Bob Wilson in Italia
Gianni Poli, «Teatro Contemporaneo e Cinema» n° 43, ottobre 2022
Nella lunga militanza di critico teatrale, Gigi Giacobbe ha maturato la paziente ricerca dei moventi e delle estetiche tipiche dei soggetti da lui studiati. Dalle prime rappresentazioni in Italia, ha seguito con passione l’artista statunitense, rilevando l’originalità geniale delle sue creazioni, come nota Dario Tomasello nell’Introduzione. La «fedeltà» del critico offre un bilancio sull’opera scenica di Robert Wilson, mentre ne ricostruisce un primo completo e inedito ritratto: Viaggio in Italia: articoli e recensioni agli spettacoli, è il capitolo centrale del saggio.
Dal primo incontro, con Alice (di Lewis Carrol, 1994), all’ultimo, Jungle book (di Rudyard Kipling, 2022), Giacobbe unisce sagacia e affetto nel ricostruire impressioni e dati scenici su quell’opera cangiante e imprendibile, eppure così concreta. La documentazione è preziosa nel definire l’autore-regista, sia mediante le formulazioni proprie, sia valendosi di Interviste e d’altri contributi circostanziati. E le tante occasioni trovano varianti e spunti critici coinvolgenti l’intera carriera dell’americano. Per le Orestiadi di Gibellina (1994), il critico si sofferma sulla creazione del poema di Eliot, La Terra desolata: «[Wilson] Non punta sulla biografia del poeta angloamericano. Il suo intento è quello di entrare nella testa di Eliot […] penetrare i momenti creativi del poeta» (p. 26). Poi indica chiaramente immagini e figure che pullulano nello spazio allestito e animato dalla luce, coglie i ‘tre contigui spazi’ che connotano il cocktail party dell’omonima commedia eliotiana e chiude con l’immagine d’un «fiorire di teste di bambino, tutte uguali e tutte di bianco gesso.»
In Hamlet a monologue (1995) Wilson mostra che «Amleto è solo un sogno […]. Una solipsistica creatura che poco prima di morire ripercorre i vari stadi della sua esistenza. Un personaggio sfaccettato, indefinibile e oltremodo misterioso».
A Taormina, per il Premio Europa (1997), si rappresentava Persefone, sapiente e magistrale per l’impiego delle luci: «La luce del fondale muta di colore e gli azzurri, i rossi e gli arancio ne evidenziano le silhouettes come in un negativo fotografico […]. Le musiche di Rossini e di Glass, iterative e continue avvolgeranno gli interpreti sino alla fine […]. Cinque scene, pregne di elementi scultorei e atmosfere surreali, un mondo degli inferi che lascia posto, infine, a un immenso mare di luce salvifica» (p. 31).
In La maladie de la mort (1997) emerge «uno stile, quello della Duras, che abbraccia in pieno quello di Wilson, dove il tempo e lo spazio sembrano glacializzati. Uno spettacolo pittorico come è consuetudine del regista texano, durante il quale, in questa nuova Hiroshima di fine millennio un uomo [Michel Piccoli] e una donna [Lucinda Childs] provano disperatamente ad amarsi». Il quadro scenico e musicale creato da Robert Wilson e Hans Peter Kuhn per Saints and singing (di Gertrude Stein) è strutturato in prologhi, paesaggi, nature morte, e ritratti.
Una forma complessa che mira alla semplicità delle componenti linguistiche e all’armonia degli elementi teatrali: parole e spazio, movimento e silenzio, ombra e luce. «Un attore e un’attrice di cinema, francesi entrambi, Philippe Leroy e Dominique Sanda, che recitano in italiano La donna del mare, del norvegese Henrik Ibsen, totalmente riscritto dall’americana Susan Sontag e messo in scena alla sua maniera dal texano […]. Il pregio maggiore è il modo in cui Bob Wilson ha trasformato un dramma naturalistico in uno completamente antinaturalistico, surreale e sognante insieme. Utilizzando genialmente la sua scatola di illuminotecnica su una scena nuda con solo quinte nere.»
Variazioni su temi e immagini tornano nel dramma di Büchner: «Questo Woyzeck di Wilson è forse uno dei suoi spettacoli più belli, applauditissimo a più riprese sino alle ovazioni finali. Il merito va ripartito con le suggestive musiche di Tom Waits e Kathleen Brennan in grado di emozionare e condurre lo spettatore nella labirintica mente del protagonista, le cui sue vicende sono raccontate per schegge e frammenti nell’arco di due ore» (Roma, 2002).
A Spoleto (2008), l’Opera da tre soldi, di Brecht e Weill è accolta come «spettacolo di travolgente bellezza… con i formidabili attori-cantanti del Berliner Ensemble. Spettacolo memorabile di cui Wilson firma pure le splendide scene astratte e reinventa l’ennesimo disegno di luci che solo lui sa rendere magiche». Le creazioni si susseguono. Ancora a Spoleto (2009) un doppio Beckett, Giorni felici (con Adriana Asti) e Ultimo nastro di Krapp (con Wilson attore): «Wilson utilizzando i costumi e il trucco di Jacques Raymond e la drammaturgia di Ellen Hammer, interra quella donna di mezza età, nel primo tempo sino alla vita e nel secondo sino al collo, dentro una sorta di piccolo Stromboli o Etna, originato da un’eruzione d’una strada asfaltata.»
A Pompei e a Vicenza, Oedipus (2018), ripreso da Sofocle, rievoca le atmosfere con cui fu inaugurato il Teatro Olimpico nel 1585. In Jungle book, di Kipling (Firenze, 2022) permangono mistero e semplicità, poiché Wilson – provocato dalla domanda: «Jungle book è un musical?» – ripete le sue sintesi inarrivabili sull’opera «totale»: «Le etichette sono fuorvianti. Considero tutto il teatro musica e vedo tutto il teatro come danza. Questo è ciò che significa la parola ‘opera’. Racchiude ogni forma d’arte.»
Roberto Andò, in Postfazione, sottolinea le componenti essenziali di quell’opera e riconosce al libro il senso e il merito d’una «autobiografia del critico militante attraverso le creazioni di un grande visionario della scena». Le ragioni e i commenti del critico, infatti, formano un tessuto denso e coerente con gli intenti dell’artista, quasi opera o prova autonoma, in continuo mutamento. La Biografia e la Teatrografia chiudono necessariamente il bel volume.