Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Donati lorenzo foto autore 2
29 Ottobre 2023

Per capire qual è o quale sarà il teatro del terzo millennio

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Mi sono, più volte, chiesto perché il teatro del Terzo Millennio non sia stato oggetto di analisi storiografica e ho anche indicato vari motivi, che vanno dalle superproduzioni al proliferare di compagnie indipendenti, magari con un solo attore che, utilizzando la formula del Teatro dell’Oralità, riesce a fare delle brevi stagioni, muovendosi ai margini del teatro ufficiale. Ebbene, è appena uscito un volume di Lorenzo Donati, pubblicato da Cue Press: Scrivere con la realtà. Oggetti teatrali non identificati 2000-19, che si può considerare un punto di partenza per una possibile teorizzazione di quanto è accaduto, nel primo ventennio del 2023, sui palcoscenici italiani e di cosa possa intendersi per Nuovo Teatro, dopo le teorizzazioni fatte da Marco De Marinis e dopo l’apparizione di Oggetti non identificabili. Donati, oltre che uno studioso è un frequentatore assiduo dei teatri. Questa sua duplice attività è ben evidente nella ripartizione della sua ricerca, essendo, una di tipo teorico e l’altra di tipo pratico, entrambe utili per cercare di capire il passaggio dal Nuovo Teatro ai Nuovissimi.
Il suo punto di partenza coincide con la crisi dell’interpretazione attoriale e registica, ovvero di ciò che ci è stato tramandato, per continuare su come relazionarsi col teatro, quello che viene dopo il Post-drammatico, con la consapevolezza che il teatro che ci è stato tramandato non debba considerarsi un rimedio che possa fare capire meglio il teatro non identificabile – essendo, quest’ultimo, sempre in cerca di qualcosa di non lineare – e, pertanto, frammentaria, tale da rifiutare i Generi, affidandosi al caso. In questo ventennio il teatro, secondo Lorenzo Donati, è andato in cerca di estetiche non definite, essendo il suo percorso in continua evoluzione, sempre attento alla realtà, pur nelle sue continue mutazioni, tanto che si sono aperti nuovi campi di osservazione, nuovi metodi di indagini, anche attraverso testimonianze dirette degli artisti e attraverso i loro spettacoli, che caratterizzano la seconda parte del volume, quella che appartiene alla «pratica» del teatro. Non contento, l’autore fa riferimento al rapporto passato-presente, poiché il passato ritorna con tutte le sue invenzioni, che, in alcuni casi però, vengono offerte in olocausto, perché generate da un teatro in crisi, che comporta, a sua volta, una crisi dell’immaginazione.
Sono tante le giovani compagnie che si muovono tra «ruderi e rovine», che consumano i «detriti» del teatro del passato, che, a suo tempo, fu anch’esso un «Teatro dei mutamenti», come lo definì negli anni Settanta Sisto Dalla Palma. Solo che ogni mutamento teatrale presuppone un mutamento sociale.
A questo punto, Lorenzo Donati sfodera una bibliografia che fa capo a storici del teatro, da De Marinis a Guccini, da Taviani, a Meldolesi, Cruciani, Allegri; storici di un teatro che non c’è più, con i quali è necessario confrontarsi per capire il teatro che c’è, quello «non identificabile». Bibliografia che arricchisce con l’apporto di sociologi come Bauman, Remotti, Castells ed altri.
Donati, in fondo, si chiede se esista una scrittura scenica diversa da quella precedente, se sia in grado di possedere delle strategie linguistiche, ma, per esserne certi, a suo avviso, bisogna partire dall’osservazione, ovvero dalla partecipazione agli spettacoli per tentare, successivamente, un approccio teorico. Le sue «osservazioni» vanno dal 2000 al 2019, anni durante i quali ha partecipato a spettacoli di gruppi noti e meno noti: dal Teatro delle Ariette, alla Fortezza, a Babilonia Teatri, Fanny e Alexander, Collettivo Cinetico, Omini, Motus, Dom, Teatro delle Albe, Teatro Sotterraneo, Kleper-452, Clessidra Teatro, Milo Rau, Rimini Protokoll, Roger Bernart, gruppi che hanno dato uno scossone al teatro tradizionale con l’utilizzo di apparati elettronici e tecnologici che diventano parte attiva del linguaggio della scena e della sua trasformazione. Sono queste le vere tracce, utili per un successivo lavoro storiografico; senza di esse, la stessa storiografia ne rimarrebbe marginalizzata.

Fosse 2
29 Ottobre 2023

Jon Fosse, un ritratto del Nobel per la Letteratura

Anna Puricella, «Repubblica Bari»

Jon Fosse è un monumento della drammaturgia, uno dei più rappresentati in tutto il mondo, eppure in Italia è tutt’ora poco conosciuto. Lo scrittore di prosa, drammaturgo e poeta norvegese diventa così il cuore di un incontro in programma domani alle 18 alla libreria Laterza di Bari, in compagnia di Franco Perrelli, docente universitario ora in pensione – ha insegnato a Torino e a Bari – ed esperto di teatro e letterature nordiche. Perrelli è stato anche traduttore di Fosse. Per Cue Press ha pubblicato Saggi gnostici – «un po’ la sua autobiografia personale e intellettuale», dice – e il dramma Caldo. «L’Italia lo conosce poco perché il suo è un tipo di scrittura apparentemente sperimentale, in realtà un po’ mistica. È quel tipo di scrittore che spaventa l’editore commerciale». E non va meglio con il teatro, nel Paese: «Il sistema teatrale italiano è molto conservatore e non dà grande spazio ad avventure che non si sa dove possono andare a finire».

Eppure Jon Fosse è una pietra miliare della produzione contemporanea a livello globale, in Svezia è stato premiato «per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile». Più di dieci anni fa Fandango ha pubblicato alcuni suoi lavori tradotti in italiano – fra cui Melancholia – La Nave di Teseo ha adesso in catalogo anche i primi volumi di Settologia. «Da Laterza racconterò chi è Jon Fosse e soprattutto cosa pensa e come costruisce la sua scrittura, un procedimento molto interessante e appassionante» annuncia Franco Perrelli. Non leggere Jon Fosse è in fin dei conti un peccato: «Chi non lo fa si perde un’esperienza di carattere spirituale. La lettura di Fosse è un tentativo di rapporto con il divino, se una persona ha bisogni spirituali forse li soddisfa, se invece cerca trame banali non fa per lui».

Ingresso libero.

Milo rau schaubühne berlin
23 Ottobre 2023

Un collettivo a Gent dopo Rau, per abbattere le mura del teatro e prendersi cura del pubblico

Paolo Martini, «Dramaholic»

Ci vuole un occhio di riguardo per quel che succede nei teatri e tra le compagnie del Belgio, dove vivono molti dei protagonisti di primo piano nel mondo delle arti performative: si possono così intuire o veder nascere nuove mode o veri e propri trend, com’è stato per il cosiddetto «post-drammatico».
Perciò ha fatto una certa impressione l’annuncio di un’uscita di scena dal NT Gent, seppur non traumatica e totale, dell’autore e regista Milo Rau.
Si è già esaurita, dopo un quinquennio da direttore, la carica innovativa delle sue idee riassunte in un manifesto che è stato paragonato a quello del movimento Dogma per il cinema? A ben vedere, era forse un esito prevedibile per chi ha seguito con attenzione la parabola artistica di questo eclettico e prolifico intellettuale, di formazione filosofica e sociologica, nato a Berna nel 1977.

Un nuovo «Manifesto di Vienna»?

Già intorno ai 40 anni Rau era considerato un riverito maestro e dal Belgio aveva pure lanciato il suo decalogo, di cui tanto s’è parlato, per un teatro neo-post-brechtiano: la rappresentazione deve indagare la realtà con la realtà, fino al fondo più oscuro; deve essere leggera e trasparente, ovvero mostrare al pubblico il meccanismo stesso; deve andare fuori dal teatro, nelle zone più disagiate del mondo, e così via (vedi i suoi scritti tradotti in italiano nel volume Realismo globale, Cue Press 2023). Ora Rau cambia vita per trasferirsi a Vienna ed entrare ancor più nel ruolo di organizzatore culturale, prendendo in mano il ricco programma del Wiener Festwochen, festival interdisciplinare di grande prestigio e di considerevole budget. Come i grandi eventi del genere, anche quello viennese finanzia nuove produzioni e cerca di riunire il meglio della scena europea. Vedremo se anche da questa sede elaborerà un programma pubblico e di quale indirizzo. Poco prima della nomina, Rau aveva aperto con successo l’edizione 2023 proprio con Antigone in Amazzonia, l’ultimo spettacolo della sua Trilogia dei miti, un ciclo di classici attualizzati, ovvero di attualità viva riletta attraverso i classici. E, ovviamente, un po’ anche da qui, ossia da quel che si vede in scena, bisogna partire per valutare il senso di una svolta che non riguarda soltanto il «dietro le quinte» del teatro europeo.

Meno scena, più lotta

Con un’immagine internazionale ormai da guru, Rau aveva raggiunto un punto apicale di perfezione della sua proposta con La reprise. Histoire(s) du théâtre (I), autentico e inarrivabile gioiello, del 2018, l’anno stesso della sua nomina a Gent e del relativo Manifesto. Uno spettacolo, La reprise, che ovunque vada in scena per il mondo mantiene intatta la sua carica originaria, al punto che le prime rappresentazioni in Brasile sono costate a Rau e alla compagnia la censura e la messa al bando da parte delle autorità all’epoca di Bolsonaro. Episodio del 2020 che ha originato il contatto con il Movimento dei Senza Terra brasiliani e l’attrice militante Kay Sara, protagonisti di un’Antigone che nasce per denunciare i danni ecologici e la violenza di un trust del business globale dell’agricoltura per l’industria alimentare, con tanto di relativa petizione internazionale. Negli anni è come se la proposta di Rau si fosse andata sedimentando sempre più verso il pur ammirevole terreno dell’impegno, con una spiccata attenzione sul piano del linguaggio alla parte per così dire non teatrale, casomai cinematografica e documentaristica. Una svolta non dichiarata che è costata le prime critiche, pur in punta di penna, com’è successo per l’appuntamento romano con Antigone in Amazzonia. Ha scritto, per esempio, una giovane critica italiana che sul teatro di Rau aveva curato la monografia di Stratagemmi, Camilla Lietti: «Si percepisce una sorta di sbilanciamento tra ciò che accade attorno allo spettacolo e quello che il pubblico vede di fronte ai propri occhi. La messa in scena appare quasi come un momento di restituzione dell’azione politica che la muove«.

