Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Michael mann
26 Febbraio 2025

Michael Mann a 360 voci

«Hollywood Party — Rai Radio 3»

Mannhunters. Michael Mann a 360 voci, il grande regista statunitense visto da Alessandro Borri. Heat, Collateral, Manhunter sono solo alcuni titoli di un cineasta che cambiato il modo di intendere il cinema poliziesco, facendone un ibrido di coolness e realismo e influenzando molti autori contemporanei.

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Salveremo il mondo prima dell'alba
19 Febbraio 2025

Disperati e falliti alla ricerca di un nuovo mondo non inquinato da droga e corruzione. Non si fugge da se stessi

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Carrozzeria Orfeo insieme a Teatro Sotterraneo e Kepler 452 sono ormai dei collettivi che si sono imposti all’attenzione della critica e del pubblico per un loro modo di concepire i testi e il linguaggio scenico.

Il mondo a cui attingono è rigorosamente contemporaneo che cercano di rappresentare con un linguaggio brillante, dinamico, come del resto lo è la recitazione, un linguaggio che guarda alla cronaca, senza essere cronachistico.

Debbo confessare che non sempre ricordo i titoli degli spettacoli, a volte troppo lunghi, che rispecchiano la prolissità delle trame che andrebbe un po’ arginata. Quelli di Carrozzeria Orfeo, per la loro continua circuitazione nei teatri italiani, si sono imposti alla nostra memoria anche perché titoli, come Cus Cus Klan, Miracoli metropolitani, Thanks for vaselina, essendo stati pubblicati da Cue Press, possono essere anche letti, benché il teatro non si legga, ma si vede.

Salveremo il mondo, che ho visto al Teatro Masini di Faenza, completamente esaurito, appartiene all’ultima tappa di un percorso della Compagnia che evidenzia uno stile di recitazione e di linguaggio immediatamente riferibile alla idea di teatro che va coltivando, attento alla realtà, senza essere realistico, dato che Gabriele Di Luca crea dei personaggi presi dalla nostra quotidianità sociale e li trasferisce in una dimensione universale. Egli ha immaginato, come un luogo identitario, una clinica di lusso, che non si trova sulla terra, ma nello spazio, su un satellite che lo spettatore vede, come un pianeta azzurro, attraverso un oblò, dove troviamo una umanità allo sbando che ha raggiunto un benessere economico che certamente non basta per essere felici, perché tutti hanno delle dipendenze dalle quali cercano di purificarsi. Non nascondono la loro ricchezza, ma non riescono neanche a nascondere le loro miserie, ben visibili nei comportamenti smodati. Vi troviamo un industriale di farine animali, Sergio Romano, un suo compagno hippy omosessuale, Roberto Serpi, un ricco autore di Fake News, Ivan Zerbinati, un servitore bengalese, Sebastiano Bronzato, una giovane ragazza in un instabile equilibrio a causa di psicofarmaci, Alice Giroldini, un coach, Massimiliano Setti, personaggi che incontriamo giornalmente, in cerca non solo di fare soldi in tutti i modi, leciti e illeciti, ma anche in cerca di salvezza in un altro pianeta non inquinato dal malaffare, dalla corruzione, dalla droga, dalla depressione, dal sesso.

Di Luca porta in scena il fallimento di una generazione, suddita della globalizzazione e del consumismo, alla ricerca di un luogo immaginario o utopistico dove potersi ritrovare, in assenza di affettività, sottoposta alla diversificazione delle patologie. Quanto accade sul palcoscenico rimanda a quanto accade a ciascuno di noi, quando smarrisce la coscienza dell’Essere, per salvaguardare quella dell’Esserci a tutti i costi.

Le intenzioni di Di Luca non sono più quelle di sopprimere le disuguaglianze, visibili nei vari quartieri metropolitani, con i loro bar di periferia, tanto che i suoi personaggi non attraversano la vita, ma ne sono attraversati, con gli eccessi che si alternano con le contraddizioni che non sono quelle di raccontare le loro vite, magari con l’utilizzo del Teatro di Narrazione, quanto quelle di accostarsi alla vita, restituendo al teatro il suo impegno sociale e politico, ricorrendo a una comicità, non sempre lineare, che sfrutta le varie forme della risata, puntando sul grottesco della recitazione, col ricorso, a volte, al turpiloquio e all’alternanza del linguaggio alto con quello basso, quello apparentemente banale, con quello riflessivo.

