Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

1 Giugno 2023

Luis Buñuel su Luis Buñuel

Gigi Giacobbe, «Teatro Contemporaneo e Cinema», XIV-45

Ho amato il Cinema di Buñuel sin da ragazzo, al tempo in cui in un Cineforum della mia città vidi in accoppiata Un chien andalou e L’Âge d’or, sceneggiati assieme a Salvador Dalì. Del primo ho chiara l’immagine di un uomo che seziona l’occhio di una ragazza, del secondo ricordo che iniziava con un documentario sulle abitudini d’uno scorpione. Debbo confessare che rimasi molto impressionato dalle immagini in bianco e nero dei due film, al punto che cercai di documentarmi (non così facilmente come oggi con internet e Wikipedia) sulla figura del regista spagnolo (naturalizzato messicano) e sul movimento surrealista che aveva animato i due film. Andai poi alla ricerca dei film realizzati in Messico, non mancando di vedere i film proposti più avanti come Viridiana, L’angelo sterminatore, Simon del deserto fino a Quell’oscuro oggetto del desiderio del 1977, che chiude la filmografia di Buñuel, condensata in ben 31 film girati. In una mia classifica personale dei registi più amati, Buñuel occupava il primo posto, cui seguivano: Ingmar Bergman, Federico Fellini, Francois Truffaut e Bernardo Bertolucci. Classifica rimasta immutata anche dopo la scomparsa di Buñuel a Città del Messico nel 1983 e i tanti registi americani, tedeschi, russi ecc. comparsi negli anni.

Adesso ho davanti a me il libro che definirei, oltre che prezioso, anche esaustivo sulla figura di Buñuel, edito da Cue Press, titolato Luis Buñuel su Luis Buñuel, un vero e proprio testamento artistico ad opera di due studiosi e critici cinematografici scomparsi da alcuni anni: il messicano Tomàs Pèrez Turrent e lo spagnolo Josè de la Colina, che tra non poche difficoltà sono riusciti a portare a compimento un’opera iniziata alla fine del 1974 e finita nel 1981, architettata a guisa che i 31 film ci vengono mostrati attraverso le puntute domande dei due critici e le risposte chiare e precise di Buñuel, che rendono oltremodo vive e vivaci le pellicole realizzate. Fu Buñuel a suggerire a Dalì di fare un film insieme dopo aver sognato, il primo di tagliare un occhio a qualcuno, il secondo d’aver la mano piena di formiche; in sei giorni scrissero il copione di Un chien andalou, realizzato con 25 mila pesetas che gli aveva dato la madre di Buñuel, diventati poi solo la metà perché spesi per cabaret e cene con gli amici a Parigi.

Nella sua prefazione, Goffredo Fofi scrive che se ci fosse stato un Premio Nobel per il Cinema, Buñuel sarebbe stato il primo ad aggiudicarselo, unitamente al Premio Oscar. Perché per lui Buñuel è uno dei più grandi registi della storia del Cinema, uno dei più originali e innovativi artisti del Novecento. Confessando più avanti che il suo film preferito, quello che lo ha sconvolto di più dopo I figli della violenza, resta Nazarin, nei quali Buñuel esprime idee da grande sociologo, filosofo e moralista. Il libro descrive pure, sotto forma d’intervista, gli anni della formazione di Buñuel, che vanno dalla nascita a Calenda (Spagna) nel 1900, sino a quando si trasferisce a Parigi nel 1928; e si conclude con l’elenco completo della filmografia (locandine e sinossi comprese), e in chiusura l’indice dei nomi. È sconosciuto l’autore della bella foto di copertina, che ritrae Buñuel in giacca e camicia scura, volto semi sorridente, con sigaretta accesa tra le dita, riconoscibile per la palpebra dell’occhio destro più calata rispetto al sinistro.

1 Giugno 2023

Heiner Müller, Teatro

Paola Quadrelli, «Allegoria 87», XXXV-87

Molto presente sui palcoscenici italiani sin dagli anni Ottanta, l’opera teatrale di Heiner Müller è invece ormai scomparsa dagli scaffali delle librerie: non si può dunque che apprezzare la pubblicazione del presente volume, che offre al lettore italiano un’ampia messe di sue pièces, comprensiva di alcuni testi canonici della drammaturgia mülleriana: Filottete, L’Orazio, Mauser, Hamletmaschine, L’incarico, Quartetto e Riva Degradata Materiale Medea. Per tutti i testi la curatrice propone una traduzione autonoma, come si evince dal mutato titolo di drammi quali Der Auftrag, tradotto con L’incarico – più sobrio rispetto al solenne e tradizionale La missione – e di Verkommenes Ufer, tradotto con Riva degradata, anziché «abbandonata».

I risultati di questa nuova impresa traduttoria appaiono, nel complesso, diseguali e spesso discutibili; la stessa «riva degradata» nel titolo sopracitato si rivela problematica, giacché tale aggettivo non si attaglia a un paesaggio naturale. Forse più opportuna sarebbe stata la scelta dell’aggettivo «desolata», che avrebbe anche reso trasparente il riferimento al Wasteland eliotiano, suggerito in un’intervista dallo stesso Müller. Ciononostante la versione di Verkommenes Ufer risulta senz’altro più precisa di quella a suo tempo approntata da Saverio Vertone (Ubulibri, 1991). Non soddisfacente è invece la traduzione di Philoktet, che, oltre ad annoverare qualche errore, si rivela molto meno perspicua, compatta ed efficace della versione di Peter Kammerer e Graziella Galvani (Il melangolo, 2003). Né si capisce se la presente traduzione sia pensata per una recita a teatro o piuttosto per un lavoro di studio; la frequenza con cui singoli vocaboli vengono tradotti con un doppio termine (ad esempio: Mann con «uomo, maschio», der Schrecken con «lo spavento, l’orrore») fa infatti pensare che la traduzione sia rivolta a un lettore che intenda riflettere sulla polisemia dei termini mülleriani piuttosto che a uno spettatore che ha bisogno di un testo dotato di una certa fluidità.

