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19 Ottobre 2023

La massa come ornamento [II parte]

Gabriele Perretta «segnonline»

Per la prima volta pubblicato integralmente in Italia, in una coloratissima e decoratissima edizione, la Cue Press di Imola ci fa leggere: Siegfried Kracauer, La massa come ornamento, pref. di E. Morreale e tr. it. di M.G.A. Pappalardo, C. Groff, F. Maione, S. Parisi, 2023; testo dedicato ad Adorno e uscito per la prima volta a Francoforte nel 1963. In quest’opera, divenuta ormai un classico del saggismo novecentesco, S. Kracauer offre al lettore una chiara e interessante interpretazione delle tendenze sociologiche e morali che portarono all’affermarsi della critica del moderno. In particolare, come lo stesso Adorno osserva, nel corso degli anni Venti, assai prima di Jaspers e Heidegger, Kracauer lascia intravedere un progetto esistenzialista, che per un verso capitalizza sulle frequentazioni di Kierkegaard, per altri aspetti si sviluppa grazie all’innesto di queste suggestioni sulla riflessione marxista. Ciò non deve stupire se si considera che, riferendosi proprio a quel decennio, G. Lukács parlava di una «Kierkergardizzazione del giovane Marx». Se nella valutazione di Kracauer si adotta una prospettiva genealogica, ci si rende conto di come le sue scelte critiche originino da un bilancio quasi trentennale delle contemporanee vicende biografiche.

La potenza iconica della parola di S. Kracauer – l’autore di La massa come ornamento – non si è affatto affievolita. Quando l’immagine compare dietro alle parole che scorrono nella metropoli berlinese, è tutto un fiorire di significati eccezionalmente forti e prorompenti. E di certo l’effetto si è ripetuto sugli scaffali delle librerie, grazie a questa nuova edizione, quando il magnum opus della casa editrice Cue Press lo ha editato. Per Siegfried Kracauer la società non è un semplice vincolo di individui, e non è neppure un qualcosa di metafisico, essa, piuttosto ci introduce ai termini di sociation (associazione) e forms (forme) ed è quindi composta dalle persone e dalle loro interazioni; e pensando al termine interazione condiviso da Simmel egli allude alla reciprocità delle relazioni umane osservate in La Massa come ornamento. Per S.K. la società consiste nell’interazione delle persone. La descrizione delle forme di questa interazione (o azione reciproca) è il compito della sociologia formale; il metodo è astrarre le forme di società. Esso, come direbbe Simmel, segue la strada di una grammatica, che isola le forme pure di linguaggio dal contesto per mezzo del quale queste forme, nonostante tutto, prendono vita. I gruppi sociali che presentano enormi differenze di scopo e significato generale possono, tuttavia, mostrare casuali forme di approccio, tramite l’interazione dei loro singoli membri. Scopriamo superiorità e subordinazione, competizione, divisione del lavoro, formazione di partiti, rappresentazione, intima solidarietà unita a diffidenza verso l’esterno; innumerevoli sono gli aspetti simili nello stato, nella comunità religiosa, in una banda di cospiratori, nell’associazione economica, nella scuola d’arte, nella famiglia. Per quanto diversi siano gli interessi che portano alla creazione di queste associazioni, le forme in cui gli interessi vengono realizzati possono tuttavia essere identiche.

Da tali interazioni umane, S.K. affermava, noi dovremmo estrarre quegli elementi che sono comuni a diverse situazioni e avvenimenti, come la competizione e subordinazione. I suoi scritti raccolti ne La massa come ornamento hanno la forma di saggi sulle varie conformazioni sociali o i loro aspetti. Molto spesso egli esamina il profilo di un rapporto in gruppi di diverse misure. Il pensiero sociologico-visivo di S.K. è di genere riflessivo, con frequenti riferimenti ad esempi che illustrano le sue affermazioni. In effetti, il suo caso fu insolito e unico, una stella solitaria nel firmamento della critica moderna, e certamente vale la pena di leggerlo per i molti e diversi modi in cui egli ha considerato la vita sociale e gli aspetti nuovi che ha messo in risalto. Nell’introduzione dell’aprile ’22 ai Saggi di Sociologia Critica scrive: ‘Il mondo dell’uomo socializzato che la sociologia cerca di comprendere secondo il suo principio costitutivo appartiene ad una sfera che potrebbe essere definita in un senso particolare come sfera della realtà, cui in ogni caso la realtà accessibile alle scienze naturali è subordinata. […] Definendo provvisoriamente la sfera della realtà come sfera della trascendenza e la sfera in cui si muove la sociologia in quanto scienza come sfera dell’immanenza, risulterà che la sociologia sarà costretta al tentativo paradossale – e di impossibile realizzazione – di passare dalla sfera dell’immanente a quella del trascendente, dal vuoto spazio del pensiero puro allo spazio pieno della realtà sovrastato da un senso altamente trascendente; in questo passaggio non sacrificherebbe il principio di scienza che la costituisce. In altre parole la sociologia – e non solo la sociologia – tende ad impadronirsi per mezzo di un materiale categoriale valido esclusivamente nel campo dell’immanenza di una zona che non può venir costituita direttamente da queste categorie; essa deve perciò maturare risultati che non ricoprono adeguatamente la sfera della realtà’ (Prefazione a Sociologia come scienza in Saggi Critici (1971), De Donato, Bari, 1974, pp. 4-5). K. era stato uno dei primi a cogliere l’importanza della sociologia simmeliana, pur disapprovandone, in chiave fenomenologica, lo psicologismo. La sociologia di Simmel con la sua attitudine per le indagini al microscopio, gli sembrava un’ottima via di accesso alla realtà. 

K. coglieva esattamente l’elemento innovativo dello sguardo simmeliano, l’aderire alle cose senza dissolverle nella totalità, e anche la specifica inquietudine della sua posizione filosofica. Le ricerche di K. sul mondo degli impiegati e dei piccolo-borghesi berlinesi, centrate in chiave politico-esistenziale sull’alienazione metropolitana, avevano ripreso la via d’accesso simmeliana, ma radicalizzandola. In realtà K., che rimarrà fino alla fine un nomade, tra filosofia e sociologia, tra marxismo e fenomenologia, non si libererà mai dell’impronta di Simmel. Ciò appare non solo nei suoi saggi descrittivi (che restano un esempio insuperabile di sociologia dell’attualità) e nel suo grande affresco su Offenbach e la Parigi del Secondo Impero, ma anche nei suoi romanzi – che costituiscono il corrispettivo letterario di quelle indagini – e soprattutto nella sua opera incompiuta di filosofia della storia, Prima delle cose ultime, una celebrazione dell’avventura storiografica come liberazione dagli ultimi concetti di metafisica della storia, come ricerca negli spazi interstiziali e discontinui delle vicende storiche, tra realtà effettuale e virtuale, in una dimensione affrancata sia dall’empirismo sia dall’idealismo. Eppure, Simmel avrebbe potuto sottoscrive le parole di K.: ‘Unitamente alla mia critica del concetto di storicità, per un’adeguata valutazione dei modi di pensiero che sono tipici di uno spazio intermedio, si può usare con profitto la mia argomentazione concernente la struttura omogenea dell’universo intellettuale. Per sintetizzare le conclusioni di questa argomentazione, le verità filosofiche non coprono pienamente i casi particolari che sono logicamente sussumibili sotto di esse. Nonostante la loro elevata generalità, hanno un raggio limitato. Pertanto il particolare significato e la dignità che esse conseguono al proprio livello, non necessariamente sminuiscono il significato e la dignità di molte visioni o giudizi meno generali’ (edizione americana: 1969; Prima delle cose ultime, Marietti, Genova, 1985, p. 168).

La manipolazione delle immagini, la loro elaborazione grafica è ciò che caratterizza la produzione artistica del «fotografico kracaureriano», nella prima parte de La massa come ornamento, quella ambientata con l’occhio nella città (i cui spazi architettonici asettici si contrappongono al barocco carico di storia). Lo dice chiaramente a un intimo amico che gli mostra le sue fotografie: «Mi sta dicendo che devo elaborare di più l’immagine?», «Esatto. Potrebbe diventare un quadro». Il viaggio del doppio kracauereriano verso la città moderna è allora un percorso a ritroso verso la riscoperta di uno sguardo diretto, ‘innocente’ (riscoperta che metaforicamente avviene anche grazie all’incontro con la letteratura e la sociologia), di un’immagine ancora capace di essere ‘indice’ e non simulacro. Come già nel primo articolo su Simmel della raccolta, anche nel saggio La Massa come Ornamento la denuncia di K. è chiara: la proliferazione delle immagini e degli strumenti per produrle, non costituisce un incremento di conoscenza del mondo ma, paradossalmente, ne impedisce la visione conducendo alla cecità, come accade, letteralmente, al personaggio di Ginster. Il primo romanzo di Kracauer, Ginster, che l’autore definisce un’autobiografia anonima, mette in scena un giovane architetto, un alter ego di Kracauer stesso, disgustato dalle implicazioni commerciali dell’architettura e dalle cellule abitative seriali che l’architettura produce per la pianificazione urbanistica della Germania di Weimar. Traumatizzato dagli effetti devastanti della guerra sul fronte interno, Ginster non crede alla costellazione dell’interiorità, residuo dell’idealismo, e cerca invece negli artefatti e nelle superfici degli oggetti uno stimolo verso una sintesi di estetica e progettualità politica. Nella sua ricerca di una solidarietà organica ma non naturale e la diffidenza verso lo Stato di Weimar, si possono individuare interessanti analogie con il pensiero e la prassi di quella che nei nostri ultimi anni è stata spacciata per biopolitica. Un sapere territoriale da assemblare grazie all’apporto di materiali grezzi, ovvero frammenti di testo irriflessi: questo è quanto cerca Kracauer nella fotografia utilizzata letteralmente come apparecchio sostitutivo della visione. Egli dimostra pertanto di poter convivere con il carattere «geneticamente sfuggente» degli indizi raccolti e, allo stesso tempo, non disdegna la possibilità di un uso simpatetico dell’immagine, come quella che Barthes riannoda all’ipotesi del punctum. E queste affinità contribuirebbero a far coincidere Ginster, che Kracauer qualifica come biografia anonima, con una raccolta di «biografemi».