Ancora una mano, Ursina

D’altro canto, quando non è Rau a tirare i fili personalmente, l’impianto del ciclo seriale di Gent sul teatro sembra potersi un po’ perdere per strada – vedi l’episodio III di Miet Warlop – lasciandosi alle spalle le regole stesse del Manifesto. E a lungo andare il successo del teatro di Rau ha pure creato una schiera di imitatori, che ne hanno in qualche modo cristallizzato la carica innovativa in una formula di linguaggio misto, o più formule similari. Persino un critico più istituzionale e addetto ai lavori, come Alessandro Iachino, dopo la prima di Antigone in Amazzonia a Gent, aveva accennato al «rischio del format, del dispositivo funzionale a ogni tragedia contemporanea, che sembra lambire pericolosamente questo palcoscenico»… La valutazione che consegue a questa analisi della parabola Rau-Gent è varia; ovviamente gli invidiosi tendono a usarla per sminuire l’importanza del personaggio. Senza nemmeno prendere in considerazione anche solo l’impatto oggettivo di un teatro civile così schietto, che sfida, come in quest’ultima occasione, le multinazionali alimentari più potenti (Agropalma, Danone, Ferrero, Nestlè, Unilever…) come mai nessun media di rilievo ha osato. Chi preferisce lo sguardo freddo può arrivare persino a sostenere che Rau dovrebbe forse avere il coraggio di tornare indietro, verso il teatro-teatro più tradizionale, nel quale metterebbe facilmente a frutto la sua bravura. In fondo si poteva già notare quanto lui stesso considerasse l’idea di cambiar strada, nella breve parentesi post-Covid, quando si è unito alla straordinaria attrice sua conterranea Ursina Lardi per confezionare una versione attualizzata e al femminile, davvero emozionante, del grande classico Everyman.

Una svolta, dieci capifila

Ma c’è un’altra notizia, successiva, che arriva da Gent, ancor poco seriamente pesata dagli addetti ai lavori, ed è la nomina di un trittico di direttori artistici al posto del solo Rau (il quale firma comunque la prossima stagione, per poi non chiudere del tutto subito la sua esperienza belga, restando sulla carta coinvolto come regista e autore).
Il comunicato ufficiale di NTGent sul dopo Rau recita con enfasi quanto sia importante l’obiettivo di una leadership multivoiced, specificando che i tre nuovi condirettori Barbara Raes, Yves Degryse e Melih Gençboyaci «saranno congiuntamente responsabili della politica artistica nei prossimi anni», ma dovranno pure considerare quanto NTGent si sia «evoluto da teatro cittadino con un’ensemble fissa, a una casa di creatori con diverse voci e pratiche artistiche. Questo porta una ricca tavolozza di domande, sfide e prospettive».
Ufficializzando i nomi dei tre prescelti, il consiglio d’amministrazione del teatro parla addirittura di «un piano politico ambizioso con forti house-makers» (Luanda Casella, Lara Staal e Milo Rau), artisti in residenza (Ontroerend Goed, Miet Warlop e Action Zoo Humain), e un nuovo produttore, il gruppo Berlin (ovvero Bart Baele e lo stesso Degryse, che s’immagina lasceranno sia Anversa sia il Centquatre-Paris, dove si erano accasati per il loro lavoro d’avanguardia sui linguaggi teatrali). Ma c’è un’altra notizia, successiva, che arriva da Gent, ancor poco seriamente pesata dagli addetti ai lavori, ed è la nomina di un trittico di direttori artistici al posto del solo Rau (il quale firma comunque la prossima stagione, per poi non chiudere del tutto subito la sua esperienza belga, restando sulla carta coinvolto come regista e autore).

Rituali e cura della città

Non è finita con una semplice svolta dalla monocrazia al collettivismo: NT Gent vuole ribadire la vocazione internazionale e di formazione di nuovi artisti, e specifica pure che la nuova leadership multivoiced ha come obiettivo anche «rivendicare la città stessa come un importante spazio accanto al teatro/palco», puntando a curare più luoghi «di incontro in città in cui il pubblico, gli interessi, le storie, le lingue e le varie realtà sociali possano interagire fianco a fianco, con e per l’altro». Da una precisazione sull’orizzonte temporale dei nuovi direttori (Yves Degryse e la singolare «ritualista» Barbara Raes inizieranno a lavorare part-time, Melih Gençboyaci sarà a tempo pieno da subito e curerà in particolare la formazione), si evince che potranno firmare come prima nuova stagione il 2025-2026, mentre la prossima procede con il cartellone di Rau. Quindi se ne riparla tra più di un anno; ma è davvero curiosa e indicativa la prima anticipazione ufficiale: «quella stagione si aprirà con un rituale di fuoco nella nostra città di Barbara Raes», ovvero uno spettacolo pubblico itinerante proprio sul tema dell’accettazione della morte, del superamento di uno stadio della vita, insomma del cambiamento. Non a caso Raes, nel nuovo gruppo dirigente, ha proprio la vocazione di garantire che «la guarigione, la connessione e la cura siano una parte importante e di impatto del NTGent del futuro».

«Il teatro sono gli uomini e le donne che lo fanno» (Eugenio Barba, I 5 continenti del teatro).
Tra i più avvertiti addetti ai lavori non manca chi fa subito spallucce, e dice: è da tempo che si sente parlare di teatro fuori dal teatro… Che novità sarà mai? Anche nei giornali c’è sempre chi è pronto a tagliar corto su qualunque proposta con la liquidatoria sentenza: di questo ne abbiamo già parlato. Certo, anche le più ammirate avanguardie degli anni Settanta andavano volentieri per strada, ma come ricorda il grande Eugenio Barba è una perdita di tempo star lì a discutere troppo di edifici, imprese e istituzioni a proposito del teatro. «Il teatro sono gli uomini e le donne che lo fanno», semplicemente, anche se in effetti ci sono luoghi particolari, pietre e mattoni della storia del teatro che di per se stessi suscitano le emozioni di uno spettacolo.

Com’è lontana l’Italietta

Ora, è ovvio che possa essere un bel rischio sostituire, seppur gradatamente, un nome internazionale di spicco come Milo Rau con un gruppo così ampio e variegato di protagonisti non ancora altrettanto noti e di diversa estrazione. Del resto nella danza e nel teatro di mezza Europa è facile notare quanto siano le compagnie e i collettivi a garantire l’innovazione. E non solo a Gent varano la direzione multivoiced ma addirittura la allargano in qualche modo ai tre più sperimentati autori di casa e a tre nuovi residenti di profilo davvero deciso, che sono l’artista Miet Warlop, già della covata Rau, gli stralunati e innovativi Ontroerend Goed e la compagnia di Chokri Ben Chikha, autore d’origine tunisina che, tra l’altro, in quanto a controversie non si lascia scappare nulla. E certo è assai significativa la scelta stessa di accompagnare la collettivizzazione delle responsabilità a una svolta d’indirizzo altrettanto radicale, per provare a uscire dalle mura del teatro verso la città e a far riscoprire le radici pubbliche e la vocazione originale del teatro stesso alla città. Vada come vada, fa veramente impressione guardare a Gent dall’Italietta delle lottizzazioni e delle lobby, blindata nei salotti dei nostri polverosi grandi teatri pubblici, per lo più in mano a personaggi di tutt’altra pasta, anche solo umana… Immaginate uno qualunque dei nostri enti, fondazioni o istituzioni teatrali, con alla testa un’amorevole studiosa di rituali dell’elaborazione del lutto, come la Raes, o un «immigrato turco e operaio teatrale queer» come si definisce Gençboyaci? Pensate a un direttore artistico d’impostazione teatrale tradizionale dei nostri, uno a caso: non riuscirebbe nemmeno a sognarsi un impianto innovativo come quello usato per i Sei gradi di separazione, che ha reso famosi i Berlin di Yves Degryse, con trenta spettatori davanti ad altrettanti schermi, piuttosto che il similare Nachlass dei Rimini Protokol (altro gruppo – guarda caso – oggi capofila del nuovo teatro-fuori-dal-teatro…).

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Lorenzo donati
23 Ottobre 2023

Uno studio illuminante di Lorenzo Donati: teorico e pratico, attento alle mutazioni della realtà tra estetiche non definite

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Mi sono più volte chiesto perché il teatro del Terzo Millennio non sia stato oggetto di analisi storiografica ed ho anche indicato vari motivi, che vanno dalle super-produzioni al proliferare di compagnie indipendenti, magari con un solo attore che, utilizzando la formula del Teatro dell’Oralità, riesce a fare delle brevi stagioni, muovendosi ai margini del teatro ufficiale. Ebbene, è appena uscito un volume di Lorenzo Donati, pubblicato da Cue Press: Scrivere con la realtà. Oggetti teatrali non identificati 2000-19, che si può considerare un punto di partenza per una possibile teorizzazione di quanto è accaduto nel primo ventennio del 2023 sui palcoscenici italiani e di cosa possa intendersi per Nuovo Teatro, dopo le teorizzazioni fatte da Marco De Marinis e dopo l’apparizione di Oggetti non identificabili.
Donati, oltre che uno studioso, è un frequentatore assiduo dei teatri. Questa sua duplice attività è ben evidente nella ripartizione della sua ricerca, essendo una di tipo teorico e l’altra di tipo pratico, entrambe utili per cercare di capire il passaggio dal Nuovo Teatro ai Nuovissimi. Il suo punto di partenza coincide con la crisi dell’interpretazione attoriale e registica, ovvero di ciò che ci è stato tramandato, per continuare su come relazionarsi col teatro, quello che viene dopo il Post-drammatico, con la consapevolezza che non debba considerarsi un rimedio che possa fare capire meglio il teatro non identificabile – essendo, quest’ultimo, sempre in cerca di qualcosa di non lineare – e, pertanto, frammentaria, tale da rifiutare i «Generi», affidandosi al caso. In questo ventennio, il teatro, secondo Lorenzo Donati, è andato in cerca di estetiche non definite, essendo il suo percorso in continua evoluzione, sempre attento alla realtà, pur nelle sue continue mutazioni, tanto che si sono aperti nuovi campi di osservazione, nuovi metodi di indagini, anche attraverso testimonianze dirette degli artisti e attraverso i loro spettacoli, che caratterizzano la seconda parte del volume, quella che appartiene alla «pratica» del teatro. Non contento, l’autore fa riferimento al rapporto passato-presente, poiché il passato ritorna con tutte le sue invenzioni, che in alcuni casi, però, vengono offerte in olocausto, perché generate da un teatro in crisi che comporta, a sua volta, una crisi dell’immaginazione.
Sono tante le giovani compagnie che si muovono tra «ruderi e rovine», che consumano i «detriti» del teatro del passato che, a suo tempo, fu anch’esso un «Teatro dei mutamenti», come lo definì negli anni Settanta Sisto Dalla Palma. Solo che ogni mutamento teatrale presuppone un mutamento sociale. A questo punto, Lorenzo Donati sfodera una bibliografia che fa capo a storici del teatro, da De Marinis a Guccini, da Taviani a Meldolesi, Cruciani, Allegri, storici di un teatro che non c’è più, con i quali è necessario confrontarsi per capire il teatro che c’è, quello «non identificabile». Bibliografia che arricchisce con l’apporto di sociologi come Bauman, Remotti, Castells ed altri. Donati, in fondo, si chiede se esista una scrittura scenica diversa da quella precedente, se sia in grado di possedere delle strategie linguistiche; ma per esserne certi, a suo avviso, bisogna partire dall’osservazione, ovvero dalla partecipazione agli spettacoli per tentare successivamente un approccio teorico. Le sue «osservazioni» vanno dal 2000 al 2019, anni durante i quali ha partecipato a spettacoli di gruppi noti e meno noti, dal Teatro delle Ariette, alla Fortezza, a Babilonia Teatri, Fanny e Alexander, Collettivo Cinetico, Omini, Motus, Dom, Teatro delle Albe, Teatro Sotterraneo, Kleper-452, Clessidra Teatro, Milo Rau, Rimini Protokoll, Roger Bernart; gruppi che hanno dato uno scossone al teatro tradizionale, con l’utilizzo di apparati elettronici e tecnologici che diventano parte attiva del linguaggio della scena e della sua trasformazione. Sono queste le vere tracce, utili per un successivo lavoro storiografico. Senza di esse, la stessa storiografia ne rimarrebbe marginalizzata.

