Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Paolo puppa logbook
6 Aprile 2023

Un mondo sull’orlo del disfacimento nei monologhi di Puppa

Stefano Adami, «Il Tirreno»

Paolo Puppa è professore emerito di Storia dello spettacolo all’Università Ca Foscari di Venezia e studioso di storia del teatro. Nel tempo si è aperto le strade di narratore, autore teatrale e attore. Questo libro vuole essere una sorta di sintesi di questo lungo lavoro. In queste pagine vediamo affollarsi il palpitante, disfunzionale brulicare umano: il viaggiatore di merci che tenta di vendere qualcosa, le apparentemente «buone» famiglie che finiscono per trattare con estremo cinismo i propri appartenenti, il giovane pensionato che è l’opposto della placida benevolenza. I monologhi di Puppa materializzano individui che sembrano già portare dentro di sé la fine del mondo e dell’umanità. È un’intensa prova narrativa che fa immaginare la soddisfazione che deve aver provato chi questi monologhi ha avuto la fortuna di vederli sulla scena, incarnati dall’autore stesso. Ma tutti i testi funzionano molto bene anche nella silenziosa lettura individuale.

Balazs phantom murnau
3 Aprile 2023

Balázs, il teorico del dramma moderno, del teatro operaio, delle lotte di classe, e dell’Agit Prop, ripreso da Dario Fo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Béla Balázs è uno scrittore, saggista, drammaturgo, teorico ungherese, noto in particolare per la sua collaborazione con Béla Bartok, per il quale compose il libretto d’opera Il castello del Principe Barbablu, attingendo al repertorio delle tradizioni popolari, di origine fiabesca, della sua nazione. Ebbe una vita abbastanza complessa: fu combattente dell’Armata Rossa, membro del Direttorio degli scrittori, oltre che suo dirigente, insieme a Lukács; autore di testi come Il dramma moderno, La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen e Il dramma moderno dal Naturalismo a Hofmannsthal, tradotti in Italia e sui quali molti di noi hanno studiato, negli anni Settanta. Certamente Luckács e Balázs ebbero modo di influenzarsi a vicenda. Di quest’ultimo, Cue Press ha pubblicato Scritti di teatro, con prefazione di Eugenia Casini Ropa.

Balázs distingue il dramma dalla tragedia, sostenendo che l’irrazionale non possa avere più posto nel teatro moderno, avendo rinunziato alla dimensione divina e a qualsiasi forma di assolutezza. Perché ogni conflitto, a suo avviso, appartiene alla «vita sperimentata», in particolare quello che ha afflitto la vita della borghesia, che, durante il suo tramonto a fine Ottocento, aveva smarrito sia i valori sia gli ideali assoluti. Lo stesso discorso vale per il tema della follia, trattato molto frequentemente da autori come Ibsen e Strindberg, le cui conseguenze erano frutto delle convenzioni e degli scontri sociali, oltre che di sentimenti ammalati che non avevano nulla a che fare con la tragedia. Insomma, nel dramma moderno, non si trovano più né Aiace, né Eracle, dato che i loro conflitti erano da addebitare all’intenso rapporto con la dimensione religiosa, quella degli dei per intenderci.

A dire il vero, a Balázs non interessava soltanto il significato sociale del teatro, bensì anche quello politico, che si poteva mettere in evidenza proprio attraverso la struttura scenica. Tanto che, per avvalorare la sua tesi, egli distinse la scena mistica – che ha una sua particolare visione del mondo – dalla scena sociale – sempre alla ricerca di soluzioni drammatiche attraverso l’uso della ragione – e la scena politica, che eredita da Piscator, altro compagno di strada, e arricchisce con la creazione del Teatro Operaio. Siamo negli anni Trenta, durante i quali Balázs visse anche l’esperienza della Repubblica di Weimar, dove agivano cinquecento gruppi teatrali che portavano sui palcoscenici di periferia le loro riflessioni sul mondo del lavoro e delle disuguaglianze, creando nuove forme d’arte con l’utilizzo di ballate popolari. A scapito di opere come Oplà, noi viviamo di Toller, o Tamburi nella notte di Brecht, o ancora Il professor Bernhardi di Schnitzler, che riteneva drammi di conversazione, a «tendenza» che non avevano «nessun principio», testo quest’ultimo che, al contrario, abbiamo trovato esemplare nella messinscena di Ronconi, sicuramente una delle più riuscite e applaudite.

La tipologia del Teatro Operaio evidenzia, secondo Balázs, un’ «evoluzione alla rovescia», nel senso che prima di tutto esiste il pubblico, poi viene il teatro e, infine, la letteratura, con i suoi testi scritti secondo le regole. Come dire che la storia del teatro è la storia del suo pubblico, tanto che il Teatro Operaio potrà vantare un pubblico omogeneo, non certo immersivo, come lo si intende oggi. Per questo motivo, Balázs teneva molto a distinguerlo dal dramma borghese, che andava in cerca del consenso di un pubblico non certo sofferente dal punto di vista economico, nel quale i protagonisti entravano in scena come delle vere e proprie vittime, «sull’orlo della rovina e della perdizione».

Nel Teatro Operaio si portano in scena lotte contro la disoccupazione, per salari decenti, ma soprattutto contro le ingiustizie sociali. È il teatro dell’Agit Prop, quello che verrà ripreso nel 1968 da Dario Fo e dai collettivi proletari, con tutte le teorizzazioni che ne seguiranno. Per Balázs, il teatro risulta necessario se riesce a portare in scena la realtà del presente, con le sue contraddizioni, imponendosi come strumento di trasformazione sociale, con l’intento di «cambiare il mondo», come sostiene la curatrice Eugenia Casini Ropa.

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Hirokazu koreeda what we dont understand we make into monsters
1 Aprile 2023

Kore’eda cinema della memoria

Matteo Boscarol, «Alias — Il Manifesto»

Nei più di trent’anni di carriera e specialmente nell’ultimo decennio, dopo cioè la conquista della Palma d’Oro con Un affare di famiglia nel 2018, Hirokazu Kore’eda si è affermato come una delle voci più importanti eseguite nel panorama cinematografico internazionale. Il suo ultimo lavoro, Monster, il primo tratto da un soggetto non suo, sarà con ogni probabilità presentato a Cannes, dove il regista è oramai diventato un habitué.

Non è una sorpresa quindi che la sua produzione cinematografica, che comprende in realtà anche molti lavori per la televisione e piattaforme streaming, sia oggetto di nuova attenzione, anche da parte del mondo dell’editoria italiana, attraverso l’uscita di due volumi.

Con Il cinema di Koreeda Hirokazu. Memoria, assenza, famiglie (edizioni Cue Press, Imola 2022) Claudia Bertolé rivisita e amplia la sua stessa monografia sul regista, uscita circa un decennio fa, anche in risposta all’evoluzione che, in questi ultimi anni, la filmografia del regista ha subito, arricchendosi di esperienze fatte al di fuori del Giappone, come La verità, in Francia, e Le buone stelle – Broker, in Corea del Sud, ma anche dopo il già citato successo e la conseguente visibilità ottenuta dal riconoscimento ricevuto a Cannes.