Scrive brillantemente Barthes: ‘La Fotografia […] mi permette di accedere a un infra-sapere; mi fornisce una collezione di oggetti parziali e può sollecitare in me un certo qual feticismo: infatti vi è un ‘io’ che ama il sapere, che prova nei suoi confronti come un gusto amoroso. Nello stesso modo, io amo certi aspetti biografici che, nella vita di uno scrittore, mi affascinano al pari di certe fotografie; ho chiamato questi aspetti ‘biografemi’; la Fotografia ha con la Storia lo stesso rapporto che il biografema ha con la biografia.’ (Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003, p. 12). Il biografema di Barthes è la facoltà di pensare del Raum-Bild nella sua essenza biografico-relazionale e, come tale, giustifica anche l’apparente vuoto del protagonista nella costruzione, solo esteriormente realistica, del romanzo Ginster. Inoltre, le implicazioni fanatiche dell’immagine, dichiarate da Barthes, accentuano la connotazione iconica di questa trasposizione, cui Kracauer non è immune, visto che sia le fotografie degne del punctum sia i personaggi come Ginster possono essere considerati alla stregua di oggetti confessionali.

Di che cosa si tratta? Sostanzialmente di oggetti di culto, predisposizioni di uno stretto sentimento maniaco ed artistico fra presenza e assenza. Sfera pubblica ed esperienza, di O. Negt ed A. Kluge, che uscì in Germania nel 1972, parlava di industria della coscienza e di una possibile attualizzazione de La Massa come ornamento. Se partiamo dai punti più recenti della crisi della sfera pubblica – ormai da più parti riaffermata e riconosciuta, proposta, analizzata, prodotta – dobbiamo rilevare che essa non è cosa nuova. Se il pensiero della critica dell’alienazione si presenta anche come un momento della storia della ragione moderna, fin dall’inizio esso ne condivide alcuni caratteri e, quando quella ragione mostra la sua crisi, questa stessa attraversa anche la critica dell’economia politica. A che cosa serve allora, nella vita quotidiana, la voce sociologia attribuibile a Talete? Serve a pensare, come direbbe S. Kracauer. Ora, pensare è un’attività a cui ci dedichiamo con una certa frequenza. Tanto vale a questo punto, farlo con precisione, con rigore, sgombrando il campo dai luoghi comuni che ripetiamo. D’altra parte, l’approfondimento dell’esperienza soggettiva delle «masse come presa della parola» o come ornamento, la ricerca intorno a una figura non astratta di soggetto, centro dell’attività fantastica oltre che reale, nesso dei bisogni e dei desideri, da dove proviene se non dalla domanda e dal realismo di Das Ornament Der Masse. Oggi Ken Loach è molto efficace nel mostrare come l’ideologia «dominante dell’imprenditore di se stesso» sia profondamente penetrata nella massa come ornamento ed è coerente – a maggior riprova del suo ‘verismo’ – ad assumere in questo il punto di vista del ‘realismo sociale fuori dall’arte’. «La tecnica consapevolmente funzionale» dice Ernst Bloch, in Spirito dell’Utopia, «porta tuttavia, in determinate condizioni, alla significativa liberazione dell’Arte, sia dagli eccessi di stile e della retorica del passato, sia dalla nuda forma funzionale». In altri termini, la dimensione prettamente tecnologica degli oggetti cinematografici e di uso o fruizione quotidiana può essere letta in termini ambivalenti ma derivanti dalla stessa radice, l’uno squalificante dell’altro: si tratterebbe di una vera lotta tra le masse e gli ornamenti, tra esistenze e pericoli simulacrali. Da una parte c’è il pericolo dell’uniformità, dell’omologazione generale, quindi della perdita dell’individualità, ma dall’altra la possibilità che questo processo riveli l’immagine-cinema nella sua verità politica, come nel caso di Loach, permette all’Arte di essere nuovamente Arte, liberandola dalla schiavitù dell’utilizzabilità. Ogni zona o aspetto della società umana possiede una serie di qualità e di complicazioni che sono ad essa peculiari e possono trovarsi in altre aree solo in modo sporadico e marginale. I gruppi costituiscono un dato così fondamentale per l’immagine contemporanea che numerosi studiosi hanno definito la loro espressione emergente come la fotografia de La Massa Come Ornamento. Anche se altri preferiscono porre in evidenza quell’aspetto dell’immagine che si riferisce al comportamento sociale come basilare per la sua definizione, è ancora possibile aderire al punto di vista di S. Kracauer, secondo il quale l’idea di gruppo è Das Ornament der Masse (1963). Combutte informali di salariati in una fabbrica, in una situazione di agitazione operaia o di fruizione conflittuale, possono dare origine ad un potere non ufficiale, col quale tanto la classe media quanto quella sottoproletaria devono venire a patti. Molti degli sforzi dell’osservazione simmeliana, in un modo o nell’altro, mirano a spiegare i motivi per cui si verificano tutti questi fenomeni. Il solo gruppo, che non è un sottogruppo, è la società stessa. Una società costituisce il gruppo e la massa come ornamento più vasto possibile e proprio per questa ragione, può essere piuttosto sfumato, impreciso o addirittura ornamentale. Società della massa, o massa in società è un concetto molto più chiaro se riesce a confrontarsi con una collettività i cui confini sono facilmente visibili come avviene per certe tribù. Georg Simmel abbordò questa questione, quando studiava il problema di ciò che chiamò ‘incrocio di circoli sociali’, cioè il sottoporsi e l’intrecciarsi dei gruppi visti dalla posizione dell’individuo, nel quale tutti questi circoli vengono ad incontrarsi.

Il comportamento sociale è un espressione opportunamente non ben definita, perché include sia il livello animale della specie umana, sia quel livello che sembra distinguerla dalle altre società animali: la cultura. A livello della cultura, è forse più adeguato parlare di azione sociale. Quella di Max Weber è divenuta la definizione modello: l’azione sociale “ è quasi atteggiamento o comportamento (verhalten) per quanto l’agente o gli agenti attribuiscono ad essi un significato (sinn) soggettivo”. Dallo studio della fotografia, passando a brillanti analisi sociologiche del rapporto tra pubblico e affermazione del grande schermo, fino ai profili densi e pluriespressivi di artisti e pensatori come Benjamin, Kafka o Simmel, la nuova edizione de La massa come ornamento di Kracauer (acutamente curata da Emiliano Morreale e per la prima volta pubblicata integralmente in Italia presso una brillante casa editrice come la Cue Press di Imola) raccoglie tutte le perle saggistiche di un maestro degli studi culturali del ‘900. L’interesse del singolare pensatore che come Adorno, Benjamin, Bloch pratica la scrittura letteraria, il saggio scientifico breve, l’invettiva, il pamphlet, la critica epistemica e il corsivo empirico, si concentra sul comportamento sociologico dei gruppi e delle classi sociali emergenti, in particolare la tendenza a definire i prodromi del «loisir» che nel corso del ‘900, nella prossima età del consumer e del prosumer, modificheranno gli statuti sociali delle moltitudini, disaggregandoli e frantumandoli in una collettività di individui.

Sigfried Kracauer (1889-1966), è certamente uno degli studiosi tedeschi afferenti alle discipline filosofico-sociologiche e storico-mediologiche più noti e bistrattati in Europa. La sua biografia intellettuale e culturale, così sorprendentemente densa di sviluppi repentini e audaci, la sua produzione letteraria e scientifica, fortemente contrassegnata da aperture coraggiose (espansioni, spaziature e rivoluzioni paradigmatiche) e slanci innovativi, il dispiegarsi del suo pensiero, vicino ai francofortesi ma nel contempo marcatamente eterodosso, nel quadro di una serie di questioni pluriproblematiche e pluridisciplinari, che ne hanno connotato tanto il vissuto umano e politico quanto la cifra teorico-metodologica più profonda, hanno alimentato gli interessi di ricercatori afferenti a campi disciplinari piuttosto variegati tra letterature, arti visive e cinema, non sempre tra loro convergenti. Il piccolo laboratorio storiografico, che si è tratteggiato intorno allo studioso tedesco, sebbene venga costantemente arricchendosi e sempre più estesamente articolandosi, non è stato sinora sottoposto ad alcuna organica “rassegna critica”, se non a quella animata da alcuni miei studi espositivi! Rispetto ad Adorno, è possibile delineare quanto al tempo dell’uscita di Prismi (1982), ebbi a dire relativamente alla storia della costruzione di Città senza confine (1984), mostra caratterizzata da una densa dimensione antropologica della tecnica mediale in progress e da un groviglio di storiografia iconico-letteraria! Non è questa la sede per analizzare i termini che hanno connotato la relazione stretta fra Kracauer e il Medialismo, perché evidentemente né un solo saggio e neppure un solo obiettivo semiotico vi potrebbero fare fronte. Doveroso e inderogabile, tuttavia, è sollevarne l’urgenza, mentre assolutamente fattibile sembra una preliminare operazione di alcuni indirizzi di lavoro, da assumere quali punti di partenza per successivi e maggiormente «mirati approcci mediali».

La linea critico-mediale Kafka-Simmel-Benjamin qui individuata, che conduce al Kracauer giornalista, biografo, storico delle origini della fotografia e del dispositivo cinematografico, merita di essere analizzata e meglio definita, poiché proprio da essa è il caso di partire per svolgere alcune riflessioni dal valore più ampio, e per introdurre un costrutto concettuale su cui ha inteso fare leva Monreale e intendiamo fare leva noi del bisogno di ‘atractio electiva’, di ‘rédemption et utopie’! Come dice Michael Löwy, l’affinità effettiva non si sviluppa nel vuoto o nel pieno della pura spiritualità, essa è favorita (o sfavorita) da condizioni storico-sociali di riflessione sulla comunicazione. Se l’analogia e la parentela in quanto tale dipendono unicamente dal contenuto spirituale delle strutture significative in questione, il loro entrare in rapporto alla fotografia e al cinema o alla condizione mediale, quindi la sua interazione dipendono da circostanze socio-economiche, politiche e culturali precise. La lettura goethiana (intendo riferita alle Affinità Elettive) di Kracauer, ovvero la celebre tesi che chiude la visione de La Massa come Ornamento con la dialettica tra favola e verità, ha rappresentato effettivamente un punto di discussione che molti studiosi hanno inteso interrogare per far luce sulla matrice semiotica kracaueriana. Se la relazione Kracauer-Bloch-Benjamin ha costruito una direttrice essenziale in questo asse disciplinare, (plurimediale) meno importante risulta un secondo ambito di interessi, che ha inquadrato la discussione nel perimetro delle istanze iconiche e delle “strutturalità fotografiche.

