Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

23 Luglio 2023

Siegfried Kracauer, «apertura esitante» sempre al di qua delle cose ultime

Rolando Vitali, «Alias — Il Manifesto»

In una delle possibili varianti della critica della cultura, l’oggetto da esaminare si rivela sulla base dei presupposti stessi della teoria, cui si richiede una soggettività solida, sicura dei propri strumenti interpretativi, capace di domare il materiale culturale, riconducendolo a sé, o dimostrandolo come falso. A questa variante – oggi preponderante in ogni ambito – se ne affianca un’altra, che presuppone invece un soggetto dotato a un tempo di infinita forza e di infinita fragilità: capace di farsi attraversare dai contenuti che prende in esame, di perdercisi, senza perciò perdere sé stessa. Solo questa può dirsi una critica immanente: solo in questo caso, infatti, il contenuto dell’oggetto viene assunto integralmente e esaminato sulla base della sua logica interna, senza che il soggetto gli imponga dall’esterno una griglia interpretativa, e rendendosi anzi disponibile a cambiare a sua volta, nel contatto.

Tra i diversi rappresentanti della corrente culturale ebraica che gravitava intorno all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, Siegfried Kracauer è fra coloro che hanno assunto l’ideale della critica culturale immanente nella sua forma più compiuta. Architetto di formazione, scrittore di romanzi (che colpirono Thomas Mann e Joseph Roth), redattore della sezione culturale della «Frankfurter Zeitung» negli anni Venti, temuto recensore e teorico del cinema, storico della vita quotidiana, apolide per vocazione ed emigrante per necessità, finì insieme ad altri intellettuali ebrei negli Stati Uniti, ma a differenza di altri decise di non fare mai più ritorno in patria. «Ciò che in lui arrivava all’espressione filosofica – scrisse Adorno – era una capacità di soffrire illimitata», una disponibilità a farsi toccare dalle cose come fosse «senza pelle», come «se tutto ciò che era esterno toccasse il suo non protetto interno». Questa capacità di farsi aggredire dalla realtà senza mai perdersi è forse la cifra specifica di un pensiero e di un’attività critica che non si arrese mai all’esistente. Negli scritti di Kracauer analisi e critica non sono mai disgiunte. Scrisse di lui Leo Löwenthal: «Ha sempre mantenuto un atteggiamento di forte impegno e allo stesso tempo una costante volontà di non cedere ad alcun assoluto».

La capacità di mantenersi dentro alle cose, riuscendo a svolgerle materialisticamente iuxta propria principia e tenendole contemporaneamente in una tensione trasformativa rispetto all’esistente, distingue Kracauer dagli amici Adorno e Benjamin, entrambi diversamente assorbiti da una dimensione teoretica ulteriore, filosofica o religiosa. Tuttavia, anche negli scritti di Kracauer c’è trascendenza, tensione verso una redenzione, intesa materialisticamente come rivoluzione dell’esistente: che indirizza lo sguardo al particolare disperso, alla superficialità quotidiana, a quell’ambito del profano rimasto muto al di fuori dell’interesse della filosofia e della considerazione critica. Per Kracauer, proprio «tali ambiti profani sono attualmente il luogo fondamentale in cui irrompe la verità». Proprio questa compresenza di tensione teologico-politica – nutrita di marxismo, messianismo ebraico e critica culturale sulla scorta del primo Lukács – e immersione nella dimensione profana della materialità e dell’industria culturale, viene a galla compiutamente nella nuova edizione di La massa come ornamento (a cura di Emiliano Morreale, Cue Press, € 29,99) che propone, finalmente in maniera integrale, la raccolta curata dallo stesso autore nel 1963 per l’editore Suhrkamp. Vi sono raccolti ventiquattro articoli usciti nel corso degli anni Venti, che coprono i temi più diversi, secondo un modello compositivo che trattiene qualcosa del pastiche surrealista, già sperimentato nella Strada a senso unico di Benjamin: sono lavori che, coprendo un decennio decisivo tanto per Kracauer quanto per la Germania della Repubblica di Weimar, mostrano l’evoluzione di un pensiero che si muove in un campo irradiato da tensioni diverse e talvolta opposte.

