Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Malick i giorni del cielo cavell fata morgana web rivista recensione
15 Settembre 2023

Ontologia del cinema, critica dei film

Roberto De Gaetano, «Fata Morgana Web»

Iniziamo col dire che la traduzione in italiano del libro di Stanley Cavell Il mondo visto è un piccolo evento editoriale. L’edizione originale del libro (The World Viewed) data 1971, quella aggiornata 1979. Si aspettava da tempo un’edizione italiana. Merito dell’editore Cue Press, di chi ha curato e introdotto il libro secondo una prospettiva filosofica, Piergiorgio Donatelli, e chi ne ha misurato nella postfazione il rilievo per gli studi sul cinema, Giacomo Manzoli.
Da dove nasce l’importanza del libro? Dalle domande che lo attraversano, tutte riconducibili in definitiva alla domanda ontologica, come esplicita tra l’altro il sottotitolo, Riflessioni sull’ontologia del cinema. Tale domanda ha attraversato alcune delle riflessioni teoriche più significative sul cinema. La prima delle quali, la più giustamente nota perché nata nel solco della fenomenologia merleau-pontyana nel momento storico decisivo del Secondo dopoguerra, è quella di André Bazin e di Che cos’è il cinema? (autore di cui Cavell tiene conto); la seconda è l’ontologia radicale di Gilles Deleuze, comparsa negli anni ottanta con L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, questa volta nel solco della filosofia bergsoniana (in primis di Materia e memoria). Se per Bazin l’immagine cinematografica è rivelazione della realtà singolare delle cose, per Deleuze l’immagine è la realtà, l’identità dell’immagine e della cosa in un piano di immanenza, prima dell’intervento selettivo della percezione propriamente umana.

Per Stanley Cavell la questione è diversa. Anche se condivide con Bazin l’idea della base fotografica del cinema, il problema per il filosofo americano riguarda il mondo, cioè la trasformazione della realtà in qualcosa di sensato, in una forma di vita. Ma non c’è mondo senza azione, e dunque senza racconto. E questo non può prescindere dalle strutture mitiche che lo informano, dalle generalizzazioni dei tipi che lo animano (centrali al cinema perché costruiti anche sugli attori), che vanno ben oltre la singolarità dei personaggi e la loro individualizzazione. Se per il critico francese i film capaci di «intercedere» per affermare il realismo del cinema sono quelli del neorealismo italiano, perché animati da pura deambulazione a-narrativa e dunque più capaci di rivelare gli incontri imprevedibili e singolari con le cose, per Cavell è invece il cinema classico americano a svolgere tale ruolo, con le sue complesse codificazioni narrative e di genere. Per Cavell il problema è dunque il mondo, il vero tema unificante di un libro che a volte sembra smarrirsi enigmaticamente in più direzioni. La questione di come il cinema sia capace allo stesso tempo di raggiungere e nascondere il mondo è il cuore del libro: «Il mondo di un film viene proiettato. Lo schermo non è un supporto, non è come una tela; in quel modo non ha nulla da sostenere. […] Che cosa mostra lo schermo luminoso? Lo schermo mi nasconde dal mondo che contiene – mi rende infatti invisibile. E mi nasconde il mondo – ovvero mi nasconde la sua esistenza» (Cavell 2023, p. 59).

Il mondo di un film è tale, e dunque è lì e ci riguarda, perché mette in gioco quella che con Sartre potremmo chiamare una doppia «nullificazione»: della sua presenza ora («il mondo proiettato non esiste ora», ibidem) e della presenza dello spettatore. È questa luminosità segnata da un doppio nascondimento lo specifico del cinema e del suo rapporto con la realtà. Perché il cinema in «quanto proiezione automatica del mondo» (ivi, p. 169) non necessita di molto altro per attestare la presenza del mondo stesso. L’automatismo nasconde il tratto soggettivo dell’arte, recuperabile solo attraverso l’esplicito lavoro sulle forme, che Cavell individua nel carattere modernista di un certo cinema, quello che emerge quando la codificazione delle forme della tradizione entra in crisi (con quello che con il lessico della teoria francese, ampiamente diffuso e condiviso, potremmo chiamare il «cinema moderno»).

Restando ai dispositivi espressivi, la differenza dell’immagine cine-fotografica da quella pittorica non può essere misurata semplicemente a partire dalla maggiore capacità nella restituzione realistica del mondo da parte della prima. L’immagine cine-fotografica determina un modo radicalmente nuovo di attestare il rapporto tra uomo e mondo: «Per mantenere la convinzione della nostra connessione con la realtà, per mantenere il nostro essere presenti, la pittura accetta il ritiro dal mondo. La fotografia mantiene l’essere presente del mondo accettando che noi ne siamo assenti».

L’ascendente romantico di tale idea, che lo stesso Cavell tira in ballo, è chiaro. In pittura il soggetto tocca il mondo ritirandosi creativamente da esso. Nella fotografia e nel cinema, all’opposto, il mondo accede ad immagine automaticamente, espellendo la necessità della soggettività autoriale: «[…] Per mantenere il nostro essere presenti, la pittura accetta il ritiro dal mondo. La fotografia mantiene l’essere presente del mondo accettando che noi ne siamo assenti». L’automatismo diventa la differenza decisiva. È la genesi specifica dell’immagine cinematografica a garantire l’accesso del mondo ad immagine, con l’espulsione di ogni soggettività. Lo schermo diventa allora una sorta di «fazzoletto magico» (l’immagine è del Morin del Cinema o l’uomo immaginario, libro che Cavell non considera, anche quando si tratta di pensare la specifica origine magico-religiosa del cinema), in cui le cose sono presenti ed assenti allo stesso tempo, e sono anche capaci di metamorfizzarsi, di mutare rapidamente.