Sulla scena non troviamo più i fantomatici animali da bar, ma dei ricchi di oggi che vivono la loro fragilità accanto alla decostruzione del proprio essere, decostruzione, non solo esistenziale, perché corrisponde a quella linguistica e a quella frammentaria delle citazioni presenti nel testo.

Successo assicurato.

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17 cavallini
6 Febbraio 2025

Sul mio teatro: disagio e DISintegrazione, Diciassette cavallini e Spam – Pubblicati da Cue Press tre volumi dedicati a Rafael Spregelburd

Valeria Ottolenghi, «Sipario»

Tre volumi Cue che dialogano tra loro, non semplicemente perché sono dello stesso autore, Rafael Spregelburd, ma per l’intima energia che intreccia molteplici fili interni, tra teoria e pratica, riflessioni filosofiche e quotidianità, accogliendo esperienze e aneddoti, in una dialettica che sempre – anche per il teatro, a cui sempre l’artista argentino ritorna – preferisce la casualità alla causalità, la DISintegrazione alla composizione razionale, il sentimento della catastrofe all’ordine della tragedia, dove ogni elemento va dirigendosi linearmente verso quella fine già predeterminata in ogni passaggio. Quasi una poetica di guerriglia contro una drammaturgia dove ogni parte partecipa al tutto in un organismo chiuso, un equilibrio strutturale, dove ogni situazione (incontro, battuta o ingresso) risulta necessaria all’insieme. 

Ma queste tre pubblicazioni, Spam, Sul mio teatro: contagio e DISintegrazione e Diciassette cavallini escono anche in un periodo particolare, poco dopo che Parma ha ospitato, a Teatro Due, per un lungo periodo in residenza, Rafael Spregelburd, presentando al pubblico, alla fine del percorso, tre sue opere, due in castigliano, Pundonor di/con Andrea Garrote, che firma la regia insieme a Spregelburd, il quale, per Inferno, è drammaturgo, regista e attore protagonista, affiancato da diversi interpreti con più ruoli. Il terzo è proprio quel Diciassette cavallini creato con gli attori di Teatro Due, debutto nazionale, un lavoro complesso, assai impegnativo per la recitazione – tutti davvero molto bravi, una straordinario, faticosissimo accordo per uno spettacolo ampio, impegnativo, discontinuo – ora pubblicato da Cue Press.

Ed è di Fondazione Teatro Due, che ha prodotto lo spettacolo, la prefazione, Il Teatro misura di tutte le cose, alla raccolta di saggi, interviste, articoli che ha come sottotitolo Scritti su maiali, tacchini, supereroi e altre bizzarre creature: citando Pinter, Tradimenti, Spregelburd, che va approfondendo in forma labirintica il tema del tempo in Il naso di Giustiniano, sottolinea quanto sia affascinante capovolgerlo per la mente razionale. L’esito? La catastrofe. Scrivendo quindi sia di Inferno che di Diciassette cavallini, dove alcune storie «vanno all’indietro». Questa visione, resa concreta anche fisicamente, si rende esplicita durante lo spettacolo: «la freccia del tempo non si adatta alle nostre intenzioni di retromarcia». Tra le battute si chiede esplicitamente cosa sia il tempo. E: «capiamo come funziona?». Nel saggio Spregelburd ricorda come a teatro lottino «l’effimero e l’eterno», unica situazione dove si possa nascere e morire migliaia di volte, «per questo lo continuiamo a fare. E’ l’unica forma di dominio sul tempo che ci hanno regalato gli dei prima dell’uscita di scena».

«Dietro ogni disintegrazione – spiega l’artista argentino – si nasconde una liberazione che sfocia in forme di vita, di organicità». Questo bisogno di disordine che può produrre senso è rilevabile sia in Spam, una sorta di libro/teatro game per cui si può passare da una situazione all’altra, che nella raccolta dedicata alla teoria, con interventi che non sono in ordine temporale, diversi gli articoli nati nel periodo della pandemia, occasione per riflettere anche sui tentativi di sostituire il teatro (giammai!): «Il tema, la trama, i personaggi stabili e il principio causale non sono altro che i grandi, minuscoli atomi che, nel disintegrarsi, rendono visibile l’invisibile, l’energia vagante fra le parti». Una sorta di opera aperta esagerata, esasperata, dove un ruolo speciale acquista di conseguenza il pubblico, non solo nell’interpretazione dell’opera ma nel creare originali connessioni tra gli elementi narrativi.

