Artaud o la rivoluzione dell’altrove
Giorgia Bongiorno, «Antinomie»
Nel ricco apparato della prima edizione del Teatro e il suo doppio nelle Œuvres Complètes di Antonin Artaud (Gallimard 1978), Paule Thévenin inserisce una nota sul teatro balinese completamente inedita e dalla storia abbastanza singolare. Scritta anch’essa sulla scia dello spettacolo di danza balinese dell’Exposition Coloniale parigina nell’estate 1931 – in vista della famosa recensione di qualche mese dopo sulla NRF che diventò la scintilla di uno dei libri di teatro più importanti del Novecento – la brevissima nota era stata ritrovata per caso negli anni Cinquanta da Serge Berna, un poeta lettrista conosciuto per le sue provocazioni pubbliche à la manière surrealista e curatore di un’edizione di Vie et mort de Satan le feu per la collana Voyants delle edizioni Arcanes (1953). Nella prefazione Berna racconta le circostanze della scoperta. Il poeta stava aiutando un amico rigattiere a svuotare una soffitta in rue Visconti, a Parigi; l’amico, «forte bevitore», scende a farsi un bicchiere, lasciando il poeta a rovistare fra le pile di carte, dove questi scoprirà una serie di fogli dalla scrittura «irregolare, febbrile» su cui si staglia la firma di Antonin Artaud: accanto alle tre pagine di Vie et mort de Satan le feu (il testo centrale dell’edizione Arcanes), molti brogliacci, appunti sparsi su religioni e cosmogonie orientali e messicane, fogli preparatori per il viaggio messicano ma anche testi scritti direttamente in Messico e tante altre pagine che Berna scelse allora di non pubblicare, fra cui la nota che uscì appunto più di vent’anni dopo. Thévenin confermerà all’epoca la veridicità della grafia e nell’apparato critico avanzerà l’ipotesi che quelle carte fossero state lasciate da Artaud a casa di Cécile Schramme al momento della rottura fra i due, alcuni mesi prima di salpare per l’Irlanda nell’agosto 1937.
Ancora una volta l’opera artaudiana sembra catturata in un perturbante cerchio magico di luoghi segreti e tempi sfasati, come successe anche per la vicenda dei bauli pieni dei quaderni di Rodez e di Ivry che la stessa Paule Thévenin fece sparire a qualche ora dalla morte di Artaud, il 4 marzo 1948, e che saranno integrati in toto nelle Opere complete di cui sopra. Un gesto potente e rischioso all’origine di un’accidentata faccenda di eredità, che se dal punto di vista editoriale si è conclusa nel 2004 con l’edizione del Quarto Gallimard a cura di Evelyne Grossman (cui seguirà l’edizione in fac-simile proprio dei Cahiers), forse resterà, al di là della prospettiva scientifica di una restituzione genetica del manoscritto, aperta per sempre. Il lettore di Artaud, certo suo semblable e frère ma con il compito di ricevere le «emanazioni mortali» del libro, come già Lautréamont pretende alle soglie dei Canti di Maldoror, ha a che fare con un’opera impossibile (che nasce ribadendo la propria impossibilità, se pensiamo al dialogo con Jacques Rivière), con un corpus di scritti esorbitante, con una scrittura che buca la pelle del senso, che questo avvenga nel «nuovo genere» del carteggio con Rivière (così lo definirà una figura centrale della NRF di quel periodo, un certo André Gide) o nelle pagine concretamente bruciate e perforate degli ultimi anni che creano una nuova scena della Crudeltà.
A qualche giorno dalla partenza dell’agosto 1937 Artaud si rivolge alla Légation d’Irlande di Parigi, da cui spera un aiuto finanziario, affermando di voler ritrovare in Irlanda le fonti vive di un’antichissima tradizione già cercata in Messico e ora perseguita nella sua «forma occidentale». Il 19 luglio 1935 aveva scritto a Jean Paulhan: «non mi pare sbagliato per noialtri, qui, che qualcuno vada a ‘sondare’ ciò che può essere rimasto in Messico d’un naturalismo in piena magia […] sparsa qua e là nella statuaria dei templi […] nel sottosuolo della terra e nelle vie ancora mobili dell’aria». Nella nota sul teatro balinese ritrovata da Berna e datata verosimilmente luglio-agosto 1931, Bali è definita come «l’unico paese al mondo in cui un principio filosofico ha trovato la propria corrispondenza materiale e un’esistenza sostanziale e plastica». Nella finzione dell’anarchico suolo siriano di Eliogabalo (1934) i cui «templi sono risonatori di meraviglie reali, di magia esteriorizzata» o nei paesaggi concreti dei viaggi e delle scoperte, la magia è da intendere rigorosamente come azione produttrice di realtà. «Non si può continuare a prostituire l’idea di teatro, che vale soltanto attraverso un legame magico, atroce, con la realtà e con il pericolo», scrive Artaud nel primo manifesto del Teatro della crudeltà. Ben al di là della sua accezione e ricezione esoteriche, la magia assume una funzione di trasmutazione, si potrebbe dire di traduzione, della metafisica verso la scena o viceversa («l’idea di una metafisica tratta da un uso nuovo del gesto e della voce» come si legge proprio in Sur le théâtre balinais). Il punto essenziale è quindi sempre quello di una ricerca sincretica delle basi vitali di una cultura occidentale priva di «piena magia».