Il fatto che un automatismo esista è una cosa, il fatto che abbia senso un’altra. Se il cinema è un medium (cioè una possibilità) non significa che sia una condizione a priori delle opere particolari, di questo o quel film. Esattamente l’opposto. L’essere medium del cinema è un effetto dei film e delle forme determinate e reali che li definiscono (in termini bergsoniani diremmo che è il reale a generare il possibile): «I primi film di successo – le prime pellicole cinematografiche accettate come film – non erano applicazioni di un medium definito da possibilità date, ma erano la creazione di un medium per il fatto che questi film davano significato a delle possibilità specifiche. Solo l’arte stessa può scoprire le sue possibilità, e la scoperta di una nuova possibilità è la scoperta di un nuovo medium».

Queste parole di Cavell permettono oggi di portare alla luce uno dei grandi equivoci delle teorie dei media: pensarli come meri dispositivi (cioè possibilità), prescindendo dalla effettività delle forme date, significa condannarsi ad un discorso sterile. Un medium è sempre generato da forme specifiche ed effettive, e dal loro uso. Il cinematografico, per dirla con Pasolini, è generato dal filmico, al di fuori del quale semplicemente non esisterebbe o la cui esistenza – come quella di Dio – andrebbe dimostrata attraverso categorie della ragione o atti di fede. Non esiste contrapposizione tra arte e medium. Esiste il «medium di un’arte» (ivi, p. 119), cioè la trasformazione di una data e specifica forma espressiva in una possibilità di generare nuovi contenuti, attraverso per esempio tipizzazioni e codificazioni, come è stato per Hollywood. E una stessa arte può generare più media, più possibilità, per cui il compito dell’artista moderno non è «la creazione di un nuovo esempio della sua arte ma di un nuovo medium all’interno di essa» (ivi, p. 152). Questo porta ad un corollario importante: «Si può sostenere che gli unici strumenti suscettibili di fornire dati per una teoria del cinema siano le procedure della critica». È solo partendo dai film, dalla «critica umanistica che si occupa di film interi» (ibidem), che possiamo immaginare di creare concetti utili per una teoria del cinema, per pensare cosa sia un’arte, a che punto si trovi, e come possa generare nuovi media, e anche portare ad una migliore comprensione di se stessi e del mondo da parte degli spettatori.

E non è un caso che lo stesso Cavell, sia nel volume dedicato alla commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Alla ricerca della felicità, sia nel libro sul melodramma, Contesting Tears, sia in uno dei suoi testi più belli, sullo scetticismo in Shakespeare, Il ripudio del sapere, ma anche in Cities of Words – dove mette in dialogo un film e un filosofo o scrittore – costruisca l’ossatura dei suoi libri su «conversazioni critiche» (come le chiama in Alla ricerca della felicità) con i film. Ed è solo da queste conversazioni critiche che possono emergere non solo elementi di teoria, ma anche la comprensione di quanto di buono i film hanno, anche quelli popolari, con la loro capacità di mettere lo spettatore in condizione di comprendere la sua propria esperienza e di modificarla. Perché la critica non opera su un piano di astrazione, ma a partire da quell’esperienza immediata e primaria – di cui parla Robert Warshow – che è quella dello spettatore: «The actual, immediate experience of seeing and responding to the movies as most of us see them and respond to them» (Warshow 2001, p. XL).

L’opera di Stanley Cavell rimane uno dei grandi esempi di quella che mi è capitata di chiamare la «teoria impura» (De Gaetano 2017, pp. 9 sgg), l’unica teoria che resta ancora viva, perché nata a ridosso della singolarità degli oggetti, del carattere determinato della forma, dell’esperienza concreta dello spettatore.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
S. Cavell, Contesting Tears, The University of Chicago Press, Chicago 1996.
Id., Il ripudio del sapere. Lo scetticismo nelle tragedie di Shakespeare, Einaudi, Torino 2004.
Id.,Cities of Words. Pedagogical Letters on a Register of the Moral Life, Harvard University Press, Cambridge 2005.
Id.,Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Cue Press, Imola 2022.
R. De Gaetano, Il cinema e i film. Le vie della teoria in Italia, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2017.
R. Warshow, The Immediate Experience, Harvard University Press, Cambridge 2001.

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14 Settembre 2023

Bando Transizione Digitale Organismi Culturali e Creativi

Indetto dal Ministero della Cultura nell’ambito del Pnrr

Cue Press vince il Bando Tocc – Transizione Digitale per gli Organismi Culturali e Creativi.

Il Bando Tocc è un’iniziativa promossa dal Ministero della Cultura nell’ambito del Pnrr, finalizzata a sostenere e incentivare la trasformazione digitale di realtà attive nel settore culturale e creativo.

Attraverso contributi a fondo perduto, il bando finanzia progetti che puntino all’adozione di nuove tecnologie e alla digitalizzazione dei processi, favorendo l’innovazione, la diffusione culturale e la competitività di queste realtà sul territorio nazionale e all’estero.

Tra le iniziative premiate si distingue Cue Press, che ha conseguito un importante riconoscimento grazie a un progetto che unisce in modo virtuoso l’editoria tradizionale alle più recenti soluzioni digitali.