Non c’è dubbio che il nodo di questo libro di S. Kracauer, La Massa come ornamento (1963), sia rappresentato dalla parola «massa» e dalla definizione di «ornamento», termini che si sono andati ad inserire, in modo imprevedibile e con esiti poco ipotizzabili tra due categorie della critica novecentesca. Ci si potrà chiedere se qui ‘massa’ e ‘ornamento’ siano proprio quel versus cui ci hanno abituati i saggi di sociologia industriale; ci si potrà affidare alla metafora di una collisione cosmica, immaginando due astri via via deviati dalle loro orbite, sino al catastrofico crash finale in cui siamo calati adesso. Resta comunque significativo, che Simmel e Kracauer, esploratori di ambiguità, vengano contrapposti in un tempo per eccellenza ambiguo, anzi rassegnato al proliferare di soluzioni che precedono i problemi. Appare opportuna la determinazione di parametri spaziali e temporali: nella lingua di tutti i giorni, si qualifica come concreto ciò che si può vedere e toccare e astratto ciò che esiste solo nel nostro pensiero. Nella vita quotidiana, si ritiene che ciò che è concreto sia l’individuo umano, il suo lavoro e così via, mentre la società e il lavoro sociale sono considerate astrazioni. Dunque, in questo senso, le persone sono per natura esseri sociali, ed è assurdo tentare di spiegarlo partendo da individui unici, dato che questi non possono che esistere in società. Nessuno può sfuggire al vissuto della propria società, vale a dire alla riflessione politica. Non partecipare a questa domanda, significa accettare la società così com’è, come se fosse perfetta e definitiva e, dunque, contribuire a che non evolva affatto; e questa è una presa di posizione. Così la sociologia dimostra che ci sono questi fondamentali a cui tutti hanno il dovere di rispondere, o addirittura a cui condizionatamente o incondizionatamente rispondono.

Andiamo oltre: è sufficiente scegliere una cosa piuttosto che un’altra per essere liberi? Si è visto che scegliere senza avere coscienza della propria libertà, o della propria massificazione non può costituire un libero vivere. La questione della massa si presenta sempre in rapporto a l’ostacolo dell’ornamento. Per esempio, una cecità metropolitana diminuisce e alimenta le mie facoltà di ribellione; voglio conquistarmi, ritrovarmi, per raggiungere il mio scopo. La ricerca della libertà dall’ornamento appare, allora, come un processo infinito di visualizzazione e di liberazione. Questo vale per un individuo, per una massa, per un artista, per l’umanità intera: l’emancipazione dalla massa e soprattutto dal farsi metropolitano di un ornamento, come nelle foto dei migranti storici e in quelle dei deportati, economici, giuridici, sociali, politici eccetera… danno ogni volta agli uomini la possibilità di superare le costrizioni, a condizione di seguire alcune regole (scientifiche, sociali, morali) alle quali si decide o no di sottomettersi. Adolf Loos, un appreso costruttore austriaco tra i padri dell’Architettura moderna, guidò per tutta la vita una battaglia contro l’ornato come forma di decorazione inutile. Togliere l’ornamento da qualsiasi cosa, che sia un vestito, un mobile, una casa o una forchetta. Probabilmente, l’origine di questo pensiero nasce da un viaggio negli Stati Uniti, in particolare a Chicago, dove avrà la possibilità di conoscere le architetture di Sullivan, il vero precursore delle strutture in acciaio. Nel 1910 venne pubblicato il suo dissacrante libro contro la Secessione, dal titolo ‘Ornamento e Delitto’. In questo piccolo saggio Loos chiariva le cause per le quali qualsiasi tipo di addobbo non fosse altro che l’uso di un mancato apprestamento culturale. A questa architettura, Loos preferisce la sobrietà dei volumi basici ma adeguati, per degli spazi meditati e soppesati. Nel suo scritto afferma che ‘l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’abolizione dell’ornamento nell’oggetto d’uso’. A differenza di Loos e di Kracauer, Bloch usa la ‘profondità ornamentale delle creazioni umane’ (non solo opere figurative, ma soprattutto architetture, oggetti di design…) per seguirne in profondità le radici fino ai punti vitali della cultura, delle progettazioni del mondo e dell’esistenza. Bloch traccia una significativa ontologia dell’ornamento. Si inserisce nel dibattito novecentesco sull’argomento con una posizione tutt’altro che manichea o semplicistica e senza nulla concedere a luoghi comuni, o a concezioni abbonate. Le sue argomentazioni, assegnate ad un arco temporale dal 1914 al 1968, sono ben strutturate, organiche e coerenti, fin oltre quello che ci si potrebbe attendere. Bloch prende le distanze dai due principali indirizzi che dominano il XX secolo con alterne vicende: il Funzionalismo, più connesso e unitario (Gropius e il Bauhaus, van der Rohe, Adolf Loos, spesso citato), e l’architettura organica, più articolata ed eterogenea, cui vengono ricondotti tanto il Liberty quanto il Razionalismo di Wright e altri (che, a partire dagli anni ’30-’40, vogliono integrare artificiale e naturale, in piena continuità), o gli arredi realizzati su calco dell’anatomia in chiave ergonomica (Carlo Lodoli, protofunzionalismo settecentesco). Sulla scorta della ‘lavabilità’ (così Bloch definisce in ‘Spirito dell’utopia’ il criterio che sembra ispirare scelta di materiali e forme nel Funzionalismo) viene mortificata ogni differenziazione, ogni peculiarità, capace di dare un senso e un significato all’opera e al mondo di cui fa parte. L’appendice, nel suo sfruttamento artistico, ma in fondo in fondo anche sociale, è la perdita di orientamento nella fruizione (insieme estetica e funzionale) dell’opera (e qui qualcosa potrebbe avere a che fare con S. Kracauer). Bloch non usa mai il termine ‘globalizzazione’, e forse neanche quello di modernità massificata abbracciata dall’ornamento, ma non disdegna di denunciare l’individuazione delle condizioni e delle implicazioni espansive del capitale. Secondo Bloch occorre dimostrare, criticare ed annullare il decorativismo epidermico e illusorio (sulla bugia come pericolo nell’arte insiste a più riprese), pretestuoso, senza alcun radicamento. È soprattutto per questo, che la decorazione si differenzia dall’ornamento, essendo la prima un riporto fittizio e la seconda coessenziale dell’espressione. Non esita a individuare la decorazione (nel senso su esposto, altro dall’ornamento) nel kitsch, nonché in ogni piacere facile, ‘culinario’, di consumo, che una certa arte o un certo design pretestuosamente diffondono, sull’onda della produzione industriale, nonché di uno sbrigativo e malinteso senso estetico. 

Il punto essenziale della psicologia di Kracauer era il carattere intenzionale della coscienza. Intenzione è da prendersi qui nel suo significato più vasto, che abbraccia non solo l’intenzione di fare, ma tutti i possibili rapporti in cui la mente può trovarsi con i propri oggetti. Noi, oggi, siamo soliti parlare di intenzione solo in senso pratico e, in tal caso, l’oggetto dell’intenzione è uno scopo, qualcosa che si vuole fare, qualcosa dentro cui si vuole agire. Ma questo non è altro che uno dei termini scolastici di intentio, a cui Kracauer, e prima di lui Georg Simmel, si richiama. Per i critici cinematografici della Frankfurt Zeitung degli anni ’20 del ’900, l’intentio poteva essere, non meno che pratica, conoscitiva. E, del resto, anche noi, quando usiamo il verbo intendere, possiamo usarlo nel senso di voler fare una passeggiata per i grandi magazzini, costituire un gruppo di pressione, ma anche nel senso di voler dire o, in genere, di capire qualche cosa e di fare, di questa cosa, l’oggetto della nostra considerazione o costruzione. I significati dei nostri discorsi dipendono da tutte queste complesse intenzioni, come appare in inglese anche dalla connessione tra meaning, significato, e to mean, intendere o avere intenzione. L’intenzionalità partecipativa del mondo moderno, questo peculiare rapporto che la mente ha con i propri oggetti, permette a S. Kracauer di correggere le deviazioni naturalistiche nel modo di concepire il funzionamento della mente nel sociale. L’oggetto non è un contenuto della mente, o un’affezione del soggetto, uno stato del suo animo, una modificazione della sua psiche; ma neanche il soggetto della folla è una specie di supporto o attaccapanni a cui si appendono, nel corso dell’esperienza metropolitana, le rappresentazioni. Esso acquista, piuttosto, il carattere di un atto, di un riferirsi a, di un muoversi verso. Nel linguaggio del ‘giornalista culturale’, S. Kracauer si potrebbe, sia pure inadeguatamente, indicarlo con la metafora di un vettore. Le annose discussioni tra realisti e idealisti, almeno sotto l’aspetto sociologico, da questo punto di vista perdono il loro interesse. La fenomenologia della metropoli, di Simmel, è, piuttosto, un’attività che mira ad enucleare, dal magma della coscienza vissuta, l’oggetto della sua differenza; e – anche se a certe sue applicazioni si può rimproverare di aver scambiato per un oggetto puro, che dovrebbe presentarsi allo stesso modo a tutti, una costruzione del singolo in cui molto rimane di arbitrario – è innegabile che, per indicare le condizioni con cui si può pensare un oggetto puro della mente, la fenomenologia delle masse sociali abbia messo le mani su concetti fondamentali. Del resto, che dall’insegnamento di Simmel scaturisca naturalmente una teoria «dell’oggetto-massa» come soggettività protagonista o come ornamento, lo si vede anche dalla carriera di un altro intellettuale molto vicino: Walter Benjamin di Parigi Capitale. Anche i valori delle masse moderne, dei gruppi sociali, secondo Kracauer, possono essere studiati nella loro oggettività, e per questo la teoria dell’oggetto si accosta alla riflessione sociologica dei valori, professata da Simmel. Kracauer stesso, inoltre, non si limita a teorizzare le condizioni a cui il pensiero sociologico può cogliere, grazie a una intuizione eidetica, gli eide, o le essenze del mondo: ma soprattutto, nell’ultimo periodo della sua vita, quando riprende nel 1963 gli scritti di La Massa come Ornamento, sostiene il dubbio di come siano fatte, in realtà queste essenze. Kracauer tentò, insomma, di entrare nel merito di una nuova metafisica dell’architettura metropolitana moderna (struttura e infrastruttura: umana ed oggettuale) e nel flusso vitale-pubblico che si espande sul territorio della città. Al cinema, e alla fotografia, non resta altro che tornare a quell’originario e perduto rapporto con il mondo che le immagini digitali hanno messo in forte discussione: spingersi fino al limite nel registrare la realtà fisica (quello che, secondo Kracauer, è il compito del fotografo). Tornare a farsi occhio prima che racconto. Senza inutili storie. Bisogna soltanto puntare, mettere a fuoco e sparare (vedi il mio recente: Il sensore che non vede. Sulla perdita dell’immediatezza percettiva, Paginauno, Milano, 2023).