I testi di Müller mantengono peraltro intatta la loro forza e pur nella loro diversità rivelano un ordito comune di temi e motivi: il tradimento, il conflitto tra l’individuo e la società, la violenza e il suo eccesso, la strumentalizzazione del singolo, ridotto a «valore d’uso», la liberazione della donna dai vincoli patriarcali, il disagio della civiltà occidentale e la sua vocazione tecnocratica e colonizzatrice. Nel teatro di Müller, uno scrittore fortemente materialista, discepolo di Marx e Nietzsche, il corpo si erge a veicolo di rivolta e serbatoio di utopia: ecco dunque la barbara Medea, con le sue mani «consunte, trafitte e spellate», l’accecato Edipo, il ferino Filottete con il suo piede putrescente, Galloudec che muore di cancrena, la coppia Merteuil/Valmont in Quartetto, che, a dispetto della decadenza fisica, è scossa da un erotismo indomito e crudele. Come in molto teatro d’avanguardia del secondo Novecento, non mancano anche nei drammi di Müller pupazzi e marionette, simulacri dell’uomo che del corpo umano mimano i movimenti. Potente e incisivo si rivela in tal senso il brevissimo Dramma notturno, estrema e scarnificata riflessione di ascendenza beckettiana sulla corporeità e sul dolore, in cui compare sulla scena un essere umano, o forse un pupazzo, privo di bocca. Questo essere dalla natura indefinita non riesce a impadronirsi di una bicicletta che attraversa la scena e si sottopone a uno smontaggio degli arti, sino a venire accecato da due spuntoni: «Urla. La bocca nasce con l’urlo». La chiusura sembra tratteggiare una cupa e sconcertante Genesi laica, in cui la capacità espressiva che connota l’uomo nasce dal dolore e della percezione della corporeità ferita.

Il volume si segnala infine per l’apparato di note e l’ampio saggio conclusivo della curatrice, Rendere la realtà impossibile: Heiner Müller alle prese col nostro tempo, che offre un confronto con la drammaturgia mülleriana di taglio filosofico-politico, partecipe e fortemente personale.

23 Maggio 2023

Paolo Grassi: cento anni di palcoscenico

Isabella Gavazzi, «Drammaturgia»

Il centenario della nascita di Paolo Grassi (1919-1981) è stata l’occasione per organizzare nel marzo 2019 un convegno a lui dedicato presso l’Università di Milano, dal quale sono tratti gli otto contributi che troviamo in questo volume, curato da Isabella Gavazzi.

Figura emblematica per la politica e la cultura (sia teatrale che televisiva) del Novecento, Grassi rivive attraverso gli occhi e le parole di intellettuali e critici che hanno lavorato con lui, in un volume a beneficio di studenti e ricercatori delle nuove generazioni ma anche degli studiosi più colti. Il desiderio è quello di «Fornire un ritratto a tutto tondo che ne abbracci la figura professionale, gli aspetti caratteriali e la personalità, il tutto inserito in un contesto che oggi viene classificato già come storia: scelte professionali, problemi di natura politica sorti durante il percorso lavorativo, il concetto stesso di ‘fare cultura’» (p. 19).

I primi due contributi della curatrice permettono di presentare Paolo Grassi sia come «addetto ai lavori» sia come uomo, attraverso l’intervista a Carlo Fontana – che è stato suo allievo – e il breve excursus sulla sua poliedrica biografia. Noto impresario teatrale, direttore, giornalista e dirigente pubblico, figura fondamentale per la storia del teatro novecentesco milanese e non solo, Grassi si avvicina in giovane età al teatro. La conoscenza con Giorgio Strehler, Franco Parenti, Renato Guttuso e Salvatore Quasimodo fu per lui fonte di ricchezza culturale e di crescita. Il suo impegno politico di militante socialista si concretizza nel voler riportare Milano agli antichi splendori, con «opere d’arte al di sopra di ogni contenuto» (p. 23), attraverso un instancabile e continuo lavoro che lo porta ai vertici della cultura italiana.

Leonardo Spinelli approfondisce il contesto culturale e sociale nel quale Grassi inizia a lavorare nel Dopoguerra. Conosciuto in particolar modo per la fondazione del Piccolo Teatro di Milano (con l’amico Strehler), Grassi riunisce in sé la figura di sovrintendente e operatore culturale, essendo riuscito a superare «Quella dicotomia tra capocomici e artisti, che operano sulla scena, e organizzatori-burocrati, che al teatro guardano dall’esterno, pur essendo responsabili di grandi decisioni e soprattutto erogatori delle sovvenzioni» (p. 41).

Mariagabriella Cambiaghi ricorda come l’apertura del Piccolo Teatro sia associata al forte desiderio di portare la cultura ai cittadini, ispirato all’ideologia gramsciana. Il rapporto tra Grassi e Strehler, la «coppia dei consoli» (p. 41), viene ripercorso attraverso i principali eventi storici e culturali dell’epoca, fino alle dimissioni di Strehler dall’incarico di direttore artistico nel 1968. Alberto Bentoglio tratta di questo periodo, che dura fino al 1972, in cui Grassi continua a dirigere il teatro, lavorando contemporaneamente alla sua produzione artistica. Se precedentemente i cartelloni delle stagioni erano ricchi di teatro di regia, i cinque anni di direzione in solitudine sono contraddistinti da una diminuzione del numero di opere rappresentate – a favore della qualità – e da una costante ricerca di «opere adeguate alla nuova e complessa realtà del momento e ispirate all’attualità, per scuotere il pubblico e attirare la sua attenzione» (p. 54) (come Visita alla prova de L’isola purpurea di Bulgakov. Con interventi e ipotesi finale di Giuliano Scabia o Off limits di Arthur Adamov).

La direzione di Grassi, che sopravvive ai moti del ’68 e del ’69, si conclude cinque anni dopo per il sopraggiunto incarico come sovrintendente del Teatro alla Scala, descritto da Mattia Palma come un momento importante per la sua vita, rappresentando l’«esempio per le stimolanti – ma anche logoranti – lotte esterne e interne, politiche e artistiche che […] ha dovuto affrontare» (p. 65). Grassi, con la direzione musicale di Claudio Abbado e del direttore artistico Massimo Bogiankino, porta con sé alla Scala la sua idea di teatro impegnato popolare, pensando «la sovrintendenza della Scala come una missione culturale per il Paese» (p. 66), dove si ricerca un teatro «di stagione», attraverso una programmazione triennale degli spettacoli, dove il fine ultimo è unire il teatro popolare – sempre di concezione gramsciana – a quello d’élite.

Irene Piazzoni presenta la figura di Grassi come intellettuale-funzionario della Rai, subito dopo aver lasciato la Scala nel 1977. In qualità di presidente della Rai – con Giuseppe Glisent come amministratore delegato – lotta con l’incombente arrivo della tv privata, mentre progetta la nascita del terzo canale Rai e la creazione di materiali e sceneggiati originali da proporre al pubblico italiano, poiché «l’obiettivo era […] di trovare un equilibrio tra amusement e cultura, tra superficiale e veloce consumo e approfondimento» (p. 85).