Mejerchol'd logbook
3 Settembre 2023

Mejerchol’d, allestire Lermontov ma senza gareggiare

Luca Archibugi, «Alias — Il Manifesto»

La memoria del teatro, in apparenza, è consegnata all’effimero. In realtà, non lo è più della persistenza di tutta l’opera d’arte. E, forse, ogni forma d’arte è consegnata al drenaggio dell’effimero. Il lavoro di Vsevolod Emil’evic Mejerchol’d non è esente da tale drenaggio. Uno dei grandi protagonisti della storia del teatro lotta strenuamente per la sopravvivenza. Ora, il volume pubblicato da Cue Press, Un ballo in maschera (a cura di Anna Tellini, pp. 183, € 26,99), racconta il secondo allestimento del capolavoro di Lermontov, del 1938. Le citazioni dal testo di Lermontov fanno riferimento alla traduzione di Tommaso Landolfi (M. Lermontov, Liriche e poemi, introduzione di Angelo Maria Ripellino, Einaudi, Torino, 1963).

La notevole efficacia di tale pubblicazione risiede nel suo ricollegarsi al lavoro pluriennale di Fausto Malcovati, il maggior specialista italiano di Mejerchol’d. L’effetto generale è quello di mettere alla berlina gran parte della querelle novecentesca fra il detrimento del copione a favore della messa in scena o, come è usuale dire, scrittura scenica. Mostra come ogni testo teatrale non possa non entrare a far parte della scrittura scenica. La prima cosa che balza agli occhi nell’allestimento di questo grande regista è che non esiste spettacolo senza devozione alla drammaturgia. Per drammaturgia non deve intendersi soltanto il testo, bensì, come mostra la funambolica interpretazione di Un ballo in maschera di Lermontov, lo spazio interstiziale fra la scrittura teatrale e quella scenica. La grande rivoluzione apportata da Mejerchol’d agisce soprattutto nel «fra» che si sviluppa in questi due elementi, e, infatti, essa non è necessariamente testuale. L’operazione compiuta è piuttosto di allargamento della testualità. La misura della genialità dell’allestimento si trova nell’ampliamento dei confini, non in una presunta competizione, peraltro ormai pseudo-avanguardistica, fra drammaturgo e regista.

Su Mejerchol’d circolano quattro o cinque luoghi comuni che ne deturpano la memoria, già così difficile da portare in salvo. Citeremo solo il primo, il più importante: la cosiddetta biomeccanica. La biomeccanica di Mejerchol’d, che oggi supera i cento anni, va intesa come metodo olistico. La scuola biomeccanica è detta anche «metodo dell’attore biomeccanico», che difficilmente può essere ridotto a pochi scarni precetti. Nel corso degli anni, dal 1922, Mejerchol’d strutturò centocinquanta partiture fisiche con un tema ciascuna, i cosiddetti Studi. Per questo è del tutto assurdo rinchiudere in pochi principi l’enorme vastità della sua lezione. Egli chiamò Teatro della convenzione tutte le forme precedenti di fondamenti teatrali assimilati nel suo insegnamento. La biomeccanica teatrale attinse a molte tradizioni dello spettacolo, dal teatro cinese al Kabuki, dalla Commedia dell’Arte al teatro barocco spagnolo, dal balletto classico fino al circo. Tale base neutra, assolutamente non normativa, era il modo in cui l’attore poteva recuperare la perdita di sé stesso. Quante analogie potremmo trovare tra questo perdersi e altri modi in cui lo smarrimento si manifesta nella vita di ognuno? Psicoanalisi, poesia, racconto, filosofia, antropologia rivolta a mondi perduti e, perfino, epistemologia in cerca di radici smarrite (non solo, tanto per fare qualche esempio, con Feyerabend e Prigogine, ma, anche, con Santillana).

Pertanto, la biomeccanica non è soltanto un sistema di regole, quanto, con attualità sorprendente, un sistema di rinvenimento dell’oggetto perduto. E questa è anche la missione decisiva che ci assegna l’eredità del teatro di Mejerchol’d. Le regole ci sono, ma sono un viatico per la liberazione. Quarantaquattro principi pedagogici, tanti sono quelli enunciati dal regista russo, non possono che portare, necessariamente, a una conseguenza: ogni attore deve sviluppare in sé la propria arte. E qui rinveniamo lo scontro più cruento della vita di questo grandissimo artista. Il rapporto con il potere, e la politica, fu sempre, in fondo, in stato di fibrillazione. Quella del regime stalinista fu, comunque, a modo suo, una politica, e tale da combattere violentemente ogni forma di liberazione artistica. Simbolicamente, Mejerchol’d rappresenta un’epitome di questo scontro. Fu accusato di formalismo e di trotskismo. La vicenda ne fa uno dei tanti martiri dello stalinismo. Ma, ancora più nello specifico, la parabola di Mejerchol’d rappresenta lo sbiadire del fulgore della rivoluzione nella dittatura assassina. A conclusione di questa intricatissima vicenda, scandita da un andirivieni del dissenso al regime, il regista russo venne arrestato e la moglie, l’attrice Zinaida Reich, accoltellata dopo essere stata accecata. Il testo del secondo allestimento di Un ballo in maschera è il testamento spirituale di Mejerchol’d, formato dagli stenogrammi originali delle prove. L’anno dopo, nel 1939, venne condotto davanti al plotone d’esecuzione.

