine sociale, rimandando con questo termine, ‘sociale’, a obiettivi volta a volta educativi, di cura, inclusione, formazione, terapia, sviluppo, protesta, riqualificazione ambientale e molti altri».

Il teatro sociale rivendica una letteratura che possa narrare di sé negli stessi manuali di storia del teatro che passano sotto le mani e lo sguardo di menti in formazione, perché effettivamente è dal teatro che potremmo definire «estetico, prettamente artistico» che prende i natali; anzi, probabilmente da uno scarto che lo stesso teatro d’arte ad un certo punto non riesce più a colmare nei confronti di un pubblico che rivendica la sua identità di cittadino. Dalla fine degli anni Cinquanta, da Grotowski a Barba, passando dal Living Theatre, si è cercato di colmare quello scarto, in tutti i modi possibili, ricreando una scena che da principio abbandonasse l’edificio stesso atto alla rappresentazione, per crearne altri di palcoscenici, per le strade, nelle piazze (non inventando niente di nuovo, ma al contrario recuperando tradizioni molto antiche), ed un pubblico che fosse invitato a circondare la scena, se non pure a condividerla con gli attori.

«Questo processo di fuoriuscita dal teatro subisce una forte, decisiva accelerazione sotto la spinta degli eventi sociopolitici del Sessantotto, spostandosi decisamente dal piano del rivoluzionamento tecnico-linguistico dello spettacolo a quello della messa in discussione globale della forma teatro in se stessa» (Marco De Marinis, Il nuovo teatro. Bompiani, 2000). In questo percorso carsico, il teatro sociale indossa diverse forme: dall’animazione teatrale allo psicodramma, dal teatro dell’oppresso fino a recuperare la dimensione della festa.

Ma andando incontro al fisiologico raffreddamento degli animi dopo i moti sessantottini, l’attività di molti operatori non si arrenderà, anzi popolerà altri luoghi ancora più urgenti, come carceri, ospedali, scuole, piccole comunità di quartiere, divenendo sempre più capillare. Utile alleato sarà l’università, che, attraverso i suoi insegnanti, che spesso si ritrovano loro stessi ad essere attivi nel campo, produrrà una letteratura e dirigerà gli sguardi verso una performatività differente. L’analisi di Innocenti Malini prova a condurre il lettore sino ai giorni nostri, illustrando esempi degni di nota, come il TiPiCi, a cui lei stessa è associata: «Una giovane rete che raccoglie più di sessanta realtà associative artistiche, sociali e di ricerca milanesi che condividono la necessità di riflettere sul rapporto tra arti e pratiche performative e sviluppo partecipato dei contesti sociali, per poi progettare congiuntamente processi performativi che possano aiutare gli abitanti a fronteggiare la complessità dei problemi di vita in modo integrato, sistemico (multisettoriale e interdisciplinare) e comunitario».

Il teatro sociale è quella forma ibrida in cui, nonostante la sua, alle volte, mancata istituzionalizzazione, chiunque si imbatte nella propria vita. È diventata involontariamente una narrazione scontata, si ha un’idea che esista, come nei contesti di reclusione, nelle scuole. Eppure «gode» dello stigma di cui la cultura tutta è vittima, argomenti lontani dalla formazione di un individuo perché non ritenuti all’altezza delle stesse attenzioni dedicate al corpus dantesco od alla Ginestra leopardiana. Nella futile diatriba per conferirgli un titolo più «sociale» o più «estetico», il teatro sociale fa, agisce e grazie alla ricognizione di Innocenti Malini ripercorriamo anche la stessa storia del nostro paese.

Dalla più celebre, come può essere l’esperienza di animazione teatrale che Giuliano Scabia condusse nell’ospedale psichiatrico di Trieste, nel 1973 diretto da Franco Basaglia, abbattendo i confini manicomiali, ponendo in relazione gli internati con i propri concittadini; a H2Otello, rivisitazione del testo shakespeariano che il Teatro Metropopolare di Livia Gionfrida rappresenta con i detenuti della Casa Circondariale la Dogaia a Prato nel 2014, ponendo l’accento sul femminicidio di cui si macchia il protagonista, la questione su cui interrogarsi. Numerosi sono i nobili esempi nel Settentrione, diversamente nel Meridione, ma nel quale spiccano percorsi particolari. Uno di questi, meno celebre di altri, è guidato da Claudio Collovà nell’Istituto Penale per Minorenni Malaspina di Palermo, «nato come percorso di ordine artistico, anche provocatoriamente, contro un utilizzo terapeutico del teatro che la compagnia non condivideva, per affermare un teatro d’arte possibile anche in questi contesti di forte disagio».

