Le 2 (3, 4…) Americhe di De Capitani
Laura Zangarini, «Corriere della Sera»
«Fino agli anni Settanta le contraddizioni della società americana non erano le nostre, dagli anni Ottanta e con la globalizzazione non possiamo che rispecchiarci in essa per decifrare questo nostro complesso presente». A parlare è Elio De Capitani, attore e regista che con Ferdinando Bruni guida la tribù dell’Elfo di Milano, sul cui palco porta in scena dall’8 gennaio, in prima nazionale, L’acrobata di Laura Forti.
Il testo ricostruisce la vita tragica e avventurosa di Josè Valenzuela Levi, nome di battaglia Comandante Ernesto, un cugino dell’autrice, che nel 1986 organizzò il fallito attentato contro Pinochet. Il dittatore cileno si vendicò con brutale ferocia: José, che in famiglia affettuosamente tutti chiamavano Pepo, fu assassinato (disarmato, gli spararono alle spalle) nel giugno 1987 da agenti della Seguridad.
Dice De Capitani: «Quando la storia pubblica si intreccia con quella privata, quando due attori spariscono dalla scena per lasciare il posto alla vita vera, a qualcosa di crudo e straziante, allora si realizza la felicità del regista. Quella che ti fa diventare uno spettatore qualunque, che si siede ed entra nel viaggio dei protagonisti con l’immediatezza delle emozioni e senza nulla più sapere della sua opera, che nasce come nuova davanti a lui. Questo è quello che ho provato vedendo L’acrobata per la prima volta tutto di fila alle prove. Ho visto nascere qualcosa che mi apparteneva profondamente eppure non mi apparteneva più».
Con questa nuova regia, De Capitani sposta sull’America del Sud quello sguardo critico che per circa un decennio ha tenuto puntato sugli Usa di metà Novecento. Uno sguardo critico analizzato anche in L’America di Elio De Capitani (Cue Press, 2016), minuzioso saggio in cui Laura Mariani ha indagato il lavoro di attore di De Capitani intorno a due grandi personificazioni del potere americano, il presidente Richard Nixon, messo alle strette dal conduttore televisivo David Frost sullo scandalo Watergate (Frost/Nixon di Peter Morgan, 2013); e Roy Cohn, il fanatico avvocato di destra, l’assistente del senatore McCarthy all’epoca della caccia alle streghe anticomunista, ricattatore e mestatore politico, morto di Aids a 59 anni nel 1986; uno dei primi mentori di Donald Trump negli anni Settanta, quando l’attuale presidente Usa non era che il rampollo un po’ sguaiato di un impero immobiliare (Angels in America di Tony Kushner, 2007; per il ruolo di Cohn, De Capitani è stato premiato con l’Ubu come Migliore attore non protagonista); oltre a un personaggio cardine della letteratura americana, il loser per definizione, il Willy Loman di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller.
Riflette De Capitani: «Cohn, Nixon e Loman disegnano il volto dell’America, un mondo che attrae con il suo ‘sogno’, tanto vitale quanto devastante, e per questo capace di produrre sofferenze e sconfitte durissime».
Sognare, fingere, immaginare. Aggiunge De Capitani: «L’uomo ha bisogno di simulare ma al tempo stesso rischia di rimanere schiavo della menzogna. Mentire diventa necessario come l’aria per respirare. Specchiarmi nella complessità della menzogna come riflesso in negativo dell’umano istinto di conservazione, mi sembra una necessità di questi tempi, anche se è da sempre la nostra malattia nazionale. Si mente agli altri e soprattutto a sé stessi, per allontanarsi dai propri fallimenti».
Angels in America, un testo che nel 1993 parlava di maccartismo, fanatismo religioso, preoccupazioni ecologiche, «è diventato improvvisamente e tragicamente concreto, comprensibile. Questo è stato il significato del riportare a teatro dieci anni fa un testo ambientato negli anni Ottanta e scritto nei Novanta». Nell’America di oggi – l’America di Trump che, ne è certo De Capitani, «Willy Loman avrebbe votato» – ci si torna a interrogare, come ai tempi dello scandalo Watergate, «sul superamento dei limiti morali del potere affrontati in Frost/Nixon, un testo scritto nel 2006 che ben rappresenta la nostra idea di teatro contemporaneo, un teatro capace di comunicare contenuti complessi e vicende importanti». L’11 settembre ha azzerato le distanze tra noi e l’America: «Il mondo si è bizzarramente ‘rimpicciolito’, mostrando con forza che tutto quello che riguarda gli Stati Uniti ci tocca da vicino. Oggi, con la crisi e il lento ma inesorabile smantellamento del welfare, l’american way of life, la più grande e dinamica delle religioni monoteistiche, si mostra per quel che è: un sogno avvelenato».