Nel dettaglio della rue Visconti, vero e proprio hasard objectif, ritroviamo la reversibilità di Occidente e Oriente capace di riattivare qui, per «noi gente d’Occidente» e per le «nostre menti contaminate di Europei», la forza del teatro. Il foglio della nota balinese è infatti barrato con un tratto verticale, sul retro si riconosce la penultima pagina di Le Mexique et la civilisation (scritto a Parigi in previsione delle conferenze messicane) dove ritorna la necessità di riattivare un atto che collega e rivivifica quanto il gesto balinese: «Se la magia è una costante comunicazione dall’interno all’esterno, dall’atto al pensiero, dalla cosa alla parola, dalla materia allo spirito, si può dire che abbiamo perso da tempo questa forma di ispirazione folgorante, di nervosa illuminazione, e che abbiamo bisogno di ritemprarci in fonti ancora vive e non alterate».
Due libri artaudiani, ripubblicati recentemente, sembrano disporsi come il foglio bifronte della rue Visconti e ci permettono di ripercorrere attraverso l’incrocio Messico/Bali il fertile nodo con cui Artaud tiene insieme la cultura occidentale e un suo altrove, incarnatosi di volta in volta in figurazioni o trasfigurazioni geografiche diverse: in una Bali ricostruita nella Parigi degli anni Trenta, tra un’etnologia sempre più cosciente e un colonialismo morente e mai morto; e nella Sierra Tarahumara messicana, traguardo del viaggio oltreoceano di Artaud a metà strada fra la spedizione etnografica e il pellegrinaggio, reiterazione della pagina simbolica di Eliogabalo e preludio all’ultima immersione nei segni che dall’Irlanda lo portò al manicomio di Rodez.
Il libro di Nicola Savarese, Parigi-Artaud-Bali (riedizione del saggio omonimo pubblicato da Textus nel 1997) fissa «nelle fosforose ceneri dell’inchiostro» le tracce della conferenza-spettacolo ideata e portata in giro negli anni Novanta in cui lo studioso affrontava in modo originale l’evento chiave che cristallizza l’idea artaudiana di teatro sullo sfondo dell’Exposition Coloniale parigina del 1931. Il libro di Marcello Gallucci (edizione ampliata di quello pubblicato da Monteleone nel 1994) dà la parola direttamente ad Artaud, presentando la traduzione delle conferenze, degli articoli e di molte lettere dell’esperienza messicana, ma funziona come un prezioso vademecum critico che, oltre a realizzare una ricostruzione filologica di un materiale complesso, propone un’analisi approfondita e una contestualizzazione indispensabile dei testi legati al Messico (fatta eccezione delle pagine già pubblicate sui Tarahumara) che vanno dal febbraio all’ottobre 1936.