Relazioni, comunità, comunicazione: queste le tre parole chiave che esperienze simili riescono ad introdurre in contesti in cui tutt’ora difficilmente è possibile trovargli un margine di discussione, o addirittura ragion d’essere, a causa di un’altra parola, la differenza, che l’essere umano ha spesso sottolineato, convertito in mattoni per costruire imponenti muri tra malato e familiare, tra bambino e adulto, tra sfollato e cittadino, tra spettatore e autore, o semplicemente tra «te» e «me».

Innocenti Malini conclude così il suo libro, attraverso le parole di Sisto Dalla Palma nella Scena dei mutamenti (Vita E Pensiero, 2001): «Non si tratta di scardinare i confini tra le varie aree del teatro secondo un assioma che nessuno è in grado di formulare. Tutta l’esperienza più recente del teatro dimostra che gli esiti più significativi si sono avuti quando si sono realizzati non solo genericamente scambi e integrazioni tra linguaggi, ma incontri tra persone, ognuna portatrice di specifiche esperienze, ma tutte insieme capaci di rappresentare, in una porzione di spazio pur limitato, il grande teatro del mondo. La scena teatrale si pone oggi al centro di una complessità sociale, a volte drammatica, non per evocarla o subirla in modo confuso, ma per assumerla e trasformarla nella prospettiva di autentici atti di libertà e di impegno civile».

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6 Marzo 2023

Anche Stefano, primogenito di Luigi Pirandello, fu drammaturgo e pittore

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Figlio primogenito di Luigi, Stefano Pirandello (1895-1972), visse gran parte del suo tempo all’ombra del padre; non solo perché affascinato dal teatro, ma perché si sentì «necessario» al proprio genitore, per l’enorme mole di lavoro che svolgeva dopo i successi internazionali delle sue commedie.

Stefano fu l’ideatore, insieme a Orio Vergani, del Teatro D’Arte, che rimase aperto, pur tra tante difficoltà, per ben tre anni, dal 1925 al 1928, con una sua Compagnia. Dietro la miriade di impegni c’era anche quello per la madre, Maria Antonietta Portolano, (1871-1959) che, per disturbi psichici, era stata ricoverata nel 1919 presso Villa Giuseppina, dove rimarrà fino alla morte. La vita di Stefano, pertanto, fu contrassegnata da due «doveri», benché quello nei confronti del padre lo impegnasse intellettualmente.

L’amore per il teatro si trasformò, per Stefano, in amore per la scrittura, tanto che scrisse ben 17 testi che Sarah Zappulla Muscarà pubblicò, nel 2004, con Bompiani, in un cofanetto di tre volumi. Instancabile ricercatrice, Sara, insieme al marito Enzo e grazie all’Istituto di Storia del Teatro Siciliano, è diventata una divulgatrice delle opere di tanti autori siciliani che, senza di lei, sarebbero stati dimenticati.

A cura sua e di Enzo è stato pubblicato di Stefano Pirandello Un padre ci vuole in due edizioni e in due volumi separati, editi da Cue Press; il primo in italiano, il secondo in inglese, col titolo All you need is a father, con traduzioni di Enza De Francisci e Susan Bassnett, a cui dobbiamo anche le Note.

Sempre grazie all’interessamento di Sarah Zappulla Muscarà, Un padre ci vuole è stato tradotto in francese, greco, serbo, spagnolo, arabo, in attesa delle traduzioni in ceco e austriaco. C’è da dire, però, che, non sempre all’interesse scientifico corrisponda un interesse di rappresentazione. Anzi, a questo proposito, il testo che ebbe una messinscena nel gennaio del 1936, con la Compagnia Tofano-Maltagliati-Cervi e la partecipazione di Giuseppe Porelli, fu più volte rimaneggiato, fino all’edizione del 1960, che è quella pubblicata. Alla prima, al Teatro Alfieri di Torino, fu presente Luigi Pirandello.

C’è ancora da dire che nel 1953 capitò a Stefano l’occasione che lo avrebbe potuto imporre come autore teatrale, grazie alla messinscena al Piccolo Teatro di Sacrilegio umano, con la regia di Giorgio Strehler, che fu un vero insuccesso, forse anche per la poca cura del grande regista.

