Tre volumi Cue che dialogano tra loro, non semplicemente perché sono dello stesso autore, Rafael Spregelburd, ma per l’intima energia che intreccia molteplici fili interni, tra teoria e pratica, riflessioni filosofiche e quotidianità, accogliendo esperienze e aneddoti, in una dialettica che sempre – anche per il teatro, a cui sempre l’artista argentino ritorna – preferisce la casualità alla causalità, la DISintegrazione alla composizione razionale, il sentimento della catastrofe all’ordine della tragedia, dove ogni elemento va dirigendosi linearmente verso quella fine già predeterminata in ogni passaggio. Quasi una poetica di guerriglia contro una drammaturgia dove ogni parte partecipa al tutto in un organismo chiuso, un equilibrio strutturale, dove ogni situazione (incontro, battuta o ingresso) risulta necessaria all’insieme.
Ma queste tre pubblicazioni, Spam, Sul mio teatro: contagio e DISintegrazione e Diciassette cavallini escono anche in un periodo particolare, poco dopo che Parma ha ospitato, a Teatro Due, per un lungo periodo in residenza, Rafael Spregelburd, presentando al pubblico, alla fine del percorso, tre sue opere, due in castigliano, Pundonor di/con Andrea Garrote, che firma la regia insieme a Spregelburd, il quale, per Inferno, è drammaturgo, regista e attore protagonista, affiancato da diversi interpreti con più ruoli. Il terzo è proprio quel Diciassette cavallini creato con gli attori di Teatro Due, debutto nazionale, un lavoro complesso, assai impegnativo per la recitazione – tutti davvero molto bravi, una straordinario, faticosissimo accordo per uno spettacolo ampio, impegnativo, discontinuo – ora pubblicato da Cue Press.
Ed è di Fondazione Teatro Due, che ha prodotto lo spettacolo, la prefazione, Il Teatro misura di tutte le cose, alla raccolta di saggi, interviste, articoli che ha come sottotitolo Scritti su maiali, tacchini, supereroi e altre bizzarre creature: citando Pinter, Tradimenti, Spregelburd, che va approfondendo in forma labirintica il tema del tempo in Il naso di Giustiniano, sottolinea quanto sia affascinante capovolgerlo per la mente razionale. L’esito? La catastrofe. Scrivendo quindi sia di Inferno che di Diciassette cavallini, dove alcune storie «vanno all’indietro». Questa visione, resa concreta anche fisicamente, si rende esplicita durante lo spettacolo: «la freccia del tempo non si adatta alle nostre intenzioni di retromarcia». Tra le battute si chiede esplicitamente cosa sia il tempo. E: «capiamo come funziona?». Nel saggio Spregelburd ricorda come a teatro lottino «l’effimero e l’eterno», unica situazione dove si possa nascere e morire migliaia di volte, «per questo lo continuiamo a fare. E’ l’unica forma di dominio sul tempo che ci hanno regalato gli dei prima dell’uscita di scena».
«Dietro ogni disintegrazione – spiega l’artista argentino – si nasconde una liberazione che sfocia in forme di vita, di organicità». Questo bisogno di disordine che può produrre senso è rilevabile sia in Spam, una sorta di libro/teatro game per cui si può passare da una situazione all’altra, che nella raccolta dedicata alla teoria, con interventi che non sono in ordine temporale, diversi gli articoli nati nel periodo della pandemia, occasione per riflettere anche sui tentativi di sostituire il teatro (giammai!): «Il tema, la trama, i personaggi stabili e il principio causale non sono altro che i grandi, minuscoli atomi che, nel disintegrarsi, rendono visibile l’invisibile, l’energia vagante fra le parti». Una sorta di opera aperta esagerata, esasperata, dove un ruolo speciale acquista di conseguenza il pubblico, non solo nell’interpretazione dell’opera ma nel creare originali connessioni tra gli elementi narrativi.
Spam – il debutto italiano nel 2013, presentato a Napoli Teatro Festival e al Festival delle Colline Torinesi – è suddiviso in giornate, trentuno, ma, si legge nella nota d’apertura, è importante «che non tutte le scene di quest’opera vengano rappresentate: la forza dell’informazione mancante, erratica e indefinita, dev’essere enorme per riuscire a seguire questa storia»: ancora una volta si chiede la partecipazione vigile, inventiva, degli spettatori invitati così a immaginare nuove connessioni, colmare vuoti, concepire diverse soluzioni di senso? Una visione del teatro in qualche modo affine e opposta all’idea di ‘sottrazione’ di Deluze/Carmelo Bene, dove la mancanza era individuata, avvertita, ‘vissuta’ conoscendo l’intero, opere che pulsano anche per quanto non c’è, in Riccardo III evaporati gran parte dei personaggi, intorno al protagonista solo figure femminili.