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12 Ottobre 2023

È l’imolese Cue Press la casa editrice del Premio Nobel per la Letteratura

Lorenzo Benassi Roversi, «il Nuovo Diario Messaggero»

Dalla scorsa settimana, Jon Fosse è entrato nel discorso pubblico del nostro Paese e, a giudicare da quanto si parla di lui e delle sue opere, sembra sia entrato anche nel novero degli autori che fanno parte dell’immaginario collettivo della grande letteratura contemporanea. Non che si trattasse di un Carneade qualunque, ma da quando gli è stato attribuito il Nobel – «per le opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile» – ci siamo accorti di questo drammaturgo norvegese dai testi difficili e dalla fisionomia nordica. In realtà, a Imola, già da prima c’era chi credeva alla forza della sua scrittura, e non solo a parole. «È dal 2018 che abbiamo iniziato a investire sulle opere di Jon Fosse, pubblicando i suoi libri» spiega Mattia Visani, attore e regista, formatosi al Teatro Stabile di Torino, e nel 2012 fondatore di Cue Press, casa editrice imolese, specializzata in arti e spettacolo.

«Il conferimento del Premio Nobel a Fosse è stata una grande soddisfazione anche per noi. Abbiamo festeggiato e poi subito ci siamo essi al lavoro per soddisfare il carico di ordinativi che la notizia ha generato». Cue Press, infatti, detiene l’esclusiva di tre volumi, che raccolgono cinque di quelle opere, rivelatrici dell’indicibile, per le quali è stato conferito il Nobel a Jon Fosse: Teatro, che raccoglie i primi lavori dell’autore, Caldo, la storia di due uomini accumunati dal ricordo di una donna misteriosa e Saggi gnostici, nelle cui pagine si riflette il pensiero dell’autore sulla vita e sull’arte. Spiega Visani: «Si tratta di opere intense, profonde. Non sono testi facili, ma per il lettore che si lascia affascinare sono una vera sfida che speriamo possa coinvolgere più persone possibili».

I numeri raccontano molto dell’effetto mediatico del Nobel: «Se prima vendevamo una o due copie l’anno ai lettori più attenti e agli specialisti, solo nella prima giornata, dopo la notizia del Nobel, abbiamo ricevuto richieste per oltre tremila copie. Senza precedenti» racconta l’editore, che però non crede che il Nobel farà di Fosse un autore di massa nel nostro Paese. «È piuttosto l’occasione per allargare la platea di lettori italiani» spiega. Cue Press d’altronde nasce per rispondere alle esigenze di un pubblico attento, interessato al teatro e al cinema, e a questa scelta risponde anche l’attenzione dedicata a Fosse fin dai tempi in cui in Italia era ignoto ai più. «Tenevamo a proporre al nostro pubblico un’esperienza originale. Ora il sogno è quello di portare Fosse a Imola, sarebbe un successo culturale per la città e per il territorio». Intanto, l’esclusiva delle opere di Fosse è una grande opportunità per Cue Press, che si muove in un mercato di nicchia ed è in crescita: «Da poco abbiamo assunto la seconda dipendente». A rinforzare l’organico della casa editrice, ai due dipendenti e all’amministratore si aggiungono varie collaborazioni stabili: «Nasciamo dal rapporto che ebbi con Ubulibri, casa editrice milanese dedicata alle arti e allo spettacolo e diretta da Franco Quadri. Da quell’esperienza intravidi una possibilità e decisi di fondare Cue Press. La fedeltà alla missione che ci siamo dati all’inizio è parte dell’identità che sentiamo nostra».

La vita culturale di una città come Milano sembra più adatta a favorire la crescita nel difficile ramo dell’editoria, ma «Cue Press fa parte del territorio. Qui abbiamo trovato competenze e sensibilità. Il digitale poi ci aiuta a superare le distanze» spiega Visani, originario di Casalfiumanese.
Da Samuel Beckett a Vittorio Gassman fino a Stanislavskij, si allarga molto oltre quello di Fosse il novero dei grandi nomi editi da Cue Press, premiata negli scorsi anni come startup culturale dal bando di Regione Emilia-Romagna dedicato alle imprese innovative. Spiega Visani: «Si è trattato di un’occasione importante di consolidamento e di un riconoscimento che ci ha incoraggiato ma l’obiettivo di Cue Press è quello di stare sul mercato, vendere libri, affermandoci sempre di più nel segmento che abbiamo scelto e fidelizzando un pubblico via via più ampio».

12 Ottobre 2023

Strade maestre: D’Elia e Maifredi tra i grandi registi del contemporaneo

Vincenzo Sardelli, «Krapp's Last Post»

Le vie del teatro come la via della seta. La ricerca dell’arte e la riflessione sull’arte, sulle tracce dei maestri che hanno fatto grande il teatro contemporaneo. È una piacevole scoperta Strade maestre di Corrado d’Elia e Sergio Maifredi. Fresco di stampa, il libro (Cue Press, Imola 2023, pp. 224, € 24,99) è un itinerario nella vita, nell’arte e nella filosofia di alcuni grandi registi europei viventi. D’Elia, fondatore di Teatri Possibili, incontra Maifredi, fondatore di Teatro Pubblico Ligure. Insieme battono il Vecchio Continente per confrontarsi con giganti del calibro di Peter Stein, Eugenio Barba, Stefan Kaegi, Milo Rau, Thomas Ostermeier, Antonio Latella, Krzysztof Warlikowski, Lev Dodin e Ariane Mnouchkine.
Un’ossessione guida il percorso: il concetto di Maestro (scritto con la M maiuscola), partendo dalla sensazione che i giovani teatranti non riconoscano più il prestigio e l’autorevolezza di un magister. Le domande istituiscono delle conversazioni che, intrecciate in una sorta di puzzle, definiscono lo stato di salute del teatro europeo. A leggere il libro, pare di entrare nel «nobile castello» del Limbo, dove Dante e Virgilio dissertano con Omero, Lucano, Orazio e Ovidio «parlando cose che ‘l tacere è bello». Qui, però, nessuna reticenza. I confronti sono diretti, immediati e spesso spiazzanti; vertono sull’arte e sugli intrecci con la vita; sul metodo registico e sulla relazione con lo spazio scenico; sul rapporto con pubblico e istituzioni; sul concetto di teatro ideale. Ma il canovaccio si dissolve, si deforma sulla poetica di ogni artista, modificato dalle diverse risposte.
Ciò che interessa in questo itinerario ricco di belle foto (di Ruggiero Dibenedetto) e note biografiche, è anche il primo ricordo di vita vissuta e di vita teatrale degli artisti interpellati. Essi sono interrogati sull’evoluzione della loro arte, sul rapporto con la società e con la politica, sul legame con la lingua, la scrittura e l’identità. Le biografie intersecano la grande storia: ad esempio la guerra, cui sono legati i primi ricordi di Stein, di Barba e di Mnouchkine; oppure la Cortina di Ferro, che riecheggia nei racconti di Ostermeier o Warlikowski. E che dire del russo Dodin, irraggiungibile dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, che pure ha il coraggio di denunciare senza mezzi termini su una rivista russa la barbarie aggressiva di Putin e un «ventunesimo secolo più orribile del ventesimo»?
Strade maestre tocca i grandi temi esistenziali, dalla morte alla fede, al lockdown. Gli incontri sono avvenuti proprio in epoca Covid. Ne avvertiamo quel soffio grigio, eppure ricco di opportunità.
Le parole degli artisti sono un’antologia di riflessioni mai banali. Domande e risposte sembrano compenetrarsi, e non sembra casuale la scelta dei caratteri grafici quasi indistinguibili per le une e le altre, senza l’uso di corsivi o neretti. Queste pagine ben scritte oscillano tra cronaca e letteratura. Colpisce la descrizione dei luoghi, succinta e sognante: Roma «luminosa e allegra come una giovane sposa»; Losanna, distesa con dolcezza lungo il lago Lemano; Berlino, città-stato sterminata, vecchia conoscenza archetipica del nostro immaginario, «metropoli poliedrica, permissiva e multietnica».
Strade maestre è uno scrigno di pensieri acutissimi. Non mancano le staffilate. Ecco Peter Stein che boccia l’architettura del teatro all’italiana («per me la morte del teatro»), che biasima lo streaming e il dilagare in sala delle immagini, che stigmatizza i monologhi e la performing art, che deplora i CdA politicizzati, o certi registi che usano un pene di plastica laddove il testo richiederebbe solo di sguainare una spada. Fino alla bordata di definire associazioni a delinquere i Teatri Stabili. Per converso, Latella magnifica l’identità liquida democratica e multiculturale di Berlino e i copiosi finanziamenti di cui godono i teatri tedeschi (22 milioni all’anno per un teatro medio). Intanto, mentre postula l’inscindibilità tra vita, lavoro e arte, Latella magnifica la scena off italiana e la capacità di registi come Castellucci di creare un nuovo codice espressivo. E chissà che non pensi proprio a Stein quando sentenzia che «i registi tedeschi che amano il teatro dittatoriale prima o poi vengono a lavorare in Italia».
Strade maestre è un viaggio. Non meno della storia, la strada è maestra di vita. Come Diogene con la lanterna, d’Elia e Maifredi peregrinano tra città, artisti e teatri. Mentre cercano l’arte e la riflessione sull’arte, mentre scandagliano la poetica e il metodo dei grandi maestri, di fatto si mettono in cerca dell’uomo. Per affinare lo sguardo, occorre uscire dal recinto. Perché nessuna arte, più del teatro, avviene tra le persone: è incarnata dalle persone, vive tra le persone, è realizzata per regalare sogni, dubbi, pensieri, alternative alle persone.