Un padre ci vuole risente molto della dedizione di Stefano nei confronti del padre, ma, a dire il vero, mostra una sua autonomia e ben si inserisce in quella drammaturgia che sceglie come protagonista la figura paterna, soprattutto nel secondo Ottocento, sia nella letteratura nordica sia in quella russa. Basterebbe ricordare Il padre o La signorina Giulia di Strindberg, con i famosi stivali del padre tenuti a lucido dal servo Jan, o ancora Hedda Gabler di Ibsen, con le due pistole donategli dal padre come segno di potere, che lei utilizza in maniera irrazionale. Il padre si presenta come una figura complessa nella drammaturgia di fine secolo; da lui dipendono l’educazione e i fabbisogni familiari, e non sempre lo si trova adatto, anche perché in molti casi ha pensato solo a se stesso.

Vorrei ricordare, inoltre, che anche il teatro russo ci ha lasciati dei drammi ben orchestrati su questo argomento, vedi Padri e figli o Pane altrui di Turgenev, o la figura del padre nei Fratelli Karamazov. E infine, come dimenticare la figura complessa del Padre nei Sei personaggi.

Stefano Pirandello ha una sua visione della figura paterna. Il suo protagonista, Oreste, intende essere il tutore del padre sessantenne e vorrebbe interessarsi a lui con ogni mezzo, anche perché, in occasione della tragedia che colpì la famiglia – dovuta a un incidente che causò la morte della madre e dei fratelli, travolti a causa di un passaggio a livello forse incustodito – il padre aveva deciso di suicidarsi e lui era riuscito a salvarlo. La commedia è costruita sul tema del rimorso e delle ferite dell’anima che coinvolgono gli esseri umani, tanto che c’è bisogno della comprensione dell’altro per poterle emarginare. Oreste, a suo modo, vive drammaticamente il bisogno del padre di aggrapparsi alla vita; magari grazie a un nuovo matrimonio, con una donna molto più giovane. Solo che prevede altre crisi paterne e fa di tutto per essere la sua ombra, così come Stefano aveva fatto di tutto per essere l’ombra del padre Luigi.

4 Marzo 2023

L’America di Elio De Capitani

Maria Dolores Pesce, «Dramma.it»

L’interesse, o meglio la sensibilità, che da molto tempo contraddistingue gli studi di Laura Mariani nei confronti dell’attorialità, torna ad incontrare e ad intersecarsi con l’attività ormai ultratrentennale di uno degli attori che, meglio di tanti altri, ha saputo interpretare non soltanto i singoli e innumerevoli personaggi che ha incarnato, quanto il «Teatro» tout court, visto come espressione artistica ma ancor più come una rete in cui si può impigliare il mondo e la storia, e attraverso la quale essi si possono riportare almeno un po’ sulla riva della vita, singolarmente o collettivamente intesa. Ne nasce questo volume che non vuole essere una semplice ristampa, ampliata, riveduta o corretta fin che si vuole, ma che diventa un ulteriore completamento di un’analisi che però forse non ambisce ad essere completata. Lo sguardo di Mariani infatti era aperto – ed è una sua qualità indubbia, e tale rimane e desidera rimanere – aperto al futuro ma anche al presente della nostra, analoga o diversa che sia, percezione di quella vita e di quella storia scenica. Un bel volume che ripercorre le tappe di una lunga carriera in maniera essenziale, soffermandosi però con maggiore intensità, come già suggerisce il titolo, sul rapporto che è stato ed è illuminante per Elio De Capitani: quello con la letteratura americana, non solo teatrale. Dal fondamentale Angels in America all’Ahab dell’ultimo Moby Dick alla prova. Un testo interessante per contenuto, per scrittura densa e significativa, e, non ultimo, per ampio e suggestivo apparato iconografico.

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3 Marzo 2023

Guillem Clua, Teatro

«Queerographies»

Uno Stato immaginario scomparso a causa dei cambiamenti climatici, una misteriosa epidemia globale, un giudice che nasconde la propria omosessualità: pur trattando gli argomenti più disparati, il lavoro di Clua riesce ad affrontare in maniera originale ed eclettica il tema della diversità e della complessità del mondo contemporaneo. Il volume raccoglie il meglio della produzione del drammaturgo catalano; sei testi capaci di restituire, dalla scena alla pagina, un’umanità sempre viva e dalle mille sfaccettature.

Guillem Clua è considerato uno dei drammaturghi più innovatori ed eclettici nel panorama catalano e spagnolo. Grazie alla sua duplice formazione di autore teatrale e di creatore di programmi e di fiction seriali, il suo repertorio comprende opere politiche e commedie musicali, drammi epici e spettacoli di teatro-danza. I suoi lavori sono stati tradotti in molte lingue e hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui spicca il Premio Nacional de Literatura Dramática 2020 per il testo Giustizia.