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19 Ottobre 2023

La massa come ornamento [II parte]

Gabriele Perretta «segnonline»

Per la prima volta pubblicato integralmente in Italia, in una coloratissima e decoratissima edizione, la Cue Press di Imola ci fa leggere: Siegfried Kracauer, La massa come ornamento, pref. di E. Morreale e tr. it. di M.G.A. Pappalardo, C. Groff, F. Maione, S. Parisi, 2023; testo dedicato ad Adorno e uscito per la prima volta a Francoforte nel 1963. In quest’opera, divenuta ormai un classico del saggismo novecentesco, S. Kracauer offre al lettore una chiara e interessante interpretazione delle tendenze sociologiche e morali che portarono all’affermarsi della critica del moderno. In particolare, come lo stesso Adorno osserva, nel corso degli anni Venti, assai prima di Jaspers e Heidegger, Kracauer lascia intravedere un progetto esistenzialista, che per un verso capitalizza sulle frequentazioni di Kierkegaard, per altri aspetti si sviluppa grazie all’innesto di queste suggestioni sulla riflessione marxista. Ciò non deve stupire se si considera che, riferendosi proprio a quel decennio, G. Lukács parlava di una «Kierkergardizzazione del giovane Marx». Se nella valutazione di Kracauer si adotta una prospettiva genealogica, ci si rende conto di come le sue scelte critiche originino da un bilancio quasi trentennale delle contemporanee vicende biografiche.

La potenza iconica della parola di S. Kracauer – l’autore di La massa come ornamento – non si è affatto affievolita. Quando l’immagine compare dietro alle parole che scorrono nella metropoli berlinese, è tutto un fiorire di significati eccezionalmente forti e prorompenti. E di certo l’effetto si è ripetuto sugli scaffali delle librerie, grazie a questa nuova edizione, quando il magnum opus della casa editrice Cue Press lo ha editato. Per Siegfried Kracauer la società non è un semplice vincolo di individui, e non è neppure un qualcosa di metafisico, essa, piuttosto ci introduce ai termini di sociation (associazione) e forms (forme) ed è quindi composta dalle persone e dalle loro interazioni; e pensando al termine interazione condiviso da Simmel egli allude alla reciprocità delle relazioni umane osservate in La Massa come ornamento. Per S.K. la società consiste nell’interazione delle persone. La descrizione delle forme di questa interazione (o azione reciproca) è il compito della sociologia formale; il metodo è astrarre le forme di società. Esso, come direbbe Simmel, segue la strada di una grammatica, che isola le forme pure di linguaggio dal contesto per mezzo del quale queste forme, nonostante tutto, prendono vita. I gruppi sociali che presentano enormi differenze di scopo e significato generale possono, tuttavia, mostrare casuali forme di approccio, tramite l’interazione dei loro singoli membri. Scopriamo superiorità e subordinazione, competizione, divisione del lavoro, formazione di partiti, rappresentazione, intima solidarietà unita a diffidenza verso l’esterno; innumerevoli sono gli aspetti simili nello stato, nella comunità religiosa, in una banda di cospiratori, nell’associazione economica, nella scuola d’arte, nella famiglia. Per quanto diversi siano gli interessi che portano alla creazione di queste associazioni, le forme in cui gli interessi vengono realizzati possono tuttavia essere identiche.

Da tali interazioni umane, S.K. affermava, noi dovremmo estrarre quegli elementi che sono comuni a diverse situazioni e avvenimenti, come la competizione e subordinazione. I suoi scritti raccolti ne La massa come ornamento hanno la forma di saggi sulle varie conformazioni sociali o i loro aspetti. Molto spesso egli esamina il profilo di un rapporto in gruppi di diverse misure. Il pensiero sociologico-visivo di S.K. è di genere riflessivo, con frequenti riferimenti ad esempi che illustrano le sue affermazioni. In effetti, il suo caso fu insolito e unico, una stella solitaria nel firmamento della critica moderna, e certamente vale la pena di leggerlo per i molti e diversi modi in cui egli ha considerato la vita sociale e gli aspetti nuovi che ha messo in risalto. Nell’introduzione dell’aprile ’22 ai Saggi di Sociologia Critica scrive: ‘Il mondo dell’uomo socializzato che la sociologia cerca di comprendere secondo il suo principio costitutivo appartiene ad una sfera che potrebbe essere definita in un senso particolare come sfera della realtà, cui in ogni caso la realtà accessibile alle scienze naturali è subordinata. […] Definendo provvisoriamente la sfera della realtà come sfera della trascendenza e la sfera in cui si muove la sociologia in quanto scienza come sfera dell’immanenza, risulterà che la sociologia sarà costretta al tentativo paradossale – e di impossibile realizzazione – di passare dalla sfera dell’immanente a quella del trascendente, dal vuoto spazio del pensiero puro allo spazio pieno della realtà sovrastato da un senso altamente trascendente; in questo passaggio non sacrificherebbe il principio di scienza che la costituisce. In altre parole la sociologia – e non solo la sociologia – tende ad impadronirsi per mezzo di un materiale categoriale valido esclusivamente nel campo dell’immanenza di una zona che non può venir costituita direttamente da queste categorie; essa deve perciò maturare risultati che non ricoprono adeguatamente la sfera della realtà’ (Prefazione a Sociologia come scienza in Saggi Critici (1971), De Donato, Bari, 1974, pp. 4-5). K. era stato uno dei primi a cogliere l’importanza della sociologia simmeliana, pur disapprovandone, in chiave fenomenologica, lo psicologismo. La sociologia di Simmel con la sua attitudine per le indagini al microscopio, gli sembrava un’ottima via di accesso alla realtà. 

K. coglieva esattamente l’elemento innovativo dello sguardo simmeliano, l’aderire alle cose senza dissolverle nella totalità, e anche la specifica inquietudine della sua posizione filosofica. Le ricerche di K. sul mondo degli impiegati e dei piccolo-borghesi berlinesi, centrate in chiave politico-esistenziale sull’alienazione metropolitana, avevano ripreso la via d’accesso simmeliana, ma radicalizzandola. In realtà K., che rimarrà fino alla fine un nomade, tra filosofia e sociologia, tra marxismo e fenomenologia, non si libererà mai dell’impronta di Simmel. Ciò appare non solo nei suoi saggi descrittivi (che restano un esempio insuperabile di sociologia dell’attualità) e nel suo grande affresco su Offenbach e la Parigi del Secondo Impero, ma anche nei suoi romanzi – che costituiscono il corrispettivo letterario di quelle indagini – e soprattutto nella sua opera incompiuta di filosofia della storia, Prima delle cose ultime, una celebrazione dell’avventura storiografica come liberazione dagli ultimi concetti di metafisica della storia, come ricerca negli spazi interstiziali e discontinui delle vicende storiche, tra realtà effettuale e virtuale, in una dimensione affrancata sia dall’empirismo sia dall’idealismo. Eppure, Simmel avrebbe potuto sottoscrive le parole di K.: ‘Unitamente alla mia critica del concetto di storicità, per un’adeguata valutazione dei modi di pensiero che sono tipici di uno spazio intermedio, si può usare con profitto la mia argomentazione concernente la struttura omogenea dell’universo intellettuale. Per sintetizzare le conclusioni di questa argomentazione, le verità filosofiche non coprono pienamente i casi particolari che sono logicamente sussumibili sotto di esse. Nonostante la loro elevata generalità, hanno un raggio limitato. Pertanto il particolare significato e la dignità che esse conseguono al proprio livello, non necessariamente sminuiscono il significato e la dignità di molte visioni o giudizi meno generali’ (edizione americana: 1969; Prima delle cose ultime, Marietti, Genova, 1985, p. 168).

