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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

16 Gennaio 2025

Sesso, sordi e ortaggi. Fellini

Federico Pontiggia, «il Fatto Quotidiano»

Dalla fellatio d’infanzia alla melanzana erotica (e indigesta), dalle catacombe di Roma
all’Oscar cimiteriale, dai seni della Loren alla Masina «poverina»: tutte le prime volte di Fellini. Vengono da Raccontando di me, ovvero Federico Fellini conversa con Costanzo
Costantini, che pubblicato in Francia nel 1996 torna in libreria per i tipi di Cue Press.

Tra il maestro e il giornalista del Messaggero è tutto un fluire di ghiotti aneddoti, confessioni audaci e commenti inesorabili. Con una sensazione ineluttabile: la nostalgia canaglia per un cinema che non è più.

Su Sophia Loren: «Era magra, magrissima, ma aveva un seno fastoso. Come mi giravo, la madre le tirava giù la chiusura lampo della blusa e le faceva esplodere i seni».

Pisello e melanzana

Fellini l’incipit erotico l’ebbe a sei o sette anni, complice una cameriera, Marcella. A letto febbricitante, la domestica gli «sollevò la camiciola, prese il mio pisello fra le mani e se lo mise in bocca». Vi immaginate un regista qui e ora prodursi in un simile ricordo? Non finisce qui: Marcella poi «afferrò un’enorme melanzana e se la infilò tra le cosce, facendo avanti e indietro con la mano». Addio parmigiana: «Da allora non ho mai potuto mangiare le melanzane».

Flirt al balcone

Il primo fu al liceo, «un flirt a distanza, visivo». Federico si innamorò della «signora delle ore 11», una bellissima donna che apriva le persiane e appariva in vestaglia dirimpetto all’istituto. Il climax, talvolta condiviso dal professore di matematica, quando si chinava per dar l’acqua ai fiori: «La vestaglia le si apriva un po’ sul seno. Aspettavamo quel momento dalle otto e mezza».

Primo amore

Una bella ragazzina, Bianchina Soriani, che – commenta Costantini – diviene «un mito, come la Silvia di Leopardi». Federico non smobilita: «L’amore per quella delizia lo esprimevo con degli scarabocchi», ispirati ai fidanzatini di Peynet.

Esordio capitale

A Roma la prima volta nel 1933 e nel 1934 con il padre: uno dei fratelli della madre romana lo porta in giro in macchina. Fellini si sente «come a scuola, frastornato da quella girandola di colonne e di statue, di rovine imponenti». C’è anche l’intervallo, fuori programma: «Alle catacombe di San Callisto mi spersi». Le guide gridavano «Ragazzo riminese sperduto nelle catacombe»: quindici minuti di incubo – e avvisaglia di celebrità?

Giulietta del destino

Il rendez-vous al ristorante, Castaldi in piazza Poli; a fine pranzo – rammentava Masina – Fellini trasse dalle tasche «tanti soldi da lasciarla sbalordita». Federico abbozza, «Giulietta forse esagera », e assevera: «Era la donna del mio destino. Sono arrivato a pensare che il nostro rapporto preesistesse addirittura al giorno in cui ci incontrammo per la prima volta».

Seni del varietà

La prima regia, a quattr’occhi con Alberto Lattuada, fu Luci del varietà nel 1950. Non andò benissimo, ché «faceva tutto Lattuada» e il botteghino non premiò: «Stiamo ancora pagando le cambiali». Fellini si consolò al provino con Sophia Loren, all’epoca Sofia Lazzaro: «Era magra, magrissima, ma aveva un seno fastoso. Come io mi giravo un po’, la madre le tirava giù la chiusura lampo della blusa e le faceva esplodere i seni».

Fischi per sordi

Lo sceicco bianco al Festival di Venezia nel 1952: stroncature feroci, fischi a scena aperta, «il film venne distrutto, cancellato nella sua esistenza». Il peggio era da venire: il pubblico si rifiutò di vederlo, perché detestava Alberto Sordi, «non tollerava la sua impudenza, odiava la vocina da seminarista in quel corpo greve, con quel culone».

La strada agli Oscar

Il primo Academy Award, le prove al Chinese Theatre, Federico, Giulietta, Anthony Quinn e Dino De Laurentiis tra divi e divine: Liz Taylor con diadema regale alla Nefertiti, toilettes scintillanti, sicché Masina, in giacca di ermellino su abitino di tulle, «sembrava una poverina capitata lì per caso». Fellini non la risparmia: «Molti credevano che l’avessi presa davvero da un circo».

Cenere di stelle

Fellini – il 20 gennaio cade il centocinquesimo anniversario della nascita – ebbe un Academy Award alla carriera nel 1993 e quattro film giudicati i migliori in lingua straniera (il già citato La strada, Le notti di Cabiria, e Amarcord ), ma ancor più consapevolezza di che fosse l’Oscar, «il cinema che s’incontra con sé stesso nel tentativo di resuscitare i morti, esorcizzare le rughe, la vecchiaia, la malattia e la fine». Già, «la caricatura del Giudizio universale», eppure Federico non poteva rifiutarlo né contestarlo, perché «il cinema è anche circo, carnevale, luna park, giostra, gioco di saltimbanchi». E chi meglio di Fellini?

15 Gennaio 2025

Pubblicato da Cue Press Tutto il teatro di Anton Pavlovič Čechov

Valeria Ottolenghi, «Sipario»

Intanto grazie! Grazie per questo bel volumone con tutto il teatro di Čechov: il ringraziamento innanzi tutto a Mattia Visani, direttore della casa editrice Cue Press, e a Fausto Malcovati e Roberta Arcelloni che l’hanno curato con tanta competenza. Quante volte capita di andare a cercare questo o quel titolo di Čechov tra i nostri libri? Passando subito lo sguardo lungo gli Einaudi, collezione teatro. Personalmente ho anche altre edizioni – come per Molière e Shakespeare – ma certo mancava questa possibilità di passare da un testo all’altro con tanta agilità. E se ho il Platonov, ed. 1959, mi manca Spirito del bosco, qui ritradotto dopo molto tempo. E si legge nella nota introduttiva che così scriveva Čechov di questo testo «Odio questa commedia e cerco di dimenticarmene», ma si spiega poi come Zio Vanja, di sei, sette anni più tardi, sia figlio di quest’opera tanto detestata dall’autore.