Le due edizioni italiane precedenti ne avevano selezionato solo alcuni saggi, e pur offrendo un quadro soddisfacente dell’autore, sembravano non volersi far carico dell’intreccio tra tensione per il radicalmente altro e aderenza all’oggetto superficiale: ad esempio, entrambe avevano escluso il saggio critico dedicato alla traduzione di Martin Buber e Franz Rosenzweig. Proprio in questi luoghi apparentemente eccentrici si trova tuttavia espressa in modo quanto mai preciso quella tensione che proprio a partire da un’esigenza di verità tesa verso la totalità e l’assoluto – e quindi affine al contenuto dell’esperienza religiosa – deriva la necessità di rivolgersi alla realtà profana delle condizioni concrete d’esistenza: a quei fenomeni che, proprio in virtù della loro superficialità, espongono «i sogni ad occhi aperti della società». Così la ricerca di Buber e Rosenzweig per una parola pura e originaria diventa oblio del vero invece che sua manifestazione: infatti, sebbene il mondo profano, ossia «gli aspetti economici e sociali non possano rendere pienamente conto della sfera delle esperienze religiose e spirituali», sono proprio quegli aspetti profani ad essere diventati «i fattori determinanti» per la realtà del vero.

Proprio perché in «queste sfere» della parola sacra e assoluta «non è più possibile trovare la verità», Kracauer sceglie di assumere lo sguardo di «quelli che attendono», ossia di coloro che pur assaliti da un «dolore metafisico per la mancanza nel mondo di un più alto significato», per «l’isolamento» e per l’insensatezza della vita meccanica, non si chiudono né in nuove fedi, né in scetticismi assoluti, ma restano in un atteggiamento di «apertura esitante», tentando di spostare «il baricentro dall’Io teoretico», dal mondo «delle pure dimensioni di senso» al mondo prosaico e materiale «della realtà» e della «collettività umana». Di qui lo sviluppo di una sensibilità proteiforme, capace di indagare le condizioni spirituali delle classi medie esautorate (magistralmente descritte negli Impiegati e qui, in nuce, nel saggio dedicato alla rivista «Die Tat», assente dalle edizioni precedenti); le nuove forme di esperienza legate alla fotografia e al cinema; il mondo luccicante e ominoso delle riviste patinate; l’analisi sociologica dei luoghi dimenticati e rimossi; insomma di quelle «manifestazioni superficiali» che, proprio «in quanto non rischiarate dalla coscienza», come il lapsus freudiano «garantiscono un accesso immediato al contenuto dell’esistente». A quanto si trova «prima delle cose ultime» è dunque rivolta l’interpretazione, che proprio in questi «impulsi inavvertiti» trova la luce per illuminare il contenuto fondamentale di un’epoca e, di qui, le condizioni per la sua trasformazione possibile.

12 Luglio 2023

Strade maestre. Un libro sul teatro contemporaneo

«Move Magazine»

Subito dopo il disorientamento causato dalla pandemia con la chiusura dei teatri, Corrado d’Elia e Sergio Maifredi, rispettivamente direttori della Compagnia Corrado d’Elia e del Teatro Pubblico Ligure, si sono rivolti a Eugenio Barba, Lev Dodin, Stefan Kaegi, Antonio Latella; Ariane Mnouchkine, Thomas Ostermeier, Milo Rau; Peter Stein, Krzysztof Warlikowski.
Viaggiando a Berlino, Parigi, Toulouse; Gent, Roma, Palermo, Losanna, gli autori hanno raggiunto uno a uno tali maestri. E hanno dialogato con loro riportando idee ed emozioni utili a tracciare un cammino. Come una boccata d’ossigeno dopo una sosta quando si è in marcia. Il risultato: una serie di incontri straordinari. Accomunati da una convinzione, cementata proprio nel corso dell’assenza del teatro: di esso non si può fare a meno. In un viaggio che tocca alcuni dei luoghi cardine della cultura europea, d’Elia e Maifredi indagano e rivelano il pensiero più vero e profondo di questi innovatori della scena. Riescono a carpirne segreti, ricordi e spesso opinioni inaspettate e del tutto inedite. Grandi uomini e grandi donne di teatro che, proprio a partire da domande, dubbi, riflessioni e urgenze dei due registi si sono fermati a ragionare con loro. Di cosa? Di teatro, arte, bellezza e vita.
Strade maestre è un libro tanto personale quanto sorprendente. Un quaderno di viaggio e di pensiero, che ci prende per mano, accompagnandoci nei luoghi fisici e spirituali del grande teatro. Sempre avendo come riferimento ben chiaro e costante quell’atto straordinario, intimo e creativo che è il lavoro teatrale.