La manipolazione delle immagini, la loro elaborazione grafica è ciò che caratterizza la produzione artistica del «fotografico kracaureriano», nella prima parte de La massa come ornamento, quella ambientata con l’occhio nella città (i cui spazi architettonici asettici si contrappongono al barocco carico di storia). Lo dice chiaramente a un intimo amico che gli mostra le sue fotografie: «Mi sta dicendo che devo elaborare di più l’immagine?», «Esatto. Potrebbe diventare un quadro». Il viaggio del doppio kracauereriano verso la città moderna è allora un percorso a ritroso verso la riscoperta di uno sguardo diretto, ‘innocente’ (riscoperta che metaforicamente avviene anche grazie all’incontro con la letteratura e la sociologia), di un’immagine ancora capace di essere ‘indice’ e non simulacro. Come già nel primo articolo su Simmel della raccolta, anche nel saggio La Massa come Ornamento la denuncia di K. è chiara: la proliferazione delle immagini e degli strumenti per produrle, non costituisce un incremento di conoscenza del mondo ma, paradossalmente, ne impedisce la visione conducendo alla cecità, come accade, letteralmente, al personaggio di Ginster. Il primo romanzo di Kracauer, Ginster, che l’autore definisce un’autobiografia anonima, mette in scena un giovane architetto, un alter ego di Kracauer stesso, disgustato dalle implicazioni commerciali dell’architettura e dalle cellule abitative seriali che l’architettura produce per la pianificazione urbanistica della Germania di Weimar. Traumatizzato dagli effetti devastanti della guerra sul fronte interno, Ginster non crede alla costellazione dell’interiorità, residuo dell’idealismo, e cerca invece negli artefatti e nelle superfici degli oggetti uno stimolo verso una sintesi di estetica e progettualità politica. Nella sua ricerca di una solidarietà organica ma non naturale e la diffidenza verso lo Stato di Weimar, si possono individuare interessanti analogie con il pensiero e la prassi di quella che nei nostri ultimi anni è stata spacciata per biopolitica. Un sapere territoriale da assemblare grazie all’apporto di materiali grezzi, ovvero frammenti di testo irriflessi: questo è quanto cerca Kracauer nella fotografia utilizzata letteralmente come apparecchio sostitutivo della visione. Egli dimostra pertanto di poter convivere con il carattere «geneticamente sfuggente» degli indizi raccolti e, allo stesso tempo, non disdegna la possibilità di un uso simpatetico dell’immagine, come quella che Barthes riannoda all’ipotesi del punctum. E queste affinità contribuirebbero a far coincidere Ginster, che Kracauer qualifica come biografia anonima, con una raccolta di «biografemi».

Scrive brillantemente Barthes: ‘La Fotografia […] mi permette di accedere a un infra-sapere; mi fornisce una collezione di oggetti parziali e può sollecitare in me un certo qual feticismo: infatti vi è un ‘io’ che ama il sapere, che prova nei suoi confronti come un gusto amoroso. Nello stesso modo, io amo certi aspetti biografici che, nella vita di uno scrittore, mi affascinano al pari di certe fotografie; ho chiamato questi aspetti ‘biografemi’; la Fotografia ha con la Storia lo stesso rapporto che il biografema ha con la biografia.’ (Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003, p. 12). Il biografema di Barthes è la facoltà di pensare del Raum-Bild nella sua essenza biografico-relazionale e, come tale, giustifica anche l’apparente vuoto del protagonista nella costruzione, solo esteriormente realistica, del romanzo Ginster. Inoltre, le implicazioni fanatiche dell’immagine, dichiarate da Barthes, accentuano la connotazione iconica di questa trasposizione, cui Kracauer non è immune, visto che sia le fotografie degne del punctum sia i personaggi come Ginster possono essere considerati alla stregua di oggetti confessionali.

Di che cosa si tratta? Sostanzialmente di oggetti di culto, predisposizioni di uno stretto sentimento maniaco ed artistico fra presenza e assenza. Sfera pubblica ed esperienza, di O. Negt ed A. Kluge, che uscì in Germania nel 1972, parlava di industria della coscienza e di una possibile attualizzazione de La Massa come ornamento. Se partiamo dai punti più recenti della crisi della sfera pubblica – ormai da più parti riaffermata e riconosciuta, proposta, analizzata, prodotta – dobbiamo rilevare che essa non è cosa nuova. Se il pensiero della critica dell’alienazione si presenta anche come un momento della storia della ragione moderna, fin dall’inizio esso ne condivide alcuni caratteri e, quando quella ragione mostra la sua crisi, questa stessa attraversa anche la critica dell’economia politica. A che cosa serve allora, nella vita quotidiana, la voce sociologia attribuibile a Talete? Serve a pensare, come direbbe S. Kracauer. Ora, pensare è un’attività a cui ci dedichiamo con una certa frequenza. Tanto vale a questo punto, farlo con precisione, con rigore, sgombrando il campo dai luoghi comuni che ripetiamo. D’altra parte, l’approfondimento dell’esperienza soggettiva delle «masse come presa della parola» o come ornamento, la ricerca intorno a una figura non astratta di soggetto, centro dell’attività fantastica oltre che reale, nesso dei bisogni e dei desideri, da dove proviene se non dalla domanda e dal realismo di Das Ornament Der Masse. Oggi Ken Loach è molto efficace nel mostrare come l’ideologia «dominante dell’imprenditore di se stesso» sia profondamente penetrata nella massa come ornamento ed è coerente – a maggior riprova del suo ‘verismo’ – ad assumere in questo il punto di vista del ‘realismo sociale fuori dall’arte’. «La tecnica consapevolmente funzionale» dice Ernst Bloch, in Spirito dell’Utopia, «porta tuttavia, in determinate condizioni, alla significativa liberazione dell’Arte, sia dagli eccessi di stile e della retorica del passato, sia dalla nuda forma funzionale». In altri termini, la dimensione prettamente tecnologica degli oggetti cinematografici e di uso o fruizione quotidiana può essere letta in termini ambivalenti ma derivanti dalla stessa radice, l’uno squalificante dell’altro: si tratterebbe di una vera lotta tra le masse e gli ornamenti, tra esistenze e pericoli simulacrali. Da una parte c’è il pericolo dell’uniformità, dell’omologazione generale, quindi della perdita dell’individualità, ma dall’altra la possibilità che questo processo riveli l’immagine-cinema nella sua verità politica, come nel caso di Loach, permette all’Arte di essere nuovamente Arte, liberandola dalla schiavitù dell’utilizzabilità. Ogni zona o aspetto della società umana possiede una serie di qualità e di complicazioni che sono ad essa peculiari e possono trovarsi in altre aree solo in modo sporadico e marginale. I gruppi costituiscono un dato così fondamentale per l’immagine contemporanea che numerosi studiosi hanno definito la loro espressione emergente come la fotografia de La Massa Come Ornamento. Anche se altri preferiscono porre in evidenza quell’aspetto dell’immagine che si riferisce al comportamento sociale come basilare per la sua definizione, è ancora possibile aderire al punto di vista di S. Kracauer, secondo il quale l’idea di gruppo è Das Ornament der Masse (1963). Combutte informali di salariati in una fabbrica, in una situazione di agitazione operaia o di fruizione conflittuale, possono dare origine ad un potere non ufficiale, col quale tanto la classe media quanto quella sottoproletaria devono venire a patti. Molti degli sforzi dell’osservazione simmeliana, in un modo o nell’altro, mirano a spiegare i motivi per cui si verificano tutti questi fenomeni. Il solo gruppo, che non è un sottogruppo, è la società stessa. Una società costituisce il gruppo e la massa come ornamento più vasto possibile e proprio per questa ragione, può essere piuttosto sfumato, impreciso o addirittura ornamentale. Società della massa, o massa in società è un concetto molto più chiaro se riesce a confrontarsi con una collettività i cui confini sono facilmente visibili come avviene per certe tribù. Georg Simmel abbordò questa questione, quando studiava il problema di ciò che chiamò ‘incrocio di circoli sociali’, cioè il sottoporsi e l’intrecciarsi dei gruppi visti dalla posizione dell’individuo, nel quale tutti questi circoli vengono ad incontrarsi.

Il comportamento sociale è un espressione opportunamente non ben definita, perché include sia il livello animale della specie umana, sia quel livello che sembra distinguerla dalle altre società animali: la cultura. A livello della cultura, è forse più adeguato parlare di azione sociale. Quella di Max Weber è divenuta la definizione modello: l’azione sociale “ è quasi atteggiamento o comportamento (verhalten) per quanto l’agente o gli agenti attribuiscono ad essi un significato (sinn) soggettivo”. Dallo studio della fotografia, passando a brillanti analisi sociologiche del rapporto tra pubblico e affermazione del grande schermo, fino ai profili densi e pluriespressivi di artisti e pensatori come Benjamin, Kafka o Simmel, la nuova edizione de La massa come ornamento di Kracauer (acutamente curata da Emiliano Morreale e per la prima volta pubblicata integralmente in Italia presso una brillante casa editrice come la Cue Press di Imola) raccoglie tutte le perle saggistiche di un maestro degli studi culturali del ‘900. L’interesse del singolare pensatore che come Adorno, Benjamin, Bloch pratica la scrittura letteraria, il saggio scientifico breve, l’invettiva, il pamphlet, la critica epistemica e il corsivo empirico, si concentra sul comportamento sociologico dei gruppi e delle classi sociali emergenti, in particolare la tendenza a definire i prodromi del «loisir» che nel corso del ‘900, nella prossima età del consumer e del prosumer, modificheranno gli statuti sociali delle moltitudini, disaggregandoli e frantumandoli in una collettività di individui.

Sigfried Kracauer (1889-1966), è certamente uno degli studiosi tedeschi afferenti alle discipline filosofico-sociologiche e storico-mediologiche più noti e bistrattati in Europa. La sua biografia intellettuale e culturale, così sorprendentemente densa di sviluppi repentini e audaci, la sua produzione letteraria e scientifica, fortemente contrassegnata da aperture coraggiose (espansioni, spaziature e rivoluzioni paradigmatiche) e slanci innovativi, il dispiegarsi del suo pensiero, vicino ai francofortesi ma nel contempo marcatamente eterodosso, nel quadro di una serie di questioni pluriproblematiche e pluridisciplinari, che ne hanno connotato tanto il vissuto umano e politico quanto la cifra teorico-metodologica più profonda, hanno alimentato gli interessi di ricercatori afferenti a campi disciplinari piuttosto variegati tra letterature, arti visive e cinema, non sempre tra loro convergenti. Il piccolo laboratorio storiografico, che si è tratteggiato intorno allo studioso tedesco, sebbene venga costantemente arricchendosi e sempre più estesamente articolandosi, non è stato sinora sottoposto ad alcuna organica “rassegna critica”, se non a quella animata da alcuni miei studi espositivi! Rispetto ad Adorno, è possibile delineare quanto al tempo dell’uscita di Prismi (1982), ebbi a dire relativamente alla storia della costruzione di Città senza confine (1984), mostra caratterizzata da una densa dimensione antropologica della tecnica mediale in progress e da un groviglio di storiografia iconico-letteraria! Non è questa la sede per analizzare i termini che hanno connotato la relazione stretta fra Kracauer e il Medialismo, perché evidentemente né un solo saggio e neppure un solo obiettivo semiotico vi potrebbero fare fronte. Doveroso e inderogabile, tuttavia, è sollevarne l’urgenza, mentre assolutamente fattibile sembra una preliminare operazione di alcuni indirizzi di lavoro, da assumere quali punti di partenza per successivi e maggiormente «mirati approcci mediali».