Nel luglio 1931 Artaud assiste quindi a uno spettacolo di danza balinese nel padiglione delle Indie Olandesi dell’Exposition Coloniale inaugurata nel maggio dello stesso anno a Parigi. Una sua recensione uscirà ai primi di ottobre nella NRF e sfocerà nel testo composito, molto più lungo, che costituirà il nucleo primigenio del Teatro e il suo doppio. La recensione contiene già il punto cruciale del rivoluzionario programma artaudiano: far esplodere i vincoli della psicologia occidentale che porta sulla scena un rito ormai vuoto e riagganciare lo spazio teatrale alla forza sacra che innerva il gesto dell’attore, ritrovandone la motilità metafisica. Non può passare inosservata la dimensione occasionale da cui nasce questo testo chiave di Artaud; molte pagine del Teatro e il suo doppio provengono da conferenze, si nutrono di lettere, di incontri e di scontri. Anche il suo libro forse più intenso, Van Gogh le suicidé de la société (in cui la forza ecfrastica, già elettrica nei testi surrealisti su Masson o De Boschère, tocca vette altissime), è buttato giù freneticamente dopo la visita della mostra del 1947 all’Orangerie. Da una parte l’occasione funziona da reagente, l’illuminazione (Savarese parla giustamente di «satori» per l’Artaud spettatore del Djanger balinese) dà corpo alle utopie ancora inespresse di un teatro o di una pittura totalmente nuovi, un po’ come Picasso scova in una maschera di art nègre le infinite possibilità che svilupperà nel cubismo. Dall’altra la visione scatenante porta l’urgenza di un contrasto: il Van Gogh si ribella violentemente contro la «pittura lineare», ma anche e soprattutto contro la psichiatrizzazione del pittore. E l’Artaud degli anni Trenta si scaglia contro il «teatro digestivo» occidentale e parigino che conosceva bene per aver preso parte alla sua «vita intima» e aver assistito (come dirà al pubblico dell’Alliance Française di Città del Messico nel 1936 in una conferenza-testimonianza tradotta e commentata da Gallucci) «a tutti gli spettacoli che, dal 1920 al 1936, segnarono Parigi con la loro impronta». Alla scena di un teatro psicologico e di parola, Artaud (convinto «della quasi inutilità della parola che non è più il veicolo ma il punto di sutura del pensiero») contrappone un’idea di teatro «puro» e «metafisico» che gli si rivela nel gesto dei danzatori balinesi: «Quel roteare meccanico degli occhi, quelle smorfie delle labbra, quel dosaggio di contrazioni muscolari dagli effetti metodicamente calcolati e che tolgono ogni ricorso all’improvvisazione spontanea, quelle teste spinte da un movimento orizzontale e che sembrano ruotare da una spalla all’altra come incastrate su un binario scorrevole, tutto questo, che risponde a necessità psicologiche immediate, risponde inoltre a una specie di architettura spirituale, fatta di gesti e di mimiche, ma anche del potere evocatore di un ritmo, della qualità musicale di un movimento fisico, dell’accordo parallelo e magnificamente sfumato di un tono. […] Il nostro teatro che non ha mai avuto l’idea di questa metafisica dei gesti, che non ha mai saputo far servire la musica a fini drammatici così immediati, così concreti, il nostro teatro esclusivamente verbale e che ignora tutto quel che fa il teatro, ovvero quello che c’è nell’aria del palcoscenico, che si misura e si circoscrive d’aria, che ha una densità nello spazio…»
La prospettiva di Sur le théâtre balinais ricorda ancora gli insegnamenti di Charles Dullin, per la cui compagnia il nostro aveva lavorato come attore e scenografo fin dai primi anni parigini («I Giapponesi sono i nostri maestri diretti, e i nostri ispiratori, e per di più con Edgar A. Poe. È meraviglioso», scrive Artaud della scuola dell’Atelier a Max Jacob nel 1921). Il direttore e fondatore del Théâtre de l’Atelier guarda infatti ai teatri asiatici per la gestualità assolutamente inedita: «L’attore giapponese parte dal realismo più meticoloso e arriva alla sintesi per mezzo di un bisogno di verità. Per noi, la parola ‘stilizzazione’ evoca subito una specie di estetismo irrigidito, di ritmica scialba e docile; per loro, la stilizzazione è diretta, eloquente, più espressiva della stessa realtà. Ogni gesto è ravvivato da un tratto acuto che lo valorizza appieno. […] Il corpo dell’attore giapponese non è soltanto duttile come quello del più abile dei danzatori, ma sembra plasmato dal teatro e per il teatro».
