Home
Logbook
E pensare che odiavo il teatro
26 Novembre 2023

E pensare che odiavo il teatro

Jon Fosse, «Robinson – la Repubblica», 26 novembre 2023 (traduzione di Franco Perrelli)

Non voleva essere un drammaturgo, ma uno scrittore prima di tutto: confessioni di un autore che, grazie alle sue pièce, ha vinto il Nobel

Io sono un drammaturgo, ma, a dire il vero, non ho mai voluto esserlo. Anzi, non amavo il teatro e, in diverse occasioni, per esempio in interviste, affermavo di fatto di detestare il teatro, quantomeno quello norvegese. Ciò forse perché i direttori dei teatri norvegesi mi chiedevano di scrivere per la scena, cosa che per anni mi sono rifiutato di fare. Ero e sono, prima di tutto, uno scrittore. Ho pubblicato una trentina di volumi, romanzi soprattutto, ma anche raccolte di poesia e saggi, e libri per bambini. Infatti, per tutta la mia vita adulta, ho lavorato come libero scrittore. Ma, come può capitare a uno che non ha introiti fìssi, ero proprio a corto di denaro e quando mi fu richiesto, una volta ancora, di scrivere un dramma, e di denaro avevo maledettamente bisogno, acconsentii. Così, per la prima volta, mi sono impegnato a tentare di scrivere un dramma; prima di farlo, decisi di scrivere un dramma con pochi personaggi, in un luogo determinato, in un lasso di tempo unitario, e che quel genere d’intreccio che mi accingevo a scrivere doveva essere così intenso che coloro che vi avrebbero assistito per un’ora o giù di lì ne avrebbero tratto un’esperienza intensa che in qualche modo avrebbe cambiato la loro concezione della vita.

Non dirò altro su queste aspirazioni, ma certo le limitazioni che avevo imposto alla mia scrittura in effetti mi si confacevano. Di natura, sono sempre stato una sorta di minimalista e, per me, il teatro è di per sé una sorta di forma d’arte minimalista, con molte strutture costitutive minimaliste: uno spazio limitato, un lasso di tempo limitato e via dicendo. Con mia grande sorpresa, quando la prima volta mi sono impegnato a stendere un dramma, ho scoperto che mi piaceva molto scrivere le didascalie o il dialogo che poteva significare quanto o anche più di quello che viene detto, forse persino l’opposto di quello che viene detto, senza essere ironico. E dopo avere scritto il mio primo dramma, mi sentivo sicuro di avere scritto un buon testo, sebbene fossi assai incerto se potesse funzionare sulla scena. La gente di teatro lo credeva e, grazie a Dio, sta di fatto che il mio modo di scrivere drammaturgia sulla scena ha funzionato. Qualche volta, ne ho la certezza, lavoro così bene che la qualità della mia scrittura tende quasi a raddoppiare. Altre volte, naturalmente, non funziona, ma, in ogni caso, ho imparato che è possibile che i miei drammi funzionino comunque bene sulla scena.

Vedere, per la prima volta, un mio dramma in scena fu un’esperienza incredibile; era pressoché magico vedere che le mie parole assumevano quasi delle ali umane, vedere altre persone partecipare alla mia arte, e io alla loro. Era così profondamente soddisfacente per me come essere umano; mi rendeva meno pauroso e nevrotico e, in qualche modo, più sociale. Come si comprenderà, io non odio più il teatro.