La linea critico-mediale Kafka-Simmel-Benjamin qui individuata, che conduce al Kracauer giornalista, biografo, storico delle origini della fotografia e del dispositivo cinematografico, merita di essere analizzata e meglio definita, poiché proprio da essa è il caso di partire per svolgere alcune riflessioni dal valore più ampio, e per introdurre un costrutto concettuale su cui ha inteso fare leva Monreale e intendiamo fare leva noi del bisogno di ‘atractio electiva’, di ‘rédemption et utopie’! Come dice Michael Löwy, l’affinità effettiva non si sviluppa nel vuoto o nel pieno della pura spiritualità, essa è favorita (o sfavorita) da condizioni storico-sociali di riflessione sulla comunicazione. Se l’analogia e la parentela in quanto tale dipendono unicamente dal contenuto spirituale delle strutture significative in questione, il loro entrare in rapporto alla fotografia e al cinema o alla condizione mediale, quindi la sua interazione dipendono da circostanze socio-economiche, politiche e culturali precise. La lettura goethiana (intendo riferita alle Affinità Elettive) di Kracauer, ovvero la celebre tesi che chiude la visione de La Massa come Ornamento con la dialettica tra favola e verità, ha rappresentato effettivamente un punto di discussione che molti studiosi hanno inteso interrogare per far luce sulla matrice semiotica kracaueriana. Se la relazione Kracauer-Bloch-Benjamin ha costruito una direttrice essenziale in questo asse disciplinare, (plurimediale) meno importante risulta un secondo ambito di interessi, che ha inquadrato la discussione nel perimetro delle istanze iconiche e delle “strutturalità fotografiche.

Non c’è dubbio che il nodo di questo libro di S. Kracauer, La Massa come ornamento (1963), sia rappresentato dalla parola «massa» e dalla definizione di «ornamento», termini che si sono andati ad inserire, in modo imprevedibile e con esiti poco ipotizzabili tra due categorie della critica novecentesca. Ci si potrà chiedere se qui ‘massa’ e ‘ornamento’ siano proprio quel versus cui ci hanno abituati i saggi di sociologia industriale; ci si potrà affidare alla metafora di una collisione cosmica, immaginando due astri via via deviati dalle loro orbite, sino al catastrofico crash finale in cui siamo calati adesso. Resta comunque significativo, che Simmel e Kracauer, esploratori di ambiguità, vengano contrapposti in un tempo per eccellenza ambiguo, anzi rassegnato al proliferare di soluzioni che precedono i problemi. Appare opportuna la determinazione di parametri spaziali e temporali: nella lingua di tutti i giorni, si qualifica come concreto ciò che si può vedere e toccare e astratto ciò che esiste solo nel nostro pensiero. Nella vita quotidiana, si ritiene che ciò che è concreto sia l’individuo umano, il suo lavoro e così via, mentre la società e il lavoro sociale sono considerate astrazioni. Dunque, in questo senso, le persone sono per natura esseri sociali, ed è assurdo tentare di spiegarlo partendo da individui unici, dato che questi non possono che esistere in società. Nessuno può sfuggire al vissuto della propria società, vale a dire alla riflessione politica. Non partecipare a questa domanda, significa accettare la società così com’è, come se fosse perfetta e definitiva e, dunque, contribuire a che non evolva affatto; e questa è una presa di posizione. Così la sociologia dimostra che ci sono questi fondamentali a cui tutti hanno il dovere di rispondere, o addirittura a cui condizionatamente o incondizionatamente rispondono.

Andiamo oltre: è sufficiente scegliere una cosa piuttosto che un’altra per essere liberi? Si è visto che scegliere senza avere coscienza della propria libertà, o della propria massificazione non può costituire un libero vivere. La questione della massa si presenta sempre in rapporto a l’ostacolo dell’ornamento. Per esempio, una cecità metropolitana diminuisce e alimenta le mie facoltà di ribellione; voglio conquistarmi, ritrovarmi, per raggiungere il mio scopo. La ricerca della libertà dall’ornamento appare, allora, come un processo infinito di visualizzazione e di liberazione. Questo vale per un individuo, per una massa, per un artista, per l’umanità intera: l’emancipazione dalla massa e soprattutto dal farsi metropolitano di un ornamento, come nelle foto dei migranti storici e in quelle dei deportati, economici, giuridici, sociali, politici eccetera… danno ogni volta agli uomini la possibilità di superare le costrizioni, a condizione di seguire alcune regole (scientifiche, sociali, morali) alle quali si decide o no di sottomettersi. Adolf Loos, un appreso costruttore austriaco tra i padri dell’Architettura moderna, guidò per tutta la vita una battaglia contro l’ornato come forma di decorazione inutile. Togliere l’ornamento da qualsiasi cosa, che sia un vestito, un mobile, una casa o una forchetta. Probabilmente, l’origine di questo pensiero nasce da un viaggio negli Stati Uniti, in particolare a Chicago, dove avrà la possibilità di conoscere le architetture di Sullivan, il vero precursore delle strutture in acciaio. Nel 1910 venne pubblicato il suo dissacrante libro contro la Secessione, dal titolo ‘Ornamento e Delitto’. In questo piccolo saggio Loos chiariva le cause per le quali qualsiasi tipo di addobbo non fosse altro che l’uso di un mancato apprestamento culturale. A questa architettura, Loos preferisce la sobrietà dei volumi basici ma adeguati, per degli spazi meditati e soppesati. Nel suo scritto afferma che ‘l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’abolizione dell’ornamento nell’oggetto d’uso’. A differenza di Loos e di Kracauer, Bloch usa la ‘profondità ornamentale delle creazioni umane’ (non solo opere figurative, ma soprattutto architetture, oggetti di design…) per seguirne in profondità le radici fino ai punti vitali della cultura, delle progettazioni del mondo e dell’esistenza. Bloch traccia una significativa ontologia dell’ornamento. Si inserisce nel dibattito novecentesco sull’argomento con una posizione tutt’altro che manichea o semplicistica e senza nulla concedere a luoghi comuni, o a concezioni abbonate. Le sue argomentazioni, assegnate ad un arco temporale dal 1914 al 1968, sono ben strutturate, organiche e coerenti, fin oltre quello che ci si potrebbe attendere. Bloch prende le distanze dai due principali indirizzi che dominano il XX secolo con alterne vicende: il Funzionalismo, più connesso e unitario (Gropius e il Bauhaus, van der Rohe, Adolf Loos, spesso citato), e l’architettura organica, più articolata ed eterogenea, cui vengono ricondotti tanto il Liberty quanto il Razionalismo di Wright e altri (che, a partire dagli anni ’30-’40, vogliono integrare artificiale e naturale, in piena continuità), o gli arredi realizzati su calco dell’anatomia in chiave ergonomica (Carlo Lodoli, protofunzionalismo settecentesco). Sulla scorta della ‘lavabilità’ (così Bloch definisce in ‘Spirito dell’utopia’ il criterio che sembra ispirare scelta di materiali e forme nel Funzionalismo) viene mortificata ogni differenziazione, ogni peculiarità, capace di dare un senso e un significato all’opera e al mondo di cui fa parte. L’appendice, nel suo sfruttamento artistico, ma in fondo in fondo anche sociale, è la perdita di orientamento nella fruizione (insieme estetica e funzionale) dell’opera (e qui qualcosa potrebbe avere a che fare con S. Kracauer). Bloch non usa mai il termine ‘globalizzazione’, e forse neanche quello di modernità massificata abbracciata dall’ornamento, ma non disdegna di denunciare l’individuazione delle condizioni e delle implicazioni espansive del capitale. Secondo Bloch occorre dimostrare, criticare ed annullare il decorativismo epidermico e illusorio (sulla bugia come pericolo nell’arte insiste a più riprese), pretestuoso, senza alcun radicamento. È soprattutto per questo, che la decorazione si differenzia dall’ornamento, essendo la prima un riporto fittizio e la seconda coessenziale dell’espressione. Non esita a individuare la decorazione (nel senso su esposto, altro dall’ornamento) nel kitsch, nonché in ogni piacere facile, ‘culinario’, di consumo, che una certa arte o un certo design pretestuosamente diffondono, sull’onda della produzione industriale, nonché di uno sbrigativo e malinteso senso estetico. 