La curiosità è grande. Vero! Già nelle prime pagine si colgono straordinarie affinità. «Il professore… vecchia mummia, stoccafisso erudito. Gotta, reumatismi, emicrania… E’ più geloso di Otello», si lamenta sempre, malgrado le sue molte fortune, una carriera universitaria con appoggi altolocati, parlando d’arte senza capirci nulla, vendendo ‘aria fritta’, e ha successo, famoso ovunque. Ed è anche un Don Giovanni, adorato dalla prima mogie, sorella di chi sta parlando, ne ha ora una seconda, bella e intelligente. «Mia madre, sua suocera, lo adora ancora e lui ancora le incute un sacro timore». Sì: qui già molto di Vanja. Ma forse l’autore aveva allontanato da sé Spirito del bosco con la memoria del suo fallimento in scena, poche repliche in un teatro privato, rifiutando quindi Čechov di pubblicarlo.

E’ Gorki a compiere una straordinaria sintesi, in qualche modo commovente, dello sguardo di Čechov, della sua scrittura: «Davanti a questa folla annoiata e grigia di esseri abulici, un uomo è passato, grande, intelligente, attento a tutto; ha osservato gli stanchi abitanti della sua patria… e ha detto loro con la sua bella voce sincera: ‘voi vivete male, signori!’». Ma c’è molto di più: i personaggi, i temi affrontati, le infinite questioni esposte spesso in forme nascoste, appena accennate tra le battute, risuonano meravigliosamente in ogni tempo. Si è recensito da poco Il giardino dei ciliegi per la regia di Leonardo Lidi (e con la traduzione dell’amato Malcovati: è sempre una gioia incontrarlo ai festival, ai convegni, e sempre s’impara): slitta il tempo, mutano alcuni caratteri (il fratello diviene sorella, la governante un attore – e sono solo degli esempi), ma l’opera conserva la sua energia, sospesa tra umorismo e malinconia. Lopachin canta Ritornerai di Bruno Lauzi, e tutti sembrano dei sopravvissuti a un tempo ormai finito, di cui non conviene avvertire la nostalgia. 

Ma se si cerca nella memoria (e su YouTube) si trovano interpretazioni simboliste, a cabaret, riconoscendo subito Strehler, le battute lente, il biancore aristocratico. Jean Vilar riconosce il percorso di rifinitura, di ricerca dell’essenzialità in Čechov e, facendo riferimento a Platonov, che nell’introduzione a questo bel volume Cue si ricorda come non fosse ripubblicato da tempo, scrive di «brogliaccio, capolavoro… Tutto è bello, ma, sembra, irrecitabile… bisogna ammettere che il giovane scrittore ha saputo imporsi fin d’allora un cammino severo per raggiungere la chiarezza, l’ordine drammaturgico del Gabbiano o del Giardino dei ciliegi», sottolineando come Čechov segni una svolta definitiva per il teatro: «All’alba di questo XX secolo non è soltanto Dio che è morto, non è soltanto nella vita e nella morale che tutto è possibile. E’ morta anche, e per sempre, la concezione aristotelica del teatro. Si può fare tutto. Tutto è permesso. Tutto è possibile», ricordando la data di morte del grande autore russo, 1904. Già: l’alba del XX secolo. 

Anche Ettore Lo Gatto, nell’introduzione al già citato Platonov, evidenziava come lo studio dei tagli da parte di Čechov a quel lavoro giovanile «mirasse già a quella precisa caratterizzazione dei suoi eroi dal duplice punto di vista, psicologico e ambientale». Una meraviglia poter passare da un’opera all’altra in questa volume Cue, il primo della collana I Grandi se non si sbaglia. Anche Vittorio Strada evidenzia questo percorso di accurato rigore che è nello stesso tempo innovazione: «Rispetto alle prime prove drammatiche la tetralogia non è semplicemente una fase più matura: essa ha il senso di un passaggio dalla naturalità all’astrazione… così in Čechov dal dramma tradizionale si arriva, in tutta la tetralogia, ma soprattutto nelle Tre sorelle e nel Giardino dei ciliegi a quell’opera astratta come una sinfonia di Čajkovskij’ di cui parlava Mejerchol’d».  

E non si può dire di Čechov senza nominare il Teatro d’Arte, Stanislavskij: sono noti i dissensi tra autore e regista. E’ Angelo Maria Ripellino, in Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento a ricordare come Čechov considerasse in particolare Il giardino un’allegra commedia, «quasi un vaudeville», e invece il regista «un pesante dramma di vita russa». Tuttavia Stanislavskij sembra riconoscere a Čechov, ripensato a distanza, il suo autore e amico ormai deceduto, quell’aspetto del carattere rintracciabile anche nelle opere: «Dove c’era lui, anche malato, regnava spessissimo la parola scherzosa, lo spirito, la risata ed anche la farsa. E capita così anche nelle sue opere».

«Andiamo a teatro per trovare la vita, ma se non c’è differenza tra la vita fuori dal teatro e quella al suo interno, allora il teatro non ha più senso. Non c’è nessuna ragione di farlo. Ma se accettiamo il fatto che la vita nel teatro è più visibile, più vivida che all’esterno, allora riusciamo a capire come sia contemporaneamente la stessa cosa e qualcosa di diverso…». Perfetta la definizione di teatro in Peter Brook, di cui si ricorda con emozione di aver visto, nel suo teatro a Parigi, il Théâtre des Bouffes du Nord, Ta main dans la mienne, tratto dalle lettere che per sei anni Anton Čechov e sua moglie, l’attrice russa del Teatro d’Arte Olga Knipper, si scambiarono, spesso distanti per la malattia di lui, la passione del teatro di lei, protagonisti Natasha Parry, moglie di Peter Brook, e Michel Piccoli.