Il volume si conclude con l’intervento di Valentina Garavaglia, dedicato al Grassi editore e critico teatrale. Dagli esordi nelle prime redazioni milanesi ai contributi su «Corrente», fino agli scritti politici per il giornale «Avanti», si confronta «quotidianamente con la situazione teatrale del Paese, svelandone le tensioni culturali e sociali, con un’attenzione particolare alle categorie ‘deboli’, nell’ottica dell’appartenenza a un socialismo umanitario» (p. 96). Con le numerose collane di cui diventa direttore a partire dagli anni Quaranta – da «Collezione Teatro» a «Teatro Moderno», da «Il teatro nel tempo» fino al «Teatro» edito da Einaudi – Grassi vuole che l’editoria partecipi alla realizzazione di un’identità culturale non solo italiana, ma anche europea.

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19 Maggio 2023

Marivaux, Teatro III

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

La pubblicazione di Teatro III di Marivaux, che segue i primi due volumi editati nel 2021 e 2022, risponde ad un ambizioso e prezioso progetto di Cue Press finalizzato alla divulgazione del repertorio, conosciuto in Italia solo attraverso poche e irreperibili traduzioni, di questo grande commediografo francese molto legato al Théâtre Italien di Parigi, dove nel Settecento si esibivano le compagnie dei Comici dell’Arte e dai quali apprese lezioni stilistiche e tematiche.

Il volume in questione è diviso in due blocchi testuali. Il primo occupa tre opere scritte per gli attori della Comédie Italienne guidata da Luigi Riccoboni e catalogate come pièces d’été, ossia rappresentate, anche se con poco successo, durante i mesi estivi. Lo stratagemma riuscito (1733), Il quiproquo (1734) e La gioia imprevista (1738) condividono la modalità compositiva incentrata sull’esplicazione dei meccanismi della finzione per meglio indirizzare la concentrazione dello spettatore verso le peculiarità dei personaggi, animando, in questo modo, una sorta di autorappresentazione, come spiega nei dettagli Monica Pavesio nell’Introduzione.

Nello Stratagemma riuscito si anima l’intreccio comico della doppia infedeltà praticata dalla Contessa e dalla Marchesa e, nella sfera dei servi, da Lisetta, fidanzata di Arlecchino, che accetta il corteggiamento di Frontino. All’epoca conobbe solo tre rappresentazioni Il quiproquo, commedia ricca di equivoci, travestimenti e di scambi di persone tra due sorelle anche loro coinvolte nelle dinamiche dei corteggiamenti, prima caotici e ambigui, poi a lieto fine.

Il protagonista della Gioia imprevista è un giovane provinciale arrivato a Parigi con il servo Pasquino per comperare una carica nobiliare e per cercare moglie, poi trovata nella bella Costanza, dopo tante complicazioni provocate tra l’altro dal padre che, mascherato, intende controllare di nascosto il figlio.
Spetta a Paola Ranzini la meticolosa ricostruzione della fortuna e interpretazione scenica dal Settecento ad oggi di queste tre commedie che risultano assai controverse in sede critica e alle quali mancava la versione italiana, ora offerta dalla traduzione di Pavesio.

La seconda parte di Teatro III contiene il cosiddetto trittico delle Isole, ovvero i «mondi alla rovescia, isolotti di pensieri, spazi di immaginazione, fantasie politiche» di Marivaux, secondo quanto si legge nella luminosa introduzione di Stephane Kerber. Nell’ Isola degli schiavi (1725) domina il tema dell’uguaglianza sociale come vissuta da Arlecchino e dal padrone Ificrate, sbarcati su un’isola dove tutto è lecito, compreso il rovesciamento dei ruoli tra uomo e donna; il fondamento della ragione informa di sé L’isola della ragione (1727), in cui otto viaggiatori europei entrano in contatto con un’altra civiltà per esibire dimostrazioni di ragioni e bontà.

Queste Isole sono semplici divertimenti con elementi carnevaleschi oppure trasmettono messaggi e istanze politiche? «Sono certamente l’uno e l’altro. E molto altro ancora», risponde in merito Kerber, ricordando l’educazione morale e sentimentale soprattutto presente tra le pieghe narrative dell’ Isola degli schiavi. Non solo: nella celebre edizione del 1994 Giorgio Strehler, cui spetta il merito di aver diffuso con successo la commedia in Italia, aveva creato un gioco finemente allusivo per fantasticare, pur con piglio storico-filologico, «il suo primo allestimento da parte di una compagnia di comici italiani attivi a Parigi», ricorda Paola Ranzini nelle pagine dedicate alla ricostruzione storico-artistica dei tanti allestimenti che si sono susseguiti fino ad oggi, compresi quelli dell’ Isola della ragione, opera meno fortunata, e della Colonia, inedita per l’Italia fino alla recente messinscena curata da Beppe Navelli a Firenze per il Teatro della Toscana nel novembre-dicembre 2022.

La stessa regia, che aveva allestito nel 2015 Il trionfo del dio denaro, si sofferma sui contenuti della commedia, ripercorrendone la trama e soffermandosi sullo sfortunato debutto del 1729 cui seguì, come raccontano le cronache dell’epoca, un Divertissement in cui «si cantano i vantaggi che l’amore offre alle donne rispetto agli uomini per ricompensarle del rifiuto di associarle al governo». Composto da Charles-François Pannard e accompagnato dalla musica di Jean-Joseph Mouter, il testo e lo spartito chiudono questa corposa e fondamentale raccolta marivaudiana, che restituisce al drammaturgo francese tutta la sua grandezza creativa, alla quale manca ancora adeguata visibilità sui palcoscenici italiani.

Difatti si contano sulle dita di una mano i testi allestiti: oltre a quelli citati, si ricordano le tre rappresentazioni del Gioco dell’amore e del caso, per le regie di Massimo Castri nel 1993 (cui compete anche La disputa nel 1992), di Antonio Syxty nel 2001 e di Giuseppe Manfridi nel 2012; degli Amanti sinceri, dell’ Assemblea degli amori e I sinceri (regia di Claudio Beccari, 1997) e del Principe travestito a cura di Cristina Pezzoli nel 1997.

Infine ha il sapore della scommessa pionieristica la rappresentazione da parte di Marco Bernardi nel 1988 di Arlecchino educato dall’amore di cui è protagonista un Arlecchino non più maschera scanzonata ma figura galante e scaltra, mossa da ragionamenti di matrice illuministica nel rapporto con la Fata, di cui è innamorato.

