Jon Fosse: sussurri e grida di un Nobel
Katia Ippaso, « Il Venerdì di Repubblica»
Una piccola casa editrice di Imola pubblica saggi e drammi dell’autore norvegese appena premiato. Per scoprire il suo mondo segnato da filosofia, religione e musica rock
«Il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena».
È un’immagine rivelatoria del modo di sentire di Jon Fosse, premio Nobel per la Letteratura 2023. Un piccolo segreto, contenuto in uno scrigno che, sotto il titolo di Saggi gnostici (testo del 1999), raccoglie altri segreti, chiavi d’accesso al mondo interiore dello scrittore norvegese, fortemente segnato dalla religione (il puritanesimo dei quaccheri), dalla filosofia (Wittgenstein, Heidegger, Derrida) e dalla musica. «Io sono arrivato alla scrittura dal rock. Un tipo di transizione quasi impercettibile, dalla chitarra alla macchina da scrivere».
Curato da Franco Perrelli, Saggi gnostici è il primo volume che la Cue Press ha dedicato a Fosse. Era il 2018 e, come ci racconta oggi Mattia Visani, che di questa piccola casa editrice è il direttore: «Già allora Perrelli e io andavamo fantasticando sulla possibilità che questo scrittore immenso, minimale ed evocativo, potesse aspirare al più grande riconoscimento».
La notizia del Nobel a Jon Fosse, un autore che ha pervaso di misticismo (un misticismo alimentato dalla ‘via negativa’ di Meister Eckart) ogni sua creazione, dal romanzo alla poesia fino all’opera teatrale, ha prodotto una scossa salutare anche in Italia. «Il 5 ottobre, nel giro di un’ora, ho ricevuto 2.500 richieste. E stiamo parlando di un autore di cui riuscivo a vendere una o due copie all’anno».
Continua Visani, che in questi dieci anni di attività editoriale è andato ostinatamente a disseppellire opere di «perdenti, invisibili o dimenticati» spesso fuori catalogo, dai grandi maestri della regia russa (Stanislavskij, Mejerchord, Tairov) fino ai drammaturghi italiani che nessuno (ancora) conosce. Un’attività che ha portato alla Cue Press anche il premio 2023 dell’Associazione nazionale critici di teatro.
Fosse dice di aver cominciato a scrivere teatro perché aveva bisogno di soldi. Ma, nel tempo, questa forma di scrittura è diventata la sua più compiuta dimora, «la disciplina» più amata, perché più vicina «all’estasi rock», al «sussurro nella tenebra». Il suo primo dramma, E non ci separeremo mai, del 1992, apre il volume Teatro che la Cue Press ha pubblicato all’inizio del 2023. Mentre Quel buio luminoso (2006), il folgorante saggio critico di Leif Zern sulla drammaturgia di Jon Fosse (curato, come l’antologia teatrale, da Vanda Monaco Westerstahl), è uscito subito dopo il prestigioso riconoscimento rivolto a chi, con «la sua drammaturgia e la sua prosa innovative, ha dato voce all’indicibile». Nel 2019, Cue Press aveva anche pubblicato, con la cura di Perrelli, un altro testo teatrale, Caldo (2005), rappresentato in Italia da Alessandro Machia nel 2017. Quattro testi che offrono, nella loro interezza, la possibilità di indagare le strutture profonde del teatro di Jon Fosse, la cui vita sui palcoscenici italiani si lega essenzialmente ad alcuni nomi: oltre allo stesso Machia (che da anni conduce seminari d’approfondimento sull’anima e le forme dello scrittore norvegese), Valerio Binasco (dopo aver messo in scena Qualcuno arriverà, E la notte canta, Un giorno d’estate, Sonno e Sogno d’autunno, a marzo allestirà a Torino La ragazza sul divano, testo che era entrato anche nel repertorio di Thomas Ostermeier), Valter Malosti (ricordiamo la sua versione di Inverno), Gian Maria Cervo (ai Quartieri dell’arte di Viterbo ospitò nel 2003 la prima italiana di Variazioni di morte) e i più giovani Thea Dellavalle, Alessandro Greco e Vincenzo Manna (i registi del Trittico Fosse presentato al Teatro India di Roma nel 2015).
La lettura di tre opere scritte negli anni Novanta e raccolte nel volume Teatro — Non ci separeremo mai, Qualcuno verrà e Il nome – ci fa entrare nelle stanze in cui Fosse drammaturgo (raffinato conoscitore di Ibsen, Bernhard e Beckett) deposita le sue anime in pena, esponendole agli effetti mai perdonati delle loro stesse azioni. Una moglie apparecchia per l’uomo che oggi le sfugge perché attratto da una donna più giovane, che a sua volta non potrà evitare di avere paura nel momento in cui ‘vede’ ciò che non dovrebbe. Una coppia che si è appena trasferita in una casa fredda, lontana dal mondo, si sente minacciata dalla presenza di un altro uomo. Due ragazzi si presentano dai genitori di lei per annunciare che nascerà un bambino, ma non sarà il padre a dargli il nome. Sono le creature raminghe che abitano una scena dolorosa, dove memorie, presagi e presentimenti si fissano su parole e silenzi, trattati come fossero rocce, alberi, oggetti della casa. In una terra siderale, scolpita dal vento e dalle onde del mare, i personaggi entrano e escono dalle loro dimore atemporali senza chiedere permesso. Una materia esistenziale che ci pone in quella soglia che solo una scrittura affilata, concepita dall’autore norvegese come «un atto di preghiera», può varcare. Jon Fosse lo scrisse chiaramente anche in forma di poesia: «Si può dire per esempio/ che quello che separa noi vivi da noi morti/ è una cabina telefonica/ oppure un albero di prugne».