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12 Luglio 2023

Terzopoulos ci aiuta a far rivivere Dyonisos, il dio che rende il teatro un’arte inimitabile

Andrea Bisicchia, «Il Giornale»

Mentre, al Teatro Greco di Siracusa, sono andati in scena spettacoli che hanno avuto, per protagonista, l’eroe tragico – Prometeo, Medea, Ulisse – la casa editrice Cue Press, pubblica Il ritorno di Dionysos (pagg. 76, € 19,99) di Theodoros Terzopoulos, da intendere come ritorno all’energia del corpo, quella delle origini, quella del mito, prima della sua strutturazione in pensiero, dovuta all’arrivo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Si trattava, allora, di un’energia che veniva declinata in pure e semplici azioni che, però, rispecchiavano le condizioni religiose, sociali e culturali delle origini, quando il corpo conteneva in sé tutte le forze istintive ed energetiche. Dionysos era l’eroe del mito, ben diverso dall’eroe tragico, ed era il dio della ribellione, della danza, dell’eros, inteso non solo come attrazione sessuale, ma come vita; e ancora, il dio del potere, della sregolatezza.

Al contrario, l’eroe tragico è quello che pensa, ragiona, che si oppone, che si ribella, ma che soccombe, come direbbe Emanuele Severino, al destino delle necessità. La sua sconfitta è pari a quella dell’artista, il cui compito consiste nell’andare contro ogni forma di potere, non più quello degli dei, ma quello degli uomini, quindi di chi detiene le idee e costruisce gli ideologismi, quelli che si sono espressi attraverso il materialismo, il liberalismo economico, la globalizzazione, la tecnologia, e che hanno invaso il nostro Olimpo, privo, però, di divinità. Compito dell’artista, pertanto, non è quello di schierarsi, come avviene, puntualmente, oggi, perché, chi si schiera, perde il potere di andare contro il sistema e sente di smarrire la propria libertà. Terzopoulos rivendica, in teatro, la libertà dell’attore, la cui autenticità del teatro stesso che, proprio negli ultimi decenni, ha perso il contratto con le origini, ovvero con Dionysos, il suo tenace rappresentate, il dio che permette, all’attore, di «agire» (actor vuol dire proprio questo), di liberare la propria energia vitale ed erotica, eros inteso come vita e, quindi, la propria creatività.

Il teatro, oggi, ha bisogno di risorgere, così come risorse Dionysos, quando il suo corpo venne smembrato, come accadde ad Adone in Siria, a Osiride in Egitto, ad Attis in Frigia, a Cristo in Palestina. C’è chi sostiene che il teatro di ieri sia morto; solo che, per rinascere, ha bisogno del suo fondatore, ovvero di Dionysos che invita l’attore a ricercare il corpo archetipico, represso dalla consistenza del teatro contemporaneo. Per liberare i propri istinti, con la capacità di reagire alle restrizioni imposte dalla quotidianità e riconquistare una fondata energia; sempre, però, attraverso l’uso accurato del corpo e delle sue conseguenti azioni, da concepire come un’esperienza da vivere in maniera attiva.

Terzopoulos indica all’attore il modo con cui potrà essere portatore di energia, invitandolo a coltivare la voce, la respirazione, il rapporto col tempo e col senso da dare alle cose, a raccogliere i residui nascosti dei riti dionisiaci; e, infine, gli ricorda la salvaguardia del ruolo, che non può essere solo di tipo estetico, ma che dovrà essere, soprattutto, di tipo rituale prima ed esistenziale dopo. Recentemente abbiamo visto con la regia di Terzopoulos Aspettando Godot, con Paolo Musio, Stefano Randisi, e anche Enzo Vetrano. In questo spettacolo, il regista ha voluto esemplificare il suo «metodo», costruito sul corpo, inteso come luogo in cui si consuma il nostro magico quotidiano.

1 Luglio 2023

Luca Ronconi nel teatro di andamento favolistico

Andrea Bisicchia, «Il Mondo», IV-3

È possibile andare in cerca della felicità, come fanno i due protagonisti di L’uccellino azzurro (1909) di Maurice Maeterlinck, edito da Cue Press, recuperando la traduzione di Luca Ronconi, pubblicata da Emme Edizioni nel lontano 1979, quando il regista la portò in scena in una, persino eccessiva, produzione dell’ATER? Oggi è possibile rileggerla, con Prefazione di Luca Scarlini e con la riproposta della introduzione dello stesso Ronconi. Alberto Arbasino, in occasione del debutto (1979), scrisse: «Forse è stato lo spettacolo più bello della mia vita e, certamente, uno dei più strepitosi dell’Art Nouveau». Non tutti i critici, però, furono d’accordo con Arbasino. Roberto De Monticelli, sulle pagine del «Corriere», sottolineò una certa «monotonia», dovuta anche alla lunga durata dello spettacolo di oltre quattro ore. In verità, Ronconi volle cimentarsi con la favola, cercando una nuova strada nel Teatro per i Ragazzi, una favola che egli destinava anche a un pubblico adulto; non solo per le qualità simboliche del testo che, come tali, avrebbero dovuto raggiungere tutti, ma perché si trattò di uno spettacolo tipicamente ronconiano, che cercò di andare oltre il valore mitico ed esornativo del fiabesco, per puntare direttamente alla forza dell’irrazionale, oltre che dell’inconscio.