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14 Maggio 2023

Alexander Moissi, la star dimenticata applaudita a Bolzano

Fabio Zamboni, «Alto Adige»

Per mamma e papà – rispettivamente italiana e albanese – era Aleksandër Moisiu. Per gli italiani – era nato a Trieste nel 1879 – era Alessandro Moissi. Per il mondo del teatro – che era quello austriaco e germanico – era Alexander Moissi. Di queste tre versioni, Massimo Bertoldi, storico del teatro bolzanino e critico teatrale dell’Alto Adige, ha scelto la terza, Alexander Moissi, perché la vita teatrale di questo personaggio curioso, legata soprattutto a Vienna e a Berlino, fu per l’appunto tedesca e perché il nome meglio si adatta alla dimensione mitteleuropea del personaggio, alla sua storia e alla temperie culturale in cui crebbe e divenne famoso. Famoso e dimenticato. E infatti Bertoldi gli dedica un volume, costruito in cinque anni di ricerche e pubblicato non a caso da Cue Press, editore superspecializzato nel settore del teatro.

La carriera

Ma chi era Moissi, e che cosa ha spinto l’autore di questa preziosa biografia a ricostruirne vita, morte e miracoli (teatrali)? Figlio di un facoltoso commerciante albanese, il protagonista di questa storia si era ritrovato a crescere in una famiglia impoverita da una disgrazia: la flotta mercantile che consentiva al padre Costantino lauti guadagni venne distrutta da una tempesta. Questo costrinse Alessandro a cercare fortuna in un altro angolo dell’impero Austro-ungarico, di cui faceva parte anche la natia Trieste. Decimo e ultimo di dieci fratelli, sbarcò a Vienna sulle orme di una sorella, inseguendo da subito una carriera artistica.

Voce tenorile di notevole qualità, entrò al Conservatorio di Vienna, ammesso da una commissione di cui faceva parte l’illustre Ferruccio Busoni, ma ben presto ne fu espulso per totale disimpegno nello studio. Giovane disoccupato, passando davanti al Burgtheater lesse un avviso che annunciava la ricerca di comparse. Fu la sua fortuna: dopo un paio di «comparsate» e alcune apparizioni nel coro popolare di un’opera lirica, sul palco lo notò Josef Kainz, superstar del teatro viennese, e fu lui ad avviarlo alla formazione e alla carriera di attore. Carriera che, ci ricorda Bertoldi nel volume, iniziò con due anni di gavetta al Neues Deutsches Theater di Praga, segnalandosi soprattutto per il ruolo da protagonista nel Cyrano. Fu il primo atto di una carriera straordinaria, osannata e contrastata, esaltata da tanti critici ma anche ricca di critiche negative: Moissi usava la voce come uno strumento musicale, e non aveva mai perso il suo accento da italiano. Ma aveva un fascino misterioso, un carisma che gli permise di diventare un attore alla Mastroianni, di quelli che non recitano il personaggio ma se stessi, capaci di trasferire sulla propria personale essenza – e di viverla intensamente – le caratteristiche del ruolo da interpretare. Che non è più interpretato ma vissuto fino in fondo.

Ed ecco la grande occasione: Max Reinhardt, regista e celebre direttore del Deutsches Theater di Berlino, lo chiama nella sua compagnia: è il 1903 e il pubblico berlinese, affamato di novità e di contemporaneità, lontanissimo dal paludato tradizionalismo dei viennesi, lo adotta subito e lo consacra star nei ruoli principali dei Bassifondi di Gorkij e nell’Elektra di Hoffmanstahl. Moissi si confronta con altri grandi autori come Schiller e Shakespeare e Ibsen e affronta con Reinhardt fitte tournée a Vienna, Mosca e Parigi. Scoppia la Prima Guerra mondiale e l’attore, trentaseienne, per dimostrare la sua gratitudine verso la nazione che lo aveva adottato e lanciato, si arruola e va a combattere sul fronte francese; l’aereo da ricognizione su cui vola viene intercettato dagli inglesi, Moissi viene catturato e chiuso in un campo di prigionia, dove si ammala di tubercolosi.

Due anni dopo lo liberano e lui, nella nuova Germania repubblicana, matura idee rivoluzionarie: si innamora del socialismo e della rivoluzione bolscevica e riprende a lavorare in teatro tornando a fare base a Vienna con frequenti tour in Russia, dove diventa un idolo anche grazie alla sua fama di socialista. Si muove con disinvoltura fra la moderna Berlino e la nostalgica Vienna, collezionando recensioni contrastanti per l’originalità estrema delle sue interpretazioni. Poi finalmente calca un palco italiano, ospite della sua Trieste nel maggio del 1918. Ed è solo l’inizio di una frequentazione italiana, che ricorre più volte e lo porta a diventare amico di artisti come Eleonora Duse. Le tournée con importanti compagnie viennesi e berlinesi si allargano a Parigi e agli Stati Uniti, fino a quando le nuove avanguardie e la voglia di modernità della cultura berlinese non oscurano la fama di Moissi, che si era cimentato nel frattempo anche nel cinema. In quello muto, che certo non valorizzava la dote principale dell’attore triestino: la sua voce.

Dunque una carriera non lunghissima ma molto intensa, segnata da incontri storici come quello con Pirandello, che per lui scrisse un testo, Franz Kafka, che ne esaltò le doti nei suoi Diari, e Benito Mussolini, che lo applaudì più volte. Il Duce gli promise la cittadinanza italiana, che ottenne solamente in punto di morte. Consumato dalle conseguenze di quella tubercolosi che lo aveva aggredito in guerra, morì a Vienna il 22 aprile del 1935, e dopo i solenni funerali viennesi fu seppellito – per sua espressa volontà – nel piccolo cimitero svizzero di Morcote, sul lago di Lugano, dove si rifugiava spesso negli ultimi anni di vita. Sulla lapide l’essenziale: Alessandro Moissi 1879-1935. Di questo grande attore, dimenticato in fretta e ingiustamente dalla storiografia del teatro, restavano fino ad oggi poche tracce, disperse nelle biblioteche e nelle emeroteche della Mitteleuropa.