Spiega ancora Peter Brook in La porta aperta: «La vita nel teatro è più leggibile ed intensa perché è più concentrata. Nella vita parliamo per mezzo di un disordinato chiacchiericcio fatto di ripetizioni… La compressione consiste nel rimuovere tutto quello che non è strettamente necessario e nell’intensificare ciò che rimane, come mettendo un aggettivo forte al posto di uno più blando pur conservando l’impressione della spontaneità». Quale l’esempio perfetto? Čechov naturalmente!: «Con Čechov, il testo dà l’impressione di essere stato registrato su nastro, di prendere le sue frasi dalla vita di ogni giorno. Ma non c’è frase di Čechov che non sia stata cesellata, levigata, modificata con grande arte e maestria, così da dare l’impressione che l’attore stia parlando ‘come nella vita di ogni giorno’… bisogna essere consapevoli che ciascuna parola, anche se ha l’aria di essere innocente, non lo è…».

Pensiero verificabile: per molti testi drammaturgici, per Čechov in particolare. Tutto è necessario, ogni parte si relaziona con le altre, in una struttura ‘leggera’ e potente. Meyerhold in La rivoluzione teatrale critica l’eccesso di ricerca naturalistica stanislavskijana: «si potrebbero citare un’infinità di esempi delle assurdità cui è giunto il teatro naturalista seguendo il principio della riproduzione esatta della verità» e riprende frammenti di dialoghi tra Čechov (turbato all’idea che per il Gabbiano si sarebbero uditi «il gracidio delle rane, il frinire delle cicale, l’abbaiare dei cani») e alcuni attori del Teatro d’Arte. Di fronte alla difesa del realismo, Čechov risponde con parole che paiono rendere eco quelle di Peter Brook: «La scena è arte, riflette la quintessenza della vita e non vi si deve introdurre nulla di superfluo».           

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1 Gennaio 2025

Le strade non percorse

Raffaella Di Tizio, «L’Indice», XLI-1

Torna sul mercato editoriale un libro importante sul teatro italiano del Novecento, che è anche una lezione di metodo sul modo di costruirne la storia. La nuova edizione di Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano (la prima, Bulzoni, 1987) ha il volto dell’autore in copertina, come ad avvisare che si entrerà, leggendo, nel vivo del pensiero di Claudio Meldolesi (1942-2009), riconosciuto innovatore della nostra storiografia teatrale. Qui lo si può seguire mentre indaga aspetti trascurati dalle narrazioni canoniche, fermandosi a esplorare le incoerenze interne ad alcune storie note, come quelle di Giorgio Strehler ed Eduardo De Filippo, aprendo squarci che gettano una luce nuova su tutto il paesaggio circostante. Al centro del volume alcune esperienze ‘scoraggiate dal teatro italiano’ fra gli anni trenta e cinquanta, cioè in quella fase in cui si andò consolidando, tra fascismo e dopoguerra, un sistema chiuso di valori condivisi, derivato dai condizionamenti delle dinamiche produttive (la nuova prassi delle sovvenzioni), dal pensiero medio sul teatro, da abitudini di critici e spettatori.

Meldolesi prosegue qui un discorso iniziato con Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi (Bulzoni, 1984), dove osservava il pluralismo degli inizi della regia italiana, prima che prendesse spazio l’idea che voleva i registi come mediatori tra testo e pubblico, come allestitori, dimenticando la ricchezza inventiva e drammaturgica della regia europea l’efficacia della tradizione degli attori.

In Fra Totò e Gadda costruisce il suo racconto attraverso saggi a sé, ognuno dedicato a una voce centrale – ma non sempre riconosciuta allora come tale, come nel caso di Totò – della storia teatrale nazionale. Protagonisti, oltre a Totò e Gadda, De Filippo e Strehler, sono Mario Apollonio (storico della letteratura determinante per i suoi studi sul teatro) e Luigi Pirandello. Nomi in gran parte noti. Cosa hanno a che fare con lo spreco?

Totò ci pare familiare per i suoi film, ma al cinema, racconta Meldolesi, era passato tardi, con poca convinzione. Vi trovò spazio per coltivare la sua indipendenza: «Nessun film poté tuttavia restituire l’espressione sovversiva delle sue corse, delle sue furie nello spazio del teatro». Era il maggiore attore teatrale del suo tempo, ma non se ne accorse una critica che non dava peso a varietà e rivista, i generi in cui aveva costruito la sua efficacia espressiva.

De Filippo, scrive, è stato accolto nel pantheon culturale italiano negando consistenza al centro della sua ricerca, la volontà di rigenerare «su base attorica e dialettale» il teatro nazionale. Fu una perdita, come lo fu sottovalutare la maggiore invenzione di Apollonio: la scoperta e valorizzazione della cultura degli attori – invisibile a molti suoi contemporanei, che al teatro guardavano con paternalismo da colonizzatori. E spreco fu dimenticare l’importanza delle ricerche giovanili d’avanguardia di Strehler, rinnegate per l’idea che voleva allora la sperimentazione non in linea con le esigenze del presente.

Il libro procede per affondi imprevisti, come quello sulla natura profonda dei testi di Pirandello, messa a fuoco analizzando significative messinscene e ricordando la permeabilità che i suoi drammi ebbero anche per l’autore, fattosi regista, di fronte al concreto lavoro degli attori. Si scopre poi che l’esperienza del teatro fu per Gadda romanziere particolare laboratorio di scrittura, e che se non divenne compiuto autore per la scena fu forse solo per ‘disattenzione’ dei registi.

Contano per Meldolesi anche le strade non percorse. In queste pagine invita a guardare come rivelazioni ad aspetti che sembrarono stranezze, segni della presenza di «una ricchezza passata che non ha smesso […] di trasmettere le sue energie». Sotto ogni «invenzione sprecata» stanno semi di possibilità teatrali inespresse. Così che il libro sembra guardare al passato, mentre parla ancora di nuovi futuri teatri possibili.