Bertolé struttura il suo volume, che è impreziosito da una prefazione di Dario Tomasi, in una prima parte formata da capitoli che affrontano alcune delle tematiche ricorrenti nella produzione del regista giapponese: stile documentario, memoria, famiglia, mondo dell’infanzia, personaggi femminili e richiami al cinema classico giapponese; e in una seconda parte, dove vengono analizzati i singoli lavori, compresi quelli seriali.

Com’è noto, Kore’eda comincia la sua esperienza dietro alla macchina da presa nel mondo del documentario televisivo, quando venticinquenne entra nella tv Man Union. Le tecniche documentarie qui sviluppate, come viene ben evidenziato dall’autrice, continueranno ad essere impiegate dal regista durante tutta la sua carriera, da After Life a Distance, da Nobody Knows a Un affare di famiglia.

La memoria è uno dei grandi temi che caratterizza gran parte della produzione di Kore’eda. Come scrive Bertolé: «[Si tratta di] memoria, intesa sia come identità, come ciò che definisce chi siamo e il nostro percorso nella vita, sia come strumento di confronto con il passato e allo stesso tempo supporto per affrontare il dolore dovuto alla perdita di coloro che amiamo».

È questa una tematica che era già presente negli inizi documentaristici del regista. Si pensi ad esempio a Without Memory del 1996; ma, come fa notare l’autrice, la tematica deriva anche all’esperienza personale di Kore’eda, che da bambino ha assistito alla perdita di memoria del nonno, affetto dal morbo di Alzheimer.

L’altro grande tema che innerva la filmografia di Kore’eda è quello della famiglia. In molti dei suoi lavori assistiamo infatti allo sfaldarsi e al ricomporsi del gruppo familiare, tenendo presente che, come fa notare Bertolé, «Le famiglie di Kore’eda sono spesso nuclei allargati ovvero strutture che possono crollare e ricomporsi in altre forme». In lavori quali I Wish, Father and Son, Little Sister, Un affare di famiglia e Nobody Knows «La famiglia è una questione di scelte, è una comunità che si autodetermina, in un contesto sociale vissuto ai margini e del quale si percepisce il disinteresse, di certo non l’inclusione».

In Pensieri dal set (a cura di Francesco Vitucci, Cue Press, Imola 2022), traduzione di un volume originariamente pubblicato la prima volta in Giappone nel 2016, Kore’eda raccoglie invece quasi in forma diaristica le osservazioni e le riflessioni riguardo le varie fasi della sua carriera, dall’esordio nel mondo della televisione al successo internazionale degli ultimi decenni.

È un volume illuminante per varie ragioni, ma soprattutto in quanto offre uno sguardo su tutto ciò che circonda la produzione dei suoi film e su come si sia sviluppata l’avventura della sua carriera cinematografica.

Dalle parole del regista, infatti, si evince come il singolo film sia il prodotto finale, o talvolta la traccia, di un processo e di una trama più vasta e complessa, che comprende partecipazioni a festival internazionali, i rapporti con le case di produzione, i fattori e le contingenze economiche, il dialogo con gli spettatori e le influenze artistiche inaspettate. Per quel che riguarda questo ultimo punto, alcune delle pagine più belle del volume sono quelle in cui il regista rivela l’importanza della televisione per la sua crescita, fin da quando, ragazzino, ogni settimana rimaneva incollato davanti al piccolo schermo a guardare i vari programmi, fra cui specialmente Ultraman e, più tardi i lavori di Shoichiro Sasaki. Kore’eda rimane folgorato dai lavori per la televisione di Sasaki, telefilm o film che ibridavano spesso fiction con elementi del documentario e che usavano attori non professionisti nei ruoli principali. Kore’eda ha tratto evidente ispirazione da Sasaki, un autore praticamente sconosciuto in Occidente, ma la cui produzione è tanto eclettica quanto affascinante, a partire dal capolavoro del 1974 Yume no shima shojo (Dream Island Girl).

Altra figura fondamentale per la carriera di Kore’eda è stato il suo collaboratore e produttore televisivo Yoshihiko Murala che Kore’eda definisce «il mio padre spirituale» e «la persona che mi ha permesso di trasformare la mia passione per la televisione in un lavoro».

Non mancano poi, nel volume, accenni alla situazione cinematografica e politica del suo paese. «Nelle aree rurali del paese non sono rimaste che le multisale, e i cinema di piccole dimensioni che proiettavano film dall’alto valore contenutistico sono pressoché scomparsi».

Questa sua preoccupazione per il destino dell’offerta cinematografica del Giappone va di pari passo con il suo impegno per cambiare l’industria del settore, negli ultimissimi anni martoriata dalla pandemia e da un sistemico emergere di scandali sessuali e di abusi di potere. «La sensazione è che bisogna agire con urgenza se non si intende disperdere la ricchezza e la varietà della cultura cinematografica che abbiamo ereditato dal passato».

Orsini
1 Aprile 2023

Umberto Orsini, Le memorie di Ivan Karamazov

Antonio Tedesco, «Proscenio»

Può un attore trovare se stesso, la propria storia artistica, e forse umana, in un personaggio che lo ha particolarmente segnato? E nel quale gli pare di specchiarsi, provando al tempo stesso attrazione e repulsione? Un personaggio che si trasforma in un universo da esplorare e del quale non si riesce mai a vedere la fine.

La prima volta che Umberto Orsini incontra Ivan Karamazov è nel 1969. Interpreta il secondo dei tre fratelli (più uno illegittimo) nello sceneggiato realizzato dalla RAI con la regia di Sandro Bolchi e la riduzione di Diego Fabbri, tratto dal grande romanzo di Fёdor Dostoevskij.

Un incontro folgorante per l’attore. Un personaggio che racchiude un mondo e sul quale ha sentito più volte il bisogno di tornare nel corso della sua lunga carriera artistica. Fino a regalargli una sua completa autonomia. La dignità di una (in)compiutezza che neanche lo stesso Dostoevskij gli aveva concesso. Così, dopo varie rielaborazioni avvenute nel tempo, Orsini ha fatto di Ivan una sorta di sintesi e di corollario della propria stessa vicenda umana e teatrale. E insieme a Luca Micheletti ha elaborato questo testo intitolato Le memorie di Ivan Karamazov, un copione teatrale con forti risonanze letterarie, andato in scena lo scorso autunno al Piccolo di Milano, e che ora l’editore Cue Press pubblica (pagg. 63, € 16,99) con una nota dello stesso Orsini e un saggio sull’incontro tra queste due figure (attore e personaggio) di Luca Micheletti, che oltre ad essere coautore del testo è regista della messa in scena. In più un ricco corredo fotografico, che comprende foto di scena, bozzetti di scenografia, foto d’epoca che rimandano all’ambiente umano e sociale in cui la vicenda dei Fratelli Karamazov e Dostoevskij stesso sono maturati.