Il libro

Bene dunque ha fatto Massimo Bertoldi – già autore di vari saggi sul teatro rinascimentale e contemporaneo, di Lungo la via del Brennero (2007) e del volume sui settant’anni di storia del Teatro Stabile di Bolzano (2021) – a ricostruirne vita e opere, con un lavoro certosino che lo ha portato a riesumare recensioni e documenti rintracciati in varie biblioteche, partendo dalla Tessman di Bolzano: «Ho iniziato da Bolzano, scoprendo che per esplorare quelle di Vienna, Berlino e altre città tedesche dove c’erano tracce di Moissi, oggi non serve viaggiare. Le biblioteche di mezza Europa sono digitalizzate e dunque è bastato un computer, tanto tempo e tanta passione». Ma come è risalito a Moissi e alla sua storia? E perché proprio lui? «Mi sono imbattuto in Moissi scrivendo la storia del vecchio Teatro Verdi di Bolzano e scoprendo che l’attore triestino era andato in scena nella nostra città dal 21 al 23 dicembre del 1934 con Il cadavere vivente, Spettri e Amleto, i suoi cavalli di battaglia. E scoprendo inoltre che c’era un legame con un altro grande artista che ha legato il suo nome a Bolzano: Ferruccio Busoni, che faceva parte della commissione del Conservatorio di Vienna e anche di quella del Burgtheater che ammise Moissi, avviandone la carriera». Insomma, da due piccoli spunti è nata una grande storia. Che esce in libreria in questi giorni e che verrà presentata ufficialmente a Bolzano nel prossimo autunno.

6 Aprile 2023

Un mondo sull’orlo del disfacimento nei monologhi di Puppa

Stefano Adami, «Il Tirreno»

Paolo Puppa è professore emerito di Storia dello spettacolo all’Università Ca Foscari di Venezia e studioso di storia del teatro. Nel tempo si è aperto le strade di narratore, autore teatrale e attore. Questo libro vuole essere una sorta di sintesi di questo lungo lavoro. In queste pagine vediamo affollarsi il palpitante, disfunzionale brulicare umano: il viaggiatore di merci che tenta di vendere qualcosa, le apparentemente «buone» famiglie che finiscono per trattare con estremo cinismo i propri appartenenti, il giovane pensionato che è l’opposto della placida benevolenza. I monologhi di Puppa materializzano individui che sembrano già portare dentro di sé la fine del mondo e dell’umanità. È un’intensa prova narrativa che fa immaginare la soddisfazione che deve aver provato chi questi monologhi ha avuto la fortuna di vederli sulla scena, incarnati dall’autore stesso. Ma tutti i testi funzionano molto bene anche nella silenziosa lettura individuale.

3 Aprile 2023

Balázs, il teorico del dramma moderno, del teatro operaio, delle lotte di classe, e dell’Agit Prop, ripreso da Dario Fo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Béla Balázs è uno scrittore, saggista, drammaturgo, teorico ungherese, noto in particolare per la sua collaborazione con Béla Bartok, per il quale compose il libretto d’opera Il castello del Principe Barbablu, attingendo al repertorio delle tradizioni popolari, di origine fiabesca, della sua nazione. Ebbe una vita abbastanza complessa: fu combattente dell’Armata Rossa, membro del Direttorio degli scrittori, oltre che suo dirigente, insieme a Lukács; autore di testi come Il dramma moderno, La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen e Il dramma moderno dal Naturalismo a Hofmannsthal, tradotti in Italia e sui quali molti di noi hanno studiato, negli anni Settanta. Certamente Luckács e Balázs ebbero modo di influenzarsi a vicenda. Di quest’ultimo, Cue Press ha pubblicato Scritti di teatro, con prefazione di Eugenia Casini Ropa.

Balázs distingue il dramma dalla tragedia, sostenendo che l’irrazionale non possa avere più posto nel teatro moderno, avendo rinunziato alla dimensione divina e a qualsiasi forma di assolutezza. Perché ogni conflitto, a suo avviso, appartiene alla «vita sperimentata», in particolare quello che ha afflitto la vita della borghesia, che, durante il suo tramonto a fine Ottocento, aveva smarrito sia i valori sia gli ideali assoluti. Lo stesso discorso vale per il tema della follia, trattato molto frequentemente da autori come Ibsen e Strindberg, le cui conseguenze erano frutto delle convenzioni e degli scontri sociali, oltre che di sentimenti ammalati che non avevano nulla a che fare con la tragedia. Insomma, nel dramma moderno, non si trovano più né Aiace, né Eracle, dato che i loro conflitti erano da addebitare all’intenso rapporto con la dimensione religiosa, quella degli dei per intenderci.

A dire il vero, a Balázs non interessava soltanto il significato sociale del teatro, bensì anche quello politico, che si poteva mettere in evidenza proprio attraverso la struttura scenica. Tanto che, per avvalorare la sua tesi, egli distinse la scena mistica – che ha una sua particolare visione del mondo – dalla scena sociale – sempre alla ricerca di soluzioni drammatiche attraverso l’uso della ragione – e la scena politica, che eredita da Piscator, altro compagno di strada, e arricchisce con la creazione del Teatro Operaio. Siamo negli anni Trenta, durante i quali Balázs visse anche l’esperienza della Repubblica di Weimar, dove agivano cinquecento gruppi teatrali che portavano sui palcoscenici di periferia le loro riflessioni sul mondo del lavoro e delle disuguaglianze, creando nuove forme d’arte con l’utilizzo di ballate popolari. A scapito di opere come Oplà, noi viviamo di Toller, o Tamburi nella notte di Brecht, o ancora Il professor Bernhardi di Schnitzler, che riteneva drammi di conversazione, a «tendenza» che non avevano «nessun principio», testo quest’ultimo che, al contrario, abbiamo trovato esemplare nella messinscena di Ronconi, sicuramente una delle più riuscite e applaudite.

La tipologia del Teatro Operaio evidenzia, secondo Balázs, un’ «evoluzione alla rovescia», nel senso che prima di tutto esiste il pubblico, poi viene il teatro e, infine, la letteratura, con i suoi testi scritti secondo le regole. Come dire che la storia del teatro è la storia del suo pubblico, tanto che il Teatro Operaio potrà vantare un pubblico omogeneo, non certo immersivo, come lo si intende oggi. Per questo motivo, Balázs teneva molto a distinguerlo dal dramma borghese, che andava in cerca del consenso di un pubblico non certo sofferente dal punto di vista economico, nel quale i protagonisti entravano in scena come delle vere e proprie vittime, «sull’orlo della rovina e della perdizione».

Nel Teatro Operaio si portano in scena lotte contro la disoccupazione, per salari decenti, ma soprattutto contro le ingiustizie sociali. È il teatro dell’Agit Prop, quello che verrà ripreso nel 1968 da Dario Fo e dai collettivi proletari, con tutte le teorizzazioni che ne seguiranno. Per Balázs, il teatro risulta necessario se riesce a portare in scena la realtà del presente, con le sue contraddizioni, imponendosi come strumento di trasformazione sociale, con l’intento di «cambiare il mondo», come sostiene la curatrice Eugenia Casini Ropa.