30 Dicembre 2024

Capire il teatro? Missione possibile

Nicola Arrigoni, «Sipario»

Si crede che un’azione di diffusione e ri-considerazione dei linguaggi scenici parta anche e soprattutto dagli strumenti che si possono avere per leggere lo spettacolo dal vivo. Ecco allora che l’azione di una casa editrice può diventare protagonista di una necessità: non tanto e non solo fare il punto sugli studi delle arti performative, ma cercare di trovare i riferimenti per leggere ciò che accade sulla scena, per offrire tali strumenti agli spettatori/lettori. In questo impegno sembra essere proiettata la casa editrice Cue Press, diretta da Mattia Visani, che propone una serie di titoli che fanno riferimento alla semantica dei linguaggi performativi, ne forniscono il glossario e le modalità di fruizione. Si parla da sempre dell’educazione alla visione e si crede che questo possa essere un modo per dare opportunità di leggere e avere modalità di accesso alla scena e alle sue lingue. Tanto più in un periodo come quello attuale che vive una sorta di disegno di restaurazione e di ritorno alla tradizione contrapposto a una natura performativa sempre più stringente delle esperienze indipendenti. Questa bipolarità schizofrenica, oppure consolidata dalle divisioni che da sempre esistono nel teatro, impone una sorta di bussola di orientamento, impone una sorta di alfabetizzazione per recuperare ciò che si è scordato e per inquadrare, almeno tentarci, ciò che ci pare insolito, nuovo e spesso poco comprensibile. È in questa ottica che ci piace leggere alcune uscite editoriali di Cue Press che con convinzione e determinazione ha colto l’eredità della gloriosa casa editrice Ubulibri, diretta da Franco Quadri. In questa pur parziale proposta di volumi, si vuole offrire una panoramica atta a cercare di mettere punti fissi, a fornire gli ingredienti per orientarsi nelle arti della scena.

Vocabolari per capire il teatro

«Il teatro è un’arte fragile, effimera, particolarmente esposta all’influenza del momento. Nessuno potrebbe rendersene conto, senza essere pronto a ridiscutere ogni volta i propri fondamenti teorici e, dunque, a correggere costantemente la teoria critica deputata a divenire fenomeno di teatro», scrive Patrice Pavis nella prefazione al suo Dizionario del teatro, a cura di Paola Ranzini e Paolo Bosisio, pubblicato da Cue Press (pagine 522, euro 55,99). Si parte dalle parole accessoriattrezzeria per chiudersi col lemma voce fuori campo. In mezzo c’è il mondo c’è il significato di comico, come quello di messinscena, l’inafferrabile mutazione del termine drammaturgia come il non meno imprevedibile mutar dell’attore e del performer. «L’opera si fonda, oltre che sulla vasta e sempre aggiornata cultura scientifica e filosofica dell’autore, sulla sua straordinaria esperienza di spettatore, necessaria, quanto la prima, per garantire un accostamento nutrito di concretezza a un settore dell’arte che più di altri, probabilmente, risente della materialità del suo agire e del suo configurarsi», scrivono Ranzini e Bosisio. Nella lettura delle varie voci – tutte o quasi corredate di una bibliografia di approfondimento – è possibile tenere conto di una lettura tematica, indicata ad inizio di volume dalla suddivisione delle parole analizzate per temi: Attore e personaggio, Drammaturgia, Generi e forme, Messinscena, Principi strutturali e questioni estetiche, Ricezione e Testo e discorso. Già da queste voci che raggruppano altri lemmi si intuisce come l’approccio di Patrice Pavis sia essenzialmente di carattere semiotico e spostato sulla comunicazione che intercorre fra palco e platea, un aspetto quello della costruzione e della ricezione del testo teatrale e performativo che emerge e che non può liquidare il testo di Patrice Pavis semplicemente come un vademecum alla visione, ma piuttosto come un’immersione nella struttura comunicativa ed estetica dell’atto teatrale. 

Il Lessico del dramma moderno e contemporaneo di Jean Pierre Sarrazac, a cura di Davide Carnevali (Cue Press, pagine 186, euro 34.99), parte dalla A di Azione per chiudersi con la V di Voce, offrendo al lettore una cinquantina di voci che permettono di costruire una sorta di guida al mutamento e alla trasformazione del dramma moderno e contemporaneo, partendo dagli ultimi decenni del XIX secolo fino ad arrivare ai giorni nostri. Il volume è l’esito del lavoro del Groupe de Recherche sur la poétique du drame modern et contemporain, coordinato da Sarrazac e per questo frutto di una polifonia di sguardi e di intenti che rendono ogni voce a sé stante, per quanto componente un quadro ben preciso: andare alla scoperta della necessità di destrutturazione del dramma, iniziato nella seconda metà dell’Ottocento e arrivato fino alle forme di post-drammatico dei giorni nostri. Sullo sfondo c’è «l’idea di una crisi senza fine nei due sensi del termine. Di una crisi permanente e di una crisi senza soluzione, senza orizzonte prestabilito. Di una crisi che si esprime interamente attraverso vie di fuga imprevedibili», si legge nella prefazione a cura di Marco Consilini. A questo fanno riferimento i diversi lemmi, a questo contesto guardano le voci di un lessico che va in cerca della rottura delle tradizionali forme di rappresentazione. Ciò che offre questo Lessico del dramma moderno e contemporaneo è uno spaccato sul mutare delle forme drammaturgiche nella consapevolezza che la storia dell’arte non è determinata da idee ma dal loro realizzarsi in forme. 

Nel segno della semantica teatrale si pone anche il volume Lingua orale e parola scenica, a cura di Vera Cantoni e Nicolò Casella (Cue Press, pagine 196, euro 29,99) in cui viene analizzato il rapporto fra parola e vocalità, aprendo uno scorcio di analisi sul legame che esiste fra scrittura e voce, fra parola e il suo farsi nell’azione dell’attore. «La parola teatrale si presenta per sua natura come parlata, sebbene in molti casi la sua origine sia letteraria: il suo medium è costantemente orale, ma la sua concezione variabile. Questo scarto, insieme all’ulteriore passaggio che vede i testi drammatici spesso conservati in forma scritta, costituisce la premessa fondamentale della complessa rete di potenzialità espressive per gli artisti», si legge nell’Introduzione del volume che raccoglie una serie di interventi che spaziano da Cechov e l’oralità di Fausto Malcovati alla riflessione sulla lingua scenica nelle Baccanti di Euripide a cura di Maria Appaia, oppure dalle Lingue nuove di Federico Tiezzi, indagate da Carla Russol, al dialetto di Marco Paolini, su cui si è concentrato Juan Pérez Andrés, solo per citare alcuni dei contributi. Ma perché inserire questo volume nella sezione dei dizionari? Perché si crede che i diversi interventi e casi di studio possano rappresentare altrettanti voci di un ideale dizionario sull’oralità nel teatro, sulla possibilità di offrire indicazioni di merito rispetto alle trasformazioni della lingua dalla pagina scritta alla scena o viceversa. 