Spam – il debutto italiano nel 2013, presentato a Napoli Teatro Festival e al Festival delle Colline Torinesi – è suddiviso in giornate, trentuno, ma, si legge nella nota d’apertura, è importante «che non tutte le scene di quest’opera vengano rappresentate: la forza dell’informazione mancante, erratica e indefinita, dev’essere enorme per riuscire a seguire questa storia»: ancora una volta si chiede la partecipazione vigile, inventiva, degli spettatori invitati così a immaginare nuove connessioni, colmare vuoti, concepire diverse soluzioni di senso? Una visione del teatro in qualche modo affine e opposta all’idea di ‘sottrazione’ di Deluze/Carmelo Bene, dove la mancanza era individuata, avvertita, ‘vissuta’ conoscendo l’intero, opere che pulsano anche per quanto non c’è, in Riccardo III evaporati gran parte dei personaggi, intorno al protagonista solo figure femminili. 

Ritorna Cassandra, un nome «che promette solo notizie spaventose»: in Spam è una studentessa che insiste nel voler ricordare come lui, il protagonista dalla memoria perduta, le abbia rubato il suo studio sugli eschimesi. «Non ricordo niente». E ha con sé il libro di Camus Lo straniero, colmo di smarrimenti, la vita lasciato al caso, comunque assurda, senza senso. Malta, la Cattedrale, Caravaggio. Naturalmente anche nelle pagine di Cue Press le giornate sono pubblicate in forma caotica. Si sperimenta il traduttore di Google. C’è meraviglia per il non senso di alcune affermazioni, come per «Il paradosso del compito a sorpresa». La strana scoperta di possedere milioni euro. E’ possibile trovare, tra l’«immondizia virtuale», le tracce, gli indizi per ridare forma alla propria identità perduta? Ma quelli che sembrano ricordi sono davvero tali? Davvero lui doveva chiamarsi Nicolino come il fratellino mai nato? La sveglia, trentunesimo giorno: «E’ ora di tornare a casa». Teatro e mondo onirico, viaggi in internet e caos del sapere tra schegge di esistenze individuali forse solo sognate. Il titolo della prefazione a Spam di Andrea Ciommiento è «Immondizia virtuale e frammentazione del quotidiano». 

Molto interessante il confronto con il teatro di autonarrazione: scrivendo di Lorena Vega «una delle attrici più amate, più coraggiose, più tenaci in questo momento a Buenos Aires», che racconta in scena di sé, Spregelburd in Sul mio teatro, si trova a riflettere sul questo tipo di esperienze parateatrali. «Io, che milito per la fiction pura, mi arrendo di fronte alle capacità di questa impurità: raccontare la propria vita con l’arte delle fate». Per una particolare serata Lorena Vega invita alcuni artisti a dare anima ad alcune foto di famiglia. Tra questi anche Spregelburd, che dà voce a un’immagine, pubblicata nel testo, lui stesso fermo, abiti invernali, davanti a una casa di campagna, galline sul prato, un albero spoglio. Polonia, isola di Wolin, luogo d’origine del nonno, che era quindi emigrato in Argentina, 1912, a Rosario, morto travolto sotto un treno con il suo carretto di vestiti che vendeva per strada. 

Pure, malgrado quella ‘fiction pura’, negli esercizi che affronta con gli attori molti i passaggi, per giungere anche a un esito di scrittura, che coinvolgono direttamente la singola persona. In Bipedi, dualità e nevrosi sempre collettive, l’autore/attore argentino utilizza quello che lui chiama «sporco trucco», una pratica «che contiene tanto di autobiografia e di pietà per se stessi, quanto di attentato, violenza allontanamento e rottura». E spiega: ci si sdraia su un grande foglio di carta e qualcuno disegna il contorno del corpo: all’interno di tale silhouette si scrive della propria persona, in forma sintetica, brevi frasi, «il primo amore, ferite fisiche e psichiche, momenti di gioia, foto di famiglia, libri letti…». La questione è come rendere graficamente la propria biografia dal momento che non è possibile usare le parole, e in quale posizione disporre i vari elementi: «sulla testa, sulle mani, sul sesso di solito si ammassano, turbolenti, disegni contraddittori». Nascono da tale materiale una serie di monologhi, che poi andranno sviluppandosi in diverse direzioni: è questa un’estrema sintesi di quanto già lo stesso Spregelburd nomina ‘sommariamente’ per illustrare questo particolare percorso creativo.