Nel testo-spettacolo Ivan-Orsini rivive la sua storia in una dimensione metafisica, dove le macerie di un antico tribunale coincidono con quelle della memoria di una coscienza erosa dal dubbio e dal rimorso. Conscio di una colpevolezza morale che nessun giudice potrà mai riconoscergli, ma per la quale egli anela la giusta condanna. La sua necessità di espiare resta insoddisfatta e si trasforma in profonda frustrazione. Come se il suo ruolo gli fosse negato, la sua personalità rimanesse incompiuta. Sospesa, indefinita, privata della sua legittima e sacrosanta condanna. Sulla scena Orsini-Ivan dialoga con il se stesso dello sceneggiato del 1969.

Oltre lo spazio e il tempo, per rendere ancor più lancinante questa mancanza. E arriva ad un terzo livello di identificazione, quello con Il grande inquisitore, protagonista dell’incompiuto poema che nel romanzo Ivan racconta una sera a suo fratello Aljoscia e nel quale i temi della fede e della libertà individuale si rivestono di nuove, per certi versi inedite, risonanze. Le memorie di Ivan si identificano, in definitiva, con quelle di Orsini. E rimandano, forse, a quelle di Dostoevskij stesso, che lo scrittore aveva opportunamente celato nel testo.

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August strindberg (1)
31 Marzo 2023

Un romanzo di santi e buffoni. Intervista a Franco Perrelli

Ludovico Cantisani, «Mimesis-Scenari»

Franco Perrelli, professore ordinario, ha insegnato Discipline dello Spettacolo nelle Università di Torino e di Bari. Ha vinto il Premio Pirandello 2009 per la saggistica teatrale ed è stato insignito dello Strindbergspris della Società Strindberg di Stoccolma nel 2014. Fra le sue recenti pubblicazioni si segnalano: Le origini del teatro moderno (2016), Poetiche e teorie del teatro (2018), On Ibsen and Strindberg. The Reversed Telescope (2019), Kaj Munk e i suoi doppi (2020). Ha inoltre curato il volume delle Lettere di Strindberg per Cue Press. Negli ultimi tre anni, Perrelli ha tradotto e curato le edizioni italiane dei romanzi della Trilogia della solitudine di Strindberg, tutti e tre pubblicati dall’editore Carbonio: Solo, La festa del coronamento e Il capro espiatorio, che rimase l’ultimo romanzo di Strindberg.

Come è nato il suo interesse per August Strindberg? Adesso, dopo i suoi lunghi studi sul drammaturgo svedese, quale pensa che sia il ruolo che Strindberg ha giocato nell’evoluzione del teatro e della letteratura occidentale tra Ottocento e Novecento?

L’interesse è nato quand’ero studente. Mi capitò fra le mani, casualmente, in una libreria una vecchia traduzione del dramma Un sogno e restai affascinato dalla forma e dalla filosofia, insieme pessimista, ma quotidiana, straordinariamente umana, immediata. Uno Schopenhauer alla portata dell’esperienza di ognuno, potrei dire; il dolore che si stende sul mondo («Che pena gli uomini!»), l’inevitabilità del male, il mistero di questo squilibrato assetto del mondo, la domanda posta a un Dio insondabile. In seguito, in un’altra libreria, a Edimburgo, dove stavo studiando inglese, m’imbattei in una versione del suo ultimo dramma, il suo testamento spirituale, La grande strada maestra. Rimasi folgorato dall’intensità del monologo finale. Non era tradotto in italiano e decisi di studiare lo svedese e farlo io. Ero già laureato, ma – oltre a studiare privatamente – potei seguire i corsi di un grande germanista, e anche scandinavista, Aloisio Rendi. In seguito, sarei andato ad approfondire la lingua svedese a Lund e a Stoccolma, dove fui subito aiutato dalla Società Strindberg. Insomma, nel 1980 uscì il mio primo Strindberg per i tipi del Formichiere, una casa editrice aperta alle novità, diretta da Stefano Jacini, che era molto interessato a questo autore. Gli anni Ottanta furono del resto, in Italia, anni di un’intensa e straordinaria riscoperta, in editoria e sulle scene, di Strindberg, che si capiva essere chiave nella cultura moderna, ma più che mai attraente in un periodo in cui, dopo il Sessantotto, ci si confrontava ancora con le avanguardie, si aveva il gusto del rinnovamento dei repertori e della riscoperta, anche dell’utopia. Noterò incidentalmente che, non a caso, lo Strindberg di quegli anni è spesso più colorato di socialismo di quanto non fosse opportuno. Comunque la centralità di Strindberg nella cultura occidentale, in assoluto e in poche parole, tra gli altri, l’hanno certificata Kafka («Non lo leggo per leggerlo, ma per stringermi al suo petto») e O’Neill (è «il più moderno dei moderni»).

Da dove nasce la definizione di «Trilogia della solitudine»?

Potrei cavarmela asserendo: nei fatti, vale a dire nei testi. Strindberg lavora in questi romanzi direttamente sul tema della solitudine, che però percorre in fondo gran parte della sua opera: «Sono solo, naufrago, un relitto, gettato su uno scoglio nell’oceano, ci sono attimi in cui mi afferra la vertigine di fronte all’azzurro nulla» (August Strindberg, Leggende).

La definizione di «trilogia della solitudine», in verità, mi è apparsa quasi palpabile durante il periodo dell’isolamento del Covid, quando la maggior parte del lavoro è stato portato avanti. Ognuno, nella propria solitudine, sentiva di dover alleviare in qualche modo quella degli altri. E quale contributo migliore se non offrire opere dove il tema viene approfondito e illuminato comunque da una luce di coraggio? Le edizioni Carbonio – raffinatissime e sensibilissime – hanno subito accompagnato la mia idea di ripubblicare tre romanzi che, a suo tempo, avevo tradotto per un editore che non esiste più. All’epoca, peraltro, i testi avevano subito delle trasformazioni redazionali (sin dal titolo); nel frattempo in Svezia era uscita l’edizione critica, c’erano modifiche da apportare e sempre qualcosa da correggere e migliorare alla luce dell’esperienza. Insomma, un’ottima occasione per un rifacimento consapevole.

Secondo lei, a cosa si deve il fatto che, pur appartenendo alla fase di piena maturità del suo percorso autoriale, questi tre, ultimi romanzi di Strindberg sono meno noti di altri drammi dello stesso periodo?