Ritorna Cassandra, un nome «che promette solo notizie spaventose»: in Spam è una studentessa che insiste nel voler ricordare come lui, il protagonista dalla memoria perduta, le abbia rubato il suo studio sugli eschimesi. «Non ricordo niente». E ha con sé il libro di Camus Lo straniero, colmo di smarrimenti, la vita lasciato al caso, comunque assurda, senza senso. Malta, la Cattedrale, Caravaggio. Naturalmente anche nelle pagine di Cue Press le giornate sono pubblicate in forma caotica. Si sperimenta il traduttore di Google. C’è meraviglia per il non senso di alcune affermazioni, come per «Il paradosso del compito a sorpresa». La strana scoperta di possedere milioni euro. E’ possibile trovare, tra l’«immondizia virtuale», le tracce, gli indizi per ridare forma alla propria identità perduta? Ma quelli che sembrano ricordi sono davvero tali? Davvero lui doveva chiamarsi Nicolino come il fratellino mai nato? La sveglia, trentunesimo giorno: «E’ ora di tornare a casa». Teatro e mondo onirico, viaggi in internet e caos del sapere tra schegge di esistenze individuali forse solo sognate. Il titolo della prefazione a Spam di Andrea Ciommiento è «Immondizia virtuale e frammentazione del quotidiano».
Molto interessante il confronto con il teatro di autonarrazione: scrivendo di Lorena Vega «una delle attrici più amate, più coraggiose, più tenaci in questo momento a Buenos Aires», che racconta in scena di sé, Spregelburd in Sul mio teatro, si trova a riflettere sul questo tipo di esperienze parateatrali. «Io, che milito per la fiction pura, mi arrendo di fronte alle capacità di questa impurità: raccontare la propria vita con l’arte delle fate». Per una particolare serata Lorena Vega invita alcuni artisti a dare anima ad alcune foto di famiglia. Tra questi anche Spregelburd, che dà voce a un’immagine, pubblicata nel testo, lui stesso fermo, abiti invernali, davanti a una casa di campagna, galline sul prato, un albero spoglio. Polonia, isola di Wolin, luogo d’origine del nonno, che era quindi emigrato in Argentina, 1912, a Rosario, morto travolto sotto un treno con il suo carretto di vestiti che vendeva per strada.
Pure, malgrado quella ‘fiction pura’, negli esercizi che affronta con gli attori molti i passaggi, per giungere anche a un esito di scrittura, che coinvolgono direttamente la singola persona. In Bipedi, dualità e nevrosi sempre collettive, l’autore/attore argentino utilizza quello che lui chiama «sporco trucco», una pratica «che contiene tanto di autobiografia e di pietà per se stessi, quanto di attentato, violenza allontanamento e rottura». E spiega: ci si sdraia su un grande foglio di carta e qualcuno disegna il contorno del corpo: all’interno di tale silhouette si scrive della propria persona, in forma sintetica, brevi frasi, «il primo amore, ferite fisiche e psichiche, momenti di gioia, foto di famiglia, libri letti…». La questione è come rendere graficamente la propria biografia dal momento che non è possibile usare le parole, e in quale posizione disporre i vari elementi: «sulla testa, sulle mani, sul sesso di solito si ammassano, turbolenti, disegni contraddittori». Nascono da tale materiale una serie di monologhi, che poi andranno sviluppandosi in diverse direzioni: è questa un’estrema sintesi di quanto già lo stesso Spregelburd nomina ‘sommariamente’ per illustrare questo particolare percorso creativo.
Anche gli attori di Diciassette cavallini saranno passati attraverso questa forma di «manipolazione dolorosa e ridicola che cerca di comunicare l’incomunicabile ignorando allegramente terapia e psicanalisi»? Nello spettacolo debuttato a Parma ritorna il mito di Cassandra, colei che sa prefigurare le sciagura, condannata a non essere creduta: tante storie s’intrecciano di cui si tendono a collegare gli sviluppi. Perché, malgrado la poetica spregelburdiana esiga una particolare disponibilità percettiva, la mente dello spettatore si è formata su quella drammaturgia dove ogni battuta è necessaria per cogliere gli sviluppi delle diverse narrazioni/azioni sceniche. Ma poi ci si arrende e si accettano i segmenti dispersi di più racconti, salvo poi riprendere a seguire particolari fili che s’immagina si possano tendere tra i diversi personaggi in mezzo a metafore, simboli, oggetti multipli in scena (anche tanti orologi naturalmente): non è così il mondo contemporaneo? Frammenti, cianfrusaglie di notizie, di saperi, di scelte politiche a cui sembra impossibile dare ordine? Verso quale direzione? Davvero pensiamo di poterlo prevedere?
Ancora pensieri di Spregelburd, per l’amato teatro, fors’anche per la vita: «Nella tragedia tutti gli avvenimenti si sviluppano verso il finale. Ma nei sistemi complessi, che a volte chiamiamo ‘catastrofici’, le cose viaggiano in tutte le direzioni. La ragione le ordina verso il finale. Ma ci sono resti di frizioni, viaggi a marcia indietro, collisioni con sistemi circostanti…». Sì, il teatro allora rispecchia davvero la realtà se non è possibile conoscere quanto può accadere. Lo stesso passato si sfalda, memoria disordinata che si ricompone senza verità. Spregelburd riporta una frase di Clarice Lispector: «Vado a creare quello che mi è successo», così per la scrittura, condannata a rielaborare anche le proprie esperienze in forme instabili, precarie, mutevoli.
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