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10 Ottobre 2023

La danza e l’agit-prop. I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento

Barbara Berardi, «Theatron 2.0»

I primi decenni del Novecento hanno visto nascere il desiderio, da parte dei cosiddetti padri fondatori del teatro e della danza, di attuare una vera e propria «ri-teatralizzazione» attraverso rivoluzioni stilistiche e sperimentazioni nel campo dell’arte scenica. Nel libro intitolato La danza e l’agitprop: I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, pubblicato da Cue Press nel 2015, Eugenia Casini Ropa si sofferma sulla rivoluzione culturale avvenuta in quegli anni in Germania. Studiosa del teatro e della danza del Novecento, ha pubblicato numerosi saggi e volumi di stampo socio-politico sul teatro tedesco e sulla storia della danza moderna e contemporanea. Inoltre, è curatrice della collana editoriale I libri dell’Icosaedro e delle riviste Teatro e Storia e Danza e Ricerca. Casini Ropa sceglie come soggetti privilegiati di indagine due fenomeni – «i teatri non-teatrali» – che in quegli anni rivelarono in modo più radicale le proprie esigenze di rifondazione. La «nuova danza» tedesca, nata dalla rivalutazione pedagogica del corpo umano, basata sul rapporto di interdipendenza e simultaneità tra anima, corpo, disciplina e natura; e l’agitprop, teatro rivoluzionario operaio di agitazione e propaganda nato dall’ideologia socialista. Dopo un contesto artistico iniziale, lo studio continua concentrandosi su come le realtà e gli artisti che si dedicarono alla scoperta e allo studio della pedagogia, del rito, dello sport, della religione, dell’associazionismo e della politica contribuirono a scardinare gli antichi schemi del linguaggio artistico per creare un nuovo teatro del movimento espressivo.

Il volume si apre esaminando un concetto alla base del cambiamento di pensiero di quegli anni: la Körperseele (fusione perfetta tra anima e corpo). Questa visione innovativa portò diversi studiosi a rivoluzionare il lavoro con il corpo degli attori e dei danzatori, trasformandolo in una ricerca di una nuova armonia non solo fisica, ma anche morale e spirituale. Tra i protagonisti citati, ci sono pionieri di questa nuova era per la Körperkultur (cultura fisica), tra cui François Delsarte, Madeleine G. e Mary Wigman, tra le più innovative danzatrici della loro generazione, e il confronto tra la ginnastica euritmica di Émile Jaques-Dalcroze e il metodo di Rudolf von Laban, considerato il padre della danza libera, narrato in seguito all’esperienza della scuola-colonia di Monte Verità.

La seconda parte si concentra sul teatro proletario in Germania, esaminando i suoi sviluppi tra gli anni Venti e Trenta e il conseguente rafforzamento di un sentimento collettivo di consapevolezza e lotta di classe. L’agit-prop, nato dalla collaborazione tra attori-operai e scrittori rivoluzionari, metteva in scena rappresentazioni con un forte contenuto ideologico e propagandistico, finalizzate a risvegliare una nuova e consapevole coscienza di classe tra il proletariato. Erwin Piscator, Béla Balázas, Friedrich Wolf e altri intellettuali engagé si fecero portavoce di un allontanamento drastico dalla forma, dai temi e dal naturalismo del teatro borghese, per dare vita a una nuova tipologia di «teatro-comunicazione».

Alla conclusione dei vari contesti storici indagati, segue un ultimo capitolo dedicato alle testimonianze iconografiche. Eugenia Casini Ropa conclude il volume con una ricca raccolta di immagini: danzatrici con tuniche in pose che richiamano i fregi e le statue dell’antica Grecia, allievi della scuola labaniana, esempi di esercizi di ritmica nell’Istituto di Hellerau di Dalcroze (fotografie che mostrano il lavoro di ristrutturazione effettuato in collaborazione con Adolphe Appia), e foto dei gruppi agitprop, ritratti espliciti dello spirito di lotta che li animava. Un’enciclopedia di fotografie che facilita la comprensione degli studi rivoluzionari di quegli anni e delle peculiarità che caratterizzano le diverse tipologie di ricerca artistica.

«Che cosa resta di tutto questo e che cosa può ancora oggi, a un secolo di distanza, risuonare in qualche modo dentro il lettore? Qualcosa di attuale compare, almeno ai miei occhi, guardando più a fondo. Qualcosa allora sognato, sperato, perseguito nel pensiero e nella pratica, sperimentato in prima persona come modo di vita sia individuale sia sociale, portato con decisione alle estreme conseguenze.
E questa qualità del vissuto è già in sé un primo, forse semi-cosciente motivo di attrazione ai nostri giorni: la lezione esplicitata della ormai tanto difficile capacità di credere fino in fondo in un’idea – che non sia il denaro e il successo – e di tradurla in azione costante nella vita e per la vita. Compare qualcosa, dicevo, che si sintetizzava allora in due concetti in problematica dialettica: emancipazione dell’‘individuo’ e costruzione del ‘collettivo’ o del ’coro’, a seconda delle parti in causa, e che oggi, in mutate condizioni, potremmo tradurre in: ridefinizione della persona e costituzione della comunità. […] La danza, il teatro, l’arte in generale, si propongono ancora oggi come allora, ma con forza e voce purtroppo assai affievolita – almeno nel nostro Paese – da un clima culturale sfavorevole, come possibili, creativi strumenti di formazione personale e di relazione e aggregazione sociale. Occorre scoprire e diffondere – e in questo nuovo inizio di secolo molto già si lavora sperimentando – i modi più efficaci per fare ancora dell’arte un laboratorio sperimentale utile alla crescita delle persone e della cultura sociale. E poiché non si può prescindere dalla storia per orientarsi al futuro, le immagini un po’ sbiadite e fuori moda di questo volume acquistano probabilmente nuova brillantezza e le storie di uomini e donne che hanno creduto e lottato fino in fondo, qualunque si sia poi rivelato l’esito delle loro lotte, possono ancora mettere in moto il pensiero e risvegliare in chi legge l’eco di una necessità di partecipazione mai del tutto sopita».

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8 Ottobre 2023

Post Teatro

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Letture di resistenza

«Non ricordo quasi niente della mia infanzia. La mia memoria comincia con la morte di mio padre. Prima di quell’agonia che ho vissuto come un rito di passaggio e una nuova consapevolezza della condizione umana, ho rari ricordi, tutti di guerra». Sono parole del regista Eugenio Barba, grande «maestro» e rivoluzionario del teatro della seconda metà del Novecento, dal libro Strade maestre di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi. Nella newsletter di oggi, infatti, parlo di libri. Non soltanto di letture piacevoli per le vacanze estive, ma di resoconti e racconti su cui vale la pena riflettere per il loro valore di «resistenza» al conformismo dilagante, o perché hanno un loro pensiero originale, o semplicemente perché ci stimolano a farcene uno proprio.

La lezione dei «maestri»

È stato una bella sorpresa la lettura di Strade maestre, il libro di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi (Cue Press, € 24.99) che consiglio vivamente. Intanto è bella l’idea da cui nasce: interrogare i più grandi registi della scena contemporanea, «maestri» come Eugenio Barba, appunto, Lev Dodin, Arianne Mnouchkine, Peter Stein, e nuovi maestri come Warlikowski, Ostermeier, Latella, Stefan Kaegi, Milo Rau. Una bella scelta. I due autori li hanno incontrati, non per intervistarli come «giornalisti», ma per capire dalla loro vita e dal loro lavoro, dagli inizi, dalle domande che li hanno accompagnati nel corso degli anni, dalle relazioni che hanno costruito, il senso del fare teatro. Ne escono una serie di autobiografie umane e artistiche molto interessanti.
C’è Peter Stein che parla della cultura in modo profondo (leggete la risposta in cui parla della regia), c’è Milo Rau che precisa la sua idea di «nuovo teatro popolare», Arianne Mnouchkine che ricorda l’importanza di avere «maestri», Antonio Latella che confessa come il teatro lo ha fatto ritrovare. Sono parole spesso importanti, quelle dei «maestri», pensieri che sono radici da cui ripartire se si vuole capire il teatro. Ma non è un libro solo per teatranti o per chi frequenta il teatro, perché racconta come il teatro non sia solo una macchina per produrre, per vendere, per mostrare spettacoli, ma un luogo che congiunge tutte queste cose, che ha a che fare con la vita delle persone , con la società che c’è intorno.
Il teatro come macchina per comunicare, che talvolta ci appare disordinato e confuso, ma che attraverso le personalità di grandi artisti che riempiono le sue strade, ci appare una «strada maestra».