Perché il teatro? 

Fornite le parole e i loro racconti è ora di chiedersi in cosa il teatro ci tocchi, perché ancora ci coinvolga? E quando questo non accade per quale motivo sentiamo ciò che succede sulla scena a noi estraneo? La proposta è, in questa sede, duplice: da un lato la guida all’analisi dello spettacolo, dall’altro la possibilità di affidarsi alla guida di maestri della scena che introducano lo spettatore nel loro mondo scenico. Il tutto è pensato come uno stimolo per la costruzione di uno spettatore consapevole o, perlomeno, attrezzato sui contenuti e sulle forme dello spettacolo dal vivo. A questo obiettivo punta Patrice Pavis col volume L’analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza e cinema, a cura di Dario Buzzolan e Roberta Cortese (Cue Press, pagine 356, euro 37,99) in cui l’autore metta a punto una vera e propria guida alla fruizione degli spettacoli dal vivo, partendo dai presupposti di analisi per approdare all’analisi dei componenti della scena: attore, voce, musica, ritmo, ma anche spazio, tempo e azione e poi scene, costumi, trucco e luci per approdare infine a testo in scena. C’è poi un’ampia sezione – dal taglio nettamente semiotico – dedicato alle condizioni della ricezione per arrivare al punto di vista dello spettatore. Con rigore scientifico e straordinario dono della sintesi Patrice Pavis mette il lettore davanti a una marea di informazioni, decostruisce l’atto teatrale, lo scompone, lo analizza, ne documenta i diversi punti di vista analitici per offrire un panorama di studi e di idee davvero ampio e che si concentra in pagine dense di significato, impegnative ma estremamente fruibili nella loro scansione argomentativa. E se in un certo qual modo il titolo stesso del volume di Pavis pone il lettore nei panni di un chirurgo delle forme e della creatività scenica, gli altri due volumi che si segnalano per una alfabetizzazione alta dello spettatore fanno riferimento a un’analisi dall’interno, hanno un afflato esperienziale che ha la meglio su tutto e soprattutto sull’astrazione pura, di cui forse pecca un poco il volume di Pavis.

È allora un racconto caldo e polifonico quello che Corrado D’Elia e Sergio Maifredi costruiscono in Strade maestre (Cue Press, pagine 226, euro 24,99) che propone una serie di conversazioni e incontri con i maestri della scena Eugenio Barba, Lev Dodin, Stefan Kaegi, Antonio Latella, Ariane Mnouchkine, Thomas Ostermeier, Milo Rau, Peter Stein, Krysztof Warlikowski. I due autori accompagnano in un viaggio reale ed emotivamente narrato a incontrare i maestri della scena contemporanea. Da quegli incontri fuoriescono non solo i ritratti degli artisti, ma anche l’analisi della loro ricerca, il loro pensiero sul teatro e le sue estetiche. Ed è questo il bello del volume Strade mastre, gli artisti si raccontano a ruota libera, dicono del loro rapporto col teatro, dei loro successi come degli insuccessi, offrono al lettore uno spaccato della creatività scenica e del pensiero sulla scena che profuma di autenticità e del calore che caratterizza ogni incontro basato sulla disponibilità al racconto. Dopo le analisi affidate alla semiologia, il volume Strade maestre immette nella carne e nel cuore del teatro, vissuti dai maestri della scena contemporanea. Ed allora la chiusura di questa carrellata per spettatori che leggono non può essere la domanda Why theatre? che si pongono Milo Rau, Kaatje De Geest e Carmen Hornbostel nel volume curato da Andrea Porcheddu (Cue Press, pagine 164, euro 22,99), interrogativo a cui alcuni dei maestri della scena contemporanea cercano di dare risposta. Jerome Bel, Anne Teresa de Keersmaeker, Gisèl Vienne, Amir Reza Koohestani, Angelica Liddell, Toshiki Okada, Alain Platel sono alcuni degli artisti che si confrontano con l’interrogativo: Perché il teatro? Può essere consolante che la stessa domanda con cui si è aperta questa guida possibile e parziale ai linguaggi performativi appartenga non solo a noi spettatori, ma sia in primis di chi si misura direttamente con i linguaggi della scena. Verità definitive non ci sono, ricette magiche che il mondo definisca, neppure. Ciò che rimane è la nostra curiosità, la voglia di mettersi in dialogo, magari con qualche strumento d’analisi e consapevolezza in più, fornito da buone letture. Questo lo scopo del viaggio fra le pagine che cercano di ingabbiare quel corpo volatile e mutevole che è il teatro e le sue multiformi espressioni di creatività.

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29 Dicembre 2024

Altro che epoca senza maestri: in teatro esistono ancora (e ce n’è un gran bisogno)

Marco De Marinis, «il Fatto Quotidiano»

È diventata ormai un luogo comune, quasi sempre soffuso di passatismo nostalgico, la lagnanza sul fatto di vivere in un’epoca ‘senza maestri’. Ma è davvero così? Molto dipende da cosa si intende per maestri e da dove andiamo a cercarli. Che si viva, da tempo, in un’età post-ideologica, orfana delle grandi narrazioni novecentesche, è un dato di fatto. Come pure la crisi della figura (l’intellettuale, il maître à penser) che era stata sicuramente una protagonista, nel bene e nel male, delle vicende storiche e culturali del secolo scorso.

Se poi guardiamo al piccolo mondo del teatro, la sensazione di orfananza, di perdita di riferimenti inoppugnabili, appare diffusa e non da oggi. Quasi trent’anni fa, mi trovai a parlare di un teatro, quello di fine secolo, ‘dopo i maestri’. Intendendo con questo non che i maestri non ci fossero più, o non ci fossero stati, ma che la nuova generazione teatrale, quella che aveva debuttato negli anni Novanta, tendeva a farne a meno, a presentarsi orfana appunto, per meglio sottolineare una discontinuità rispetto ai modelli e alle tendenze che avevano dominato la scena dal dopoguerra in avanti, insomma la necessità di un azzeramento e di una ripartenza alleggeriti dal fardello della tradizione, fosse pure quella del nuovo, dalla neo-avanguardia al Terzo Teatro.

