Il meglio e il peggio del cinema anni Settanta racconta l’Italia
Giovanni Scipioni, «Il Domani»
C’è un fil rouge che unisce i film prodotti in quell’epoca contraddittoria e violenta, in cui nelle sale si trovavano i capolavori di Fellini accanto ai melensi antenati delle telenovelas: rappresentavano davvero il paese reale.
Quando Fellini raccontava con successo la sua infanzia in Amarcord, al cinema si faceva la fila per vedere i giochi erotici di Emmanuelle. Nello stesso periodo Gian Maria Volonté svelava agli spettatori come intraprendere L’indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto mentre l’avventuriero Franco Nero, Cipolla Colt, incastrava i cattivi colpevoli senza versare una lacrima. L’alto e il basso. Il meglio e il peggio del cinema italiano degli anni Settanta.
Tanta diversità ma un comune pensiero audace: trasgressione, libertà, fancazzismo e lotte politiche. Oggi c’è il timore ma anche la speranza di rivivere quegli anni, di passeggiare nello stesso giardino occulto. Dalla politica alla cultura, all’economia, all’educazione. Da quando si usavano i gettoni per telefonare a quando è sufficiente roteare un dito per avere un teatro di comunicazioni.
Paragoni come sempre inadeguati anche perché appare contraddittoria e complessa ancora oggi un’analisi compiuta degli anni Settanta. Favolosi per alcuni, cupi per altri, formativi per alcuni, deleteri per altri. Un perfetto binario emozionale, quasi una sorta di schizofrenia sociale e individuale che il cinema ha saputo raccontare.
Epoca confusa
L’anno inizia con un ritiro, quello dei Beatles. Let it be. E così sarà per tutto il decennio. Terrorismo, bombe e stragi fasciste, brigate rosse, rapimento Moro, scandali politici, radio e TV libere che in poco tempo vengono bullizzate. Sono gli anni in cui Fabrizio De André sostiene di essere di «un’altra razza, son bombarolo». Lucio Battisti ha «un sottile dispiacere nel seguir con gli occhi un airone», mentre Franco Battiato spera che ritorni presto l’era del cinghiale bianco.
In questo quadro confuso e contraddittorio dove, dipinto dalla canzone popolare, cuore e mente fanno allegramente baruffa, il cinema italiano, già arricchito dai successi degli anni Sessanta, continua ad avere un grande seguito di pubblico. Continua a essere il maggiore divertimento degli italiani e la sala buia resta uno dei luoghi più felici per conoscere storie e persone.
Si andava a vedere Amici miei e C’eravamo tanto amati, ma anche La liceale e La moglie vergine staccavano tanti biglietti, per la gioia di produttori, in alcuni casi improvvisati. Tutti successi. Un pubblico in gran parte binario, chi sceglieva Amarcord non cedeva alle lusinghe di Emmanuelle, anche se non mancavano le dovute eccezioni.
Facile dire che il paese (almeno al cinema) era diviso in due. Per dirla con le parole di Renato Palazzi, gli italiani e quei film (Il peggio degli anni Settanta in 120 film, edizioni Cue Press) erano esotici, erotici e psicotici. Palazzi demolisce con efficacia e competenza il cinema trash, quello del buco della serratura, che risulta «un po’ peccaminoso e un po’ parrocchiale».
I film melensi
Accanto all’erotismo da meriggio bianco, prende il sopravvento il filone dei buoni sentimenti. In realtà si tratta di fuorvianti romanticherie, veri e propri sdilinquimenti da pianura paludosa. I veri sentimenti non sono di casa. Come nel caso del melenso Il venditore di palloncini che ha aperto non una porta ma un portone gigantesco per tutte le telenovelas che seguiranno. La scena del padre che piange sul letto del figlio malato è così falsa e male interpretata che sembra una parodia. La sceneggiatura poi un prodigio della natura. «Figlio mio… figlio mio» (e giù lacrime finte) dice il padre abbracciandolo. Il medico interviene, manda via i suoi assistenti e si rivolge al bambino: «Ricordi che cosa mi hai promesso?» Risposta immediata: «Sì, che faccio il bravo». Interviene la suora: «E che ubbidisci a suor Maria». Immediato il colpo di scena. Il bambino si rivolge al padre e indica la suora: «È lei suor Maria».
Uno scorcio di sceneggiatura che sembra uscito involontariamente dalla comicità della TV delle ragazze o in quella lunatica di Valerio Lundini.