Anche gli attori di Diciassette cavallini saranno passati attraverso questa forma di «manipolazione dolorosa e ridicola che cerca di comunicare l’incomunicabile ignorando allegramente terapia e psicanalisi»? Nello spettacolo debuttato a Parma ritorna il mito di Cassandra, colei che sa prefigurare le sciagura, condannata a non essere creduta: tante storie s’intrecciano di cui si tendono a collegare gli sviluppi. Perché, malgrado la poetica spregelburdiana esiga una particolare disponibilità percettiva, la mente dello spettatore si è formata su quella drammaturgia dove ogni battuta è necessaria per cogliere gli sviluppi delle diverse narrazioni/azioni sceniche. Ma poi ci si arrende e si accettano i segmenti dispersi di più racconti, salvo poi riprendere a seguire particolari fili che s’immagina si possano tendere tra i diversi personaggi in mezzo a metafore, simboli, oggetti multipli in scena (anche tanti orologi naturalmente): non è così il mondo contemporaneo? Frammenti, cianfrusaglie di notizie, di saperi, di scelte politiche a cui sembra impossibile dare ordine? Verso quale direzione? Davvero pensiamo di poterlo prevedere?

Ancora pensieri di Spregelburd, per l’amato teatro, fors’anche per la vita: «Nella tragedia tutti gli avvenimenti si sviluppano verso il finale. Ma nei sistemi complessi, che a volte chiamiamo ‘catastrofici’, le cose viaggiano in tutte le direzioni. La ragione le ordina verso il finale. Ma ci sono resti di frizioni, viaggi a marcia indietro, collisioni con sistemi circostanti…». Sì, il teatro allora rispecchia davvero la realtà se non è possibile conoscere quanto può accadere. Lo stesso passato si sfalda, memoria disordinata che si ricompone senza verità. Spregelburd riporta una frase di Clarice Lispector: «Vado a creare quello che mi è successo», così per la scrittura, condannata a rielaborare anche le proprie esperienze in forme instabili, precarie, mutevoli.

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Cavezzali
2 Febbraio 2025

Teatro in un volume le storie teatrali di Matteo Cavezzali

«La Piazza Avvenimenti»

I testi della produzione teatrale di Matteo Cavezzali, dal 2009 ad oggi, sono raccolti in un volume appena uscito dal titolo Teatro (Cue Press).

Dalla quarta di copertina «Matteo Cavezzali, uno dei più interessanti autori contemporanei italiani. Tra intensi monologhi, grottesche parodie e audaci riscritture di classici da Shakespeare a Beckett, i personaggi di Cavezzali, con le loro storie e le loro voci riescono ad arrivare al cuore del lettore, delineando un affresco irriverente del nostro tempo».

Cue Press è una casa editrice specializzata in teatro che vanta nel suo catalogo anche testi del Premio Nobel Jon Fosse e le edizioni annotate dei testi del Premio Nobel Samuel Beckett, oltre che diversi drammaturghi italiani e internazionali.

Tra i testi raccolti ci sono Acqua scura sulla alluvione in Romagna, trasmesso anche da Rai Radio3, Il mediano che sfidò il Duce sulla storia di Bruno Neri, calciatore romagnolo della nazionale durante il fascismo e allo stesso tempo partigiano, Dettagli – Tre ritratti di piccole vite testo commissionato dai teatri del Trentino per una speciale esecuzione a teatro chiuso durante il lockdown del 2020, Nonessere reinterpretazione dell’Amleto di Shakespeare in chiave comico-esistenzialista, Mangiare tutto sull’ossessione degli italiani per la cucina, Fuori Fuoco una commedia sulla disoccupazione giovanile, Operazione Atarax testo fantascientifico sul razzismo ambientato in un epoca in cui i ‘diversi’ vengono inviati su Marte con una apposita missione spaziale, Il morbo scritto nel 2010 parla di una misteriosa epidemia giunta dalla Cina che obbliga ad evitare il contatto sociale sembrata a molti un’anticipazione di quello che sarebbe accaduto dieci anni dopo col Covid, La Settimana Rossa sui moti anarchici e rivoluzionari nella Romagna dei primi Novecento e Viva la muerte – 33 regicidi in 33 minuti.

Matteo Cavezzali è scrittore e drammaturgo, nato a Ravenna. Con i suoi romanzi ha vinto il Premio Comisso e il Premio Volponi. Tra i suoi libri Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini (minimum fax 2018), Nero d’inferno (Mondadori 2019), Supercamper. Un viaggio nella saggezza del mondo (Laterza 2021), A morte il tiranno (Harper Collins 2021) e Il labirinto delle nebbie (Mondadori, 2022). È autore di podcast per la Rai e de «Il Tuffo» su Rai Radio3. I suoi testi teatrali sono stati allestiti in Italia e all’estero aggiudicandosi in Gran Bretagna il premio Weya.