Ora cercherò di esprimere che cosa m’affascini soprattutto nello scrivere per il teatro. Mi è stato riferito che in Ungheria, quando in teatro una serata è andata bene, ripetono che un angelo ha attraversato la scena, una, due, parecchie volte. E per me, quel momento è l’essenza del teatro: il teatro è il momento in cui un angelo attraversa la scena. Che accade in quei momenti? Naturalmente non lo so, nessuno lo sa, perché o accade o non accade; una sera accade in un momento della rappresentazione, la sera successiva in un altro. Per me, questi momenti chiari e intensi, nonostante siano inspiegabili, sono momenti di comprensione; sono momenti nei quali le persone che sono presenti, gli attori, gli spettatori, fanno insieme esperienza di qualcosa che consente loro di comprendere quel che non hanno mai compreso prima, quantomeno non come lo comprendono adesso. Ma tale comprensione non è principalmente intellettuale; è una specie di comprensione emozionale che, come ho già detto, è principalmente inspiegabile, almeno sul piano intellettuale. Probabilmente non la si può spiegare, la si può giusto mostrare, è una comprensione attraverso le emozioni. Quando scrivo per il teatro cerco di scrivere drammi in modo tale che possano creare questi intensi chiari momenti, spesso momenti di pena estrema- mente profonda, ma anche spesso momenti che nella loro goffa umanità scatenano la risata. Io penso che se ho scritto un buon dramma, chi vi assiste, o almeno una parte del pubblico, dovrebbe sia ridere che piangere; per cui, nella mia opinione, i miei drammi sono tipiche tragicommedie. E se, ai miei occhi, è come se scrivessi drammi molto ‘stretti’, molto chiusi, nella storia, nell’atmosfera, nel provincialismo, paradossalmente, scrivo pure drammi molto aperti, drammi così essenziali che riescono a creare momenti nei quali le dinamiche drammaturgiche chiuse si sciolgono in lacrime, in risate.

Quando scrivo un dramma, io riduco e concentro e questa concentrazione riduttiva rende possibile l’improvvisa esplosione di una sorta d’intensa implicita sapienza, ch’è insieme triste e divertente. Per me, il dramma genuino sta lì, non nell’azione come tale, il dramma sta nell’enorme tensione e intensità fra persone che sono molto distanti fra loro e, allo stesso tempo, profondamente integrate, non solo socialmente, ma anche nella loro comune comprensione. Questi momenti, questa incredibile presenza sono connessi, a un livello davvero minimo, se non per niente, ai temi centrali dell’epoca, quelli di cui si parla nei media. Il buon teatro può riguardare qualsiasi cosa; ciò che conta non è cosa riguardi, ma come; è una questione di sensibilità, musicalità e pensiero, non una discussione di problemi attuali. E io credo che sia questa una delle ragioni per le quali i classici hanno una così forte posizione in teatro; una posizione molto più forte, per esempio, di quella che i classici hanno nel campo del romanzo. Ma allora perché scrivere per il teatro? Forse perché ogni epoca produce un nuovo genere o una nuova prevalente variante della sensibilità, un nuovo genere di musicalità e di pensiero. Un dramma contemporaneo, un buon dramma, deve in qualche modo rivelare una sensibilità, una musicalità, un pensiero mai visti prima; deve mettere al mondo qualcosa che in una singolare modalità era già lì, ma che non si era visto; un buon drammaturgo deve avere, in altri termini, come si suol dire, una propria voce.

L’arte, compresi il teatro e la scrittura drammaturgica (se è arte e non semplicemente intrattenimento o pedagogia o dibattito politico), deve pertanto esprimere quel che deve esprimere principalmente attraverso la sua forma; e intendo forma in senso assai lato, trattandosi più di un’attitudine che di un concetto. Quel che per gli altri è contenuto è forma per l’artista, diceva Nietzsche. Nell’affermare questo, parlo quasi come se fossi il teorico che non sono. Io sono un uomo pratico, uno scrittore pratico. E questo è un altro motivo per il quale mi piace tanto scrivere per il teatro. Il teatro è assai concreto, non puoi barare da drammaturgo, devi offrire una materia valida, non ti puoi nascondere dietro questa o quella astrazione di natura politica, ideologica, ecc. E come ha scritto, una volta, un uomo della massima astrazione, Friedrich Hegel, «Die Wahrheit ist immer Konkret» [«La verità è sempre concreta»]. In altri termini, il teatro è la più umana e, per me, la più intensa di tutte le forme artistiche.

Jon Fosse, 
Saggi gnostici

Carta : 22,99

Jon Fosse, 
Teatro

Carta : 22,99

Jon Fosse, 
Caldo

Carta : 16,99

 
 
Jon Fosse, 
Saggi gnostici