Ma per Artaud l’Oriente non è (solo) un mito esotico verso cui tendere né un altrove di fronte al quale assumere quella postura etnografica fondamentale che cominciava a diffondersi in quegli anni – e che Savarese, attento studioso delle relazioni complesse Oriente-Occidente, condensa in una serie di figure-chiave del tempo: dal Leiris dell’Afrique fantôme che si allontana sempre più dal pittoresco sguardo occidentale (e il diario della famosa missione Dakar-Djibouti che gli farà percorrere l’Africa nera per due anni in compagnia di Marcel Griaule modellerà del resto una parola profondamente diversa, etnologica e letteraria insieme) e che è già agli antipodi della «strana città sorta nel bosco di Vincennes»; a Roselène Dousset, figlia del missionario etnografo Lenhardt e nata in Nuova Caledonia, che è spinta verso l’antropologia proprio dall’esperienza traumatica dell’esposizione parigina dell’altro (di «elementi coloniali in carne ed ossa», leggiamo in un numero della rivista Comoedia del marzo 1931) subita dai Canachi di cui condivideva la cultura; e in genere ai surrealisti tutti la cui presa di coscienza etnografica è all’origine dei volantini che, ancora a braccetto con il partito comunista, denunciano vigorosamente il colonialista luna-park di cartapesta che offre alla massa parigina un facile esotismo domenicale alle porte della città. Una folla eterogenea (che accomuna visitatori disillusi come Francis Scott Fitzgerald o Paul Morand, nostalgici di un esotismo ormai perduto, e piccolo borghesi parigini a caccia di insolito) si ritrova in questo luogo art déco costruito per l’occasione, che a tutt’oggi rincorre una sua faticosa redenzione, per celebrare non più quella «moveable feast» vissuta da Hemingway nella Ville Lumière degli Anni Venti (pur se la vita parigina continua a pullulare delle tante presenze evocate dai documenti di ogni genere riuniti da Savarese: da Cocteau a Josephine Baker, da Anaïs Nin a Prévert, da Beauvoir a Copeau…), bensì una «festa coloniale» dalla multiculturalità fintamente irenica di cui del resto l’incendio del Padiglione delle Indie Olandesi sopraggiunto quell’estate metterà a nudo la natura fittizia. «Così si completa l’opera colonizzatrice iniziata con il massacro, continuata con le conversioni, il lavoro forzato e le malattie», tuonano i surrealisti.
Artaud non è già più sulla stessa lunghezza d’onda di Breton e compagni, pur condividendo tutti i presupposti di quello che fu indicato come un surrealismo etnografico. Per lui l’Oriente non costituisce né un orientamento né un orizzonte in grado di precorrere ideali da realizzare, come avvenne per un Craig o un Mejerchol’d; gli serve piuttosto da reagente, funziona come una miccia per spalancare universi inusuali e nuove forme visionarie. Senza giungere al rovesciamento paradossale che si gioca a Rodez attorno a Lewis Carroll, è sempre e comunque l’unicità di Artaud che viene attivata dal confronto, e così avviene con Bali. Come disse Soupault «Artaud vide quel che gli era necessario vedere». E Savarese insiste sulla natura eccentrica di quello sguardo da nuovo veggente rimbaudiano: che ha una visione teatrale di fronte a uno spettacolo di danza, e non può essere ricondotto soltanto a una prospettiva etnologica di comprensione.
La questione segna forse lo snodo principale rispetto al libro di Gallucci, di cui una delle intenzioni centrali è proprio quella di riportare alla luce il substrato reale dei documenti per conferire uno spessore antropologico all’esperienza mitologica messicana. Ma in fondo gli autori, entrambi fini rilettori dell’Artaud di Monique Borie, si ritrovano nella valenza eminentemente teatrale – pratica e operativa – attribuita all’incessante dialogo con le altre culture perseguito dall’autore del Teatro e il suo Doppio. Stagliandosi sull’ordito fitto e proliferante di esotismi del suo tempo, il ritorno alle origini di Artaud prende la forma di un «cortocircuito» creatore (Savarese), di un «solecismo» in grado di produrre quella «figura dell’impossibile» rincorsa dall’esistenza e dall’opera (Gallucci).