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16 Gennaio 2025

Sesso, sordi e ortaggi. Fellini

Federico Pontiggia, «il Fatto Quotidiano»

Dalla fellatio d’infanzia alla melanzana erotica (e indigesta), dalle catacombe di Roma
all’Oscar cimiteriale, dai seni della Loren alla Masina «poverina»: tutte le prime volte di Fellini. Vengono da Raccontando di me, ovvero Federico Fellini conversa con Costanzo
Costantini, che pubblicato in Francia nel 1996 torna in libreria per i tipi di Cue Press.

Tra il maestro e il giornalista del Messaggero è tutto un fluire di ghiotti aneddoti, confessioni audaci e commenti inesorabili. Con una sensazione ineluttabile: la nostalgia canaglia per un cinema che non è più.

Su Sophia Loren: «Era magra, magrissima, ma aveva un seno fastoso. Come mi giravo, la madre le tirava giù la chiusura lampo della blusa e le faceva esplodere i seni».

Pisello e melanzana

Fellini l’incipit erotico l’ebbe a sei o sette anni, complice una cameriera, Marcella. A letto febbricitante, la domestica gli «sollevò la camiciola, prese il mio pisello fra le mani e se lo mise in bocca». Vi immaginate un regista qui e ora prodursi in un simile ricordo? Non finisce qui: Marcella poi «afferrò un’enorme melanzana e se la infilò tra le cosce, facendo avanti e indietro con la mano». Addio parmigiana: «Da allora non ho mai potuto mangiare le melanzane».

Flirt al balcone

Il primo fu al liceo, «un flirt a distanza, visivo». Federico si innamorò della «signora delle ore 11», una bellissima donna che apriva le persiane e appariva in vestaglia dirimpetto all’istituto. Il climax, talvolta condiviso dal professore di matematica, quando si chinava per dar l’acqua ai fiori: «La vestaglia le si apriva un po’ sul seno. Aspettavamo quel momento dalle otto e mezza».

Primo amore

Una bella ragazzina, Bianchina Soriani, che – commenta Costantini – diviene «un mito, come la Silvia di Leopardi». Federico non smobilita: «L’amore per quella delizia lo esprimevo con degli scarabocchi», ispirati ai fidanzatini di Peynet.

Esordio capitale

A Roma la prima volta nel 1933 e nel 1934 con il padre: uno dei fratelli della madre romana lo porta in giro in macchina. Fellini si sente «come a scuola, frastornato da quella girandola di colonne e di statue, di rovine imponenti». C’è anche l’intervallo, fuori programma: «Alle catacombe di San Callisto mi spersi». Le guide gridavano «Ragazzo riminese sperduto nelle catacombe»: quindici minuti di incubo – e avvisaglia di celebrità?

Giulietta del destino

Il rendez-vous al ristorante, Castaldi in piazza Poli; a fine pranzo – rammentava Masina – Fellini trasse dalle tasche «tanti soldi da lasciarla sbalordita». Federico abbozza, «Giulietta forse esagera », e assevera: «Era la donna del mio destino. Sono arrivato a pensare che il nostro rapporto preesistesse addirittura al giorno in cui ci incontrammo per la prima volta».

Seni del varietà

La prima regia, a quattr’occhi con Alberto Lattuada, fu Luci del varietà nel 1950. Non andò benissimo, ché «faceva tutto Lattuada» e il botteghino non premiò: «Stiamo ancora pagando le cambiali». Fellini si consolò al provino con Sophia Loren, all’epoca Sofia Lazzaro: «Era magra, magrissima, ma aveva un seno fastoso. Come io mi giravo un po’, la madre le tirava giù la chiusura lampo della blusa e le faceva esplodere i seni».

Fischi per sordi

Lo sceicco bianco al Festival di Venezia nel 1952: stroncature feroci, fischi a scena aperta, «il film venne distrutto, cancellato nella sua esistenza». Il peggio era da venire: il pubblico si rifiutò di vederlo, perché detestava Alberto Sordi, «non tollerava la sua impudenza, odiava la vocina da seminarista in quel corpo greve, con quel culone».

La strada agli Oscar

Il primo Academy Award, le prove al Chinese Theatre, Federico, Giulietta, Anthony Quinn e Dino De Laurentiis tra divi e divine: Liz Taylor con diadema regale alla Nefertiti, toilettes scintillanti, sicché Masina, in giacca di ermellino su abitino di tulle, «sembrava una poverina capitata lì per caso». Fellini non la risparmia: «Molti credevano che l’avessi presa davvero da un circo».