È un problema che risale addirittura all’epoca di pubblicazione, soprattutto dei due ultimi romanzi del 1906: la critica non li notò particolarmente. Diversi decenni dopo, in pieno Novecento, sono stati reputati quanto di meglio abbia scritto Strindberg e, in assoluto, fra la prosa più notevole della letteratura nordica. Credo che, ai suoi tempi, da Strindberg ci si aspettasse sempre un approccio polemico alla realtà, alla vita, massime nei confronti del sesso e delle donne, ma anche in campo religioso. Solo, La festa del coronamento e Il capro espiatorio hanno un tono più morbido, una considerazione particolarmente sensibile dell’esistenza, un bisogno di consolare e autoconsolarsi. Certo, in filigrana, affiorano il pessimismo e lo gnosticismo strindberghiano, ma bilanciati da una sorta di coraggio di vivere, di fluttuante speranza, di attesa di un esito inusitato e di una qualche risposta al dolore umano.

Nella sua prefazione a Il capro espiatorio lei accenna all’influenza della «formula del romanzo di Balzac», sia pure filtrata in una chiave personale, in un tentativo di «creare una comèdie humaine svedese». L’attenzione al «metodo di Balzac» venne rivendicata dallo stesso Strindberg nel suo epistolario. Quali erano gli altri antecedenti dello Strindberg romanziere?

Fin dal 1879, con la pubblicazione del grande romanzo d’esordio, La Sala rossa, Strindberg fu inteso come un autore sperimentale, «di rottura», e paragonato con quanto di estremo e anche scandaloso si concepisse al tempo, vale a dire: Zola. Credo tuttavia che, oltre a Balzac, soprattutto Dickens abbia lasciato una forte impronta su Strindberg, insieme a Goethe, Hugo e anche Dostoevskij. Nei due ultimi romanzi, poi, si avverte un’atmosfera riscontrabile nella narrativa romantica tedesca.

Al termine della sua prefazione a Il capro espiatorio lei scrive che l’immaginario di Strindberg è attraversato «da quella fine misura d’ironia che muta un cupo piagnisteo in un’onesta testimonianza sull’essere uomini», parole che in una certa misura si potrebbero applicare anche all’esistenzialismo letterario, movimento emerso tre decenni dopo la morte di Strindberg. Dal suo punto di vista, quali sono state le maggiori eredità di Strindberg sugli autori classici del romanzo novecentesco?

Strindberg non solo ha condizionato effettivamente l’esistenzialismo moderno, essendo stato a sua volta suggestionato da Kierkegaard, ma questo influsso è stato anche chiaramente riconosciuto da romanzieri-pensatori di questa corrente. Infatti, Albert Camus l’ha definito «il guardiano e il testimone della rivolta dell’individuo», che «ci aiuta a ricordare e a sostenere quella follia della creazione ch’è l’onore dell’essere umano». A Kafka ho già accennato.

A livello di prosa, quali sono state le maggiori difficoltà nel tradurre i tre romanzi di Strindberg? Il suo svedese quali specificità ha?

L’opera strindberghiana si segnala per una varietà di fasi e di registri, è immersa in atmosfere che spaziano dal romanticismo, al naturalismo, al simbolismo. Ma questi «-ismi», con Strindberg, vanno considerati in termini meramente convenzionali: Strindberg è Strindberg, e le faccio un esempio. Lo si considera storicamente, e in un certo senso giustamente, alle origini dell’espressionismo, ma il suo espressionismo è in fondo il misticismo barocco di Swedenborg, filtrato e rivissuto dalla sua ipersensibilità. Ciò premesso, la lingua di Strindberg presenta forti scompensi e scarti: da un livello decisamente poetico all’innesto di termini connessi alle scienze, alla tecnologia, alla chimica, che talora originano neologismi. Il traduttore, da un lato, deve centrare bene la fase biografica e storico-letteraria in cui l’opera cui si dedica va a collocarsi, ma, da un altro, essere poi pronto all’imprevisto e attento soprattutto al ritmo della frase. Strindberg, infatti, è uno scrittore eminentemente ritmico; più ritmico che logico. Anche ai suoi attori chiedeva soprattutto il senso del ritmo.

Strindberg si autodefiniva «uno scrittore religioso» e ha spesso costellato i suoi drammi e i suoi testi di citazioni e riferimenti biblici. Il capro espiatorio si rifà all’Antico Testamento sin dal titolo, e non sembra accennare a particolari possibilità di redenzione, a differenza di come l’incarnazione narrata dei Vangeli ha rimodulato il tradizionale archetipo dell’agnello sacrificale. Quali riferimenti biblici ha colto nell’ultimo romanzo di Strindberg, e come li ha resi in traduzione? Il passaggio da un orizzonte concettuale «protestante», incarnato nello svedese, a uno «cattolico», qual è quello italiano, ha comportato qualche complessità di traduzione?

La definizione di scrittore religioso deriva in Strindberg direttamente da Kierkegaard e si lega a un’idea severa del rapporto con Dio, rispetto al quale «si ha sempre torto», che rimanda a sua volta alle radici pietistiche dell’infanzia dell’autore svedese. Essere uno «scrittore religioso», per Strindberg, tuttavia, non significa mai essere un autore pio o edificante, bensì incarnare una figura d’indagatore antagonista che chiede a Dio ragione dell’inesplicabile della vita. Non solo nei romanzi della «trilogia della solitudine», ma in tutta l’opera strindberghiana i modelli eroici sono tratti dalle figure bibliche di Giacobbe che lotta con Dio e di Giobbe che interroga sul senso dell’esistenza e del dolore. Il sacrificio di Cristo resta un mistero affascinante e quasi inafferrabile: in fondo (e si legga proprio Il capro espiatorio), il suo esempio è metafora della condizione umana, la sua incarnazione per antonomasia è al livello di tutti gli esseri umani, come la sua offerta di redenzione – ma perché mai c’è stata e perché l’umanità non l’ha riconosciuta fino alla crocifissione e dopo? A tratti, in Strindberg, questo intenso dissidio metafisico ed esistenziale si muta almeno in una speranza di chiarimento nell’aldilà, occasionalmente, in una rassegnata sottomissione, non di rado nel dubbio gnostico sull’esistenza di un nume malvagio. Insomma: un quadro inquieto e fortemente contrastato; una religione come interrogazione vertiginosa e aperta, mai come pacificata pratica devota. Un grande regista nostro contemporaneo, il polacco Jerzy Grotowski, sosteneva che gli dèi in fondo amano proprio coloro che praticano nei loro confronti la blasfemia, perché sono gli uomini che del divino si ricordano con più insistenza e passione. Insomma, la religione è tutto meno che materia tiepida, e anche Strindberg ce lo ricorda. Il traduttore deve tenere presenti queste inquietudini e questi squilibri, immergersi nella dinamica interiore del conflitto che, in uno scrittore, si fa ovviamente lingua. Cattolici? Protestanti? È l’umanità che ha inventato la teologia, Dio si è dedicato e si dedica a tutt’altro. Anche questo c’insegna Strindberg: il divino resta misterioso, attingibile forse solo nell’abbandono di un salto acrobatico. Per questo, i personaggi strindberghiani risultano spesso clowneschi.