7 Ottobre 2023

Jon Fosse, il Nobel alla Letteratura e la piccola casa editrice di Imola: «Sommersi di richieste, tremila libri in poche ore»

Simona Cantelmi, «Corriere di Bologna»

La notizia del Nobel per la Letteratura allo scrittore norvegese Jon Fosse ha sconvolto la routine di una piccola ma prestigiosa casa editrice di Imola. La Cue Press, che pubblica testi di teatro e cinema, è la casa editrice italiana che ha pubblicato alcuni testi teatrali di Fosse e in queste ultime ore è stata travolta da migliaia di richieste come spiega il fondatore della casa editrice, Mattia Visani.

Immagino che queste siano ore calde.

Sì, abbiamo ricevuto più di tremila richieste dei suoi testi in poche ore, ne siamo molto felici. Di Jon Fosse abbiamo pubblicato una raccolta di tre testi teatrali (E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome), un testo singolo (Caldo) e il testo teorico Saggi gnostici. E non è l’unico Nobel del nostro catalogo: abbiamo anche Samuel Beckett.

Cosa avete in programma con Jon Fosse?

Vogliamo portarlo a Bologna e a Imola, cominceremo a breve a dialogare con i suoi agenti. Poi speriamo che tutto ciò sia da traino alle vendite delle altre pubblicazioni.

Qual è stato l’iter di pubblicazione dei suoi testi?

Jon Fosse è prima di tutto un drammaturgo, uno scrittore per la scena e nel mondo del teatro è già conosciuto da vent’anni. Ma nell’ambito della drammaturgia italiana e straniera ha una vita molto particolare, nel senso che non è che andasse a ruba, ma noi ci abbiamo sempre creduto perché è un grande autore. Lo abbiamo pubblicato prima di Elisabetta Sgarbi (direttrice de La nave di Teseo, l’altra casa editrice italiana di Fosse, [N.d.R]), per esempio, è un dato di fatto. Conoscevo la sua produzione e sono andato a cercarlo, dialogando poi col suo agente norvegese.

Ci racconti della sua casa editrice.

Cue Press è nata dieci anni fa, da una costola di Ubu Libri. Quando uscì il mio libro Franco Quadri di Ubu Libri morì e decidemmo di aprire una casa editrice digitale. Vedete, in quel periodo le case editrici digitali erano di moda e una grande promessa. Ma negli anni molte sono nate e poi morte, mentre noi siamo ancora qua. Poi oggi ovviamente abbiamo in primis la produzione del cartaceo. In un anno facciamo circa ottanta uscite, ma ci stiamo proiettando verso le cento.

Progetti futuri?

In tema di Nobel, stiamo completando un grande lavoro di pubblicazione dei testi Samuel Beckett, come ad esempio un volume che raccoglie gli appunti di regia, i testi riveduti sulla base della sua esperienza registica. A fine mese usciranno i suoi Testi brevi. E stiamo trattando anche la prima mondiale del quaderno di regia di Happy Days. Per la prima volta in Italia potremo inaugurare un vero e proprio settore di studi beckettiani. Poi a breve uscirà il grande Scene madri di Bernardo Bertolucci e Enzo Ungari. Insomma, tanti progetti sia teatrali sia cinematografici.

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6 Ottobre 2023

A Imola l’editore del Nobel: «Ordinati duemila libri in un’ora»

Patrick Colgan, «il Resto del Carlino»

«Si è risvegliata un’attenzione incredibile, ci hanno ordinato duemila copie in un’ora».
Pioggia di telefonate ieri alla Cue Press di Imola, piccola e apprezzata casa editrice specializzata in cinema e teatro. Ieri è stata una giornata speciale perché è una delle poche case editrici che hanno tradotto e pubblicato Jon Fosse, l’eclettico autore norvegese vincitore del premio Nobel per la Letteratura 2023. Drammaturgo, spesso paragonato a Ibsen per importanza, romanziere, poeta e saggista, Fosse è molto noto nei paesi scandinavi e fra gli addetti ai lavori, meno – almeno fino a ieri – al grande pubblico italiano. Mattia Visani è il fondatore di Cue Press che ha pubblicato tre libri di fosse, un testo teatrale, un saggio e una raccolta di testi teatrali.

Visani, come è avvenuto l’incontro con l’opera Fosse?

Frequento il teatro e la drammaturgia e Fosse è un autore che mi è sempre interessato. E così con i nostri autori e interlocutori ci siamo detti ‘perché non lo traduciamo e portiamo in Italia?’. Con il professor Franco Perelli, ordinario al Dams di Torino, decidemmo di fare un primo progetto dedicato a Jon Fosse proprio in occasione di una messa in scena a Roma del suo testo Caldo. Però sentivamo anche l’esigenza di offrire un saggio del portato teorico del pensiero di Fosse, quindi decidemmo di tradurre anche i Saggi gnostici.

Fosse però resta un autore noto principalmente agli addetti ai lavori.

È rappresentato in Italia ma non molto, conosciuto ma non molto. Diverso in Scandinavia o in Francia, dove è riconosciuto come un autore di grande statura. Abbiamo deciso di continuare a lavorare su Fosse anche perché, bisogna dirlo, i paesi scandinavi investono molto nella promozione della loro cultura, quindi è un piacere avere a che fare con loro.

E così avete pubblicato un altro volume.

Non più di due settimane fa abbiamo lanciato la raccolta teatrale tradotta da Vanda Monaco che contiene E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome. Abbiamo fatto un lavoro importante, cominciato nel 2018. Se consideriamo che Cue Press compie dieci anni, metà della vita della nostra casa editrice ha visto un lavoro su Fosse.

Lo avete mai incontrato di persona?

No, ma sarebbe bello portarlo in Italia, a Bologna o a Imola.

Cosa succede quando l’autore di una casa editrice vince il Nobel?

È una giornata particolare. Abbiamo ricevuto molte telefonate, molte richieste di interviste, ordini. Si è risvegliata un’attenzione incredibile, ci hanno ordinato duemila copie in un’ora. Non le abbiamo, vanno ristampate. Speriamo che ora venga più conosciuto e letto. Non è però l’unico Nobel in catalogo…

Qual è l’altro?

Abbiamo pubblicato testi, anche inediti, di Samuel Beckett.

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6 Ottobre 2023

Nobel a Jon Fosse. Custodire il mistero

Oliviero Ponte Di Pino, «Doppiozero»

Come spesso accade quando viene annunciato il Nobel per la Letteratura, molti intellettuali italiani, prima di buttarsi su Google, si chiedono: «Fosse chi? Ma come lo danno questo premio?». Chi frequenta i teatri dell’esistenza dello scrittore norvegese era informato almeno da una ventina d’anni, da quando cioè i suoi testi vengono rappresentati e pubblicati in Italia con una certa assiduità.

In Italia il nome di Jon Fosse è arrivato grazie alla sensibilità e alle recensioni di un «critico europeo» come Franco Quadri. E nel 2001 era arrivato a Viterbo, ospite del festival I Quartieri dell’Arte. Già all’epoca risiedeva, per meriti letterari, nella residenza reale di Grotten, a Oslo, raccoglieva premi e veniva tradotto in decine di lingue. Compreso l’italiano. Nel 2006 Editoria e Spettacolo raccoglieva un primo volume di Teatro (Qualcuno arriverà, E la notte canta, Sogno d’autunno, Inverno, La ragazza sul divano, Il drammaturgo). Nel 2012 Titivillus pubblicava Tre drammi (Variazioni di morte, Sonno, Io sono il vento, traduzione e cura di Vanda Monaco Westerståhl) e il saggio «sulla drammaturgia di Jon Fosse» di Leif Zern, Quel buio luminoso.

Fosse ha vinto il Nobel «per le sue opere teatrali e la sua prosa innovativa che danno voce all’indicibile». Nell’attuale scenario culturale il teatro non è dunque così marginale, se viene prima dei romanzi… Sono a Lecce, per l’inaugurazione del LAFLIS (Living Archive Floating Islands), nato per volontà di Eugenio Barba e di Julia Varley. Prima di trasferirsi a Holstebro, in Danimarca, Barba aveva fondato l’Odin Teatret a Oslo. A questa tre giorni leccese partecipano dunque alcuni giornalisti e artisti norvegesi. La notizia non li ha sorpresi: «Era da più di dieci anni che ce l’aspettavamo». Sono ovviamente felici, ma per loro è un atto dovuto a un grande artista.

L’eccellenza sulle scene mondiali del norvegese Fosse e dello svedese Lars Norèn ricorda la coppia composta più di un secolo prima dal norvegese Henrik Ibsen e dallo svedese August Strindberg (di cui Adelphi ripubblica in questi giorni la tormentata autobiografia Inferno, a cura di Luciano Codignola). E tra queste due coppie scandinave naturalmente giganteggia come trait d’union Ingmar Bergman. (E oggi c’è Klaus Ove Knausgaard: Fosse fu il suo docente di scrittura creativa e gli stroncò una poesia). In realtà alla drammaturgia Fosse, romanziere e saggista, ci è arrivato piuttosto tardi, per guadagnare qualche soldo. Il teatro non lo interessava, e anzi, lo irritava. Però apprezzò subito i limiti della scrittura teatrale: «Di natura, sono sempre stato una sorta di minimalista e, per me, il teatro è di per sé una sorta di forma d’arte minimalista, con molte strutture costitutive minimaliste: uno spazio limitato, un lasso di tempo limitato e via dicendo. Con mia grande sorpresa, quando la prima volta mi sono impegnato a stendere un dramma, ho scoperto che mi piaceva molto scrivere le didascalie o il dialogo, che poteva significare quanto o anche più di quello che viene detto, forse persino l’opposto di quello che viene detto, senza essere ironico. E dopo avere scritto il mio primo dramma, mi sentivo sicuro di avere scritto un buon testo, sebbene fossi assai incerto se potesse funzionare sulla scena» (Jon Fosse, Saggi gnostici, Cue Press, 2019, p. 69). Infatti per diversi anni ha praticamente smesso di scrivere romanzi. La sua scrittura teatrale, rarefatta e allusiva, si nutre della bravura degli attori e delle attrici.
A risuonare, in quelle frasi semplici, in quelle ellissi, in quei silenzi, ci sono la bellezza, la malinconia, l’orrore della vita, gli enigmi e gli abissi che custodiamo e che non possiamo affrontare direttamente senza cadere in una banalità burattinesca. La psicologia è un imbuto, una trappola di spiegazioni. La scrittura di Fosse invece sa custodire il mistero, e al tempo stesso ce lo trasmette.