Cenere di stelle

Fellini – il 20 gennaio cade il centocinquesimo anniversario della nascita – ebbe un Academy Award alla carriera nel 1993 e quattro film giudicati i migliori in lingua straniera (il già citato La strada, Le notti di Cabiria, e Amarcord ), ma ancor più consapevolezza di che fosse l’Oscar, «il cinema che s’incontra con sé stesso nel tentativo di resuscitare i morti, esorcizzare le rughe, la vecchiaia, la malattia e la fine». Già, «la caricatura del Giudizio universale», eppure Federico non poteva rifiutarlo né contestarlo, perché «il cinema è anche circo, carnevale, luna park, giostra, gioco di saltimbanchi». E chi meglio di Fellini?

Anton cechov
15 Gennaio 2025

Pubblicato da Cue Press Tutto il teatro di Anton Pavlovič Čechov

Valeria Ottolenghi, «Sipario»

Intanto grazie! Grazie per questo bel volumone con tutto il teatro di Čechov: il ringraziamento innanzi tutto a Mattia Visani, direttore della casa editrice Cue Press, e a Fausto Malcovati e Roberta Arcelloni che l’hanno curato con tanta competenza. Quante volte capita di andare a cercare questo o quel titolo di Čechov tra i nostri libri? Passando subito lo sguardo lungo gli Einaudi, collezione teatro. Personalmente ho anche altre edizioni – come per Molière e Shakespeare – ma certo mancava questa possibilità di passare da un testo all’altro con tanta agilità. E se ho il Platonov, ed. 1959, mi manca Spirito del bosco, qui ritradotto dopo molto tempo. E si legge nella nota introduttiva che così scriveva Čechov di questo testo «Odio questa commedia e cerco di dimenticarmene», ma si spiega poi come Zio Vanja, di sei, sette anni più tardi, sia figlio di quest’opera tanto detestata dall’autore.

La curiosità è grande. Vero! Già nelle prime pagine si colgono straordinarie affinità. «Il professore… vecchia mummia, stoccafisso erudito. Gotta, reumatismi, emicrania… E’ più geloso di Otello», si lamenta sempre, malgrado le sue molte fortune, una carriera universitaria con appoggi altolocati, parlando d’arte senza capirci nulla, vendendo ‘aria fritta’, e ha successo, famoso ovunque. Ed è anche un Don Giovanni, adorato dalla prima mogie, sorella di chi sta parlando, ne ha ora una seconda, bella e intelligente. «Mia madre, sua suocera, lo adora ancora e lui ancora le incute un sacro timore». Sì: qui già molto di Vanja. Ma forse l’autore aveva allontanato da sé Spirito del bosco con la memoria del suo fallimento in scena, poche repliche in un teatro privato, rifiutando quindi Čechov di pubblicarlo.

E’ Gorki a compiere una straordinaria sintesi, in qualche modo commovente, dello sguardo di Čechov, della sua scrittura: «Davanti a questa folla annoiata e grigia di esseri abulici, un uomo è passato, grande, intelligente, attento a tutto; ha osservato gli stanchi abitanti della sua patria… e ha detto loro con la sua bella voce sincera: ‘voi vivete male, signori!’». Ma c’è molto di più: i personaggi, i temi affrontati, le infinite questioni esposte spesso in forme nascoste, appena accennate tra le battute, risuonano meravigliosamente in ogni tempo. Si è recensito da poco Il giardino dei ciliegi per la regia di Leonardo Lidi (e con la traduzione dell’amato Malcovati: è sempre una gioia incontrarlo ai festival, ai convegni, e sempre s’impara): slitta il tempo, mutano alcuni caratteri (il fratello diviene sorella, la governante un attore – e sono solo degli esempi), ma l’opera conserva la sua energia, sospesa tra umorismo e malinconia. Lopachin canta Ritornerai di Bruno Lauzi, e tutti sembrano dei sopravvissuti a un tempo ormai finito, di cui non conviene avvertire la nostalgia. 

Ma se si cerca nella memoria (e su YouTube) si trovano interpretazioni simboliste, a cabaret, riconoscendo subito Strehler, le battute lente, il biancore aristocratico. Jean Vilar riconosce il percorso di rifinitura, di ricerca dell’essenzialità in Čechov e, facendo riferimento a Platonov, che nell’introduzione a questo bel volume Cue si ricorda come non fosse ripubblicato da tempo, scrive di «brogliaccio, capolavoro… Tutto è bello, ma, sembra, irrecitabile… bisogna ammettere che il giovane scrittore ha saputo imporsi fin d’allora un cammino severo per raggiungere la chiarezza, l’ordine drammaturgico del Gabbiano o del Giardino dei ciliegi», sottolineando come Čechov segni una svolta definitiva per il teatro: «All’alba di questo XX secolo non è soltanto Dio che è morto, non è soltanto nella vita e nella morale che tutto è possibile. E’ morta anche, e per sempre, la concezione aristotelica del teatro. Si può fare tutto. Tutto è permesso. Tutto è possibile», ricordando la data di morte del grande autore russo, 1904. Già: l’alba del XX secolo. 