In quegli anni fu pubblicato da Feltrinelli Il libro incantato di Bettelheim (1976), uno studio sulla fiaba e l’inconscio che Ronconi aveva letto, avendo intuito che la fiaba comunica su due livelli, quello della coscienza e quello dell’inconscio. Così, il viaggio iniziatico che i due figli del boscaiolo, Tytyl e Myttyl, compiono attraverso i misteri della Notte, della Morte, della Natura, del Tempo, accompagnati dalle essenze che sono più vicine al loro mondo quotidiano – il Fuoco, l’Acqua, il Pane, lo Zucchero – diventa un viaggio nel proprio mondo interiore. Ai due viaggiatori sarà concesso di incontrare la Fata, a cui riveleranno i loro pensieri, mentre la Luce sarà la loro guida nel territorio dei ricordi, dove intravedono le figure del nonno e della nonna che sembrano addormentati, ma che riprendono vita quando i due nipoti si avvicinano. Arriveranno, nel frattempo, nel Palazzo della Notte, dove incontreranno il Sonno e la Morte. Quando fanno tappa nella Foresta, viene loro ricordato quanto male l’uomo abbia compiuto nei suoi confronti. Solo verso la fine giungeranno nel Giardino della Felicità, dove le Grandi Felicità si mostrano in tutta la loro seduzione; ma non sono le sole, perché esistono le Piccole Felicità, le Felicità Domestiche, la Felicità di star bene in salute e, infine, la Felicità dell’Amore Materno. È chiaro che il viaggio di Tytyl e Mytyl è un viaggio onirico, ed ecco la difficoltà di portare in scena il mondo dei sogni. Come non pensare a Il sogno di Strindberg, che lo stesso Ronconi metterà in scena alcuni anni dopo? Nell’Uccellino azzurro, la storia riguarda il mondo dell’infanzia; solo che questo mondo non può non coinvolgere i grandi, ovvero i genitori, i docenti, gli psicologi. Per questo motivo, Ronconi eviterà di costruire uno spettacolo didattico, puntando su un viaggio di conoscenza che non vuol essere, certo, un viaggio edificante.

Lo spettacolo, come ricorda lo stesso regista, fu concepito utilizzando la tecnica tradizionale del teatro, con fondali dipinti e con molteplici trasformazioni e cambiamenti a vista, avendo come fine la maniera più semplice per realizzare, su un palcoscenico, il sogno di tutti: quello di cercare la felicità col ricorso all’infanzia. Perché grazie ad essa può accadere, come sostiene Luca Scarlini, che si possa escludere la violenza; perché con l’infanzia al potere si viene a creare un antidoto alle idee forsennate delle nazioni che, in quegli anni, si preparavano alla corsa agli armamenti e al primo conflitto mondiale. A Milano, lo spettacolo fu programmato al Teatro Nazionale (1980), fortemente voluto da Giordano Rota. Tra i tanti protagonisti ricordiamo Franco Branciaroli, Regina Bianchi, Mauro Avogadro, Marisa Fabbri, Fabio Grossi, Piero Di Iorio. La Stagione 1979/80 dell’ERT fu molto felice. Ricordiamo, oltre L’uccellino azzurro, Il Gabbiano, con la regia di Lavia; Come le foglie, regia di Giancarlo Sepe; Edipo tiranno, regia di Benno Besson, con uno straordinario Vittorio Franceschi; Antonio Ligabue, regia di Memè Perlini. Quando il teatro non si perdeva in chiacchiere o in fatue teorizzazioni.