Monicelli mario foto autore 9
11 Agosto 2023

Volevo essere Dostoevskij

Mario Monicelli, «Il Fatto Quotidiano»

Mi piaceva Flaubert, ma avrei voluto scrivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido – che era meglio abbandonare questa ambizione. E ho ripiegato sul cinema, che comunque mi piaceva. Mi interessava entrare nel mondo che vedevo da ragazzino. Sono del 1915, e perciò vedevo il cinema muto, sono stato educato con quel cinema lì. Io volevo essere un romanziere o un poeta: mi capitò intorno ai diciassette anni di leggere Gogol’, Le anime morte, e allora capii che era meglio abbandonassi quest’idea di fare lo scrittore e ripiegai su una cosa assai più modesta, che è il cinematografo. Con il cinematografo puoi dividere la responsabilità con gli attori, per esempio, e dare anzi tutta la colpa a loro se una cosa è venuta male, oppure al direttore della luce, allo scenografo e soprattutto agli sceneggiatori. E ho avuto una vita più serena. È dal 1934 che lavoro nel cinema. Da troppo tempo perché non sia viziato. Sono un regista accentratore, che sceglie i soggetti, li scrive, cura la sceneggiatura, sceglie gli attori eccetera. Come molti di quelli che credevano di avere qualcosa da dire ho cercato di farlo attraverso la letteratura, poi mi sono accorto rapidamente che non era cosa. Ho provato con la musica, e anche lì mi sono accorto rapidamente che non era il mio campo, e allora ho scelto come ripiego il cinema.

I miei maestri sono gli autori delle farse, i cortometraggi non più lunghi di dieci minuti che quando ero bambino si mettevano in coda ai filmoni con Rodolfo Valentino, Mary Pickford o Douglas Fairbanks. Ufficialmente le farse erano anonime, ma gli autori erano i giovani Charlie Chaplin, Buster Keaton, King Vidor o John Ford che facevano il loro apprendistato come oggi si fa girando spot pubblicitari. Per me sono stati una scuola impagabile: di tempi comici, di psicologie secche, non troppo elaborate ma credibili, e anche di fantasia e di capacità di astrazione… Non c’è niente di cui non si possa sorridere. In ogni tragedia, anche nella guerra che non li vede nessuno più atroce, c’è il grottesco, c’è l’umanità degli individui, con le loro debolezze, i momenti di tenerezza, anche con il dolore. Da ragazzi si andava in questi cinemetti dove lo schermo era una parete bianca dipinta malamente, e lì si svolgevano delle vicende… cose meravigliose: battaglie, amori, cavalli in corsa… Io non capivo bene, ero bambino, cinque o sei anni, noi tutti non sapevamo bene se fosse una roba vera o finzione. Era una cosa magica, meravigliosa… Io allora ero talmente affascinato che volevo entrare in quel mondo, ma non sapevo come, non sapevo nemmeno cosa volessi fare: l’attore, il regista o chissà che… volevo entrare lì nel mezzo; per fortuna tanto ho fatto che ci sono arrivato, molto presto. A fare cose molto umili: l’attrezzista, l’aiuto trucco e così via; insomma piano piano mi sono infilato lì e ci son rimasto tutta la vita.

Non ho mai provato a scrivere un film da solo: mi annoierei. Fra noi sceneggiatori c’era un senso di bottega artigianale molto importante. Scrivevamo i film su misura per gli attori, com’è nella tradizione del teatro: anche Goldoni scriveva le sue commedie per questo o quell’Arlecchino, per questa o quella Mirandolina; e così faceva Shakespeare. Con i cattivi registi si impara molto. Si impara a non fare. Con Fellini cosa vuoi imparare? Non impari niente, perché o sei lui, oppure lasci andare. Cosa vuoi imparare con Fellini o con Antonioni? Non si impara. Si impara con quelli che fanno le stupidaggini, sennò non impari. Impari, casomai, l’atteggiamento, un certo tipo di serietà oppure, al contrario, di non prendere troppo sul serio quello che stai facendo. Aveva ragione Longanesi che raccontava di Rossellini, il quale si lamentava: «Ora non si possono più fare bei film… Allora vi era la guerra, un mondo distrutto». E Longanesi: «Ma che, dobbiamo perdere un’altra guerra o farne un’altra per farti fare bei film?».

Il cinema ha il potere di rispecchiare, di raccontare, ma non quello di fare prediche… Il cinema dovrebbe essere muto, non parlato. Dovrebbe essere composto solo di belle immagini mute che, montate le une con le altre, raccontano tutto quello che c’è da raccontare, e infatti, per i primi vent’anni, il cinema è stato così. Sono stati girati bellissimi film drammatici, comici, farseschi, avventurosi, tutti muti, senza musiche, senza sonoro. Il cinema non produce arte, crea al massimo cultura. Il mio cinema non aspira a verità massime né a piacere a tutti. Il vantaggio dei film brutti è che non li vede nessuno. Il cinema è un’arte applicata, senza l’industria non esisterebbe. È un segno dello squallore dei tempi sacralizzare il cinema come fosse la bottega di Caravaggio… Il cinema è la settima arte; cioè l’ultima. Ma quale arte! Io non ho questa gran stima per il cinema. Avrei voluto essere Buñuel o Huston, ma mi è toccato essere Monicelli e l’ho fatto meglio che ho potuto.

Siegfried kracauer bild deutsches literaturarchiv marbach
23 Luglio 2023

Siegfried Kracauer, «apertura esitante» sempre al di qua delle cose ultime

Rolando Vitali, «Alias — Il Manifesto»

In una delle possibili varianti della critica della cultura, l’oggetto da esaminare si rivela sulla base dei presupposti stessi della teoria, cui si richiede una soggettività solida, sicura dei propri strumenti interpretativi, capace di domare il materiale culturale, riconducendolo a sé, o dimostrandolo come falso. A questa variante – oggi preponderante in ogni ambito – se ne affianca un’altra, che presuppone invece un soggetto dotato a un tempo di infinita forza e di infinita fragilità: capace di farsi attraversare dai contenuti che prende in esame, di perdercisi, senza perciò perdere sé stessa. Solo questa può dirsi una critica immanente: solo in questo caso, infatti, il contenuto dell’oggetto viene assunto integralmente e esaminato sulla base della sua logica interna, senza che il soggetto gli imponga dall’esterno una griglia interpretativa, e rendendosi anzi disponibile a cambiare a sua volta, nel contatto.