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1 Marzo 2023

Quaderni scritti a penna di un futuro Premio Nobel: Samuel Beckett

Andrea Porcheddu, «Gli Stati Generali»

Ma insomma Samuel Beckett si può toccare o no? Si sa: il burbero premio Nobel scriveva testi teatrali che erano delle partiture, misurate al secondo. Tra didascalie, parole e pause vi è una tensione continua e il dettato beckettiano è stato a lungo ritenuto – e ancora lo è – per l’appunto, intoccabile. Complice anche la ferrea tutela dei doverosi diritti d’autore: Beckett o lo si fa à-la-Beckett, senza toccare una virgola, o non si fa.

A parte il fatto che qui da noi lo recitiamo in italiano, ossia in una lingua altra (e già questo è un poderoso modificar l’originale, per quanto filologica sia la traduzione), è chiaro che, tanto per far un paragone, se affrontiamo Verdi o Puccini, non ci viene in testa di prendersi licenze, ossia modificare, tagliare, riscrivere, sfumare. Per quel che mi riguarda appartengo a questa scuola: con il repertorio classico bisogna fare i conti, per quel che è, senza stare tanto a riscrivere. Ma il teatro, nato nel politeismo greco, suggerisce sempre la molteplicità, lo sguardo aperto, l’alternarsi e il convivere di possibili: e, come nella vita, è meglio il pluralismo, accogliere possibilità diverse, mettersi in discussione, ascoltare, essere smentiti nelle proprie certezze (non è poi che i monoteismi abbiano fatto bene alla salute o allo spirito…).

Di fatto, la ricerca, in teatro come in musica, è cresciuta anche violentando i cosiddetti classici, che proprio in quanto tali si prestano ad ogni misfatto; uscendone peraltro spesso vincitori loro, i classici, ‘ché ne hanno da dire rispetto alle visioni e alle letture e ai riadattamenti, magari in salsa «contemporanea», di tanti volenterosi registi-autori o registe-autrici.

La questione beckettiana, però, è tornata fuori in occasione dell’allestimento di Aspettando Godot, ovvero la summa dell’irlandese, ad opera del maestro greco Theodoros Terzopolous, che, con i suoi straordinari interpreti, ha giocato assai liberamente con l’originale. Intanto perché ha attinto alla traduzione greca, ben diversa da quella canonica italiana (dunque traduzione della traduzione); e, come nel suo stile, ha dato di forbici di gran lena. Cosa che ha comportato una levata di scudi di parte della critica e del pubblico, indignati, entrambi, di tale e tanto ardire, sorta di lesa maestà beckettiana intenzionale e dolosa.

Altri, più comprensivi, hanno apprezzato l’esito scenico, magari cogliendo anche lo slancio di Terzopoulos di fare dell’Aspettando Godot una tragedia classica, invocando un’interpretazione attorale conseguente: non solo e non più un dramma dell’incomunicabilità degli anni Cinquanta, ma una vera tragedia eterna sul destino dell’umanità. E l’esito, almeno a mio parere, è quanto di più beckettiano abbia visto in molti anni, per tensione, suggestione e poeticità. Dunque ha fatto bene o ha fatto male il regista ad affrontar così di petto Samuel Beckett? Per far chiarezza, è bene tornare a consultare le fonti. E qui arriva in prezioso aiuto l’instancabile lavoro di Mattia Visani e della sua Cue Press, casa editrice emiliano-romagnola specializzata in teatro, cinema e arti (ho il piacere di aver pubblicato qualche cosa con questa giovane e gagliarda casa editrice).

Insomma, nel giro di pochissimo tempo, Cue ha mandato in libreria tre volumoni che raccolgono, in versione italiana, i diari di lavoro del genio dublinese. Non solo Aspettando Godot, ma anche Finale di Partita e L’ultimo nastro di Krapp (ed è in arrivo un altro libro dedicato ai Drammi brevi). Edizioni critiche dei quaderni di regia, opere di grande bellezza e nitore che svelano proprio il processo creativo beckettiano. Sono libri esaltanti, minuziosi nel ricostruire, battuta dopo battuta, il farsi vita del teatro, testimoniato dalla copia riprodotta dei quaderni originali, prontamente tradotti. C’è la grafia minimale di Beckett, i suoi schizzi, il piano luci, gli appunti, i cambiamenti.