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1 Aprile 2023

Kore’eda cinema della memoria

Matteo Boscarol, «Alias — Il Manifesto»

Nei più di trent’anni di carriera e specialmente nell’ultimo decennio, dopo cioè la conquista della Palma d’Oro con Un affare di famiglia nel 2018, Hirokazu Kore’eda si è affermato come una delle voci più importanti eseguite nel panorama cinematografico internazionale. Il suo ultimo lavoro, Monster, il primo tratto da un soggetto non suo, sarà con ogni probabilità presentato a Cannes, dove il regista è oramai diventato un habitué.

Non è una sorpresa quindi che la sua produzione cinematografica, che comprende in realtà anche molti lavori per la televisione e piattaforme streaming, sia oggetto di nuova attenzione, anche da parte del mondo dell’editoria italiana, attraverso l’uscita di due volumi.

Con Il cinema di Koreeda Hirokazu. Memoria, assenza, famiglie (edizioni Cue Press, Imola 2022) Claudia Bertolé rivisita e amplia la sua stessa monografia sul regista, uscita circa un decennio fa, anche in risposta all’evoluzione che, in questi ultimi anni, la filmografia del regista ha subito, arricchendosi di esperienze fatte al di fuori del Giappone, come La verità, in Francia, e Le buone stelle – Broker, in Corea del Sud, ma anche dopo il già citato successo e la conseguente visibilità ottenuta dal riconoscimento ricevuto a Cannes.

Bertolé struttura il suo volume, che è impreziosito da una prefazione di Dario Tomasi, in una prima parte formata da capitoli che affrontano alcune delle tematiche ricorrenti nella produzione del regista giapponese: stile documentario, memoria, famiglia, mondo dell’infanzia, personaggi femminili e richiami al cinema classico giapponese; e in una seconda parte, dove vengono analizzati i singoli lavori, compresi quelli seriali.

Com’è noto, Kore’eda comincia la sua esperienza dietro alla macchina da presa nel mondo del documentario televisivo, quando venticinquenne entra nella tv Man Union. Le tecniche documentarie qui sviluppate, come viene ben evidenziato dall’autrice, continueranno ad essere impiegate dal regista durante tutta la sua carriera, da After Life a Distance, da Nobody Knows a Un affare di famiglia.

La memoria è uno dei grandi temi che caratterizza gran parte della produzione di Kore’eda. Come scrive Bertolé: «[Si tratta di] memoria, intesa sia come identità, come ciò che definisce chi siamo e il nostro percorso nella vita, sia come strumento di confronto con il passato e allo stesso tempo supporto per affrontare il dolore dovuto alla perdita di coloro che amiamo».

È questa una tematica che era già presente negli inizi documentaristici del regista. Si pensi ad esempio a Without Memory del 1996; ma, come fa notare l’autrice, la tematica deriva anche all’esperienza personale di Kore’eda, che da bambino ha assistito alla perdita di memoria del nonno, affetto dal morbo di Alzheimer.

L’altro grande tema che innerva la filmografia di Kore’eda è quello della famiglia. In molti dei suoi lavori assistiamo infatti allo sfaldarsi e al ricomporsi del gruppo familiare, tenendo presente che, come fa notare Bertolé, «Le famiglie di Kore’eda sono spesso nuclei allargati ovvero strutture che possono crollare e ricomporsi in altre forme». In lavori quali I Wish, Father and Son, Little Sister, Un affare di famiglia e Nobody Knows «La famiglia è una questione di scelte, è una comunità che si autodetermina, in un contesto sociale vissuto ai margini e del quale si percepisce il disinteresse, di certo non l’inclusione».

In Pensieri dal set (a cura di Francesco Vitucci, Cue Press, Imola 2022), traduzione di un volume originariamente pubblicato la prima volta in Giappone nel 2016, Kore’eda raccoglie invece quasi in forma diaristica le osservazioni e le riflessioni riguardo le varie fasi della sua carriera, dall’esordio nel mondo della televisione al successo internazionale degli ultimi decenni.

È un volume illuminante per varie ragioni, ma soprattutto in quanto offre uno sguardo su tutto ciò che circonda la produzione dei suoi film e su come si sia sviluppata l’avventura della sua carriera cinematografica.

Dalle parole del regista, infatti, si evince come il singolo film sia il prodotto finale, o talvolta la traccia, di un processo e di una trama più vasta e complessa, che comprende partecipazioni a festival internazionali, i rapporti con le case di produzione, i fattori e le contingenze economiche, il dialogo con gli spettatori e le influenze artistiche inaspettate. Per quel che riguarda questo ultimo punto, alcune delle pagine più belle del volume sono quelle in cui il regista rivela l’importanza della televisione per la sua crescita, fin da quando, ragazzino, ogni settimana rimaneva incollato davanti al piccolo schermo a guardare i vari programmi, fra cui specialmente Ultraman e, più tardi i lavori di Shoichiro Sasaki. Kore’eda rimane folgorato dai lavori per la televisione di Sasaki, telefilm o film che ibridavano spesso fiction con elementi del documentario e che usavano attori non professionisti nei ruoli principali. Kore’eda ha tratto evidente ispirazione da Sasaki, un autore praticamente sconosciuto in Occidente, ma la cui produzione è tanto eclettica quanto affascinante, a partire dal capolavoro del 1974 Yume no shima shojo (Dream Island Girl).

Altra figura fondamentale per la carriera di Kore’eda è stato il suo collaboratore e produttore televisivo Yoshihiko Murala che Kore’eda definisce «il mio padre spirituale» e «la persona che mi ha permesso di trasformare la mia passione per la televisione in un lavoro».

Non mancano poi, nel volume, accenni alla situazione cinematografica e politica del suo paese. «Nelle aree rurali del paese non sono rimaste che le multisale, e i cinema di piccole dimensioni che proiettavano film dall’alto valore contenutistico sono pressoché scomparsi».

Questa sua preoccupazione per il destino dell’offerta cinematografica del Giappone va di pari passo con il suo impegno per cambiare l’industria del settore, negli ultimissimi anni martoriata dalla pandemia e da un sistemico emergere di scandali sessuali e di abusi di potere. «La sensazione è che bisogna agire con urgenza se non si intende disperdere la ricchezza e la varietà della cultura cinematografica che abbiamo ereditato dal passato».

1 Aprile 2023

Umberto Orsini, Le memorie di Ivan Karamazov

Antonio Tedesco, «Proscenio»

Può un attore trovare se stesso, la propria storia artistica, e forse umana, in un personaggio che lo ha particolarmente segnato? E nel quale gli pare di specchiarsi, provando al tempo stesso attrazione e repulsione? Un personaggio che si trasforma in un universo da esplorare e del quale non si riesce mai a vedere la fine.