30 Giugno 2023

Alexander Moissi. Una storia mitteleuropea

Mauro Sperandio, «Inside»

Insegnante e critico teatrale, il bolzanino Massimo Bertoldi è autore di un prezioso volume dedicato ad Alexander Moissi, attore di teatro celeberrimo nei primi trent’anni dello scorso secolo e poi sostanzialmente dimenticato. Artista mitteleuropeo e poliglotta, di origini italiane ed albanesi, austriaco e nato a Trieste, dalla cifra originale, molto applaudito e criticato, Moissi trova in Alexander Moissi – Grande attore europeo 1879-1935 (ed. Cue Press, 2023) un’ampia trattazione. Se il volume di Bertoldi susciterà senza dubbio l’interesse degli studiosi del teatro, sorprendentemente incontrerà il favore anche di chi, con vivace curiosità, vorrà seguire il dipanarsi di una vicenda artistica e umana assolutamente originale. Un incontro con l’autore Bertoldi è l’occasione per allettare i nostri lettori.

Come nasce il suo interesse per la figura di Moissi?

Studiando il teatro italiano e tedesco dei primi trent’anni del Novecento ho dedotto l’importanza europea di Alexander Moissi, nato a Trieste nel 1879 e morto a Vienna nel 1935, tanto famoso all’epoca quanto oggi dimenticato o appena citato a livello storiografico. Mi sono chiesto il perché di questo misterioso paradosso. Inoltre mi hanno incuriosito il rapporto con Ferruccio Busoni, che per lui scrive la commedia Arlecchino o le finestre recitata in tedesco nel 1917 a Zurigo, e le esibizioni di Moissi al Teatro Verdi di Bolzano nel 1934, dove incanta la platea proponendo in italiano i suoi cavalli di battaglia Amleto, Spettri e Il cadavere vivente.

Come descriverebbe la sua personalità?

Moissi aveva una personalità molto marcata e bifronte: da un lato era anima inquieta, pensierosa e decadente; dall’altro lato era dinamico e passionale, esattamente come i personaggi teatrali a lui più cari.

Quali caratteristiche invece delineavano la sua recitazione?

L’elemento magnetico è la sua voce, assai originale per via di un difetto poi diventato stile recitativo «alla Moissi»: declamava con un’impostazione melodica, tenorile, quasi cantata e con una pronuncia della lingua tedesca storpiata da cadenze dialettali veneto-triestine che rendevano le parole musicali e cantilenate. Questa dizione fu croce e delizia. A Berlino inizialmente incantò, mentre nel periodo dell’Espressionismo postbellico fu considerata stucchevole. A Vienna, dove si manteneva viva la tradizione del «ben recitato», Moissi diventò una star.

La sua popolarità gli valse l’occasione per incontri con personalità di spicco dello scorso secolo. C’è tra questi un incontro di particolare rilevanza?

Sicuramente primeggia il viennese Max Reinhardt, maestro di regia del Novecento, che in un rapporto ventennale impiegò l’attore triestino in spettacoli fondamentali, mettendone a fuoco le potenzialità espressive in un confronto con testi assai variegati, dalla tragedia greca alla Commedia dell’arte, da Shakespeare a Shaw, da Ibsen a Tolstoj, fino ai classici del repertorio tedesco quali Goethe e Schiller. Lo stesso Reinhardt creò il contatto di Moissi con Hugo von Hofmannsthal. Nacque un rapporto assai proficuo, tanto che lo scrittore compose per l’attore il dramma La torre e soprattutto il fortunato Jedermann, lo spettacolo-evento del Festival di Salisburgo del 1920, con Moissi nel ruolo del titolo replicato per più edizioni. Singolare è anche il contatto con Luigi Pirandello, del quale Moissi aveva recitato a Berlino in tedesco Il piacere dell’onestà ed Enrico IV. L’incontro avvenne a Castiglioncello nell’estate 1934; riguardava Non si sa come, commedia in fase di stesura. Pirandello modellò un personaggio sulle caratteristiche espressive di Moissi, il quale però morì poco prima dell’inizio delle prove.

A cosa deve Moissi la sua immeritata impopolarità?

Come successo ad altri attori a lui contemporanei, la sua memoria è stata sepolta dalle macerie della Seconda guerra mondiale. In più per Moissi subentra un discorso di appartenenza, di identità culturale secondo visioni marcatamente nazionalistiche che di fatto hanno provocato il suo lungo oblio storico. È germanico perché ha recitato a lungo a Berlino e combattuto sul fronte Occidentale? È austriaco, considerando la nascita nella Trieste asburgica e i lunghi e trionfali trascorsi a Vienna? È italiano per via della madre toscana e per gli ultimi due anni della sua carriera vissuti sui palcoscenici nazionali? È albanese, per il sangue paterno? Risponde Bertolt Brecht: «Io credo che non si possa considerare Moissi solo un attore tedesco. Ancora non si è capito perché è stato per tutti noi così importante e già diverse nazioni litigano per appropriarsene». Così si spiega il sottotitolo «Grande attore europeo 1879-1935» dato a questo mio libro edito dall’imolese Cue Press.