Ecco il fatto: Beckett ovviamente non si considerava un «classico» e bellamente procedeva, stesura dopo stesura, a migliorare e adattare il proprio lavoro, lasciando poi alla regia una certa libertà. Ad aprire il volume dedicato a Godot arriva subito un chiarimento, grazie al curatore dell’edizione originale inglese, James Knowlson: «Nel teatro niente si può etichettare come definitivo. Un’opera o un ruolo sono costantemente aperti alla reinterpretazione […]. Le produzioni di Beckett delle proprie opere illustrano questo chiaramente, allo stesso modo delle produzioni dirette da qualsiasi altro regista. Pensare che Beckett credesse che lui, o chiunque altro, potesse ‘rendere fisse’ le sue opere è un luogo comune sbagliato: del resto, più volte chiarì che altre produzioni avrebbero avuto una ‘musica’ differente dalla sua, e così accettò differenti sistemazioni del palco. Nelle poche occasioni in cui mosse obiezioni a certe proposte registiche era perché pensava che fossero stati fatti cambiamenti a elementi base che avrebbero alterato radicalmente le opere» (pag. 7).

E aggiunge Luca Scarlini, ottimo curatore della versione italiana, presentando l’opera: «Samuel Beckett in tutta la sua esistenza torna continuamente ai suoi testi, li rivisita, aggiunge, toglie. […] è possibile entrare nel laboratorio di azioni verbali e gestuali di un autore capitale del secolo scorso, la cui influenza rimane capillare nelle forme più diverse del presente […]. Le produzioni di Berlino allo Schiller Theater, quelle con il San Quintino Theatre Workshop, sono altrettante tappe di una conoscenza della forma-scena, che egli mette assai fortemente in discussione» (pag. 9).

A sfogliare i libri si è quasi colti da una vertigine. Quanto è bello vedere quelle pagine vergate a mano, quegli schemi, quegli improvvisi guizzi di genio che scaturiscono da un metodico e certosino lavorio di limatura. Aspetti che emergono chiari anche in Finale di partita, con l’edizione critica a cura di Stanley E. Gontarski; e in L’ultimo nastro di Krapp, con l’edizione critica ancora di Knowlson (anche questi volumi vantano l’edizione italiana a cura di Scarlini).

Libri, dunque, ma con la peculiarità straordinaria di trascinare il lettore nella fucina, nella fabbrica di un artigiano a lavoro: non genio e sregolatezza, ma metodo e rigore cui si assiste, pagina dopo pagina, con commossa partecipazione. Nel 1952 Beckett scriveva quei suoi appunti su Aspettando Godot; meno di venti anni dopo sarà premio Nobel.

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27 Aprile 2020

Cultura non è star sopra un albero. Mejerchol’d e il teatro dell’avvenire

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27 Aprile 2020

Milano come Berlino? Una singolare comparazione. Non solo Deutsches Theater e Piccolo. Ma Stabili, Off & Co

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Sotera Fornaro è una studiosa di Letteratura greca e Letteratura comparata, all’Università di Sassari, ma con notevole esperienza all’interno di Università tedesche come Friburgo e Luneburg. Ha frequentato i teatri berlinesi, tanto da dedicare loro un volume: Berlino tra passato e futuro, edizioni Cue Press, ormai la sola casa editrice che pubblica libri di teatro […]
22 Aprile 2020

«Io, che ormai sono un miliardo di miliardi di particelle che vagano, vedo tutto e di tutto posso dar conto»: in memoria di Antonio Tarantino

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Non poteva che uscirsene così: con un colpo di teatro. Lui, non i suoi scritti: quelli rimarranno e continueranno a vivere nella voce e nei movimenti e nelle regie di chi si abbevera alla fonte della parola, atto liturgico, nemesi lisergica che solo dopo la morte trova chi la pota e se ne prende cura. Il […]
19 Aprile 2020

S. E. Gontarski interview 1988

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16 Aprile 2020

Diverse abilità, nuove vie della danza

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Navigare esplorando le innumerevoli possibilità creative del corpo danzante, senza preconcetti. È questo il motore del libro curato da Andrea Porcheddu che affronta tematiche urgenti, tra le quali il rapporto tra professionismo e disabilità, dando parola proprio agli artisti. Concepito come una pluralità di voci, l’agile volume fa propri i termini della marineria per sviluppare […]
16 Aprile 2020

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Così Puppa aggira I giganti della montagna. Un viaggio sbalorditivo nei meandri oscuri dell’opera pirandelliana