Tra le sue precedenti pubblicazioni legate a Strindberg c’è anche la curatela del suo epistolario edito da Cue Press. Tra gli scrittori dell’Ottocento, Strindberg è stato uno dei più espliciti e franchi nel parlare della propria vita interiore, anche nei suoi aspetti maggiormente morbosi e patologici. Le tre vicende raccontate nella «trilogia della solitudine» fino a che punto riflettono esperienze e sensazioni vissute personalmente e biograficamente dallo scrittore svedese?

Strindberg ha teorizzato esplicitamente che l’autobiografia è la prima materia di una letteratura che voglia andare a fondo del cuore umano e, proprio in un passo dell’epistolario (che è, tra l’altro, uno straordinario documento personale e storico), si paragona per questo a una «cavia». Ciò, sin dal principio, ha orientato la critica (penso alla prestigiosa monografia di Martin Lamm) verso una forte identificazione fra vita e opera. In gioventù, ero più vicino alle correnti critiche d’avanguardia che miravano a smontare questo approccio, che, in effetti, può essere riduttivo sul piano estetico per un’opera letteraria. Con gli anni, però, il diavolo si fa frate (mi pare fosse un motto di Hegel), e pur non schiacciandomi mai sulla mera equivalenza opera-vita, non trascuro di evidenziare il nesso autobiografico. Mi pare più corretto: se uno scrittore si costruisce così, perché smontargli del tutto il giocattolo? In ogni caso, è una costruzione che va descritta. Il lavoro di critico, di storico della letteratura, a ben vedere, è il più simile a quello dell’attore: bisogna entrare nella pelle dell’orso (come dicevano in gergo i comici di un tempo) per penetrare il più possibile in personaggi, epoche e atmosfere, spesso remotissime. Ci si riesce? Gli attori (anche se non tutti lo ammettono) sanno bene che la cosa è possibile solo fino a un certo punto, e nessun critico sosterebbe il contrario, ma lo sforzo d’immersione va fatto (ed è pure l’aspetto più affascinante e gratificante del mestiere), anche se non si riesce mai a perdere la propria contemporaneità. Con Strindberg, quindi, cerco di vestirmi con la sua pelle, di ragionare nelle sue categorie e in quelle del suo tempo. Poi so bene che l’arte – autobiografica o meno che sia – è strutture, simboli, idee e lingua, e soprattutto con questo, fuori dalla semplice aneddotica, debbo confrontarmi. Alla fine, cerco di adottare un metodo che potrei definire comprensivo e analitico-comparativo insieme. Vengo da studi filosofici e do molta importanza alle idee dell’autore e del suo tempo; credo che sia necessario (anzi ovvio) essere rigorosi, ma anche che scienza, per la critica, significhi ben altro rispetto a ciò che il termine può evocare in campi differenti e più consoni, e non mi fa orrore, col giusto distacco, l’invito crociano al giudizio personale. È un’ipocrisia della critica scientifica credere che non vada espresso o non lo si esprima mai.

In passato lei ha tradotto Strindberg anche direttamente per il teatro, per una messa in scena di Gabriele Lavia; più di recente è apparso, in un volume collettivo dell’Istituto degli Studi Germanici, il suo testo Appunti di un traduttore di teatro. Per la sua esperienza, quanto cambia il mestiere del traduttore dalla carta alla scena? E quando traduce per il teatro, in che misura instaura un dialogo, oltre che con il testo di partenza, anche con l’attore che fisicamente dovrà recitare le battute?

Ho una discreta esperienza di traduttore per il teatro (un ambiente, tra l’altro, che ho avuto modo di conoscere bene e che confesso di amare per la sua serietà e per le sue debolezze). Anche in questo caso, ammetto di avere avuto un’evoluzione: nelle mie prime versioni, in assoluto, cercavo di perseguire il più impervio degli ideali umani, la fedeltà. Che cosa sia in una traduzione potremmo discuterne per decenni, ma diciamo che, per me, significava una stretta aderenza di termini, ricorrenza di didascalie, al limite anche una certa rigidità formale. Oggi non rinnego nulla di tutto ciò, ma – proprio lavorando recentemente su Ibsen per un Meridiano Mondadori che sto curando – mi ha colpito il richiamo di questo drammaturgo all’assoluta necessità che un testo riviva in un’altra lingua nelle categorie e nella sensibilità per l’appunto della lingua nella quale viene riportato. Svedese, norvegese, danese (le lingue da cui di norma traduco io) sono diversissime strutturalmente dall’italiano, non sono di ascendenza latina, ma oggi tendo ad assecondare più le ragioni del mio idioma che la logica stringente di quello scandinavo. In questo caso, so che esistono biblioteche di filosofia della traduzione e ponderosi trattati scientifici nel merito; li ho pure letti. Poi però, nel lavoro, vince la vita, l’esperienza, il gusto della letteratura, e tradurre (come anche il lavoro critico) resta un’operazione di alto artigianato, con imponderabili margini soggettivi. Ho mai tradotto pensando agli attori? Non so: in genere, tendo a vivere il dialogo drammatico dentro di me. Di norma i registi e gli attori mi chiedono traduzioni «moderne»; io credo di assecondare, ma tanto so che in scena cambierà tutto o quasi. Il teatro sulla pagina e quello vissuto sono intraducibili a vicenda; a un certo punto, lo fa intendere persino Hegel nelle sue lezioni di estetica.

Dopo il completamento della «trilogia della solitudine», ci sono altri scritti di Strindberg inediti in italiano che spera di portare a traduzione?

Sì. Mi piacerebbe affrontare I libri blu, l’immenso zibaldone, dedicato a Swedenborg, della vecchiaia di Strindberg. E magari lasciare un’edizione aggiornata della sua drammaturgia più importante, come in questo momento sto facendo con Ibsen. Ahimè, è però noto il motto: «ars longa, vita brevis»… e, a una certa età, si sbircia più di frequente la clessidra sullo scrittorio.

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30 Marzo 2023

Il Romanzo teatrale di Bulgakov e Elogio del disordine di Louis Jouvet editi da Cue Press

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Due pubblicazioni di Cue Press: Romanzo teatrale di Bulgakov, nel quale il romanziere traccia in modo ironico il profilo di Konstantin Stanislavskij, e Elogio del disordine di Louis Jouvet, con le sue considerazioni sull’arte dell’attore e sul teatro.