Anche Ettore Lo Gatto, nell’introduzione al già citato Platonov, evidenziava come lo studio dei tagli da parte di Čechov a quel lavoro giovanile «mirasse già a quella precisa caratterizzazione dei suoi eroi dal duplice punto di vista, psicologico e ambientale». Una meraviglia poter passare da un’opera all’altra in questa volume Cue, il primo della collana I Grandi se non si sbaglia. Anche Vittorio Strada evidenzia questo percorso di accurato rigore che è nello stesso tempo innovazione: «Rispetto alle prime prove drammatiche la tetralogia non è semplicemente una fase più matura: essa ha il senso di un passaggio dalla naturalità all’astrazione… così in Čechov dal dramma tradizionale si arriva, in tutta la tetralogia, ma soprattutto nelle Tre sorelle e nel Giardino dei ciliegi a quell’opera astratta come una sinfonia di Čajkovskij’ di cui parlava Mejerchol’d».  

E non si può dire di Čechov senza nominare il Teatro d’Arte, Stanislavskij: sono noti i dissensi tra autore e regista. E’ Angelo Maria Ripellino, in Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento a ricordare come Čechov considerasse in particolare Il giardino un’allegra commedia, «quasi un vaudeville», e invece il regista «un pesante dramma di vita russa». Tuttavia Stanislavskij sembra riconoscere a Čechov, ripensato a distanza, il suo autore e amico ormai deceduto, quell’aspetto del carattere rintracciabile anche nelle opere: «Dove c’era lui, anche malato, regnava spessissimo la parola scherzosa, lo spirito, la risata ed anche la farsa. E capita così anche nelle sue opere».

«Andiamo a teatro per trovare la vita, ma se non c’è differenza tra la vita fuori dal teatro e quella al suo interno, allora il teatro non ha più senso. Non c’è nessuna ragione di farlo. Ma se accettiamo il fatto che la vita nel teatro è più visibile, più vivida che all’esterno, allora riusciamo a capire come sia contemporaneamente la stessa cosa e qualcosa di diverso…». Perfetta la definizione di teatro in Peter Brook, di cui si ricorda con emozione di aver visto, nel suo teatro a Parigi, il Théâtre des Bouffes du Nord, Ta main dans la mienne, tratto dalle lettere che per sei anni Anton Čechov e sua moglie, l’attrice russa del Teatro d’Arte Olga Knipper, si scambiarono, spesso distanti per la malattia di lui, la passione del teatro di lei, protagonisti Natasha Parry, moglie di Peter Brook, e Michel Piccoli.

Spiega ancora Peter Brook in La porta aperta: «La vita nel teatro è più leggibile ed intensa perché è più concentrata. Nella vita parliamo per mezzo di un disordinato chiacchiericcio fatto di ripetizioni… La compressione consiste nel rimuovere tutto quello che non è strettamente necessario e nell’intensificare ciò che rimane, come mettendo un aggettivo forte al posto di uno più blando pur conservando l’impressione della spontaneità». Quale l’esempio perfetto? Čechov naturalmente!: «Con Čechov, il testo dà l’impressione di essere stato registrato su nastro, di prendere le sue frasi dalla vita di ogni giorno. Ma non c’è frase di Čechov che non sia stata cesellata, levigata, modificata con grande arte e maestria, così da dare l’impressione che l’attore stia parlando ‘come nella vita di ogni giorno’… bisogna essere consapevoli che ciascuna parola, anche se ha l’aria di essere innocente, non lo è…».

Pensiero verificabile: per molti testi drammaturgici, per Čechov in particolare. Tutto è necessario, ogni parte si relaziona con le altre, in una struttura ‘leggera’ e potente. Meyerhold in La rivoluzione teatrale critica l’eccesso di ricerca naturalistica stanislavskijana: «si potrebbero citare un’infinità di esempi delle assurdità cui è giunto il teatro naturalista seguendo il principio della riproduzione esatta della verità» e riprende frammenti di dialoghi tra Čechov (turbato all’idea che per il Gabbiano si sarebbero uditi «il gracidio delle rane, il frinire delle cicale, l’abbaiare dei cani») e alcuni attori del Teatro d’Arte. Di fronte alla difesa del realismo, Čechov risponde con parole che paiono rendere eco quelle di Peter Brook: «La scena è arte, riflette la quintessenza della vita e non vi si deve introdurre nulla di superfluo».           