Il punto essenziale della psicologia di Kracauer era il carattere intenzionale della coscienza. Intenzione è da prendersi qui nel suo significato più vasto, che abbraccia non solo l’intenzione di fare, ma tutti i possibili rapporti in cui la mente può trovarsi con i propri oggetti. Noi, oggi, siamo soliti parlare di intenzione solo in senso pratico e, in tal caso, l’oggetto dell’intenzione è uno scopo, qualcosa che si vuole fare, qualcosa dentro cui si vuole agire. Ma questo non è altro che uno dei termini scolastici di intentio, a cui Kracauer, e prima di lui Georg Simmel, si richiama. Per i critici cinematografici della Frankfurt Zeitung degli anni ’20 del ’900, l’intentio poteva essere, non meno che pratica, conoscitiva. E, del resto, anche noi, quando usiamo il verbo intendere, possiamo usarlo nel senso di voler fare una passeggiata per i grandi magazzini, costituire un gruppo di pressione, ma anche nel senso di voler dire o, in genere, di capire qualche cosa e di fare, di questa cosa, l’oggetto della nostra considerazione o costruzione. I significati dei nostri discorsi dipendono da tutte queste complesse intenzioni, come appare in inglese anche dalla connessione tra meaning, significato, e to mean, intendere o avere intenzione. L’intenzionalità partecipativa del mondo moderno, questo peculiare rapporto che la mente ha con i propri oggetti, permette a S. Kracauer di correggere le deviazioni naturalistiche nel modo di concepire il funzionamento della mente nel sociale. L’oggetto non è un contenuto della mente, o un’affezione del soggetto, uno stato del suo animo, una modificazione della sua psiche; ma neanche il soggetto della folla è una specie di supporto o attaccapanni a cui si appendono, nel corso dell’esperienza metropolitana, le rappresentazioni. Esso acquista, piuttosto, il carattere di un atto, di un riferirsi a, di un muoversi verso. Nel linguaggio del ‘giornalista culturale’, S. Kracauer si potrebbe, sia pure inadeguatamente, indicarlo con la metafora di un vettore. Le annose discussioni tra realisti e idealisti, almeno sotto l’aspetto sociologico, da questo punto di vista perdono il loro interesse. La fenomenologia della metropoli, di Simmel, è, piuttosto, un’attività che mira ad enucleare, dal magma della coscienza vissuta, l’oggetto della sua differenza; e – anche se a certe sue applicazioni si può rimproverare di aver scambiato per un oggetto puro, che dovrebbe presentarsi allo stesso modo a tutti, una costruzione del singolo in cui molto rimane di arbitrario – è innegabile che, per indicare le condizioni con cui si può pensare un oggetto puro della mente, la fenomenologia delle masse sociali abbia messo le mani su concetti fondamentali. Del resto, che dall’insegnamento di Simmel scaturisca naturalmente una teoria «dell’oggetto-massa» come soggettività protagonista o come ornamento, lo si vede anche dalla carriera di un altro intellettuale molto vicino: Walter Benjamin di Parigi Capitale. Anche i valori delle masse moderne, dei gruppi sociali, secondo Kracauer, possono essere studiati nella loro oggettività, e per questo la teoria dell’oggetto si accosta alla riflessione sociologica dei valori, professata da Simmel. Kracauer stesso, inoltre, non si limita a teorizzare le condizioni a cui il pensiero sociologico può cogliere, grazie a una intuizione eidetica, gli eide, o le essenze del mondo: ma soprattutto, nell’ultimo periodo della sua vita, quando riprende nel 1963 gli scritti di La Massa come Ornamento, sostiene il dubbio di come siano fatte, in realtà queste essenze. Kracauer tentò, insomma, di entrare nel merito di una nuova metafisica dell’architettura metropolitana moderna (struttura e infrastruttura: umana ed oggettuale) e nel flusso vitale-pubblico che si espande sul territorio della città. Al cinema, e alla fotografia, non resta altro che tornare a quell’originario e perduto rapporto con il mondo che le immagini digitali hanno messo in forte discussione: spingersi fino al limite nel registrare la realtà fisica (quello che, secondo Kracauer, è il compito del fotografo). Tornare a farsi occhio prima che racconto. Senza inutili storie. Bisogna soltanto puntare, mettere a fuoco e sparare (vedi il mio recente: Il sensore che non vede. Sulla perdita dell’immediatezza percettiva, Paginauno, Milano, 2023).

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Strade maestre rau
12 Ottobre 2023

Strade maestre: D’Elia e Maifredi tra i grandi registi del contemporaneo

Vincenzo Sardelli, «Krapp's Last Post»

Le vie del teatro come la via della seta. La ricerca dell’arte e la riflessione sull’arte, sulle tracce dei maestri che hanno fatto grande il teatro contemporaneo. È una piacevole scoperta Strade maestre di Corrado d’Elia e Sergio Maifredi. Fresco di stampa, il libro (Cue Press, Imola 2023, pp. 224, € 24,99) è un itinerario nella vita, nell’arte e nella filosofia di alcuni grandi registi europei viventi. D’Elia, fondatore di Teatri Possibili, incontra Maifredi, fondatore di Teatro Pubblico Ligure. Insieme battono il Vecchio Continente per confrontarsi con giganti del calibro di Peter Stein, Eugenio Barba, Stefan Kaegi, Milo Rau, Thomas Ostermeier, Antonio Latella, Krzysztof Warlikowski, Lev Dodin e Ariane Mnouchkine.
Un’ossessione guida il percorso: il concetto di Maestro (scritto con la M maiuscola), partendo dalla sensazione che i giovani teatranti non riconoscano più il prestigio e l’autorevolezza di un magister. Le domande istituiscono delle conversazioni che, intrecciate in una sorta di puzzle, definiscono lo stato di salute del teatro europeo. A leggere il libro, pare di entrare nel «nobile castello» del Limbo, dove Dante e Virgilio dissertano con Omero, Lucano, Orazio e Ovidio «parlando cose che ‘l tacere è bello». Qui, però, nessuna reticenza. I confronti sono diretti, immediati e spesso spiazzanti; vertono sull’arte e sugli intrecci con la vita; sul metodo registico e sulla relazione con lo spazio scenico; sul rapporto con pubblico e istituzioni; sul concetto di teatro ideale. Ma il canovaccio si dissolve, si deforma sulla poetica di ogni artista, modificato dalle diverse risposte.
Ciò che interessa in questo itinerario ricco di belle foto (di Ruggiero Dibenedetto) e note biografiche, è anche il primo ricordo di vita vissuta e di vita teatrale degli artisti interpellati. Essi sono interrogati sull’evoluzione della loro arte, sul rapporto con la società e con la politica, sul legame con la lingua, la scrittura e l’identità. Le biografie intersecano la grande storia: ad esempio la guerra, cui sono legati i primi ricordi di Stein, di Barba e di Mnouchkine; oppure la Cortina di Ferro, che riecheggia nei racconti di Ostermeier o Warlikowski. E che dire del russo Dodin, irraggiungibile dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, che pure ha il coraggio di denunciare senza mezzi termini su una rivista russa la barbarie aggressiva di Putin e un «ventunesimo secolo più orribile del ventesimo»?
Strade maestre tocca i grandi temi esistenziali, dalla morte alla fede, al lockdown. Gli incontri sono avvenuti proprio in epoca Covid. Ne avvertiamo quel soffio grigio, eppure ricco di opportunità.
Le parole degli artisti sono un’antologia di riflessioni mai banali. Domande e risposte sembrano compenetrarsi, e non sembra casuale la scelta dei caratteri grafici quasi indistinguibili per le une e le altre, senza l’uso di corsivi o neretti. Queste pagine ben scritte oscillano tra cronaca e letteratura. Colpisce la descrizione dei luoghi, succinta e sognante: Roma «luminosa e allegra come una giovane sposa»; Losanna, distesa con dolcezza lungo il lago Lemano; Berlino, città-stato sterminata, vecchia conoscenza archetipica del nostro immaginario, «metropoli poliedrica, permissiva e multietnica».
Strade maestre è uno scrigno di pensieri acutissimi. Non mancano le staffilate. Ecco Peter Stein che boccia l’architettura del teatro all’italiana («per me la morte del teatro»), che biasima lo streaming e il dilagare in sala delle immagini, che stigmatizza i monologhi e la performing art, che deplora i CdA politicizzati, o certi registi che usano un pene di plastica laddove il testo richiederebbe solo di sguainare una spada. Fino alla bordata di definire associazioni a delinquere i Teatri Stabili. Per converso, Latella magnifica l’identità liquida democratica e multiculturale di Berlino e i copiosi finanziamenti di cui godono i teatri tedeschi (22 milioni all’anno per un teatro medio). Intanto, mentre postula l’inscindibilità tra vita, lavoro e arte, Latella magnifica la scena off italiana e la capacità di registi come Castellucci di creare un nuovo codice espressivo. E chissà che non pensi proprio a Stein quando sentenzia che «i registi tedeschi che amano il teatro dittatoriale prima o poi vengono a lavorare in Italia».
Strade maestre è un viaggio. Non meno della storia, la strada è maestra di vita. Come Diogene con la lanterna, d’Elia e Maifredi peregrinano tra città, artisti e teatri. Mentre cercano l’arte e la riflessione sull’arte, mentre scandagliano la poetica e il metodo dei grandi maestri, di fatto si mettono in cerca dell’uomo. Per affinare lo sguardo, occorre uscire dal recinto. Perché nessuna arte, più del teatro, avviene tra le persone: è incarnata dalle persone, vive tra le persone, è realizzata per regalare sogni, dubbi, pensieri, alternative alle persone.

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12 Ottobre 2023

È l’imolese Cue Press la casa editrice del Premio Nobel per la Letteratura

Lorenzo Benassi Roversi, «il Nuovo Diario Messaggero»

Dalla scorsa settimana, Jon Fosse è entrato nel discorso pubblico del nostro Paese e, a giudicare da quanto si parla di lui e delle sue opere, sembra sia entrato anche nel novero degli autori che fanno parte dell’immaginario collettivo della grande letteratura contemporanea. Non che si trattasse di un Carneade qualunque, ma da quando gli è stato attribuito il Nobel – «per le opere teatrali e la prosa innovativa che danno voce all’indicibile» – ci siamo accorti di questo drammaturgo norvegese dai testi difficili e dalla fisionomia nordica. In realtà, a Imola, già da prima c’era chi credeva alla forza della sua scrittura, e non solo a parole. «È dal 2018 che abbiamo iniziato a investire sulle opere di Jon Fosse, pubblicando i suoi libri» spiega Mattia Visani, attore e regista, formatosi al Teatro Stabile di Torino, e nel 2012 fondatore di Cue Press, casa editrice imolese, specializzata in arti e spettacolo.

«Il conferimento del Premio Nobel a Fosse è stata una grande soddisfazione anche per noi. Abbiamo festeggiato e poi subito ci siamo essi al lavoro per soddisfare il carico di ordinativi che la notizia ha generato». Cue Press, infatti, detiene l’esclusiva di tre volumi, che raccolgono cinque di quelle opere, rivelatrici dell’indicibile, per le quali è stato conferito il Nobel a Jon Fosse: Teatro, che raccoglie i primi lavori dell’autore, Caldo, la storia di due uomini accumunati dal ricordo di una donna misteriosa e Saggi gnostici, nelle cui pagine si riflette il pensiero dell’autore sulla vita e sull’arte. Spiega Visani: «Si tratta di opere intense, profonde. Non sono testi facili, ma per il lettore che si lascia affascinare sono una vera sfida che speriamo possa coinvolgere più persone possibili».