Cosa farà scoprire ai lettori il suo lavoro?

Il libro offre al lettore l’incrocio di più percorsi tematici, a partire dalla figura dell’attore e alla dibattuta e non facile mutevolezza in rapporto alla nascente figura del regista. Così il percorso artistico di Moissi, declinato anche nelle sue lunghe tournées europee e mondiali, comprese le esibizioni a New York, diventa un confronto con le varie realtà teatrali in riferimento alle attese del pubblico e alle valutazioni della critica militante. Altro nodo cruciale sono le scosse telluriche provocate dalla Grande guerra nella cultura teatrale europea: si anima una tensione creativa tra la conservazione di una tradizione attoriale e, di contro, la volontà di cambiamento, moderato o radicali. Moissi oscilla tra queste due visioni.

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26 Giugno 2023

Quando Luca Ronconi si cimentò con il teatro di andamento favolistico

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

È possibile andare in cerca della felicità, come fanno i due protagonisti di L’uccellino azzurro (1909) di Maurice Maeterlinck, edito da Cue Press, recuperando la traduzione di Luca Ronconi, pubblicata da Emme Edizioni nel lontano 1979, quando il regista la portò in scena in una persino eccessiva produzione dell’ATER? Oggi è possibile rileggerla con Prefazione di Luca Scarlini e con la riproposta della introduzione dello stesso Ronconi.

Alberto Arbasino, in occasione del debutto (1979), scrisse: «Forse è stato lo spettacolo più bello della mia vita e, certamente, uno dei più strepitosi dell’Art Nouveau». Non tutti i critici, però, furono d’accordo con Arbasino. Roberto De Monticelli sulle pagine del «Corriere» sottolineò una certa «monotonia», dovuta anche alla durata dello spettacolo di oltre quattro ore. In verità, Ronconi volle cimentarsi con la favola, cercando una nuova strada nel Teatro per i Ragazzi; una favola che egli destinava anche a un pubblico adulto. Non solo per le qualità simboliche del testo che, come tali, avrebbero dovuto raggiungere tutti, ma perché si trattò di uno spettacolo tipicamente ronconiano, che cercò di andare oltre il valore mitico ed esortativo del fiabesco, per puntare direttamente alla forza dell’irrazionale, oltre che dell’inconscio.

In quegli anni fu pubblicato da Feltrinelli Il libro incantato di Bettelheim (1976), uno studio sulla fiaba e l’inconscio che Ronconi aveva letto, avendo intuito che la fiaba comunica su due livelli: quello della coscienza e quello dell’inconscio. Così il viaggio iniziatico che i due figli del boscaiolo, Tytyl e Mytyl, compiono attraverso i misteri della Notte, della Morte, della Natura, del Tempo – accompagnati dalle essenze che sono più vicine al loro mondo quotidiano: il Fuoco, l’Acqua, il Pane, lo Zucchero – diventa un viaggio nel proprio mondo interiore. Ai due viaggiatori sarà concesso di incontrare la Fata, a cui riveleranno i loro pensieri, mentre la Luce sarà la loro guida nel territorio dei ricordi, dove intravedono le figure del nonno e della nonna, che sembrano addormentati, ma che riprendono vita quando i due nipoti si avvicinano. Arriveranno, nel frattempo, nel Palazzo della Notte, dove incontreranno il Sonno e la Morte. Quando fanno tappa nella Foresta, viene loro ricordato quanto male l’uomo abbia compiuto nei suoi confronti. Solo verso la fine giungeranno nel Giardino della Felicità, dove le Grandi Felicità si mostrano in tutta la loro seduzione, ma non sono le sole, perché esistono le Piccole Felicità, le Felicità Domestiche, la Felicità di star bene in salute e, infine, la felicità dell’Amore Materno.

È chiaro che il viaggio di Tytyl e Mytyl è un viaggio onirico, ed ecco la difficoltà di portare in scena il mondo dei sogni. Come non pensare a Il sogno di Strindberg, che lo stesso Ronconi metterà in scena alcuni anni dopo? Nell’Uccellino azzurro, la storia riguarda il mondo dell’infanzia; solo che questo mondo non può non coinvolgere i grandi, ovvero i genitori, i docenti, gli psicologi. Per questo motivo, Ronconi eviterà di costruire uno spettacolo didattico, puntando su un viaggio di conoscenza che non vuol essere, certo, un viaggio edificante.