Tra i diversi rappresentanti della corrente culturale ebraica che gravitava intorno all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, Siegfried Kracauer è fra coloro che hanno assunto l’ideale della critica culturale immanente nella sua forma più compiuta. Architetto di formazione, scrittore di romanzi (che colpirono Thomas Mann e Joseph Roth), redattore della sezione culturale della «Frankfurter Zeitung» negli anni Venti, temuto recensore e teorico del cinema, storico della vita quotidiana, apolide per vocazione ed emigrante per necessità, finì insieme ad altri intellettuali ebrei negli Stati Uniti, ma a differenza di altri decise di non fare mai più ritorno in patria. «Ciò che in lui arrivava all’espressione filosofica – scrisse Adorno – era una capacità di soffrire illimitata», una disponibilità a farsi toccare dalle cose come fosse «senza pelle», come «se tutto ciò che era esterno toccasse il suo non protetto interno». Questa capacità di farsi aggredire dalla realtà senza mai perdersi è forse la cifra specifica di un pensiero e di un’attività critica che non si arrese mai all’esistente. Negli scritti di Kracauer analisi e critica non sono mai disgiunte. Scrisse di lui Leo Löwenthal: «Ha sempre mantenuto un atteggiamento di forte impegno e allo stesso tempo una costante volontà di non cedere ad alcun assoluto».

La capacità di mantenersi dentro alle cose, riuscendo a svolgerle materialisticamente iuxta propria principia e tenendole contemporaneamente in una tensione trasformativa rispetto all’esistente, distingue Kracauer dagli amici Adorno e Benjamin, entrambi diversamente assorbiti da una dimensione teoretica ulteriore, filosofica o religiosa. Tuttavia, anche negli scritti di Kracauer c’è trascendenza, tensione verso una redenzione, intesa materialisticamente come rivoluzione dell’esistente: che indirizza lo sguardo al particolare disperso, alla superficialità quotidiana, a quell’ambito del profano rimasto muto al di fuori dell’interesse della filosofia e della considerazione critica. Per Kracauer, proprio «tali ambiti profani sono attualmente il luogo fondamentale in cui irrompe la verità». Proprio questa compresenza di tensione teologico-politica – nutrita di marxismo, messianismo ebraico e critica culturale sulla scorta del primo Lukács – e immersione nella dimensione profana della materialità e dell’industria culturale, viene a galla compiutamente nella nuova edizione di La massa come ornamento (a cura di Emiliano Morreale, Cue Press, € 29,99) che propone, finalmente in maniera integrale, la raccolta curata dallo stesso autore nel 1963 per l’editore Suhrkamp. Vi sono raccolti ventiquattro articoli usciti nel corso degli anni Venti, che coprono i temi più diversi, secondo un modello compositivo che trattiene qualcosa del pastiche surrealista, già sperimentato nella Strada a senso unico di Benjamin: sono lavori che, coprendo un decennio decisivo tanto per Kracauer quanto per la Germania della Repubblica di Weimar, mostrano l’evoluzione di un pensiero che si muove in un campo irradiato da tensioni diverse e talvolta opposte.

Le due edizioni italiane precedenti ne avevano selezionato solo alcuni saggi, e pur offrendo un quadro soddisfacente dell’autore, sembravano non volersi far carico dell’intreccio tra tensione per il radicalmente altro e aderenza all’oggetto superficiale: ad esempio, entrambe avevano escluso il saggio critico dedicato alla traduzione di Martin Buber e Franz Rosenzweig. Proprio in questi luoghi apparentemente eccentrici si trova tuttavia espressa in modo quanto mai preciso quella tensione che proprio a partire da un’esigenza di verità tesa verso la totalità e l’assoluto – e quindi affine al contenuto dell’esperienza religiosa – deriva la necessità di rivolgersi alla realtà profana delle condizioni concrete d’esistenza: a quei fenomeni che, proprio in virtù della loro superficialità, espongono «i sogni ad occhi aperti della società». Così la ricerca di Buber e Rosenzweig per una parola pura e originaria diventa oblio del vero invece che sua manifestazione: infatti, sebbene il mondo profano, ossia «gli aspetti economici e sociali non possano rendere pienamente conto della sfera delle esperienze religiose e spirituali», sono proprio quegli aspetti profani ad essere diventati «i fattori determinanti» per la realtà del vero.

Proprio perché in «queste sfere» della parola sacra e assoluta «non è più possibile trovare la verità», Kracauer sceglie di assumere lo sguardo di «quelli che attendono», ossia di coloro che pur assaliti da un «dolore metafisico per la mancanza nel mondo di un più alto significato», per «l’isolamento» e per l’insensatezza della vita meccanica, non si chiudono né in nuove fedi, né in scetticismi assoluti, ma restano in un atteggiamento di «apertura esitante», tentando di spostare «il baricentro dall’Io teoretico», dal mondo «delle pure dimensioni di senso» al mondo prosaico e materiale «della realtà» e della «collettività umana». Di qui lo sviluppo di una sensibilità proteiforme, capace di indagare le condizioni spirituali delle classi medie esautorate (magistralmente descritte negli Impiegati e qui, in nuce, nel saggio dedicato alla rivista «Die Tat», assente dalle edizioni precedenti); le nuove forme di esperienza legate alla fotografia e al cinema; il mondo luccicante e ominoso delle riviste patinate; l’analisi sociologica dei luoghi dimenticati e rimossi; insomma di quelle «manifestazioni superficiali» che, proprio «in quanto non rischiarate dalla coscienza», come il lapsus freudiano «garantiscono un accesso immediato al contenuto dell’esistente». A quanto si trova «prima delle cose ultime» è dunque rivolta l’interpretazione, che proprio in questi «impulsi inavvertiti» trova la luce per illuminare il contenuto fondamentale di un’epoca e, di qui, le condizioni per la sua trasformazione possibile.