Eppure in questo film c’erano attori bravi e importanti come Adolfo Celi, Silvano Tranquilli, Lina Volonghi, Marina Malfatti. Fuori dal cinema si sparava e si contestava, dentro ci si commuoveva con un bambino che muore e va in paradiso salendo come un palloncino. Il basso.
Realismo felliniano
Il realismo magico di Fellini è un perfetto contrappeso, l’altro binario sociale. C’è l’atto nobile di raccontare una storia, tante storie. In Amarcord s’immagina la vita che si svolge nell’anti borgo di Rimini negli anni Trenta. C’è l’anarchico padre operaio sempre in lite affettuosa con la moglie Pupella Maggio, lo zio Lazzo, fascista all’acqua di rose che vive alle spalle dei parenti, e lo zio Ciccio Ingrassia, ricoverato in manicomio, che si arrampica su un albero e comincia a gridare di volere una donna. Ne ha diritto, del resto.
Nella scena del pranzo di famiglia, indicativa della società degli anni Trenta ma anche del decennio Settanta, suonano alla porta mentre tutti sono intorno a un tavolo per mangiare. Il padre: «Chi è a quest’ora?». La moglie stizzosa: «Che ne so io». Tina, che aiuta in casa, va ad aprire, poi rientra e senza farsi sentire dai commensali avverte il padre di una visita. Il padre si alza e va fuori stanza.
Nel frattempo tutti mangiano, ridono e si divertono – oggi diremmo cazzeggiano – visto che il padre, curatore dell’ordine parentale, si è momentaneamente assentato. Poco dopo rientra fischiettando. Si mette a sedere e beve, con apparente tranquillità, un bicchiere di vino. «Buono questo sangiovese», dice. Poi con falsa calma si rivolge al figlio. Si apre un teatrino padre-figlio che fa dire, ricordando Emily Dickinson, come molta follia sia divina saggezza.
«Di’ un po’, dove sei stato ieri sera?».
«Io? Al cinema babbo, al Fulgor».
«Cosa facevano?».
«C’erano gli indiani e gli americani volevano entrare nel territorio dei comanche ma gli indiani tiravano le frecce…».
Improvvisamente il padre si alza per picchiare il figlio, che fugge fuori casa. L’aveva combinata grossa. Poi si rivolge alla moglie: «Mi devi dire di chi è figlio questo pezzo di merda. Domani viene a lavorare con me». Il film si svolge negli anni Trenta ma racconta una società patriarcale, la stessa degli anni Settanta, messa a dura prova da durissime contestazioni. L’alto.
Raccontare il paese
Il successo e il seguito dei film brutti si spiega anche con il tentativo di raccontare la vita reale degli abitanti degli anni Settanta. Toccano corde e sentimenti comuni. Dopo l’avvento dei Beatles c’era stato in tutto il mondo, e anche in Italia, l’esplosione della musica. Con il desiderio di farla, di partecipare attivamente. Nascono numerosi complessi (allora si chiamavano così) e quasi tutti i giovani protestano, partecipano ai collettivi, entrano nella lotta armata e suonano chitarre e batterie. Si vuole diventare cantanti.
Il film Lady Barbara, che vede come protagonista un cantante famoso di quegli anni, Renato dei Profeti, racconta di un attore di fotoromanzi che vuole diventare un cantante di successo e ci riuscirà con l’aiuto di una ragazza inglese, Barbara appunto. Anche nel cinema basso s’indica la strada da seguire o semplicemente si riflette una situazione già esistente. Ecco il punto d’incontro tra cinema basso e quello alto. Raccontano il paese. Ognuno a modo suo.
Un po’ come la supercazzola di Tognazzi in Amici Miei: «Blinda la supercazzola prematura con doppio scappellamento a destra». Una divertente invenzione linguistica per prendere in giro quelli che parlavano male, dai ragionamenti volutamente contorti e ingarbugliati. Un esercito in quegli anni. C’è anche il tentativo di migliorarsi, come fa Gigi Proietti durante una pubblicità televisiva in Febbre da cavallo: «Non prendete fischi per fiaschi solo questo è un fischio maschio senza raschio… un vischio maschio senza rischio… fischio raschio senza maschio [ecc.]».
Parole tortuose per raccontare un decennio cupo, favoloso, contraddittorio e confuso. L’inaudito. C’è somiglianza.