L’altro straordinario punto di forza della scrittura di Fosse è la sua musicalità. Da ragazzo suonava in una band; il nesso tra la musica e la scrittura è molto forte: «Dal rock al testo, da ore a improvvisare alla chitarra a quelle dietro la macchina da scrivere, e poi alla tastiera di un pc. Suonare per ore, senza che nessuno ascolti. Solo noi della band. Quasi sempre andava così, sempre a provare, pochi concerti. Sia la mia musica sia la mia scrittura sono stati in generale per me stesso, e forse il più delle volte un tormento per gli altri» (Jon Fosse, Essay, 2011, pp. 238-39).

Sono diversi gli allestimenti italiani dei suoi testi, anche apprezzati, ma senza sfondare la bolla teatrale, tra cui Inverno, regia di Valter Malosti, con Michela Cescon, per il Teatro di Dioniso, Premio Ubi 2004 per il miglior testo straniero; La notte… canta, regia di Beno Mazzone al Teatro Libero di Palermo nel 2004; Je suis le vent, con la regia di Lukas Hemleb, con Luca Lazzareschi e Giovanni Franzoni nel 2014. È stato anche oggetto di un progetto giovane, come il Trittico allestito nel 2015 al Teatro di Roma, registi Thea Dellavalle (Suzannah), Alessandro Greco (Io sono il vento) e Vincenzo Manna (Inverno). Il jolly l’ha pescato l’ostinato Valerio Binasco, che nel marzo 2024 dirigerà Pamela Villoresi, Michele di Mauro e Giovanna Mezzogiorno in La ragazza sul divano per lo Stabile di Torino, dopo aver allestito Qualcuno arriverà (2007), E la notte canta (2008), Un giorno d’estate (2008), Sonno (2010) e Sogno d’autunno (2017).

Fosse è nato nel 1959 a Haugesund, sulla costa norvegese affacciata sul Mare del Nord. Anche la lingua dei testi teatrali non è facile: «Non è il norvegese che parlano a Oslo», spiega Franco Perrelli, autore di traduzioni e prefazioni per Cue Press, la casa editrice che più si è impegnata negli ultimi anni per far conoscere il teatro di Fosse, pubblicando Caldo (2019) e i tre testi del volume Teatro (E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome, 2023), oltre che i Saggi gnostici (2008). Perrelli, storico del teatro, anche lui a Lecce per festeggiare l’Odin Teatret, spiega che quella di Fosse «È una lingua che usano in campagna. È un grande scrittore, difficile da tradurre».

È stato peraltro lo stesso scrittore a interrogarsi sul complesso rapporto tra il nynorsk (il neonorvegese), la forma più diffusa della lingua, e il bokmål, più vicino ai dialetti norvegesi orientali. Il legame con la terra d’origine resta intenso: «Com’è noto, l’arte non è la massima espressione della cultura, anzi arte e cultura stanno agli antipodi: l’arte è pura materialità, la cultura è necessariamente falsa socialità, che fa sì che uno scrittore di Drammen possa essere pure di Parigi. Quando affermo che appartengo alla costa occidentale della Norvegia, corro forse il rischio di diventare ‘culturale’ all’incirca come il citato scrittore di Drammen, ma intanto non posso, se debbo essere onesto – e vorrei esserlo – affermare nient’altro che il mio posto, la mia terra, è la costa occidentale della Norvegia» (Jon Fosse, Essay, p. 320). In quella regione sono ambientati anche molti dei suoi romanzi. Senza mai essere esplicitamente autobiografici, raccontano con spietata lucidità i rapporti affettivi e i legami interpersonali, fino alle pulsioni più oscure, scavando nel profondo. In Italia tra i suoi romanzi sono stati tradotti da Fandango Melancholia (2009, dedicato al pittore ottocentesco Lars Hertervig e alla sua incapacità di vivere) e Insonni (2011).

Negli ultimi anni la sua narrativa è stata ripresa dalla Nave di Teseo. Il protagonista di Mattino e sera (2019), il pescatore Johannes, è sdoppiato in un confronto tra il sé bambino e il sé ormai avviato alla fine. E sono usciti i primi due volumi della sua Settologia, nel 2021 L’altro nome, parti I-II, e nel 2023 Io è un altro, parti III-V (2023). Del resto, il tema dell’incontro con l’altro è centrale nell’esercizio solitario della scrittura, contrapposta al «discorso», e vissuta come un’esperienza di mistica negativa: «Almeno per me, esiste un nesso, per esprimermi un po’ imprecisamente, fra ciò che altri provano in diverse congregazioni religiose (c’è pure chi afferma di provare certe esperienze nella natura), e quel che io stesso posso provare quando scrivo; in altri termini, è la scrittura che mi ha aperto la prospettiva religiosa e mi ha trasformato in una persona religiosa, e alcune delle mie esperienze più profonde possono, come ho compreso a poco a poco, essere definite esperienze mistiche. E queste esperienze mistiche sono connesse alla scrittura. Per quanto mi riguarda, né ciò di cui ho fatto esperienza della vita né ciò di cui ho fatto esperienza della morte mi ha smosso dal mio tranquillo ateismo; la scrittura invece l’ha fatto, giorni e anni di scrittura, giorni e anni totalmente a confronto con lo scritto; nei momenti felici, non a confronto, ma dentro lo scritto. È la scrittura che mi ha trasformato e ha dissolto la mia riprovevole certezza, sostituendola con un’umile sicurezza di essere consegnato all’altro e nelle mani di quel ch’è altro. Ciò che io sono, io stesso, è quindi un io nella condizione della grazia dell’uno e di quel ch’è altro» (Jon Fosse, Saggi gnostici, p. 23).

Questo atteggiamento porta con sé un paradosso. Dopo aver letto Bachtin, il teorico del romanzo polifonico, Fosse dice di essere «[…]arrivato alla concezione che il romanzo sia una specie di dialogo con il narratore, lo scrittore e il personaggio in quanto voci in uno scritto che non è espresso da una voce sola, ma da diverse simultaneamente. Nel discorso è possibile soltanto una voce alla volta, altrimenti sarebbe il caos, mentre la scrittura romanzesca rende possibile parecchie voci alla volta senza creare il caos […]. Questa pluralità conferisce al romanzo la propria voce, una voce che una volta ho definito la voce della scrittura, perché le differenti voci del romanzo compongono un’espressione […]. Il romanzo è un’espressione peculiare, essendo una voce della scrittura dalle molteplici voci» (Jon Fosse, Saggi gnostici, p. 27).

Proprio per questo la scrittura romanzesca si trova intrappolata in un paradosso che la rende inevitabilmente ironica: «Narratore e personaggio stanno in reciproca relazione dialogica; a questo dialogo prende parte anche lo scrittore e, all’interno di questo dialogo, che è reso possibile dalla scrittura, sorge l’ironia del romanzo, dove il significato appare e si dilegua in un modo che non può essere restituito oralmente e che è sospinto dall’indefinibile dinamica della scrittura» (Jon Fosse, Saggi gnostici, p. 49). L’ironia incarna insieme la nostalgia e la promessa del significato: per questo nel romanzo – e nella sua malinconia – risuona ancora la morte di Dio, ovvero del significato: «La letteratura diventa la mistica del mondo secolarizzato. Lo scrittore diventa il mistico ascetico del mondo secolarizzato» (Jon Fosse, Saggi gnostici, p. 55).

Nella lotta di Fosse con la scrittura riecheggia la dialettica con Ludwig Wittgenstein e con la frase finale del Tractatus logico philosophicus: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Forse non è un caso che l’inquieto filosofo austriaco, ormai trasferitosi a Cambridge, tra il 1913 e il 1914 abbia cercato pace in una baita su un declivio montano di Skjolden, con vista su un fiordo, dove ritirarsi a scrivere in solitudine. O meglio, come spiegava, a «occuparsi di logica, fischiettare, andare a spasso e deprimersi». Con la sua opera Jon Fosse, citando Derrida (ed evocando Beckett), dimostra che «ciò che non può essere detto, deve essere scritto».

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6 Ottobre 2023

Il Premio Nobel per la Letteratura Jon Fosse e quel legame con Imola

Luca Balduzzi, «il Nuovo Diario Messaggero»

È un po’ imolese il Premio Nobel per la letteratura che l’Accademia svedese di Stoccolma ha assegnato allo scrittore e drammaturgo norvegese Jon Fosse, «per le sue opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile». A pubblicare le sue opere nel nostro Paese, infatti, ha contribuito anche la casa editrice Cue Press di piazzale Pertini.

Il catalogo della casa editrice comprende tre libri dello lo scrittore e drammaturgo: Teatro, una raccolta dei suoi primi testi teatrali (Qualcuno verrà del 1992-1993, E non ci separeremo mai del 1994, e Il nome del 1995); Caldo, un altro testo teatrale del 2005; e Saggi gnostici, una raccolta di testi teorici scritti fra il 1990 e il 2000. Prima di ricevere il Premio Nobel in Svezia, in patria Fosse si è visto riconoscere i propri meriti letterari in una maniera decisamente molto particolare: nel maggio del 2011 il re Harald V gli ha concesso di vivere nella residenza onoraria di Grotten ai margini del parco del Palazzo reale, nella capitale Oslo.

