La cultura è impresa
Katarzyna Woźniak, «Performer 18/2019», Grotowski Institute
Intervista a Mattia Visani
Una volta, parlando con un’agente di teatro italiana, ho sentito da lei che non ha mai rimesso soldi sulle pubblicazioni di libri di teatro, ovvero che ci ha sempre guadagnato, cosa impossibile in Polonia. Si vendono o non si vendono i libri di teatro?
Perdere dei soldi in una attività culturale è più facile che guadagnarne. Almeno in Italia. Per quel che riguarda i libri di teatro. Cue ha un bilancio in equilibrio e una attività in netta crescita. Cerchiamo di essere realisti, in un paese molto fantasioso.
Cosa significa costruire un progetto in questo caso?
Significa avere consapevolezza del contesto attenzione ai dettagli, agire un passo alla volta. Aumentando le vendite, cresce proporzionalmente la possibilità di reinvestire in nuovi progetti. È una banalità a dirsi, ma non è un così scontato in un settore, quello della produzione culturale, dove non si fa altro che invocare l’intervento dello Stato. Lo stato dovrebbe semplicemente preparare il contesto, rendere il terreno fertile e produttivo, non finanziare azioni sconnesse che rispondono a logiche personali e, molto spesso, di basso profilo.
Sono debitore naturalmente a Franco Quadri: la Ubu è invecchiata e poi è scomparsa insieme a lui, ma storicamente è stata un vero punto di riferimento culturale, di rinnovamento culturale, non solo per il teatro ma anche per l’editoria. Bisogna conservarne la lezione e, con essa, considerarne i limiti. I libri non vengono promossi, distribuiti e venduti per una loro virtù immanente. Per creare un’impresa culturale, bisogna che ci siano una serie di cosa che stiano a loro posto.
Per prima cosa, una struttura aziendale credibile e che ti permetta di agire: l’editoria è impresa, la cultura è impresa. Una Associazione Cultuale, per statuto, non è uno strumento adatto a questo scopo. Un contesto poco chiaro non fa bene a nessuno.
Secondo un progetto di sviluppo credibile: non è credibile che una casa editrice pubblichi quattro libri all’anno, fossero pure i quattro libri dei grandi Grotowski e Kantor. Questi editori sono morti che camminano. Così muoiono anche i libri, la cultura. E il terreno diventa sterile per ogni attività d’impresa, di pro-mozione, di pro-gettualità. Ma questo aprirebbe il tema del rapporto tra pubblico e privato. Ed è un tasto è troppo dolente. Mi trovo anche nella circostanza di fare concorrenza a me stesso: con i soldi dei miei stessi contributi… Questo non significa che i grandi classici non abbiano un valore, Cue Press ne è la prova.
Terzo l’identità. Ovvero, la capacità di distinguere nei contenuti e nella forma la propria attività tra molte dello stesso genere. Per questo è necessario avere le giuste competenze: un ottimo progetto grafico, saper scegliere i materiali culturali, contestualizzarli in maniera adeguata, una buona dose di umiltà. Poi si comincia a lavorare…
Dei casi clamorosi delle catastrofi di editoria teatrale negli ultimi anni ti vengono in mente?
È un terreno di macerie. Non posso produrmi in una analisi dettagliata. Te lo dico quando stacchi il microfono.
Quindi, tu ti riferisci al fatto che ci vuole una cultura imprenditoriale, ed è un po’ l’argomento di cui abbiamo parlato in un’altra occasione, non soltanto di pubblicare libri perché hanno un valore intrinseco.
Sì e no. Certamente hanno un valore intrinseco ma bisogna saperli inserire in un contesto adeguato. Cosa succederebbe se pubblicassero Ken Follett in una collana di caccia e pesca? Aumenteresti il prestigio della collana o uccideresti Ken Follett o, peggio, l’una e l’altro? Il concetto di collana editoriale, oggi, è debole, una volta oltrepassata la frontiera del web. È inadatto ad affrontare la molteplicità e ‘il caos’ della rete. Sono necessari grandi contenuti e forte identità, che è un principio di relazione non di unicità. Altrimenti non esisti. Questo significa anche organizzare adeguatamente i contenuti. Il valore intrinseco esiste, però bisogna anche sapere che un libro che ha un grandissimo valore culturale potrebbe avere anche unico lettore. Possiamo dire grotowskianamente, che basta un libro e un lettore. Però è importante ci si sappia rivolgere precisamente e consapevolmente a quell’unico a quell’unico lettore (spettatore) che il libro (spettacolo) potrà intercettare. Allora opera continuerà ad avere valore e vita. Se tu inserisci un’opera, in un contesto che produce un progetto all’anno, allora, anche l’opera più grande, non avrà nessun valore in termini di relazione, visibilità, non aiuterà altre opere ad emergere. Sarà soltanto un libro buttato su un scafale di una biblioteca o in fondo di un magazzino o senza nessun criterio e consapevolezza nel magma del web dove resta alcuna traccia. Un click all’anno sarà il suo destino. È questo che penso quando dico che i libri, ormai, nel mondo del digitale, non sono oggetti, sono progetti. Il digitale non può miracolosamente resuscitare un libro. Può offrire un campo dove creare nuove relazioni. Al centro ci sono sempre i contenuti e la loro organizzazione. Mi dispiace, questo potrà fare male a qualcuno, ma non è vero che i libri di teatro non si vendono. Non lo posso dire. Non posso dire che se ne vendano tanti. Ma se Cue Press continuerà a crescere al ritmo attuale, tra poco raggiungemmo i numeri considerevoli.
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