I numeri raccontano molto dell’effetto mediatico del Nobel: «Se prima vendevamo una o due copie l’anno ai lettori più attenti e agli specialisti, solo nella prima giornata, dopo la notizia del Nobel, abbiamo ricevuto richieste per oltre tremila copie. Senza precedenti» racconta l’editore, che però non crede che il Nobel farà di Fosse un autore di massa nel nostro Paese. «È piuttosto l’occasione per allargare la platea di lettori italiani» spiega. Cue Press d’altronde nasce per rispondere alle esigenze di un pubblico attento, interessato al teatro e al cinema, e a questa scelta risponde anche l’attenzione dedicata a Fosse fin dai tempi in cui in Italia era ignoto ai più. «Tenevamo a proporre al nostro pubblico un’esperienza originale. Ora il sogno è quello di portare Fosse a Imola, sarebbe un successo culturale per la città e per il territorio». Intanto, l’esclusiva delle opere di Fosse è una grande opportunità per Cue Press, che si muove in un mercato di nicchia ed è in crescita: «Da poco abbiamo assunto la seconda dipendente». A rinforzare l’organico della casa editrice, ai due dipendenti e all’amministratore si aggiungono varie collaborazioni stabili: «Nasciamo dal rapporto che ebbi con Ubulibri, casa editrice milanese dedicata alle arti e allo spettacolo e diretta da Franco Quadri. Da quell’esperienza intravidi una possibilità e decisi di fondare Cue Press. La fedeltà alla missione che ci siamo dati all’inizio è parte dell’identità che sentiamo nostra».

La vita culturale di una città come Milano sembra più adatta a favorire la crescita nel difficile ramo dell’editoria, ma «Cue Press fa parte del territorio. Qui abbiamo trovato competenze e sensibilità. Il digitale poi ci aiuta a superare le distanze» spiega Visani, originario di Casalfiumanese.
Da Samuel Beckett a Vittorio Gassman fino a Stanislavskij, si allarga molto oltre quello di Fosse il novero dei grandi nomi editi da Cue Press, premiata negli scorsi anni come startup culturale dal bando di Regione Emilia-Romagna dedicato alle imprese innovative. Spiega Visani: «Si è trattato di un’occasione importante di consolidamento e di un riconoscimento che ci ha incoraggiato ma l’obiettivo di Cue Press è quello di stare sul mercato, vendere libri, affermandoci sempre di più nel segmento che abbiamo scelto e fidelizzando un pubblico via via più ampio».

Agitprop
10 Ottobre 2023

La danza e l’agit-prop. I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento

Barbara Berardi, «Theatron 2.0»

I primi decenni del Novecento hanno visto nascere il desiderio, da parte dei cosiddetti padri fondatori del teatro e della danza, di attuare una vera e propria «ri-teatralizzazione» attraverso rivoluzioni stilistiche e sperimentazioni nel campo dell’arte scenica. Nel libro intitolato La danza e l’agitprop: I teatri non-teatrali nella cultura tedesca del primo Novecento, pubblicato da Cue Press nel 2015, Eugenia Casini Ropa si sofferma sulla rivoluzione culturale avvenuta in quegli anni in Germania. Studiosa del teatro e della danza del Novecento, ha pubblicato numerosi saggi e volumi di stampo socio-politico sul teatro tedesco e sulla storia della danza moderna e contemporanea. Inoltre, è curatrice della collana editoriale I libri dell’Icosaedro e delle riviste Teatro e Storia e Danza e Ricerca. Casini Ropa sceglie come soggetti privilegiati di indagine due fenomeni – «i teatri non-teatrali» – che in quegli anni rivelarono in modo più radicale le proprie esigenze di rifondazione. La «nuova danza» tedesca, nata dalla rivalutazione pedagogica del corpo umano, basata sul rapporto di interdipendenza e simultaneità tra anima, corpo, disciplina e natura; e l’agitprop, teatro rivoluzionario operaio di agitazione e propaganda nato dall’ideologia socialista. Dopo un contesto artistico iniziale, lo studio continua concentrandosi su come le realtà e gli artisti che si dedicarono alla scoperta e allo studio della pedagogia, del rito, dello sport, della religione, dell’associazionismo e della politica contribuirono a scardinare gli antichi schemi del linguaggio artistico per creare un nuovo teatro del movimento espressivo.

Il volume si apre esaminando un concetto alla base del cambiamento di pensiero di quegli anni: la Körperseele (fusione perfetta tra anima e corpo). Questa visione innovativa portò diversi studiosi a rivoluzionare il lavoro con il corpo degli attori e dei danzatori, trasformandolo in una ricerca di una nuova armonia non solo fisica, ma anche morale e spirituale. Tra i protagonisti citati, ci sono pionieri di questa nuova era per la Körperkultur (cultura fisica), tra cui François Delsarte, Madeleine G. e Mary Wigman, tra le più innovative danzatrici della loro generazione, e il confronto tra la ginnastica euritmica di Émile Jaques-Dalcroze e il metodo di Rudolf von Laban, considerato il padre della danza libera, narrato in seguito all’esperienza della scuola-colonia di Monte Verità.

La seconda parte si concentra sul teatro proletario in Germania, esaminando i suoi sviluppi tra gli anni Venti e Trenta e il conseguente rafforzamento di un sentimento collettivo di consapevolezza e lotta di classe. L’agit-prop, nato dalla collaborazione tra attori-operai e scrittori rivoluzionari, metteva in scena rappresentazioni con un forte contenuto ideologico e propagandistico, finalizzate a risvegliare una nuova e consapevole coscienza di classe tra il proletariato. Erwin Piscator, Béla Balázas, Friedrich Wolf e altri intellettuali engagé si fecero portavoce di un allontanamento drastico dalla forma, dai temi e dal naturalismo del teatro borghese, per dare vita a una nuova tipologia di «teatro-comunicazione».

Alla conclusione dei vari contesti storici indagati, segue un ultimo capitolo dedicato alle testimonianze iconografiche. Eugenia Casini Ropa conclude il volume con una ricca raccolta di immagini: danzatrici con tuniche in pose che richiamano i fregi e le statue dell’antica Grecia, allievi della scuola labaniana, esempi di esercizi di ritmica nell’Istituto di Hellerau di Dalcroze (fotografie che mostrano il lavoro di ristrutturazione effettuato in collaborazione con Adolphe Appia), e foto dei gruppi agitprop, ritratti espliciti dello spirito di lotta che li animava. Un’enciclopedia di fotografie che facilita la comprensione degli studi rivoluzionari di quegli anni e delle peculiarità che caratterizzano le diverse tipologie di ricerca artistica.

«Che cosa resta di tutto questo e che cosa può ancora oggi, a un secolo di distanza, risuonare in qualche modo dentro il lettore? Qualcosa di attuale compare, almeno ai miei occhi, guardando più a fondo. Qualcosa allora sognato, sperato, perseguito nel pensiero e nella pratica, sperimentato in prima persona come modo di vita sia individuale sia sociale, portato con decisione alle estreme conseguenze.
E questa qualità del vissuto è già in sé un primo, forse semi-cosciente motivo di attrazione ai nostri giorni: la lezione esplicitata della ormai tanto difficile capacità di credere fino in fondo in un’idea – che non sia il denaro e il successo – e di tradurla in azione costante nella vita e per la vita. Compare qualcosa, dicevo, che si sintetizzava allora in due concetti in problematica dialettica: emancipazione dell’‘individuo’ e costruzione del ‘collettivo’ o del ’coro’, a seconda delle parti in causa, e che oggi, in mutate condizioni, potremmo tradurre in: ridefinizione della persona e costituzione della comunità. […] La danza, il teatro, l’arte in generale, si propongono ancora oggi come allora, ma con forza e voce purtroppo assai affievolita – almeno nel nostro Paese – da un clima culturale sfavorevole, come possibili, creativi strumenti di formazione personale e di relazione e aggregazione sociale. Occorre scoprire e diffondere – e in questo nuovo inizio di secolo molto già si lavora sperimentando – i modi più efficaci per fare ancora dell’arte un laboratorio sperimentale utile alla crescita delle persone e della cultura sociale. E poiché non si può prescindere dalla storia per orientarsi al futuro, le immagini un po’ sbiadite e fuori moda di questo volume acquistano probabilmente nuova brillantezza e le storie di uomini e donne che hanno creduto e lottato fino in fondo, qualunque si sia poi rivelato l’esito delle loro lotte, possono ancora mettere in moto il pensiero e risvegliare in chi legge l’eco di una necessità di partecipazione mai del tutto sopita».

Collegamenti

Strade maestre barba
8 Ottobre 2023

Post Teatro

Anna Bandettini, «la Repubblica»

Letture di resistenza

«Non ricordo quasi niente della mia infanzia. La mia memoria comincia con la morte di mio padre. Prima di quell’agonia che ho vissuto come un rito di passaggio e una nuova consapevolezza della condizione umana, ho rari ricordi, tutti di guerra». Sono parole del regista Eugenio Barba, grande «maestro» e rivoluzionario del teatro della seconda metà del Novecento, dal libro Strade maestre di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi. Nella newsletter di oggi, infatti, parlo di libri. Non soltanto di letture piacevoli per le vacanze estive, ma di resoconti e racconti su cui vale la pena riflettere per il loro valore di «resistenza» al conformismo dilagante, o perché hanno un loro pensiero originale, o semplicemente perché ci stimolano a farcene uno proprio.

La lezione dei «maestri»

È stato una bella sorpresa la lettura di Strade maestre, il libro di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi (Cue Press, € 24.99) che consiglio vivamente. Intanto è bella l’idea da cui nasce: interrogare i più grandi registi della scena contemporanea, «maestri» come Eugenio Barba, appunto, Lev Dodin, Arianne Mnouchkine, Peter Stein, e nuovi maestri come Warlikowski, Ostermeier, Latella, Stefan Kaegi, Milo Rau. Una bella scelta. I due autori li hanno incontrati, non per intervistarli come «giornalisti», ma per capire dalla loro vita e dal loro lavoro, dagli inizi, dalle domande che li hanno accompagnati nel corso degli anni, dalle relazioni che hanno costruito, il senso del fare teatro. Ne escono una serie di autobiografie umane e artistiche molto interessanti.
C’è Peter Stein che parla della cultura in modo profondo (leggete la risposta in cui parla della regia), c’è Milo Rau che precisa la sua idea di «nuovo teatro popolare», Arianne Mnouchkine che ricorda l’importanza di avere «maestri», Antonio Latella che confessa come il teatro lo ha fatto ritrovare. Sono parole spesso importanti, quelle dei «maestri», pensieri che sono radici da cui ripartire se si vuole capire il teatro. Ma non è un libro solo per teatranti o per chi frequenta il teatro, perché racconta come il teatro non sia solo una macchina per produrre, per vendere, per mostrare spettacoli, ma un luogo che congiunge tutte queste cose, che ha a che fare con la vita delle persone , con la società che c’è intorno.
Il teatro come macchina per comunicare, che talvolta ci appare disordinato e confuso, ma che attraverso le personalità di grandi artisti che riempiono le sue strade, ci appare una «strada maestra».