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19 Marzo 2023

Potere mediceo e teatro negli studi di Zorzi

Luca Scarlini, «Corriere Fiorentino»

Ludovico Zorzi (1928-1983) dalla natìa Venezia giunse a Firenze negli anni Settanta, dopo una lunga esperienza nelle attività culturali Olivetti, avendo svolto compiti come recensore e introducendo numerosi volumi della prestigiosa collezione di teatro Einaudi, da La Veniexiana, a Ruzante, a Goldoni. Fondatore in Italia della storia dello spettacolo, insieme a Cesare Molinari ed altri studiosi, realizzò mostre importanti in città insieme ad altri: Il luogo teatrale (1975) e La scena del principe (1981), nel quadro del complesso progetto di mostre di quell’anno. Il suo libro maggiore, Il teatro e la città uscì nel 1977 da Einaudi e ora lo ripropone Cue Press. La parte fiorentina di questo volume, complesso e affascinante, (gli altri capitoli sono dedicati a Ferrara e a Venezia) ricostruisce magistralmente la relazione tra il teatro e il potere mediceo. Simbolico è l’occhio che dal corridoio vasariano dà su Borgo San Jacopo, presenza tangibile dello sguardo del principe sulla città, per cui si apriva improvviso un palco all’interno di Santa Felicita. Non meno complesso era il legame tra il Teatro degli Uffizi, di cui non rimane traccia nell’organizzazione del museo, più ufficiale, e dello spazio dei comici dell’arte, dal nome esplicito: di Baldracca, legato al clamoroso andirivieni del porto fluviale, dove i Medici assistevano dietro gelosie a spettacoli salaci di donne discinte e attori intenti a lazzi di ogni tipo. Zorzi ha fondato un percorso di studio complesso, che ha esercitato larga influenza sulle generazioni successive.

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18 Marzo 2023

Stanley Gontarski, Tennessee Williams

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

Mancava in Italia un saggio monografico dedicato a Tennessee Williams, fondamentale autore noto per commedie accompagnate da allestimenti importanti come Lo zoo di vetro, Un tram che si chiama desiderio, Improvvisamente l’estate scorsa e La rosa tatuata. Colma la lacuna Cue Press, con la pubblicazione di un volume molto interessante a appassionante, Tennessee Williams. Modernismo in t-shirt e rinnovamenti del teatro, compilato da Stanley E. Gontarski, apprezzato scrittore, drammaturgo, direttore teatrale e regista.

L’obiettivo della ricerca è dichiarato con esplicita chiarezza: «Estende[re] la rivalutazione di Tennessee Williams per contrastare l’opinione diffusa secondo cui il suo lavoro sarebbe caduto in un precipitoso declino negli anni Sessanta, quando il naturalismo cui era associato, non sempre per scelta sua, fu sostituito da innovazioni e sperimentazioni più europee, meta-teatrali, e quando la cultura vide una ricalibratura dinamica del desiderio sessuale e dei suoi costumi».

A guidare le interpretazioni testuali secondo i codici linguistici del teatro e a spareggiare le sorti storiche del repertorio dello scrittore americano interviene la contestualizzazione socio-culturale della ricezione di personaggi disegnati senza filtri e finzioni, immortalati nelle loro pulsioni erotiche e passioni, nelle paure e i desideri, con i loro incubi e i loro limiti anche fisici (Laura dello Zoo di vetro è zoppa). Soprattutto si proiettano nel perimetro di sé stessi prima di relazionarsi alla realtà, insidiosa e complicata.

Perciò i temi trattati, che spesso hanno attivato la censura, risultano trattati in modo autentico e con feroce realismo: l’alcolismo, il sesso e l’omosessualità, la perversione e i disagi mentali non sono accessori letterari descrittivi, assurgono invece a filtri narrativi attraverso un linguaggio privo di mediazioni, vitale, violento e palpitante, che si sostanzia in una vetrina di personaggi genuinamente perdenti, solitari e controversi, senza presente e senza futuro ma sostenuti da autentica vitalità.

Nel momento in cui queste figure diventarono soggetti cinematografici o teatrali, provocarono scalpore, lasciarono un segno indelebile nel perbenismo e nella morale dominante. È il caso dello scandalo prodotto da Marlon Brando nel 1947, quando interpretò la parte di Stanley Kowalsky in Un tram chiamato desiderio, indossando una maglietta a maniche corte aderente e sudata e recitando anche a torso nudo. Si rovesciava l’idea di esibizione del corpo, di norma scenica, declinata al femminile, e si affermava la mascolinità come espressione di erotismo e di oggetto di desiderio. Si infrangeva un tabù e si dimostravano le potenzialità del teatro e del cinema di procedere in quella direzione e a questo, nell’ombra silenziosa della lezione di Williams, lo spettacolo degli anni Sessanta e Settanta aggiunse la contestazione.

In parallelo inizia la seconda fase creativa del drammaturgo americano. Al realismo subentra un percorso sperimentale (The two-character play, Clothes for a summer hotel) che lo avvicina a Beckett, come pare alludere e indicare il titolo di una commedia dell’epoca, Slapstick tragedy.

Forse condizionata dall’immagine dell’uomo Williams – dichiaratamente omosessuale e vittima di frequenti crisi depressive sedate con abuso di alcol e barbiturici – oppure perché autore di una pungente rappresentazione della società (americana), il suo declino è rapido e inesorabile, mentre in Europa una maggiore considerazione è riscontrabile a partire dagli anni Ottanta, dopo la sua morte nel 1983 a New York.

È l’esatto contrario dell’andamento americano. In merito, Gontarski analizza anche i contributi italiani, ricordando le regie di Elio De Capitani e Antonio Latella.

Da questa biografia di agile nella lettura, impreziosita da un accurato apparato iconografico e da una ricca e aggiornata bibliografia, emerge il profilo a tutto tondo di un grande drammaturgo, inquieto e geniale, che seppe stravolgere il linguaggio teatrale del secondo Novecento, al quale molti percorsi di avanguardia e di ricerca gli sono consapevolmente o inconsciamente debitori.

Sotto forma di postilla, piace, infine, ricordare la messinscena pionieristica dello Zoo di vetro da parte di Fantasio Piccoli, fondatore e direttore del Teatro Stabile di Bolzano, nella stagione 1959-1960, con la partecipazione di Armida Gavazzeni, Giaco Giachetti, Lucia Romanoni e Alberto Terrani.

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Luigi stefano
6 Marzo 2023

Anche Stefano, primogenito di Luigi Pirandello, fu drammaturgo e pittore

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Figlio primogenito di Luigi, Stefano Pirandello (1895-1972), visse gran parte del suo tempo all’ombra del padre; non solo perché affascinato dal teatro, ma perché si sentì «necessario» al proprio genitore, per l’enorme mole di lavoro che svolgeva dopo i successi internazionali delle sue commedie.

Stefano fu l’ideatore, insieme a Orio Vergani, del Teatro D’Arte, che rimase aperto, pur tra tante difficoltà, per ben tre anni, dal 1925 al 1928, con una sua Compagnia. Dietro la miriade di impegni c’era anche quello per la madre, Maria Antonietta Portolano, (1871-1959) che, per disturbi psichici, era stata ricoverata nel 1919 presso Villa Giuseppina, dove rimarrà fino alla morte. La vita di Stefano, pertanto, fu contrassegnata da due «doveri», benché quello nei confronti del padre lo impegnasse intellettualmente.

L’amore per il teatro si trasformò, per Stefano, in amore per la scrittura, tanto che scrisse ben 17 testi che Sarah Zappulla Muscarà pubblicò, nel 2004, con Bompiani, in un cofanetto di tre volumi. Instancabile ricercatrice, Sara, insieme al marito Enzo e grazie all’Istituto di Storia del Teatro Siciliano, è diventata una divulgatrice delle opere di tanti autori siciliani che, senza di lei, sarebbero stati dimenticati.