Dunque, una condizione più scelta che subìta, più soggettiva che oggettiva. Perché intanto i maestri, o comunque vogliamo chiamare le figure più prestigiose della scena contemporanea, continuavano a esistere e ad operare: da Carmelo Bene a Luca Ronconi, da Dario Fo a Leo de Berardinis, da Jerzy Grotowski a Eugenio Barba, da Peter Brook ad Ariane Mnouchkine.

Nel 2023 è uscito un libro ‘inattuale’, di cui sono autori un attore regista, Corrado D’Elia, e un regista direttore, Sergio Maifredi, i quali sulla questione vanno decisamente controcorrente, partendo dalla convinzione che i maestri esistono eccome e ce n’è ancora un gran bisogno (Strade maestre. I Maestri del teatro contemporaneo, Cue Press). Tant’è che decidono di viaggiare in tutta Europa per incontrarli. Fra l’altro, ciò accade proprio nel momento meno propizio per girare il mondo, il periodo della pandemia da Covid 19, fra 2021 e 2022.

D’Elia e Maifredi si mettono in viaggio avendo stilato la loro lista e, nonostante le gravi difficoltà del momento, riusciranno ad incontrarli tutti tranne uno, il russo Lev Dodin, che non il Covid ma lo scoppio della guerra in Ucraina renderà impossibile raggiungere. In ordine di apparizione nel libro abbiamo: Peter Stein, Eugenio Barba, Stefan Kaegi (Rimini Protokoll), Thomas Ostermeier, Ariane Mnouchkine, Milo Rau, Antonio Latella, Krzysztof Warlikowski.

Alle interviste, ampie e ricche di spunti, si aggiungono brevi annotazioni introduttive e conclusive, molto legate alla città in cui si svolge l’incontro e alle sue suggestioni. Le conversazioni non seguono sempre lo stesso schema, adattandosi alla personalità di ciascuno degli intervistati. Ma hanno ovviamente dei motivi ricorrenti, come l’intreccio fra arte e vita, il lavoro con gli attori e il rapporto con gli spettatori.

Naturalmente il vero leitmotiv è costituito dal tema dei maestri, riproposto con forza ad ogni incontro. Tuttavia le risposte che i due ottengono non sono forse quelle che si aspettavano. Sono in pochi a condividere in pieno l’idea che la perdita o piuttosto il non riconoscimento dei maestri sia un danno serio per il teatro di oggi (Stein e in parte Mnouchkine). Prevale invece un certo distacco e una evidente evasività (Latella: «ho avuto degli shock, non propriamente dei Maestri»), che in qualche caso diventa aperto disinteresse (Warlikowski) o vero e proprio dissenso (Ostermeier: «Bisogna prendere le distanze da questo concetto di Maestro»). Colpisce, come al solito, la lucidità disincantata di Eugenio Barba, che, da vero maestro, prima elegge a propri maestri i suoi attori e poi aggiunge: «Per quanto riguarda gli eredi: non esistono in teatro, sono soltanto un’illusione. Pensate al povero Stanislavskij o a Brecht. La sola eredità che puoi lasciare è una coerenza di vita […]. Non ho voglia di eredi».

Alla fine, il libro-viaggio trova il suo vero senso: «Ecco, quindi, che il nostro viaggio verso i Maestri ci si rivela ora per quello che davvero è stato: ancora una volta un viaggio di iniziazione, di realizzazione e di risveglio. […] Il viaggio, il chiedere e l’incontrare ci hanno rivelato noi stessi».

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12 Dicembre 2024

La vita di Dostoevskij

Giuseppe Costigliola, «Eurocomunicazione»

«L’incontro con uno scrittore è sempre una verifica del proprio sistema di vita»: apre così Fausto Malcovati la premessa al suo Un’idea di Dostoevskij (Cue Press, pp. 128), spigliata e conchiusa guida introduttiva alla biografia e alle opere del grande romanziere russo. Concetto fondamentale, valido non soltanto per chi, come lui, è apprezzato docente di lingua e letteratura russa, traduttore e critico teatrale, ma per tutti coloro che si approcciano all’arte narrativa con spirito critico, cuore e mente aperti, con la consapevolezza che una lettura può anche mutare il corso della propria vita.

Pericolo (o desiderio) ben concreto nel caso di Dostoevskij, considerati gli immortali capolavori che ci ha donato, che pongono quesiti fondamentali sul significato dell’esistenza, sulla umanità della nostra specie.

Un invito alla lettura

In uno stile piano e coinvolgente, con un linguaggio accessibile che evita tecnicismi eccessivi, il lucido uso di fonti primarie, in particolare le lettere, Malcovati conduce il lettore – neofita o avvertito che sia – in un percorso affascinante attraverso la vita e le opere dello scrittore russo, offrendoci una chiave per comprendere la complessità del corpus letterario di Dostoevskij. Si sofferma sui punti salienti della biografia, dall’adolescente ‘serio e pensoso’ alle drammatiche esperienze della detenzione e dei lavori forzati in Siberia, la viscerale passione per la politica, i complicati rapporti con l’editore Stellovskij, gli amori e i lutti familiari. L’esistenza tormentata è abilmente intrecciata all’analisi dei romanzi: emerge da queste pagine il legame indissolubile tra vita e letteratura, forse il ‘segreto’ della grande forza di autenticità dell’immortale arte dostoevskijana.

L’autore non si concentra sulla pura analisi testuale: questo è un invito alla lettura, uno stimolo a immergersi direttamente nei romanzi, a riflettere sulla complessità della natura umana e sulle ineludibili domande esistenziali. Maggiore attenzione è dedicata alle opere maggiori – Delitto e castigoL’idiotaI fratelli Karamazov – con spunti di riflessione sulla psicologia dei personaggi e sulle universali tematiche ivi affrontate. Ecco quindi scorrere sulle pagine i grandi temi dostoevskijani: il bene e il male, la fede e l’ateismo, la sofferenza e la redenzione, la libertà e il determinismo, l’amore e l’odio, la rivoluzione e l’organizzazione della società.