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7 Marzo 2022

Aspettando Godot. Un quaderno come un laboratorio. Per conoscere le varianti delle tante trasposizioni sceniche

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nell’ottobre del 1984, il pubblico milanese poté assistere a qualcosa di insolito e di diverso. L’occasione fu data dalla messinscena di una trilogia, al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, formata da Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, prodotta dal San Quentin Drama Workshop, diretto da Rick Cluchey, che interpretava il personaggio di […]
5 Marzo 2022

Daniele Timpano, Oreste

Massimo Bertoldi, «Centro di Cultura dell’Alto Adige»

Oggi Daniele Timpano – fondatore con Elvira Frosini della compagnia Frosini/Timpano attiva dal 2008 – staziona nei piani alti della drammaturgia italiana contemporanea, motivo per cui è operazione di significativo respiro culturale da parte di Cue Press ripubblicare il testo di Oreste. Scritta nel 2001, l’opera contiene in sé elementi stilistici, frammenti poetici e visioni […]
28 Febbraio 2022

I peggiori film anni Settanta visti da Renato Palazzi

Simona Spaventa, «la Repubblica»

«Esotici, erotici, psicotici». Non sono i mostri da cronaca nera tutta sangue, perversioni e atrocità. Tutt’altro. L’ultima sorpresa di Renato Palazzi, l’autorevole e serissimo critico teatrale milanese scomparso a novembre, è un libello che sguazza nel sottobosco cinematografico a tinte forti che cinquantanni fa, nel momento d’oro del nostro cinema più commerciale, riempiva i tamburini […]
26 Febbraio 2022

Luoghi e teatri di Pier Paolo Pasolini

«Pantheon — Rai Radio 3»

Torino, 27 novembre 1968, Deposito d’Arte Presente: è qui che va in scena la prima di Orgia, una delle sei tragedie scritte per il teatro da Pier Paolo Pasolini che ne curò anche messa inscena. Ne parliamo con Stefano Casi, drammaturgo e studioso di teatro, autore del libro I teatri di Pasolini, e con Massimo […]
22 Febbraio 2022

Vittorio Gassman. L’autobiografia come sfida ermeneutica

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Quando nel 1981 apparve nelle librerie, l’autobiografia di Vittorio Gassman suscitò un prevedibile clamore mediatico. L’era dei social non era ancora nata, ma sulla stampa e nelle TV fu con dovizia presentata e commentata, lo stesso autore s’impegnò non poco a pubblicizzarla. A distanza di un quarantennio un piccolo ma agguerrito editore, Cue Press, ha […]
4 Febbraio 2022

Aspettando Godot, quello vero

Katia Ippaso, «Il Venerdì di Repubblica»

Tanto per cominciare, Vladimir non raggiunge Estragon come siamo abituati a pensare. È già in scena, «a destra vicino all’albero, per metà nell’ombra. Estragon è immobile, e cerca di togliersi lo stivale». Fin dalla didascalia iniziale di Aspettando Godot, Beckett sposta i suoi personaggi, ne smuove i corpi, i fonemi, le traiettorie sceniche. È un lavoro […]
22 Gennaio 2022

Il peggio degli anni Settanta in 120 film

«Hollywood Party — Rai Radio 3»

Esotici, erotici, psicotici. Il peggio degli anni Settanta in 120 film (Cue Press) di Renato Palazzi, con prefazione di Maurizio Porro, è un viaggio tra i titoli più improbabili e controversi del cinema di quegli anni, dove il gusto per l’eccesso si mescola all’irriverenza tipica di un’epoca piena di sperimentazioni e trasgressioni. Un libro che, […]
18 Gennaio 2022

L’agenda rossa di Beckett il revisore. Aspettando Godot in tedesco è tutta un’altra storia

Camilla Tagliabue, «Il Fatto Quotidiano»

È quella pettegola della moglie a riferirgli che, durante la prova generale, i pantaloni dell’attore non sono «caduti nel modo giusto». Piccato, Samuel Beckett (1906-1989) scrive al regista Roger Blin, chiedendogli che «quel gesto» venga eseguito correttamente perché fondamentale a suscitare «il riso e il pianto» nello spettatore. Accade a Parigi, nel 1953, al Théâtre […]
16 Gennaio 2022

Una domenica con Beckett e Scarlini

«La Domenica Dei Libri — Radio Popolare»

Per la prima volta in Italia, vengono pubblicati i quaderni di regia di Samuel Beckett. Durante la trasmissione, si approfondisce la genesi di questi materiali, mettendo in luce le ragioni che spinsero l’autore a curare personalmente la messa in scena delle proprie opere e evidenziando le differenze rispetto alle versioni precedenti. Si analizzano le motivazioni […]
15 Gennaio 2022

Appuntando Godot

Anna Bandettini, «Robinson — La Repubblica»

Scriveva su un quadernetto rosso, marca Le Dauphin, coi fogli a quadretti grandi 21×13 centimetri. Con una penna a inchiostro nero e una a inchiostro rosso, Samuel Beckett vi appuntava, un po’ in inglese, un po’ in tedesco, con una calligrafia ordinata e aristocratica, cancellazioni, nuove indicazioni e, via via, idee di regia per il […]
15 Gennaio 2022

Ostrovskij e la nascita del teatro nazionale a Mosca

Pierfrancesco Giannangeli, «Hystrio», XXXV-1

È stato il drammaturgo che ha tracciato un solco profondo nell’Ottocento russo, ancora oggi viene regolarmente messo in scena nei più grandi teatri del Paese e considerato il padre del teatro moderno, ma in Occidente in pochi lo conoscono. Eppure Aleksandr Nikolaevič Ostrovskij (1823-86) ha segnato la vita del teatro della sua epoca in Russia […]
15 Gennaio 2022

Dire luce

Annamaria Sapienza, «Sinestesieonline»

Il testo offre una doppia visuale sulla tematica specifica della luce in scena, ovvero, un’osservazione bilaterale proveniente da una studiosa e da un professionista dello spettacolo. Cristina Grazioli, sia nell’attività didattica presso l’Università di Padova che nella copiosa produzione scientifica, ha indagato con particolare attenzione i rapporti tra scena e arti visive con approfondimenti specifici […]
15 Gennaio 2022

Il teatro sociale e le arti performative

Laura Bevione, «Hystrio», XXXV-1

Claudio Bernardi fu il primo, nel 1998, a utilizzare la definizione «teatro sociale» per indicare un insieme in realtà piuttosto composito di pratiche teatrali aventi finalità educative, formative, inclusive e comunque non estetico-professionali. Quella «etichetta», però, conteneva in sé anche esperienze risalenti a decenni precedenti rispetto a quello oggetto dello studio di Bernardi che, insieme […]
12 Dicembre 2021

20 lezioni per conoscere Strehler

Antonio Tedesco, «Proscenio», VI-1

Triestino di nascita, milanese di adozione, Giorgio Strehler si avvicina al teatro molto giovane. Inizia la sua carriera come attore nell’immediato dopoguerra facendo importanti esperienze con grossi nomi della scena del tempo. Nel 1945, a soli ventiquattro anni, avvia la sua attività di regista e nel 1947, insieme all’amico Paolo Grassi, superando non poche difficoltà, […]
19 Novembre 2021

Gettare il proprio corpo nella lotta. I teatri di Pasolini a cura di Stefano Casi

Chiara Molinari, «Theatron 2.0»

I teatri di Pasolini di Stefano Casi – giornalista, ricercatore indipendente e direttore di Teatri di Vita a Bologna –, edito da Cue Press nel 2019, è una nuova versione, riveduta e integrata, dell’omonimo testo pubblicato da Ubulibri nel 2005, premiato dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro. In uno studio dettagliato e minuzioso, arricchito da un […]
16 Novembre 2021

Bando StartUp Innovative

Il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, elegge Cue Press migliore startup culturale della regione Emilia Romagna

Il Bando Startup (fase consolidamento), promosso dalla Regione Emilia Romagna e finanziato dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Por Fesr 2014-20), fornisce sostegno finanziario e strategico alle imprese innovative già costituite, con l’obiettivo di favorirne la crescita, la solidità e la competitività sui mercati nazionali e internazionali. Grazie a contributi a fondo perduto e servizi […]
2 Novembre 2021

Akropolis

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Akropolis di Stanisław Wyspiański è noto per la messinscena laboratoriale realizzata da Jerzy Grotowski nel 1962, che aveva trasformato l’originale carattere storico-agiografico del dramma in una performance capace di ricreare l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz attraverso una serie di azioni fisiche dal ritmo variabile culminate nell’entrata dei personaggi nei forni crematori costruiti da […]
26 Ottobre 2021

Sul confine fra visibile e invisibile: una riflessione a due voci sulla luce in scena

Fernando Marchiori, «Ateatro»

Gli studi teatrali – gli studi intorno e dentro ai fenomeni teatrali – sono talvolta sorprendenti per il modo in cui affrontano l’eterno paradosso: parlare di un’arte viva irriducibile alla parola, fermare sulla carta una pratica effimera. Quando sanno inventare modi diversi di guardare a quei fenomeni, di attraversare il campo teatrale, sperimentando ibridazioni metodologiche […]
11 Ottobre 2021

Sentire e dire luce

Aurelio Andrighetto, «DoppioZero»

Chiarori, abbagli e crepuscoli, lampi e rivelazioni. Il numero 9 della rivista semestrale Sciami – Sentire luce a cura di Cristina Grazioli (Sciami edizioni, Teramo-Roma, 2021) raccoglie una serie di contributi «sentiti», prima ancora che pensati, sul ruolo svolto dalla luce nell’evento performativo e teatrale. Sentire luce attribuisce alla percezione e alla sensorialità un aspetto […]
6 Ottobre 2021

Antologia del grande attore

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Per meglio inquadrare l’importanza dell’Antologia del grande attore è necessario connotare il suo autore: figura poliedrica, Vito Pandolfi si distingue nel Secondo dopoguerra in qualità di regista di grandi attori, commediografo, critico teatrale, fondatore della compagnia I comici della strada – composta, tra gli altri, dai giovani Tino Buazzelli, Rossella Falk, Paolo Pannelli, Arnoldo Foà […]
30 Settembre 2021

Un percorso coerente e coraggioso, come spiegare Stehler ai giovani

Giuseppe Montemagno, «Hystrio», XXXIV-3

La pubblicazione di un importante volume, che ne ripercorre la parabola artistica, è l’occasione per fare il punto, in dialogo con l’autore, su quel che resta, oggi, dell’idea di teatro del Maestro e su come la si può raccontare alle nuove generazioni. Tutto Strehler in venti lezioni. È questo l’ambizioso progetto di Alberto Bentoglio, faro […]