A cura sua e di Enzo è stato pubblicato di Stefano Pirandello Un padre ci vuole in due edizioni e in due volumi separati, editi da Cue Press; il primo in italiano, il secondo in inglese, col titolo All you need is a father, con traduzioni di Enza De Francisci e Susan Bassnett, a cui dobbiamo anche le Note.

Sempre grazie all’interessamento di Sarah Zappulla Muscarà, Un padre ci vuole è stato tradotto in francese, greco, serbo, spagnolo, arabo, in attesa delle traduzioni in ceco e austriaco. C’è da dire, però, che, non sempre all’interesse scientifico corrisponda un interesse di rappresentazione. Anzi, a questo proposito, il testo che ebbe una messinscena nel gennaio del 1936, con la Compagnia Tofano-Maltagliati-Cervi e la partecipazione di Giuseppe Porelli, fu più volte rimaneggiato, fino all’edizione del 1960, che è quella pubblicata. Alla prima, al Teatro Alfieri di Torino, fu presente Luigi Pirandello.

C’è ancora da dire che nel 1953 capitò a Stefano l’occasione che lo avrebbe potuto imporre come autore teatrale, grazie alla messinscena al Piccolo Teatro di Sacrilegio umano, con la regia di Giorgio Strehler, che fu un vero insuccesso, forse anche per la poca cura del grande regista.

Un padre ci vuole risente molto della dedizione di Stefano nei confronti del padre, ma, a dire il vero, mostra una sua autonomia e ben si inserisce in quella drammaturgia che sceglie come protagonista la figura paterna, soprattutto nel secondo Ottocento, sia nella letteratura nordica sia in quella russa. Basterebbe ricordare Il padre o La signorina Giulia di Strindberg, con i famosi stivali del padre tenuti a lucido dal servo Jan, o ancora Hedda Gabler di Ibsen, con le due pistole donategli dal padre come segno di potere, che lei utilizza in maniera irrazionale. Il padre si presenta come una figura complessa nella drammaturgia di fine secolo; da lui dipendono l’educazione e i fabbisogni familiari, e non sempre lo si trova adatto, anche perché in molti casi ha pensato solo a se stesso.

Vorrei ricordare, inoltre, che anche il teatro russo ci ha lasciati dei drammi ben orchestrati su questo argomento, vedi Padri e figli o Pane altrui di Turgenev, o la figura del padre nei Fratelli Karamazov. E infine, come dimenticare la figura complessa del Padre nei Sei personaggi.

Stefano Pirandello ha una sua visione della figura paterna. Il suo protagonista, Oreste, intende essere il tutore del padre sessantenne e vorrebbe interessarsi a lui con ogni mezzo, anche perché, in occasione della tragedia che colpì la famiglia – dovuta a un incidente che causò la morte della madre e dei fratelli, travolti a causa di un passaggio a livello forse incustodito – il padre aveva deciso di suicidarsi e lui era riuscito a salvarlo. La commedia è costruita sul tema del rimorso e delle ferite dell’anima che coinvolgono gli esseri umani, tanto che c’è bisogno della comprensione dell’altro per poterle emarginare. Oreste, a suo modo, vive drammaticamente il bisogno del padre di aggrapparsi alla vita; magari grazie a un nuovo matrimonio, con una donna molto più giovane. Solo che prevede altre crisi paterne e fa di tutto per essere la sua ombra, così come Stefano aveva fatto di tutto per essere l’ombra del padre Luigi.

9 Maggio 2020

Moro a teatro

Ludovico Cantisani, «minima&moralia»

Martire. Eroe. Vittima. Devoto. Corpo. Cadavere. Voce. Servo dello Stato. Statista. A partire dal momento della sua violenta morte – se non da prima – la figura di Aldo Moro è stata scomposta e reinterpretata in molte e diverse declinazioni; la maggior parte di esse rispettava quel carico di compassione e indulgenza che, per tacito […]
3 Maggio 2020

Indagine sul Verga ‘fiorentino’ quando Verga s...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Quando, nel 1972, uscì il saggio di Siro Ferrone Il teatro di Verga, oggi riproposto dalle Edizioni Cue Press, la bilbiografia verghiana vantava i nomi di Sapegno, Momigliano, Flora, Russo, tutti attenti a esplorare le Opere narrative. L’operazione di Ferrone si rivelò innovativa, non solo perché Il teatro di Verga divenne oggetto di una monografia, […]
1 Maggio 2020

Il teatro di Claudio Morganti

«Persone — Radio India»

Nella rubrica curata da Daria De Florian, l’ospite è Claudio Morganti, attore e regista di lunga esperienza nel panorama teatrale italiano. Insieme alla conduttrice, Morganti dialoga sui temi affrontati nei suoi due volumi: La grazia non pensa (Cue Press, 2018) e Il serissimo metodo Morg’Hantieff (Edizioni dell’Asino, 2011). Durante la conversazione, l’autore ripercorre la genesi […]
27 Aprile 2020

Milano come Berlino? Una singolare comparazione. N...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Sotera Fornaro è una studiosa di Letteratura greca e Letteratura comparata, all’Università di Sassari, ma con notevole esperienza all’interno di Università tedesche come Friburgo e Luneburg. Ha frequentato i teatri berlinesi, tanto da dedicare loro un volume: Berlino tra passato e futuro, edizioni Cue Press, ormai la sola casa editrice che pubblica libri di teatro […]
27 Aprile 2020

L’Ottocento a teatro tra commedie borghesi e...

Lorena Vallieri, «Drammaturgia»

Grazie alla casa editrice imolese CUE press sono nuovamente disponibili in formato cartaceo e digitale alcuni dei primi contributi di Siro Ferrone dedicati al teatro dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento: Il teatro di Verga (1972), Commedie e drammi borghesi (1979) e gli atti dei convegni Teatro dell’Italia unita (1980). Pagine pioneristiche, scritte in […]
27 Aprile 2020

Cultura non è star sopra un albero. Mejerchol’d...

Angela Forti, «Teatro e Critica»

Il teatro è un’arma con la quale non si può scherzare, diceva Mejerchol’d. Un’arma pericolosa. Forse, potremmo aggiungere, innanzi tutto per sé stessi. È il 1930, siamo in Russia. Lenin è morto da sei anni, ma il sogno del socialismo sovietico, il mito della grande Rivoluzione d’Ottobre, ancora vive, florido, nelle mani e nelle opere […]
22 Aprile 2020

«Io, che ormai sono un miliardo di miliardi di pa...