La prima volta che Umberto Orsini incontra Ivan Karamazov è nel 1969. Interpreta il secondo dei tre fratelli (più uno illegittimo) nello sceneggiato realizzato dalla RAI con la regia di Sandro Bolchi e la riduzione di Diego Fabbri, tratto dal grande romanzo di Fёdor Dostoevskij.

Un incontro folgorante per l’attore. Un personaggio che racchiude un mondo e sul quale ha sentito più volte il bisogno di tornare nel corso della sua lunga carriera artistica. Fino a regalargli una sua completa autonomia. La dignità di una (in)compiutezza che neanche lo stesso Dostoevskij gli aveva concesso. Così, dopo varie rielaborazioni avvenute nel tempo, Orsini ha fatto di Ivan una sorta di sintesi e di corollario della propria stessa vicenda umana e teatrale. E insieme a Luca Micheletti ha elaborato questo testo intitolato Le memorie di Ivan Karamazov, un copione teatrale con forti risonanze letterarie, andato in scena lo scorso autunno al Piccolo di Milano, e che ora l’editore Cue Press pubblica (pagg. 63, € 16,99) con una nota dello stesso Orsini e un saggio sull’incontro tra queste due figure (attore e personaggio) di Luca Micheletti, che oltre ad essere coautore del testo è regista della messa in scena. In più un ricco corredo fotografico, che comprende foto di scena, bozzetti di scenografia, foto d’epoca che rimandano all’ambiente umano e sociale in cui la vicenda dei Fratelli Karamazov e Dostoevskij stesso sono maturati.

Nel testo-spettacolo Ivan-Orsini rivive la sua storia in una dimensione metafisica, dove le macerie di un antico tribunale coincidono con quelle della memoria di una coscienza erosa dal dubbio e dal rimorso. Conscio di una colpevolezza morale che nessun giudice potrà mai riconoscergli, ma per la quale egli anela la giusta condanna. La sua necessità di espiare resta insoddisfatta e si trasforma in profonda frustrazione. Come se il suo ruolo gli fosse negato, la sua personalità rimanesse incompiuta. Sospesa, indefinita, privata della sua legittima e sacrosanta condanna. Sulla scena Orsini-Ivan dialoga con il se stesso dello sceneggiato del 1969.

Oltre lo spazio e il tempo, per rendere ancor più lancinante questa mancanza. E arriva ad un terzo livello di identificazione, quello con Il grande inquisitore, protagonista dell’incompiuto poema che nel romanzo Ivan racconta una sera a suo fratello Aljoscia e nel quale i temi della fede e della libertà individuale si rivestono di nuove, per certi versi inedite, risonanze. Le memorie di Ivan si identificano, in definitiva, con quelle di Orsini. E rimandano, forse, a quelle di Dostoevskij stesso, che lo scrittore aveva opportunamente celato nel testo.

Collegamenti

10 Agosto 2020

Ecco infine il ‘metodo’ Mejerchol’d: lavorare, studiare e faticare. E la ‘biomeccanica’, la distanza critica dal testo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

La prima edizione degli scritti teatrali di V. Mejerchol’d uscì da Feltrinelli nel 1977, benché Editori Riuniti, nel 1962, avesse pubblicato, a cura di Giovanni Cirino, La rivoluzione teatrale che conteneva una parte dei suoi scritti. Per i registi degli anni Settanta fu una specie di shock, nel senso che trovarono in lui un modello […]
1 Agosto 2020

Un diario in versi

Paolo Spirito, «via Po»

«Apro la finestra e ho gli occhi pieni d’Arno oliva oliva come i tram d’una volta la mia Firenze della fine di marzo giù da San Miniato agli specchi di Santa Trinità trionfante e sobria come una campanella francescana il camioncino delle verdure scende ai mercati e tesse un’aria serica – liscia – coi fari […]
30 Luglio 2020

Goffredo Fofi su cinema e teatro del Fronte Popolare

«Qui comincia — Rai 3 Radio»

Il libro del giorno è Cinema e teatro del Fronte Popolare di Goffredo Fofi. Il Fronte Popolare francese degli anni Trenta non è stato soltanto il tentativo di costituire una coalizione politica socialista come alternativa all’egemonia del capitale, ha rappresentato anche un inesauribile laboratorio culturale. Lungo le pagine del volume, Fofi rievoca con ironia, ma anche […]
9 Luglio 2020

Mattia Visani racconta la casa editrice

«Hollywood Party — Rai Radio 3»

Oltre all’approfondimento sul film Ombre di John Cassavetes e alle evocative suggestioni musicali di Stefano Zenni, la serata vedrà la partecipazione di Mattia Visani, editore della Cue Press. Visani illustrerà la storia e la filosofia della casa editrice, approfondendo il progetto di riscoperta e ripubblicazione di testi rari e fuori catalogo, e presentando le imperdibili […]
6 Luglio 2020

Elogio del disordine

Benedetta Colasanti , «Drammaturgia»

La recente riedizione Cue Press di Elogio del disordine, raccolta di testi autografi di Louis Jouvet, si fregia della Prefazione di Stefano De Matteis in cui si ricostruisce il percorso artistico dell’attore francese: dalla formazione con Léon Noël e Jacques Copeau, all’esperienza nel mélo e, nelle stagioni newyorkesi, presso il Garrick Theatre, fino alla carica […]
1 Luglio 2020

Un disordine incarnato, il teatro secondo Jouvet

Laura Bevione, «Hystrio», XXXIII-3

«Il teatro è disordine incarnato». È a partire da questa felice constatazione che Louis Jouvet muove le proprie osservazioni e i propri pensieri sull’arte teatrale, cui egli si approcciò per esperienza diretta, come attore e regista, e non soltanto quale studioso. Riflessioni articolate e complesse che sono ora finalmente tradotte, da Brunella Torresin, e pubblicate, […]
1 Luglio 2020

Il teatro francese, uno studio storico-critico

Giuseppe Liotta, «Hystrio», XXXIII-3

Agguerrito studioso di teatro francese e traduttore di saggi e testi, nonché critico teatrale, drammaturgo di pièces divertenti e insolite, Gianni Poli, con questo impressionante, complesso e problematico volume, compone una laboriosa e accurata storia dei ‘fatti teatrali’ che hanno contribuito a costruire un plausibile ritratto, peculiare e scientifico, del teatro in Francia dalle origini […]
26 Giugno 2020

Poesie per ricordare Albertazzi

Titti Giuliani Foti, «La Nazione»

«Apro la finestra e ho gli occhi pieni d’Arno oliva oliva come i tram d’una volta la mia Firenze della fine di marzo giù da San Miniato agli specchi di Santa Trinità trionfante e sobria come una campanella francescana il camioncino delle verdure scende ai mercati e tesse un’aria serica – liscia – coi fari […]
24 Giugno 2020