Strade maestre 2
12 Luglio 2023

Strade maestre. Un libro sul teatro contemporaneo

«Move Magazine»

Subito dopo il disorientamento causato dalla pandemia con la chiusura dei teatri, Corrado d’Elia e Sergio Maifredi, rispettivamente direttori della Compagnia Corrado d’Elia e del Teatro Pubblico Ligure, si sono rivolti a Eugenio Barba, Lev Dodin, Stefan Kaegi, Antonio Latella; Ariane Mnouchkine, Thomas Ostermeier, Milo Rau; Peter Stein, Krzysztof Warlikowski.
Viaggiando a Berlino, Parigi, Toulouse; Gent, Roma, Palermo, Losanna, gli autori hanno raggiunto uno a uno tali maestri. E hanno dialogato con loro riportando idee ed emozioni utili a tracciare un cammino. Come una boccata d’ossigeno dopo una sosta quando si è in marcia. Il risultato: una serie di incontri straordinari. Accomunati da una convinzione, cementata proprio nel corso dell’assenza del teatro: di esso non si può fare a meno. In un viaggio che tocca alcuni dei luoghi cardine della cultura europea, d’Elia e Maifredi indagano e rivelano il pensiero più vero e profondo di questi innovatori della scena. Riescono a carpirne segreti, ricordi e spesso opinioni inaspettate e del tutto inedite. Grandi uomini e grandi donne di teatro che, proprio a partire da domande, dubbi, riflessioni e urgenze dei due registi si sono fermati a ragionare con loro. Di cosa? Di teatro, arte, bellezza e vita.
Strade maestre è un libro tanto personale quanto sorprendente. Un quaderno di viaggio e di pensiero, che ci prende per mano, accompagnandoci nei luoghi fisici e spirituali del grande teatro. Sempre avendo come riferimento ben chiaro e costante quell’atto straordinario, intimo e creativo che è il lavoro teatrale.

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12 Luglio 2023

Terzopoulos ci aiuta a far rivivere Dyonisos, il dio che rende il teatro un’arte inimitabile

Andrea Bisicchia, «Il Giornale»

Mentre, al Teatro Greco di Siracusa, sono andati in scena spettacoli che hanno avuto, per protagonista, l’eroe tragico – Prometeo, Medea, Ulisse – la casa editrice Cue Press, pubblica Il ritorno di Dionysos (pagg. 76, € 19,99) di Theodoros Terzopoulos, da intendere come ritorno all’energia del corpo, quella delle origini, quella del mito, prima della sua strutturazione in pensiero, dovuta all’arrivo di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Si trattava, allora, di un’energia che veniva declinata in pure e semplici azioni che, però, rispecchiavano le condizioni religiose, sociali e culturali delle origini, quando il corpo conteneva in sé tutte le forze istintive ed energetiche. Dionysos era l’eroe del mito, ben diverso dall’eroe tragico, ed era il dio della ribellione, della danza, dell’eros, inteso non solo come attrazione sessuale, ma come vita; e ancora, il dio del potere, della sregolatezza.

Al contrario, l’eroe tragico è quello che pensa, ragiona, che si oppone, che si ribella, ma che soccombe, come direbbe Emanuele Severino, al destino delle necessità. La sua sconfitta è pari a quella dell’artista, il cui compito consiste nell’andare contro ogni forma di potere, non più quello degli dei, ma quello degli uomini, quindi di chi detiene le idee e costruisce gli ideologismi, quelli che si sono espressi attraverso il materialismo, il liberalismo economico, la globalizzazione, la tecnologia, e che hanno invaso il nostro Olimpo, privo, però, di divinità. Compito dell’artista, pertanto, non è quello di schierarsi, come avviene, puntualmente, oggi, perché, chi si schiera, perde il potere di andare contro il sistema e sente di smarrire la propria libertà. Terzopoulos rivendica, in teatro, la libertà dell’attore, la cui autenticità del teatro stesso che, proprio negli ultimi decenni, ha perso il contratto con le origini, ovvero con Dionysos, il suo tenace rappresentate, il dio che permette, all’attore, di «agire» (actor vuol dire proprio questo), di liberare la propria energia vitale ed erotica, eros inteso come vita e, quindi, la propria creatività.

Il teatro, oggi, ha bisogno di risorgere, così come risorse Dionysos, quando il suo corpo venne smembrato, come accadde ad Adone in Siria, a Osiride in Egitto, ad Attis in Frigia, a Cristo in Palestina. C’è chi sostiene che il teatro di ieri sia morto; solo che, per rinascere, ha bisogno del suo fondatore, ovvero di Dionysos che invita l’attore a ricercare il corpo archetipico, represso dalla consistenza del teatro contemporaneo. Per liberare i propri istinti, con la capacità di reagire alle restrizioni imposte dalla quotidianità e riconquistare una fondata energia; sempre, però, attraverso l’uso accurato del corpo e delle sue conseguenti azioni, da concepire come un’esperienza da vivere in maniera attiva.