Lo spettacolo, come ricorda lo stesso regista, fu concepito utilizzando la tecnica tradizionale del teatro, con fondali dipinti, e con molteplici trasformazioni e cambiamenti a vista, avendo come fine la maniera più semplice per realizzare, su un palcoscenico, il sogno di tutti: quello di cercare la felicità col ricorso all’infanzia, perché grazie ad essa può accadere, come sostiene Luca Scarlini, che si possa escludere la violenza, perché con l’infanzia al potere si viene a creare un antidoto alle idee forsennate delle nazioni che, in quegli anni, si preparavano alla corsa agli armamenti e al primo conflitto mondiale. A Milano, lo spettacolo fu programmato al Teatro Nazionale (1980). Fortemente voluto da Giordano Rota, tra i tanti protagonisti ricordiamo Franco Branciaroli, Regina Bianchi, Mauro Avogadro, Marisa Fabbri, Fabio Grossi e Piero Di Iorio. La Stagione 1979/80 dell’ERT fu molto felice. Ricordiamo, oltre L’uccellino azzurro, Il Gabbiano, con la regia di Lavia; Come le foglie, regia Giancarlo Sepe; Edipo tiranno, regia Benno Besson, con uno straordinario Vittorio Franceschi; Antonio Ligabue, regia Memè Perlini. Quando il teatro non si perdeva in chiacchiere o in fatue teorizzazioni.

19 Giugno 2023

Caryl Churchill, Top Girls

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

«Maestra dei dialoghi sospesi, carichi di ambiguità, di sorprese, di sensi segreti»: in questo modo Luca Scarlini definisce la scrittura di Caryl Churchill, riferendosi in particolar modo a Top Girls, uno dei testi della consacrazione – assieme a Settimo cielo e L’amore del cuore – della drammaturga londinese, nota anche per i radiodrammi di stampo marcatamente antiborghese. Ora Top Girls è stato rieditato da Cue Press per la traduzione dall’inglese di Margaret Rose, adattata per l’allestimento di Fondazione Teatro Due con la regia di Monica Nappo. La commedia, scritta nel 1982 (si legge in una nota della compagnia parmense): «Affronta in modo strutturale e teatrale molti temi diversi, fra cui l’ineludibilità del confronto con il modello maschile nell’esercizio del potere e le sue contraddizioni».

Le protagoniste di questo testo provocatorio e ironico sono cinque figure femminili del passato. Provengono da diversi contesti e periodi storici e sono raccolte, in una metaforica e immaginaria cena, intorno a Marlene, manager moderna che festeggia l’inaugurazione di un’agenzia di collocamento per donne. Attorno al tavolo di un ristorante, di sabato sera, si accomodano: la papessa Giovanna, attiva dall’854 all’856; Dull Gret, dipinta da Peter Brugel il Vecchio; la poetessa e concubina dell’imperatore giapponese e poi monaca buddista dal XIII secolo Lady Nijo; Isabel Bird, scrittrice ed esploratrice tra Ottocento e Novecento; e Griselda, moglie obbediente raccontata da Boccaccio e Chaucer. Le donne si confidano segreti, si raccontano sacrifici e conquiste ottenute all’ombra di una società severamente patriarcale e allineabili, in una declinazione contemporanea riconoscibile nel thatcherismo degli anni Ottanta, con le lotte e le sfide affrontate dalla stessa Marlene per conquistare una posizione di vertice. Si sviluppa il gioco delle sfasature spazio-temporali, che imprime continuità alla logica del potere connessa ai meccanismi del successo come si consuma in questa situazione conviviale oppure nell’ufficio dell’agenzia di collocamento. Significativo è un colloquio tra Marlene e la giovane Janine, alla quale mancano i requisiti professionali per poter lavorare nel mondo della pubblicità; il sogno le si sgretola con violenza tagliente.

A completare lo sviluppo di questa commedia tutta al femminile entrano in scena ragazzine inquiete, donne arriviste, madri frustrate pronte a esplodere, tutte disegnate dalla penna di Churchill con fine realistico-umoristico, oscillante tra caricatura irriverente e satira amara lungo l’asse di un linguaggio fluido e dinamico che anima il problema di base di Top Girls: gli effetti dell’accettazione quasi riflessa dei modelli maschili nella carriera – con connessa smania di potere – del resto così facilmente riscontrabili in esempi che anche oggi animano la scena politica nazionale e internazionale.