Scoprire la gioia

Non manca l’ultimo atto dell’attività letteraria di Dostoevskij: il discorso su Puškin, pronunciato in occasione dell’inaugurazione del monumento eretto per il leggendario personaggio, nel 1860; Dostoevskij vedeva in lui il grande interprete dell’anima russa, il paladino di una missione grandiosa: rappresentare l’universalità dell’anima russa, capace di realizzare il messaggio evangelico. Il volume si chiude con una sezione dedicata al dibattito critico, una cronologia della vita e delle opere e un’utile bibliografia di riferimento. Questo libro giunge in un momento delicato, segnato dal tragico conflitto in atto tra Russia e Ucraina. Il messaggio di pace e di concordia che si leva poderoso dalle pagine del grande scrittore russo, che seppe indagare con indomito coraggio i luoghi più bui dell’animo umano, assume dunque maggior forza, ci indica una nuova via. E, come ci indica l’autore, leggendo Dostoevskij potremmo imparare a scoprire la gioia, rarità quasi estinta nel Mondo odierno.

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5 Dicembre 2024

Cosa vuol dire fare il regista? Ce lo dice Fellini in un libro

Davide Dal Sasso, «Artribune»

Di tutta quella meravigliosa impresa che solitamente chiamiamo ‘fare arte’, ne sappiamo davvero poco. Va così perché dalle opere difficilmente possiamo risalire con agilità a quello che hanno fatto le artiste e gli artisti per crearle. Avere una idea dei processi e delle attività che determinano la realizzazione di dipinti o sculture, di pièce di teatro e danza o dei frutti della musica, non è facile. Le cose sono ancora più complicate quando abbiamo a che fare con il cinema, arte nella quale oltre alle immagini in movimento dobbiamo considerare anche regie e sceneggiature, abilità attoriali e strutture narrative, usi della macchina da presa e montaggio, costumi scene suoni e musiche. Dunque, come si procede? 

Il libro Il mestiere del regista con le parole di Federico Fellini 

Reagendo alla rassegnazione, la strada percorribile è tracciata dalle riflessioni delle artiste e degli artisti sui momenti di escogitazione e sviluppo del loro lavoro. Se possibile, dunque, la via è parlarne direttamente con loro. Sono infatti proprio le parole di Federico Fellini (Rimini, 1920 – Roma, 1993), in risposta alle domande ben poste da Cirio, a dare forma alle tre conversazioni che compongono il libro. La prima è dedicata alla figura dell’attore, la seconda a quelle dei produttori e del regista, la terza al mestiere di quest’ultimo. A contraddistinguerle sono sicuramente la schiettezza e la puntualità di uno dei più grandi registi del Novecento che con freschezza intona ricordi e fantasie muovendosi nel tempo tra esperienze teatrali e cinematografiche. Completa il libro l’intervista di Ottavio Cirio Zanetti a Nicola Piovani dedicata al lavoro con Fellini e al suo rapporto con la musica. 

Inquietudini e fosforescenze. Il cinema di Federico Fellini 

Il libro pubblicato da Cue Press ha il merito di offrire a lettrici e lettori quell’invito speciale ad avvicinarsi a Fellini senza girare troppo intorno ai temi che vengono brillantemente evocati da Cirio che guida con metodo le conversazioni. C’è sempre qualcosa di sorprendente nelle imprese di attrici e attori. Fellini descrive questa condizione ricordando come già da bambino avvertisse la forza della recitazione quasi fosse un fenomeno che potesse essere «contagioso» (p. 11), una esperienza basata su un misto di irrequietezza e sorpresa. Sentimenti non così elementari come potrebbero sembrare, specie se si pensa al modello di attore prediletto da Fellini, che non era né quello incarnato dai divi del cinema internazionale né quello dei cowboy. Piuttosto che l’eroe vittorioso il regista de La dolce vita apprezzava l’eroe positivo, «un eroe buffo, sfortunato a cui capitano le cose più catastrofiche» (p. 12). Ecco anche da dove traeva origine quel suo beffardo interesse per i pagliacci del circo, nonché – ampliando la prospettiva – direttamente per quest’ultimo più volte raffigurato nei suoi film.  

La recitazione secondo Federico Fellini 

Ora, se da una parte la questione della recitazione era influenzata da una inquietudine, descritta da Fellini che si rimette nei panni del (giovanissimo) osservatore quale era stato più volte; dall’altra, la medesima questione risentiva inevitabilmente di fascinazioni rese possibili da doti umane e più che umane proprie di attrici e attori. Recitare significa mostrarsi, affrontare il buio della sala o la vicinanza della macchina da presa, esporsi ai giudizi. Fellini, che ha spesso lavorato guidato dall’ingegno del disegnatore nella costruzione delle scene e dalla sua sensibilità rispetto alle vicende attoriali, era interessato a quella linea sottile tra realtà e finzione senza tuttavia perdere di vista anche la compresenza del ‘fattore umano’. Le attrici e gli attori, osservava, si portano addosso una sorta di aura, «una sorta di fosforescenza, che poi riesce a mantenersi anche nella vita, non solo sul palcoscenico» (p.15) e neppure solo sullo schermo. 

Fellini: attore, sceneggiatore e infine regista 

A questo punto si dirà che non sia del tutto chiaro che cosa c’entrino queste acute osservazioni con l’esercizio della professione di Fellini. Quello del regista è un mestiere che ha origine ben prima dell’uso della macchina da presa e della direzione di attrici e attori. Si radica e si sviluppa nelle pagine piene zeppe di note e appunti, in abbozzi di volti e scene, nei canovacci preliminari di qualche storia: soprattutto, nella fine osservazione delle attività umane. Fellini ne dava già prova con le sue esperienze da sceneggiatore e con le poche apparizioni come attore, rispetto alle quali si esprime nel libro con numerose osservazioni senza tralasciare di menzionare la sua naturale timidezza. 