L’edizione critica di Marcello Gallucci opera una ricomposizione dell’Artaud messicano attraverso il «riscatto» dei testi minori, alcuni addirittura inediti, meno in luce di quelli sui Tarahumara. Il volume «indiziario» viene ricostruito partendo dallo stesso progetto di Artaud di riunire presso un editore messicano tutti i suoi «testi sulla cultura autoctona del Messico in un libro» (come scrive da Città del Messico a Paulhan nel maggio del 1936) e che diede vita alla parziale edizione di Luis Cardoza y Aragòn nel 1962; e ha il merito di incrociare l’edizione francese curata successivamente da Paule Thévenin e Philippe Sollers (che diventerà l’ottavo volume delle Œuvres Complètes) con tutti i testi in edizione spagnola provenienti dalla silloge di Cardoza e/o dalle varie riviste messicane su cui erano usciti. A partire dagli scritti come anche dalla ricognizione del viaggio e del soggiorno attraverso le lettere e infine della rete di contatti, di scambi, di occasioni tratteggiata dall’autore (si pensi non soltanto all’aiuto prezioso di Cardoza o Elìas Nandino una volta Artaud arrivato in Messico, ma anche a quello di Alejo Carpentier nella tappa cubana) possiamo prendere la misura di un viaggio «non del tutto reale ma non proprio immaginario», in cui si concretizzano una categoria dello spirito e un’ossessione di lunga durata, vecchia almeno quanto lo spettacolo annunciato dal Secondo Manifesto del Teatro della Crudeltà e mai realizzato: La Conquista del Messico. La visione balinese si travasa così nell’attraversamento mentale del Messico precolombiano, simbolico e incarnato al contempo, in un viaggio che Artaud farà per lo più dal tavolino del Café Paris di Calle de Gante nel quartiere Roma della capitale, da cui si allontanava raramente. Ma l’enigmatica e geroglifica Sierra Tarahumara – alla cui soglia si ferma il libro di Gallucci, e verso cui Artaud partirà nell’agosto del 1936 coi pantaloni di flanella e le scarpe prestatigli da Cardoza – si riverbera con la sua geografia intima e universale su tutti questi Messaggi rivoluzionari.
Si tratta di una rivoluzione in cui l’altrove è davvero il doppio del teatro e con la sua alterità opera una rotazione massima della sepolcrale scena occidentale, dando vita ad un «atletismo affettivo» che va al di là del sapienziale e raggiunge la scena. Gallucci mette infatti bene in risalto nell’edizione e nel commento finale quanto le pagine messicane siano in continuità col Teatro e il suo doppio, libro-precipitato di testi e tracce che scaturiscono dall’impresa del Teatro Alfred Jarry e giungono sino al fallimento dei Cenci, unico spettacolo del Teatro della Crudeltà, rappresentato poco prima della partenza per il Messico. E sarà a bordo del Transatlantico French Line in rotta per l’Avana, il 25 gennaio 1936, che Artaud scriverà a Jean Paulhan, in una lettera giustamente nota: «Caro amico,
Credo di aver trovato il titolo giusto per il mio libro. Sarà:
IL TEATRO E IL SUO DOPPIO
perché se il teatro è il doppio della vita, la vita è il doppio del vero teatro e questo non c’entra nulla con le idee di Oscar Wilde sull’arte. Questo titolo risponderà a tutti i doppi del teatro che penso di aver trovato in tanti anni: la metafisica, la peste, la crudeltà, il serbatoio di energie costituito dai Miti, che gli uomini non incarnano più, e sono incarnati dal teatro. E con il doppio intendo il grande agente magico di cui il teatro con le sue forme è solo la figurazione, in attesa di diventarne la trasfigurazione. È sulla scena che si ricostituisce l’unione del pensiero, del gesto, dell’atto. E il Doppio del Teatro è il reale inutilizzato dagli uomini di oggi».
I due libri, diversi per cronologia e tonalità, hanno meriti simili. Uno di questi è sicuramente la multidirezionalità, capace di restituire la complessità delle esperienze artaudiane, reimmergendole in un tessuto storico e strappandole a qualsivoglia tentazione agiografica, sempre in agguato. Savarese accosta documenti e iconografia con un montaggio che procede per «nessi diretti» e «nessi associativi». Tra cerchi concentrici e deviazioni (si pensi al capitolo dedicato al mitico Tabù di Murnau da cui spunta il pittore Walter Spies, figura essenziale per la conoscenza di Bali agli inizi del Ventesimo secolo), ci si perde con diletto nella Parigi artistica e notturna degli anni Trenta. Gallucci compone l’idea messicana in un prisma di presenze e voci reali, tratteggiando nitidamente quell’Artaud «delgado, eléctrico y centelleante» che sorge dai ricordi dell’amico Cardoza. E alla ricostruzione rigorosa della traiettoria umana e concettuale fa corrispondere i vari addenda focalizzati sulla ricezione messicana delle conferenze e degli scritti, nonché alcuni appassionati affondi ermeneutici sull’aspetto decisamente mistico dell’avventura, che contribuiscono a dare la misura della ricchezza di quella ricerca «mitomane» e ostinata.
Ci sembra tuttavia che il merito maggiore dei due volumi sia quello di non perdere mai di vista la finalità «immediata» che sottende i viaggi nell’altrove di Artaud, quella forza magica e performativa che il suo pensiero teatrale e poi i sortilegi irlandesi, le glossolalie dei quaderni, la poesia e i disegni degli ultimi anni praticheranno incessantemente, inventando un corpo e una scena senza paragone.
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