Alessando Carli, «Pangea»

Non poteva che uscirsene così: con un colpo di teatro. Lui, non i suoi scritti: quelli rimarranno e continueranno a vivere nella voce e nei movimenti e nelle regie di chi si abbevera alla fonte della parola, atto liturgico, nemesi lisergica che solo dopo la morte trova chi la pota e se ne prende cura. Il […]
16 Aprile 2020

Teatri a Berlino, la vertigine della Storia

Roberto Canziani, «Hystrio», XXXIII-2

Alle città del teatro – partendo dalla nostra Milano (a breve una riedizione) – Cue Press dedica Le Guide, una collana diretta da Andrea Porcheddu. La tappa più recente è Berlino. Sostiene l’autrice, Sotera Fornaro, che proprio qui ha trovato realizzazione, nell’ultimo decennio e «con un accentuato e inarrestabile processo di estetizzazione», la «società dello […]
16 Aprile 2020

Diverse abilità, nuove vie della danza

Carmelo A. Zapparrata, «Hystrio», XXXIII-2

Navigare esplorando le innumerevoli possibilità creative del corpo danzante, senza preconcetti. È questo il motore del libro curato da Andrea Porcheddu che affronta tematiche urgenti, tra le quali il rapporto tra professionismo e disabilità, dando parola proprio agli artisti. Concepito come una pluralità di voci, l’agile volume fa propri i termini della marineria per sviluppare […]
13 Aprile 2020

Così Puppa aggira I giganti della montagna. Un vi...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Paolo Puppa è uno dei conoscitori più attenti e profondi dell’opera pirandelliana, a cui ha lavorato per oltre quarant’anni, senza tralasciare nulla, tanto che la sua metodologia esegetica ne viene persino condizionata e risulta perfettamente ciclica, nel senso che utilizza un testo base e, attorno a esso, costruisce la sua indagine. Ne è prova il […]
25 Marzo 2020

Il realismo (globale) di Milo Rau

«Qui comincia — Rai Radio 3»

Cos’è un autore? Cos’è il teatro mondiale? Cos’è il realismo globale? Sono alcune delle domande a cui Milo Rau prova a rispondere nelle pagine di questo volume, che raccoglie scritti d’occasione (dalle interviste ai saggi, dai discorsi ai manifesti) composti nell’arco di un decennio. Ne emerge non solo il ritratto di un autore fra i […]
23 Marzo 2020

Instabili e vaganti, senza fissa dimora. Ma con il...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Il volume Stracci della memoria, pubblicato da Cue Press, mi permette di fare alcune riflessioni sulla dimensione teatrale del terzo millennio, tipica di una generazione che ha scelto di rinunziare al testo come rappresentazione per accedere a un lavoro artistico capace di coinvolgere il corpo, da utilizzare per la realizzazione di un ‘progetto’. Non si […]
12 Marzo 2020

Anni incauti, ma con metodo

Silvia Napoli, «Il Manifesto in rete»

Ci sono pur sempre diverse pubblicazioni dedicate ad esperienze teatrali e ai loro protagonisti: mai abbastanza, per la verità, ma raramente è dato avere per le mani un libro polifonico come questo, un oggetto colmo di soggettività, che in qualche modo esprimono se stesse e il loro punto di vista sul circostante quasi servendosi di […]
12 Marzo 2020

Il Pilastro e la cupola di Dom: gli anni incauti d...

Massimo Marino, «Corriere di Bologna»

Anni incauti era il titolo dell’ultima rassegna di Laminarie ed è anche quello di un libro che doveva essere presentato in questi giorni. A cura di Bruna Gambarelli, con Febo Del Zozzo anima della compagnia bolognese, ricorda i dieci anni di attività al Pilastro in modo originale. I centri sono due: L’invenzione di Dom la […]
18 Febbraio 2020

Sergio Blanco: Autofinzione. L’ingegneria dell�...

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Nella scrittura dell’io trovo un’opportunità di dirmi, la possibilità di costruire il mio racconto e di andare incontro agli altri. Non smetterò mai di ripeterlo: scrivo su di me perché sono solo e ho bisogno di incontrare gli altri. Scrivo su di me nel tentativo di capire me stesso e gli altri. Scrivo su di […]
13 Febbraio 2020

Famiglie arcobaleno prendono la scena

Francesca Saturnino, «Hystrio», XXXIII-1

Giugno 2016. Era da poco stato approvato il decreto Cirinnà quando, nel teatro di Castrovillari, al festival Primavera dei Teatri, debuttò o, per meglio dire, deflagrò l’anteprima nazionale di Geppetto e Geppetto, lavoro prezioso e delicatissimo di e con Tindaro Granata, Angelo Di Genio e un gruppo di attori affiatati, che racconta in maniera estremamente […]
29 Gennaio 2020

Anni incauti: l’invenzione di Dom

Attilio Scarpellini, «Qui si comincia — Rai Radio 3»

Antologia della rivista Ampio Raggio. Esperienze d’arte e di politica: Rivista semestrale diretta da Bruna Gambarelli per la Compagnia Laminarie, la rivista del quartiere Pilastro di Bologna pubblicata per festeggiare i dieci anni di insediamento dell’iniziativa.Ampio Raggio accompagna le attività del teatro Dom la Cupola del Pilastro, gestito a Bologna dalla compagnia Laminarie (Premio Ubu […]
27 Gennaio 2020

Vizi e difetti dell’italica mediocrità. Servili...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Mentre per il centenario della morte (15 giugno 1920) è annunciata una grande mostra a Roma, a cura di Vincenzo Mollica, Alessandro Nicosia, Gloria Satta (7 marzo – 29 giugno), l’Editore Cue Press pubblica un volume di Maurizio Porro, Alberto Sordi, in edizione riveduta e ampliata: un’occasione per riflettere su come gli storici del cinema […]
6 Gennaio 2020

La grande avventura d’un teatro minore. Amato da...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

A chi voglia conoscere la storia del Café Chantant in Italia, dalla sua nascita agli ultimi strascichi del secondo Novecento, consiglio di leggere il libro di Rodolfo De Angelis: Café-chantant, pubblicato da Cue Press, nella Collana «I saggi del teatro», a cura di Stefano De Matteis, a cui dobbiamo anche la pubblicazione nel 1980 di […]
2 Gennaio 2020

Teatro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Dice Jordi: «…ho paura». Risponde Anna: «…siamo tutti spaventati». Queste battute poste a chiusura de Il principio di Archimede (2012) costituiscono il sottile filo conduttore che attraversa il Teatro del catalano Josep Maria Mirò raccolto in questo prezioso e importante volume di Cue Press. I due personaggi, rispettivamente un giovane estroverso istruttore di nuoto e […]
16 Dicembre 2019

Io, l’altro. Il teatro di Sergio Blanco

Alessandro Iachino, «Teatro e Critica»

Io. Soltanto la prima persona singolare, il soggetto che agisce o subisce, il cartesiano ego cogitante: solo l’io, nient’altro. Un territorio che trova il proprio confine – concreto, e ciò nonostante apparente – nel corpo, e che tuttavia sembra in costante e altalenante metamorfosi tettonica: ora in grado di accogliere e conquistare sconfinate porzioni di […]