Terzopoulos indica all’attore il modo con cui potrà essere portatore di energia, invitandolo a coltivare la voce, la respirazione, il rapporto col tempo e col senso da dare alle cose, a raccogliere i residui nascosti dei riti dionisiaci; e, infine, gli ricorda la salvaguardia del ruolo, che non può essere solo di tipo estetico, ma che dovrà essere, soprattutto, di tipo rituale prima ed esistenziale dopo. Recentemente abbiamo visto con la regia di Terzopoulos Aspettando Godot, con Paolo Musio, Stefano Randisi, e anche Enzo Vetrano. In questo spettacolo, il regista ha voluto esemplificare il suo «metodo», costruito sul corpo, inteso come luogo in cui si consuma il nostro magico quotidiano.

Luca ronconi
1 Luglio 2023

Luca Ronconi nel teatro di andamento favolistico

Andrea Bisicchia, «Il Mondo», IV-3

È possibile andare in cerca della felicità, come fanno i due protagonisti di L’uccellino azzurro (1909) di Maurice Maeterlinck, edito da Cue Press, recuperando la traduzione di Luca Ronconi, pubblicata da Emme Edizioni nel lontano 1979, quando il regista la portò in scena in una, persino eccessiva, produzione dell’ATER? Oggi è possibile rileggerla, con Prefazione di Luca Scarlini e con la riproposta della introduzione dello stesso Ronconi. Alberto Arbasino, in occasione del debutto (1979), scrisse: «Forse è stato lo spettacolo più bello della mia vita e, certamente, uno dei più strepitosi dell’Art Nouveau». Non tutti i critici, però, furono d’accordo con Arbasino. Roberto De Monticelli, sulle pagine del «Corriere», sottolineò una certa «monotonia», dovuta anche alla lunga durata dello spettacolo di oltre quattro ore. In verità, Ronconi volle cimentarsi con la favola, cercando una nuova strada nel Teatro per i Ragazzi, una favola che egli destinava anche a un pubblico adulto; non solo per le qualità simboliche del testo che, come tali, avrebbero dovuto raggiungere tutti, ma perché si trattò di uno spettacolo tipicamente ronconiano, che cercò di andare oltre il valore mitico ed esornativo del fiabesco, per puntare direttamente alla forza dell’irrazionale, oltre che dell’inconscio.

In quegli anni fu pubblicato da Feltrinelli Il libro incantato di Bettelheim (1976), uno studio sulla fiaba e l’inconscio che Ronconi aveva letto, avendo intuito che la fiaba comunica su due livelli, quello della coscienza e quello dell’inconscio. Così, il viaggio iniziatico che i due figli del boscaiolo, Tytyl e Myttyl, compiono attraverso i misteri della Notte, della Morte, della Natura, del Tempo, accompagnati dalle essenze che sono più vicine al loro mondo quotidiano – il Fuoco, l’Acqua, il Pane, lo Zucchero – diventa un viaggio nel proprio mondo interiore. Ai due viaggiatori sarà concesso di incontrare la Fata, a cui riveleranno i loro pensieri, mentre la Luce sarà la loro guida nel territorio dei ricordi, dove intravedono le figure del nonno e della nonna che sembrano addormentati, ma che riprendono vita quando i due nipoti si avvicinano. Arriveranno, nel frattempo, nel Palazzo della Notte, dove incontreranno il Sonno e la Morte. Quando fanno tappa nella Foresta, viene loro ricordato quanto male l’uomo abbia compiuto nei suoi confronti. Solo verso la fine giungeranno nel Giardino della Felicità, dove le Grandi Felicità si mostrano in tutta la loro seduzione; ma non sono le sole, perché esistono le Piccole Felicità, le Felicità Domestiche, la Felicità di star bene in salute e, infine, la Felicità dell’Amore Materno. È chiaro che il viaggio di Tytyl e Mytyl è un viaggio onirico, ed ecco la difficoltà di portare in scena il mondo dei sogni. Come non pensare a Il sogno di Strindberg, che lo stesso Ronconi metterà in scena alcuni anni dopo? Nell’Uccellino azzurro, la storia riguarda il mondo dell’infanzia; solo che questo mondo non può non coinvolgere i grandi, ovvero i genitori, i docenti, gli psicologi. Per questo motivo, Ronconi eviterà di costruire uno spettacolo didattico, puntando su un viaggio di conoscenza che non vuol essere, certo, un viaggio edificante.

Lo spettacolo, come ricorda lo stesso regista, fu concepito utilizzando la tecnica tradizionale del teatro, con fondali dipinti e con molteplici trasformazioni e cambiamenti a vista, avendo come fine la maniera più semplice per realizzare, su un palcoscenico, il sogno di tutti: quello di cercare la felicità col ricorso all’infanzia. Perché grazie ad essa può accadere, come sostiene Luca Scarlini, che si possa escludere la violenza; perché con l’infanzia al potere si viene a creare un antidoto alle idee forsennate delle nazioni che, in quegli anni, si preparavano alla corsa agli armamenti e al primo conflitto mondiale. A Milano, lo spettacolo fu programmato al Teatro Nazionale (1980), fortemente voluto da Giordano Rota. Tra i tanti protagonisti ricordiamo Franco Branciaroli, Regina Bianchi, Mauro Avogadro, Marisa Fabbri, Fabio Grossi, Piero Di Iorio. La Stagione 1979/80 dell’ERT fu molto felice. Ricordiamo, oltre L’uccellino azzurro, Il Gabbiano, con la regia di Lavia; Come le foglie, regia di Giancarlo Sepe; Edipo tiranno, regia di Benno Besson, con uno straordinario Vittorio Franceschi; Antonio Ligabue, regia di Memè Perlini. Quando il teatro non si perdeva in chiacchiere o in fatue teorizzazioni.