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23 Marzo 2020

Instabili e vaganti, senza fissa dimora. Ma con il mondo e la natura come palcoscenico. E con il corpo come teatro

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12 Marzo 2020

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12 Marzo 2020

Il Pilastro e la cupola di Dom: gli anni incauti di Laminarie

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Anni incauti era il titolo dell’ultima rassegna di Laminarie ed è anche quello di un libro che doveva essere presentato in questi giorni. A cura di Bruna Gambarelli, con Febo Del Zozzo anima della compagnia bolognese, ricorda i dieci anni di attività al Pilastro in modo originale. I centri sono due: L’invenzione di Dom la […]
24 Febbraio 2020

E, accanto ai templi, su pendii di rocce, tra cavea e tribune, sorsero i nuovi teatri. Perché il sacro convivesse col profano

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La nascita dei primi teatri in legno e, successivamente, di pietra, coincide con la nascita della civiltà occidentale, quando verrà sovvertita la concezione tribale del rito, per dare spazio, alla nascente societas, di convivere con apparati di intrattenimento sociale, per i quali saranno necessari le codificazioni delle leggi, delle religioni e anche dei teatri, concepiti […]
18 Febbraio 2020

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«Nella scrittura dell’io trovo un’opportunità di dirmi, la possibilità di costruire il mio racconto e di andare incontro agli altri. Non smetterò mai di ripeterlo: scrivo su di me perché sono solo e ho bisogno di incontrare gli altri. Scrivo su di me nel tentativo di capire me stesso e gli altri. Scrivo su di […]
13 Febbraio 2020

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Anni incauti: l’invenzione di Dom

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La grande avventura d’un teatro minore. Amato dai Futuristi. Tra acrobati, giocolieri e chanteuses. Ecco il Café Chantant

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A chi voglia conoscere la storia del Café Chantant in Italia, dalla sua nascita agli ultimi strascichi del secondo Novecento, consiglio di leggere il libro di Rodolfo De Angelis: Café-chantant, pubblicato da Cue Press, nella Collana «I saggi del teatro», a cura di Stefano De Matteis, a cui dobbiamo anche la pubblicazione nel 1980 di […]
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Dice Jordi: «…ho paura». Risponde Anna: «…siamo tutti spaventati». Queste battute poste a chiusura de Il principio di Archimede (2012) costituiscono il sottile filo conduttore che attraversa il Teatro del catalano Josep Maria Mirò raccolto in questo prezioso e importante volume di Cue Press. I due personaggi, rispettivamente un giovane estroverso istruttore di nuoto e […]
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Io, l’altro. Il teatro di Sergio Blanco

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Io. Soltanto la prima persona singolare, il soggetto che agisce o subisce, il cartesiano ego cogitante: solo l’io, nient’altro. Un territorio che trova il proprio confine – concreto, e ciò nonostante apparente – nel corpo, e che tuttavia sembra in costante e altalenante metamorfosi tettonica: ora in grado di accogliere e conquistare sconfinate porzioni di […]
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Prestigioso riconoscimento conferito dal Comune di Fiesole

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20 Novembre 2019

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Una volta, parlando con un’agente di teatro italiana, ho sentito da lei che non ha mai rimesso soldi sulle pubblicazioni di libri di teatro, ovvero che ci ha sempre guadagnato, cosa impossibile in Polonia. Si vendono o non si vendono i libri di teatro? Perdere dei soldi in una attività culturale è più facile che […]
10 Novembre 2019

Turbare l’anima dello spettatore davanti alla violenza, per renderlo complice e aiutarlo così a smascherare la realtà

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Realismo globale di Milo Rau, Editore Cue Press, è un libro necessario per meglio conoscere il regista, che, in questo ultimo decennio, ha fatto parlare di sé e del suo teatro d’impegno sociale, politico, anche se non proprio ideologico. Sfruttando certi eventi drammatici, diventati iconici, ha potuto portare in scena il mondo globalizzato, in particolare […]
7 Novembre 2019

Premio speciale alla Casa Editrice Cue Press

«Corriere Fiorentino»

È Giulia Caminito la vincitrice del XXVIII Premio Fiesole Narrativa Under 40. Il suo romanzo Un giorno verrà edito da Bompiani, ha conquistato la giuria presieduta da Franco Cesati e composta da Caterina Briganti, Francesco Tei, Silvia Gigli, Marcello Mancini, Gloria Manghetti, Fulvio Paloscia e Lorella Romagnoli. Gli altri finalisti erano Serena Patrignanelli con La […]