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15 Giugno 2023

Alexander Moissi, grande attore europeo

«Il Teatro di Radio 3 — Rai Radio 3»

Alexander Moissi. Grande attore europeo 1879 – 1935 di Massimo Bertoldi, Cue Press.

Una monografia dedicata al grande attore italo-austriaco vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento.

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5 Giugno 2023

Il teatro, in attesa della propria resurrezione, dovrà tornare a Dionysos, come vita, ribellione, istinto, creatività ed erotismo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Per capire l’idea di teatro di Theodoros Terzopoulos, almeno in Italia, occorre partire da un suo spettacolo, visto al Teatro delle Passioni di Modena nel 2017. Si trattava di ENCORE (Ancora), ovvero della tenacia nel chiedere qualcosa, come dire: «Ti prego, ancora». Una specie di supplica, la stessa che faceva vibrare i corpi dei due attori, Sophia Hiel e Antonis Myriagkos, che, sul palcoscenico, si rincorrevano, si scontravano, si annusavano, ai limiti di una fisicità che puntava soprattutto su un’attrazione erotica.

In quella messinscena si intravedeva già il concetto di energia creativa, che il regista greco ha cercato di teorizzare nel volume edito da Cue Press, Il ritorno di Dionysos, da intendere come ritorno all’energia del corpo, quella delle origini, del mito, prima della sua strutturazione in pensiero, con l’arrivo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Si trattava di un’energia che veniva declinata in pure e semplici azioni che, però, rispecchiavano le condizioni religiose, sociali e culturali delle origini, quando il corpo conteneva, in sé, tutte le forze istintuali ed energetiche. Dionysos era l’eroe del mito, ben diverso dall’eroe tragico; era il dio della ribellione, della danza, dell’eros inteso non solo come attrazione sessuale, ma come vita; ed ancora, del potere, della sregolatezza. Al contrario, l’eroe tragico è quello che pensa, ragiona, che si oppone, si ribella, ma che soccombe, come direbbe Emanuele Severino, al destino della necessità. La sua sconfitta è pari a quella dell’artista, il cui compito consiste nell’andare contro ogni forma di potere, non più quello degli dei, ma quello degli uomini, quindi di chi detiene le idee e costruisce gli ideologismi, quelli che si sono espressi attraverso il materialismo, il liberalismo economico, la globalizzazione, la tecnologia, e che hanno invaso il nostro Olimpo, privo però di divinità. Compito dell’artista, pertanto, non è quello di schierarsi, come avviene puntualmente oggi, perché chi si schiera perde il potere di andare contro il sistema e sente di smarrire la propria libertà. Terzopoulos rivendica, in teatro, la libertà dell’attore, la cui autenticità dovrà coincidere con l’autenticità del teatro stesso, che, proprio negli ultimi decenni, ha perso il contatto con le origini, ovvero con Dionysos, il suo tenace rappresentante, il dio che permette all’attore di «agire» (actor vuol dire proprio questo), di liberare la propria energia vitale ed erotica – eros inteso come vita – e, quindi, la propria creatività.

Il teatro, oggi, ha bisogno di risorgere, così come risorse Dionysos, quando il suo corpo venne smembrato, come accadde ad Adone in Siria, a Osiride in Egitto, ad Attis in Frigia e a Cristo in Palestina. C’è chi sostiene che il teatro di ieri sia morto; solo che, per rinascere, ha bisogno del suo fondatore, ovvero di Dionysos, che invita l’attore a ricercare il corpo archetipico, represso dall’inconsistenza del teatro contemporaneo, e a liberare i propri istinti, con la capacità di reagire alle restrizioni imposte dalla quotidianità e riconquistare una fondata energia. Sempre, però, attraverso l’uso accurato del corpo e delle sue conseguenti azioni, da concepire come un’esperienza da vivere in maniera attiva. Terzopoulos indica all’attore il modo con cui potrà essere portatore di energia, invitandolo a coltivare la voce, la respirazione, il rapporto col tempo e col senso da dare alle cose, a raccogliere i residui nascosti dei riti dionisiaci; e, infine, gli ricorda la salvaguardia del ruolo che non può essere solo di tipo estetico, ma che dovrà essere di tipo rituale prima ed esistenziale dopo. Recentemente abbiamo visto, con la regia di Terzopoulos, Aspettando Godot, con Paolo Musio, Stefano Randisi ed Enzo Vetrano. Anche in questo spettacolo il regista ha voluto esemplificare il suo «metodo», costruito sul corpo, inteso come luogo in cui si consuma il nostro tragico quotidiano.

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