Moissia
30 Giugno 2023

Alexander Moissi. Una storia mitteleuropea

Mauro Sperandio, «Inside»

Insegnante e critico teatrale, il bolzanino Massimo Bertoldi è autore di un prezioso volume dedicato ad Alexander Moissi, attore di teatro celeberrimo nei primi trent’anni dello scorso secolo e poi sostanzialmente dimenticato. Artista mitteleuropeo e poliglotta, di origini italiane ed albanesi, austriaco e nato a Trieste, dalla cifra originale, molto applaudito e criticato, Moissi trova in Alexander Moissi – Grande attore europeo 1879-1935 (ed. Cue Press, 2023) un’ampia trattazione. Se il volume di Bertoldi susciterà senza dubbio l’interesse degli studiosi del teatro, sorprendentemente incontrerà il favore anche di chi, con vivace curiosità, vorrà seguire il dipanarsi di una vicenda artistica e umana assolutamente originale. Un incontro con l’autore Bertoldi è l’occasione per allettare i nostri lettori.

Come nasce il suo interesse per la figura di Moissi?

Studiando il teatro italiano e tedesco dei primi trent’anni del Novecento ho dedotto l’importanza europea di Alexander Moissi, nato a Trieste nel 1879 e morto a Vienna nel 1935, tanto famoso all’epoca quanto oggi dimenticato o appena citato a livello storiografico. Mi sono chiesto il perché di questo misterioso paradosso. Inoltre mi hanno incuriosito il rapporto con Ferruccio Busoni, che per lui scrive la commedia Arlecchino o le finestre recitata in tedesco nel 1917 a Zurigo, e le esibizioni di Moissi al Teatro Verdi di Bolzano nel 1934, dove incanta la platea proponendo in italiano i suoi cavalli di battaglia Amleto, Spettri e Il cadavere vivente.

Come descriverebbe la sua personalità?

Moissi aveva una personalità molto marcata e bifronte: da un lato era anima inquieta, pensierosa e decadente; dall’altro lato era dinamico e passionale, esattamente come i personaggi teatrali a lui più cari.

Quali caratteristiche invece delineavano la sua recitazione?

L’elemento magnetico è la sua voce, assai originale per via di un difetto poi diventato stile recitativo «alla Moissi»: declamava con un’impostazione melodica, tenorile, quasi cantata e con una pronuncia della lingua tedesca storpiata da cadenze dialettali veneto-triestine che rendevano le parole musicali e cantilenate. Questa dizione fu croce e delizia. A Berlino inizialmente incantò, mentre nel periodo dell’Espressionismo postbellico fu considerata stucchevole. A Vienna, dove si manteneva viva la tradizione del «ben recitato», Moissi diventò una star.

La sua popolarità gli valse l’occasione per incontri con personalità di spicco dello scorso secolo. C’è tra questi un incontro di particolare rilevanza?

Sicuramente primeggia il viennese Max Reinhardt, maestro di regia del Novecento, che in un rapporto ventennale impiegò l’attore triestino in spettacoli fondamentali, mettendone a fuoco le potenzialità espressive in un confronto con testi assai variegati, dalla tragedia greca alla Commedia dell’arte, da Shakespeare a Shaw, da Ibsen a Tolstoj, fino ai classici del repertorio tedesco quali Goethe e Schiller. Lo stesso Reinhardt creò il contatto di Moissi con Hugo von Hofmannsthal. Nacque un rapporto assai proficuo, tanto che lo scrittore compose per l’attore il dramma La torre e soprattutto il fortunato Jedermann, lo spettacolo-evento del Festival di Salisburgo del 1920, con Moissi nel ruolo del titolo replicato per più edizioni. Singolare è anche il contatto con Luigi Pirandello, del quale Moissi aveva recitato a Berlino in tedesco Il piacere dell’onestà ed Enrico IV. L’incontro avvenne a Castiglioncello nell’estate 1934; riguardava Non si sa come, commedia in fase di stesura. Pirandello modellò un personaggio sulle caratteristiche espressive di Moissi, il quale però morì poco prima dell’inizio delle prove.

A cosa deve Moissi la sua immeritata impopolarità?

Come successo ad altri attori a lui contemporanei, la sua memoria è stata sepolta dalle macerie della Seconda guerra mondiale. In più per Moissi subentra un discorso di appartenenza, di identità culturale secondo visioni marcatamente nazionalistiche che di fatto hanno provocato il suo lungo oblio storico. È germanico perché ha recitato a lungo a Berlino e combattuto sul fronte Occidentale? È austriaco, considerando la nascita nella Trieste asburgica e i lunghi e trionfali trascorsi a Vienna? È italiano per via della madre toscana e per gli ultimi due anni della sua carriera vissuti sui palcoscenici nazionali? È albanese, per il sangue paterno? Risponde Bertolt Brecht: «Io credo che non si possa considerare Moissi solo un attore tedesco. Ancora non si è capito perché è stato per tutti noi così importante e già diverse nazioni litigano per appropriarsene». Così si spiega il sottotitolo «Grande attore europeo 1879-1935» dato a questo mio libro edito dall’imolese Cue Press.

Cosa farà scoprire ai lettori il suo lavoro?

Il libro offre al lettore l’incrocio di più percorsi tematici, a partire dalla figura dell’attore e alla dibattuta e non facile mutevolezza in rapporto alla nascente figura del regista. Così il percorso artistico di Moissi, declinato anche nelle sue lunghe tournées europee e mondiali, comprese le esibizioni a New York, diventa un confronto con le varie realtà teatrali in riferimento alle attese del pubblico e alle valutazioni della critica militante. Altro nodo cruciale sono le scosse telluriche provocate dalla Grande guerra nella cultura teatrale europea: si anima una tensione creativa tra la conservazione di una tradizione attoriale e, di contro, la volontà di cambiamento, moderato o radicali. Moissi oscilla tra queste due visioni.

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