Il Fellini regista. Le sfide al mestiere 

Come noto, spesso inaspettatamente, la ritrosia si rivela essere un’ottima risorsa proprio per affinare l’osservazione. Già, ma per fare cosa? Per esempio, per riuscire a ‘coltivare la propria immaginazione’ stando anche lontano dai riflettori. Il mestiere del regista trae origine anche da tali possibilità. Fellini, infatti, chiarisce a un certo punto: «nei miei film alcuni sono degli attori veri, dei professionisti, altri soltanto delle facce che mi seducono, che ho scelto perché rispondevano a quello che avevo immaginato» (p. 18). Nel libro aneddoti e riflessioni a proposito di attrici e attori sono numerose: da Anita Ekberg a Franco Fabrizi, da Totò e Donald Sutherland a Marcello Mastroianni e Anna Magnani. Ma a tornare sempre in primo piano sono due temi in particolare: le scelte del regista e la sfida tutta rivolta direttamente a quel suo mestiere. Infatti, se da una parte Fellini precisa il suo interesse a lavorare con attrici e attori in modo da «raccontarli al meglio, anche a loro insaputa qualche volta, o nonostante loro» (p. 32); dall’altra, egli ammette anche che «un attore può suggerirti continuamente delle soluzioni, magari anche in contraddizione con quello che avevi immaginato» (p. 37). Il mestiere, dunque, prende forma mentre lo si svolge.  

Il ruolo dello spettatore secondo Federico Fellini 

Lasciando affiorare nelle sue risposte reminiscenze ed esperienze lavorative, quello che Fellini traccia è innanzitutto il profilo dello spettatore, non subito quello dell’autore. «Pensavo, come pensa ancora molta gente, che facessero tutto gli attori, che fossero gli attori a fare il cinema» (p. 55). Lo stesso vale per quelle forme di spettacolo che sono il teatro e il circo: «tutto quello che vedevi era fatto da loro, dagli acrobati, dai clown, dai prestigiatori, dai giocolieri» (ibidem). Rispetto ai diversi ruoli professionali, imprescindibili affinché il cinema come arte possa esistere, Fellini si esprime pertanto attraverso quelle sue due prospettive mantenendo quale primo riferimento proprio lo spettacolo.  

Federico Fellini e la figura del produttore cinematografico 

La produzione del cinema richiede di tenerle in considerazione entrambe, ma il cuore delle sue riflessioni è esattamente lo spettacolo, o più precisamente la sua possibile riuscita in relazione a come può essere organizzato. Quello con i produttori è un rapporto basato sul conseguimento di armonie tra gusti diversi, sui limiti e le possibilità della effettiva organizzazione del lavoro, su proposte e controproposte. Dopo molte considerazioni, Fellini formula una sintesi della sua idea di quei momenti, non scevra di mitologia come sottolinea anche Cirio: il produttore è colui «che prepara anche la configurazione e il carattere del film, non soltanto l’aspetto economico-finanziario ma l’identità del film» (p. 78). Una questione organizzativa imprescindibile, Fellini ne era fermamente convinto. 

Il cinema: arte o tecnica? 

Di nuovo, così come appare chiaro nell’ultima conversazione raccolta nel libro, attraverso il discorso sull’organizzazione la questione di fondo torna a essere quella del mestiere del regista: dell’autore che per fare quelle sue opere, basate sulla combinazione di scrittura recitazione e riproduzione audiovisiva, non può trascurare il piano organizzativo che ne rende possibile la creazione. Ma l’aspetto interessante che emerge in questo terzo scambio è che il movente di quel mestiere è evidentemente artistico. Con sincerità, infatti, Fellini ammette che il lato tecnico del lavoro con la macchina da presa per lui «resta un mistero. È come il motore dell’automobile. So guidare, sono stato un guidatore precoce, ma non riesco a capire cosa succede lì dentro» (p. 83). 

Il ruolo degli imprevisti nel cinema di Federico Fellini 

Che il movente non sia tecnico ma artistico, per l’autore di Giulietta degli spiriti e di Fellini Satyricon significa anche avere bene in chiaro una questione essenzialmente umana che influenza costantemente anche i processi creativi: il ruolo degli imprevisti. Quando Cirio gli chiede quante volte un evento improvviso lo abbia costretto a cambiare i suoi piani, Fellini risponde: «mi sembra pericoloso, almeno per me, tentare di sezionare il film in tante ipotetiche forme» semmai, prosegue, quello che «è diventato indispensabile è un modo di preparare il film che non soffra di questa separazione» (p. 85). Se, infatti, per un verso, egli segnala che quella separazione causerebbe la perdita di un senso unitario dell’opera, dall’altro ammette che vi siano comunque punti di vista diversi che possono interferire con la sua creazione «ma solo perché la cosa che stai facendo è vitale, non perché è stata anatomizzata in questo modo» (ibidem).  

La regia è una questione di sensibilità artistica 

L’artisticità si fa poi tutt’uno con la sensibilità del regista Fellini che non smette mai di essere anche spettatore e fine osservatore. Così, quando Cirio gli chiede quale sia un momento irrinunciabile del suo lavoro, Fellini risponde: «è una specie – sono quasi impacciato a tradurlo sul piano verbale – di contatto che mi sembra di avvertire quasi con una sorta di solletico e di sentimento gioioso» (p. 85). È il momento in cui si palesa «la prima lontanissima e improbabile, ineffabile, sensazione di aver visto il film. Un sentimento che riguarda questa cosa che già esiste, perfettissima in tutti i suoi dettagli ma che in quel momento ti appare nella sua totalità e comincia a trasmettere la sua amicizia con te» (pp. 85-86). 
D’altra parte, qualsiasi dubbio sulla presenza del movente artistico è fugato dal fatto che, come ricorda Fellini, parallelamente a quella sua «vaga speranza» di diventare un giornalista egli coltivava anche altre ambizioni: «mi sarebbe piaciuto anche fare il direttore di un circo ma anche il pittore, insomma qualcosa che aveva più o meno vagamente a che fare con l’arte» (p. 82). 

La nuova edizione de Il mestiere del regista 

Quello pubblicato da Cue Press nella sua nuova edizione è un libro sicuramente prezioso che, grazie al fruttuoso scambio dialogico mantenuto da Cirio di pagina in pagina, invita a riflettere non solo sulla poetica di uno dei più grandi registi del Novecento ma anche sul suo modo di intendere quella pratica artistica che ha svolto per una vita mettendosi in più panni senza mai smettere di interrogarla. L’intervista conclusiva con il compositore Piovani aggiunge ulteriore valore al volume. 

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