14 Marzo 2022

Scrittore e attore, soprattutto mattatore. Cioè G...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Le biografie e le autobiografie di attrici e di attori hanno permesso, agli storici del teatro, di ricostruire la nascita dei loro spettacoli, il momento storico in cui sono stati realizzati, le difficoltà economiche, le ansie dei capocomici e dei produttori, i successi e gli insuccessi. All’interno vi si trovano memorie, segreti, manie, bugie, autoreferenzialità, […]
13 Marzo 2022

I Quaderni di regia e i testi riveduti. Aspettando...

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Nell’ottobre del 1984, il pubblico milanese, (molti di noi, allora, erano presenti), poté assistere a qualcosa di insolito e di diverso, l’occasione fu data dalla messinscena di una trilogia, al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, formata da Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, prodotta dal San Quentin Drama Workshop, diretto da Rick […]
13 Marzo 2022

Fausto Malcovati, Un’idea di Dostoevskij

Nicola Arrigoni, «Sipario»

La lettura di Delitto e castigo e l’ebbrezza di confrontarsi con il delirio della coscienza di Raskolnikov, il «due più due» dell’Uomo del Sottosuolo, le potenti riflessioni di Ivan Karamazov, di Alëša, il ricordo quasi fisico degli ambienti notturni, delle vie anguste, dell’umanità dolente nei Fratelli Karamazov oppure ne I demoni: immagini, sensazioni corporee che […]
11 Marzo 2022

Nelle recensioni di Palazzi il peggior cinema anni...

Barbara Belzini, «Libertà di Piacenza»

Le belle voci di Tindaro Granata e Mariangela Granelli, in una pausa dalle prove di Lo zoo di vetro andato in scena in questi giorni al Municipale con la regia di Leonardo Lidi, hanno accompagnato il pubblico del Teatro Filodrammatici all’interno del libro Esotici, Erotici, Psicotici. Il peggio degli anni Settanta in 120 film di […]
7 Marzo 2022

Aspettando Godot. Un quaderno come un laboratorio...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nell’ottobre del 1984, il pubblico milanese poté assistere a qualcosa di insolito e di diverso. L’occasione fu data dalla messinscena di una trilogia, al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, formata da Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, prodotta dal San Quentin Drama Workshop, diretto da Rick Cluchey, che interpretava il personaggio di […]
5 Marzo 2022

Daniele Timpano, Oreste

Massimo Bertoldi, «Centro di Cultura dell’Alto Adige»

Oggi Daniele Timpano – fondatore con Elvira Frosini della compagnia Frosini/Timpano attiva dal 2008 – staziona nei piani alti della drammaturgia italiana contemporanea, motivo per cui è operazione di significativo respiro culturale da parte di Cue Press ripubblicare il testo di Oreste. Scritta nel 2001, l’opera contiene in sé elementi stilistici, frammenti poetici e visioni […]
28 Febbraio 2022

I peggiori film anni Settanta visti da Renato Pala...

Simona Spaventa, «la Repubblica»

«Esotici, erotici, psicotici». Non sono i mostri da cronaca nera tutta sangue, perversioni e atrocità. Tutt’altro. L’ultima sorpresa di Renato Palazzi, l’autorevole e serissimo critico teatrale milanese scomparso a novembre, è un libello che sguazza nel sottobosco cinematografico a tinte forti che cinquantanni fa, nel momento d’oro del nostro cinema più commerciale, riempiva i tamburini […]
22 Febbraio 2022

Vittorio Gassman. L’autobiografia come sfida erm...

Giuseppe Costigliola, «Pulp Libri»

Quando nel 1981 apparve nelle librerie, l’autobiografia di Vittorio Gassman suscitò un prevedibile clamore mediatico. L’era dei social non era ancora nata, ma sulla stampa e nelle TV fu con dovizia presentata e commentata, lo stesso autore s’impegnò non poco a pubblicizzarla. A distanza di un quarantennio un piccolo ma agguerrito editore, Cue Press, ha […]
4 Febbraio 2022

Aspettando Godot, quello vero

Katia Ippaso, «Il Venerdì di Repubblica»

Tanto per cominciare, Vladimir non raggiunge Estragon come siamo abituati a pensare. È già in scena, «a destra vicino all’albero, per metà nell’ombra. Estragon è immobile, e cerca di togliersi lo stivale». Fin dalla didascalia iniziale di Aspettando Godot, Beckett sposta i suoi personaggi, ne smuove i corpi, i fonemi, le traiettorie sceniche. È un lavoro […]
22 Gennaio 2022

Il peggio degli anni Settanta in 120 film

«Hollywood Party — Rai Radio 3»

Esotici, erotici, psicotici. Il peggio degli anni Settanta in 120 film (Cue Press) di Renato Palazzi, con prefazione di Maurizio Porro, è un viaggio tra i titoli più improbabili e controversi del cinema di quegli anni, dove il gusto per l’eccesso si mescola all’irriverenza tipica di un’epoca piena di sperimentazioni e trasgressioni. Un libro che, […]
19 Gennaio 2022

Emanuele Trevi racconta Vittorio Gassman

«Hollywood Party — Rai Radio 3»

Durante l’appuntamento, i conduttori dialogano con Emanuele Trevi in occasione della riedizione per Cue Press di Un grande avvenire dietro le spalle. vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso, l’autobiografia di Vittorio Gassman. Un viaggio avvincente dall’infanzia alla vecchiaia del grande attore, arricchito dall’introduzione di Trevi, che racconta così la vitalità […]
18 Gennaio 2022

L’agenda rossa di Beckett il revisore. Aspettand...

Camilla Tagliabue, «Il Fatto Quotidiano»

È quella pettegola della moglie a riferirgli che, durante la prova generale, i pantaloni dell’attore non sono «caduti nel modo giusto». Piccato, Samuel Beckett (1906-1989) scrive al regista Roger Blin, chiedendogli che «quel gesto» venga eseguito correttamente perché fondamentale a suscitare «il riso e il pianto» nello spettatore. Accade a Parigi, nel 1953, al Théâtre […]
16 Gennaio 2022

Una domenica con Beckett e Scarlini

«La Domenica Dei Libri — Radio Popolare»

Per la prima volta in Italia, vengono pubblicati i quaderni di regia di Samuel Beckett. Durante la trasmissione, si approfondisce la genesi di questi materiali, mettendo in luce le ragioni che spinsero l’autore a curare personalmente la messa in scena delle proprie opere e evidenziando le differenze rispetto alle versioni precedenti. Si analizzano le motivazioni […]
15 Gennaio 2022

Dire luce

Annamaria Sapienza, «Sinestesieonline»

Il testo offre una doppia visuale sulla tematica specifica della luce in scena, ovvero, un’osservazione bilaterale proveniente da una studiosa e da un professionista dello spettacolo. Cristina Grazioli, sia nell’attività didattica presso l’Università di Padova che nella copiosa produzione scientifica, ha indagato con particolare attenzione i rapporti tra scena e arti visive con approfondimenti specifici […]
15 Gennaio 2022

Ostrovskij e la nascita del teatro nazionale a Mos...

Pierfrancesco Giannangeli, «Hystrio», XXXV-1

È stato il drammaturgo che ha tracciato un solco profondo nell’Ottocento russo, ancora oggi viene regolarmente messo in scena nei più grandi teatri del Paese e considerato il padre del teatro moderno, ma in Occidente in pochi lo conoscono. Eppure Aleksandr Nikolaevič Ostrovskij (1823-86) ha segnato la vita del teatro della sua epoca in Russia […]
15 Gennaio 2022

Appuntando Godot

Anna Bandettini, «Robinson — La Repubblica»

Scriveva su un quadernetto rosso, marca Le Dauphin, coi fogli a quadretti grandi 21×13 centimetri. Con una penna a inchiostro nero e una a inchiostro rosso, Samuel Beckett vi appuntava, un po’ in inglese, un po’ in tedesco, con una calligrafia ordinata e aristocratica, cancellazioni, nuove indicazioni e, via via, idee di regia per il […]
12 Dicembre 2021

20 lezioni per conoscere Strehler

Antonio Tedesco, «Proscenio», VI-1

Triestino di nascita, milanese di adozione, Giorgio Strehler si avvicina al teatro molto giovane. Inizia la sua carriera come attore nell’immediato dopoguerra facendo importanti esperienze con grossi nomi della scena del tempo. Nel 1945, a soli ventiquattro anni, avvia la sua attività di regista e nel 1947, insieme all’amico Paolo Grassi, superando non poche difficoltà, […]
26 Novembre 2021

Premio Hystrio, giovani da 30 anni

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Il volume Premio Hystrio, giovani da 30 anni pubblicato da Cue Press non è solo un album dei ricordi dedicato alla ricorrenza della trentesima edizione della prestigiosa manifestazione nata nel 1989 come Premio Europa per il Teatro con sede a Montegrotto Terme grazie alla lungimiranza di Ugo Ronfani, fondatore e direttore della rivista «Hystrio» dal […]
19 Novembre 2021

Gettare il proprio corpo nella lotta. I teatri di...

Chiara Molinari, «Theatron 2.0»

I teatri di Pasolini di Stefano Casi – giornalista, ricercatore indipendente e direttore di Teatri di Vita a Bologna –, edito da Cue Press nel 2019, è una nuova versione, riveduta e integrata, dell’omonimo testo pubblicato da Ubulibri nel 2005, premiato dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro. In uno studio dettagliato e minuzioso, arricchito da un […]
16 Novembre 2021

Bando StartUp Innovative

Il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, elegge Cue Press migliore startup culturale della regione Emilia Romagna

Il Bando Startup (fase consolidamento), promosso dalla Regione Emilia Romagna e finanziato dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Por Fesr 2014-20), fornisce sostegno finanziario e strategico alle imprese innovative già costituite, con l’obiettivo di favorirne la crescita, la solidità e la competitività sui mercati nazionali e internazionali. Grazie a contributi a fondo perduto e servizi […]
2 Novembre 2021

Akropolis

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Akropolis di Stanisław Wyspiański è noto per la messinscena laboratoriale realizzata da Jerzy Grotowski nel 1962, che aveva trasformato l’originale carattere storico-agiografico del dramma in una performance capace di ricreare l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz attraverso una serie di azioni fisiche dal ritmo variabile culminate nell’entrata dei personaggi nei forni crematori costruiti da […]