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De filippo eduardo
1 Gennaio 2025

Le strade non percorse

Raffaella Di Tizio, «L’Indice», XLI-1

Torna sul mercato editoriale un libro importante sul teatro italiano del Novecento, che è anche una lezione di metodo sul modo di costruirne la storia. La nuova edizione di Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano (la prima, Bulzoni, 1987) ha il volto dell’autore in copertina, come ad avvisare che si entrerà, leggendo, nel vivo del pensiero di Claudio Meldolesi (1942-2009), riconosciuto innovatore della nostra storiografia teatrale. Qui lo si può seguire mentre indaga aspetti trascurati dalle narrazioni canoniche, fermandosi a esplorare le incoerenze interne ad alcune storie note, come quelle di Giorgio Strehler ed Eduardo De Filippo, aprendo squarci che gettano una luce nuova su tutto il paesaggio circostante. Al centro del volume alcune esperienze ‘scoraggiate dal teatro italiano’ fra gli anni trenta e cinquanta, cioè in quella fase in cui si andò consolidando, tra fascismo e dopoguerra, un sistema chiuso di valori condivisi, derivato dai condizionamenti delle dinamiche produttive (la nuova prassi delle sovvenzioni), dal pensiero medio sul teatro, da abitudini di critici e spettatori.

Meldolesi prosegue qui un discorso iniziato con Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi (Bulzoni, 1984), dove osservava il pluralismo degli inizi della regia italiana, prima che prendesse spazio l’idea che voleva i registi come mediatori tra testo e pubblico, come allestitori, dimenticando la ricchezza inventiva e drammaturgica della regia europea l’efficacia della tradizione degli attori.

In Fra Totò e Gadda costruisce il suo racconto attraverso saggi a sé, ognuno dedicato a una voce centrale – ma non sempre riconosciuta allora come tale, come nel caso di Totò – della storia teatrale nazionale. Protagonisti, oltre a Totò e Gadda, De Filippo e Strehler, sono Mario Apollonio (storico della letteratura determinante per i suoi studi sul teatro) e Luigi Pirandello. Nomi in gran parte noti. Cosa hanno a che fare con lo spreco?

Totò ci pare familiare per i suoi film, ma al cinema, racconta Meldolesi, era passato tardi, con poca convinzione. Vi trovò spazio per coltivare la sua indipendenza: «Nessun film poté tuttavia restituire l’espressione sovversiva delle sue corse, delle sue furie nello spazio del teatro». Era il maggiore attore teatrale del suo tempo, ma non se ne accorse una critica che non dava peso a varietà e rivista, i generi in cui aveva costruito la sua efficacia espressiva.

De Filippo, scrive, è stato accolto nel pantheon culturale italiano negando consistenza al centro della sua ricerca, la volontà di rigenerare «su base attorica e dialettale» il teatro nazionale. Fu una perdita, come lo fu sottovalutare la maggiore invenzione di Apollonio: la scoperta e valorizzazione della cultura degli attori – invisibile a molti suoi contemporanei, che al teatro guardavano con paternalismo da colonizzatori. E spreco fu dimenticare l’importanza delle ricerche giovanili d’avanguardia di Strehler, rinnegate per l’idea che voleva allora la sperimentazione non in linea con le esigenze del presente.

Il libro procede per affondi imprevisti, come quello sulla natura profonda dei testi di Pirandello, messa a fuoco analizzando significative messinscene e ricordando la permeabilità che i suoi drammi ebbero anche per l’autore, fattosi regista, di fronte al concreto lavoro degli attori. Si scopre poi che l’esperienza del teatro fu per Gadda romanziere particolare laboratorio di scrittura, e che se non divenne compiuto autore per la scena fu forse solo per ‘disattenzione’ dei registi.

Contano per Meldolesi anche le strade non percorse. In queste pagine invita a guardare come rivelazioni ad aspetti che sembrarono stranezze, segni della presenza di «una ricchezza passata che non ha smesso […] di trasmettere le sue energie». Sotto ogni «invenzione sprecata» stanno semi di possibilità teatrali inespresse. Così che il libro sembra guardare al passato, mentre parla ancora di nuovi futuri teatri possibili.

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1 Gennaio 2025

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