Berlino. Tra passato e futuro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Assumendo a paradigma la programmazione della Volksbühne, il teatro per antonomasia della DDR assieme al Berliner Ensemble, Sotera Fornaro scrive: «sembra che si voglia neutralizzare l’aspetto politico» anche per soffocare la possibile «nostalgia dell’Est» e, di riflesso, dare maggiore importanza alla Schaubühne, il teatro simbolo della Berlino occidentale. Questo depotenziamento identitario, via via progredito dopo […]
22 Giugno 2020

Schegge di poesia di un Albertazzi autobiografico

Rodolfo di Giammarco, «la Repubblica»

L’ultimo, inatteso, appassionato, insospettabilmente delicato, e pentito, e struggente spettacolo di Giorgio Albertazzi è in un libro, Poesie e pensieri, pubblicato da Cue Press, co-curato con impagabile sentimento alla moglie Pia Tolomei di Lippa, da Mariangela D’Abbraccio, già partner e compagna, e da Eugenio Murrali. Ha senso di memoria storica e discreta, la prefazione di […]
10 Giugno 2020

Vedere o non vedere

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Per capire a fondo la forza creativa dei tre testi antologizzati in Vedere o non vedere è consigliabile leggere attentamente quanto gli autori, Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, dichiarano a Gerardo Guccini in apertura di volume. Spiega l’attore e performer: «I tre lavori mostrano un filo rosso, un percorso che porta allo smascheramento, allo svelamento, […]
1 Giugno 2020

Alberto Sordi

Stefano Rizzo, «Nocturno»

Cue Press, diretta da Mattia Visani, è la prima casa editrice digitale (ma anche con edizioni cartacee) dedicata allo spettacolo e dal 2012 è votata al teatro con numerose ed interessanti pubblicazioni che coprono molte delle lacune della nostra editoria. Si può dire che la Cue Press abbia preso sulle sue spalle l’eredità di Ubulibri, […]
31 Maggio 2020

La verità, vi prego, su Mejerchol’d

Andrea Porcheddu, «L’Espresso»

Il 25 ottobre 1917 la corazzata Aurora entra nella Neva e si ancora a fianco della cattedrale di Pietro e Paolo. Alle 21:45, un colpo di cannone dà il segnale della rivoluzione. In quel clima, tra i primi provvedimenti di Lenin, arriva la nomina a commissario per l’istruzione di Anatolij Lunacarskij che convoca subito nella […]
20 Maggio 2020

Impulsiva nevrotica mutevole. La sfuggente Hedda Gabler di Ibsen. Metafora d’un mondo di vite sciupate, senza amore

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Sono tante ‘le figlie’ di Ibsen, ciascuna con un proprio carattere ben definito, conseguenza di storie passate e presenti. Non credo, però, che egli abbia espresso delle preferenze, benché le abbia dimostrate per Hedda, forse perché la più sfuggente e con caratteristiche più indeterminate rispetto alle altre. Anzi, è proprio l’indeterminatezza a farne un personaggio […]
16 Maggio 2020

Vincenzo Blasi, Teatri greco-romani in Italia

Francesco Puccio, «ClassicoContemporaneo.eu»

Colpisce subito, di questo poderoso, dettagliato e accurato volume sui teatri antichi greco-romani in Italia, la dedica che l’autore rivolge all’archeologo siriano Khaled al-Asaad, ucciso dai miliziani jihadisti nel 2015, in quanto si era rifiutato di rivelare dove fossero nascosti i tesori di Palmira. Uno studioso coraggioso e consapevole del patrimonio di cui simbolicamente si […]
15 Maggio 2020

Lettere di August Strindberg

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Ha il ritmo narrativo di uno splendido romanzo epistolare questo volume curato da Franco Perrelli, illustre studioso di teatro scandinavo, che impagina le Lettere di August Strindberg seguendo un assemblaggio finalizzato a intrecciare la corrispondenza epistolare con la vita e il percorso creativo dello scrittore. È lo stesso drammaturgo e romanziere svedese a suggerire questo […]
13 Maggio 2020

Giuseppe Verdi a Napoli

Francesco Bracci, «Verdiperspektiven»

La figura di Giuseppe Verdi è stata in diverse occasioni oggetto di lavori teatrali. Un certo successo lo ottenne negli anni Ottanta After Aida di Julian Mitchell, che metteva in scena la tortuosa genesi di Otello e i rapporti fra Verdi e Boito. In tempi più vicini e venendo all’Italia, nel 2013 è andato in […]
10 Maggio 2020

Riflessioni sull’essere attore. Un atto d’amore per il teatro

Diego Vincenti, «Il Giorno»

«Dopo trent’anni di pratica, il teatro mi appare ancora come un mistero. So soltanto che ci sono due modi per fare o considerare il teatro: alla superficie o il profondità, o meglio in altezza, voglio dire proiettato nella verticale dell’infinito». Scriveva così Louis Jouvet nel 1943 da Medellín. Ennesima tappa di un giro sudamericano, intrapreso […]
9 Maggio 2020

Moro a teatro

Ludovico Cantisani, «minima&moralia»

Martire. Eroe. Vittima. Devoto. Corpo. Cadavere. Voce. Servo dello Stato. Statista. A partire dal momento della sua violenta morte – se non da prima – la figura di Aldo Moro è stata scomposta e reinterpretata in molte e diverse declinazioni; la maggior parte di esse rispettava quel carico di compassione e indulgenza che, per tacito […]
3 Maggio 2020

Indagine sul Verga ‘fiorentino’ quando Verga sceglie la solitudine

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Quando, nel 1972, uscì il saggio di Siro Ferrone Il teatro di Verga, oggi riproposto dalle Edizioni Cue Press, la bilbiografia verghiana vantava i nomi di Sapegno, Momigliano, Flora, Russo, tutti attenti a esplorare le Opere narrative. L’operazione di Ferrone si rivelò innovativa, non solo perché Il teatro di Verga divenne oggetto di una monografia, […]
1 Maggio 2020

Il teatro di Claudio Morganti

«Persone — Radio India»

Nella rubrica curata da Daria De Florian, l’ospite è Claudio Morganti, attore e regista di lunga esperienza nel panorama teatrale italiano. Insieme alla conduttrice, Morganti dialoga sui temi affrontati nei suoi due volumi: La grazia non pensa (Cue Press, 2018) e Il serissimo metodo Morg’Hantieff (Edizioni dell’Asino, 2011). Durante la conversazione, l’autore ripercorre la genesi […]