Giuseppe Verdi a Napoli
Francesco Bracci, «Verdiperspektiven»
La figura di Giuseppe Verdi è stata in diverse occasioni oggetto di lavori teatrali. Un certo successo lo ottenne negli anni Ottanta After Aida di Julian Mitchell, che metteva in scena la tortuosa genesi di Otello e i rapporti fra Verdi e Boito. In tempi più vicini e venendo all’Italia, nel 2013 è andato in scena alla Terme di Caracalla a Roma Un bacio sul cuore, le donne nella vita e nella musica di Verdi, con Michele Placido e Isabella Ferrari. Lo spettacolo seguiva abbastanza da vicino The man Verdi di Frank Walker e Placido-Verdi recitava lettere realmente scritte dal compositore. Questi esempi, insieme a molti altri provenienti dalla televisione, mostrano il fascino che il più celebre operista italiano continua a esercitare sull’immaginario del pubblico, e dal punto di vista del musicologo permettono di osservare la permanenza e l’evoluzione di luoghi comuni che sono parte integrante della storia della ricezione verdiana.
Su questo sfondo ci si può avvicinare a Giuseppe Verdi a Napoli di Antonio Tarantino, andato in scena a Roma (Teatro Vascello) nel 2017 e a Milano (teatro I) nel 2018, con regia di Sandra De Falco e musiche di Azio Corghi, poi pubblicato dalla casa editrice Cue Press, con introduzione di Renzo Francabandera. Questa recensione si occupa del testo pubblicato e non dello spettacolo. Coerentemente con questa limitazione, non verrà tentata una valutazione dei meriti letterari del lavoro di Tarantino o della sua riuscita in teatro.
La pièce racconta una visita immaginaria di Verdi a Salvadore Cammarano nel 1848, durante la composizione della Battaglia di Legnano, e soprattutto durante la fase iniziale del biennio rivoluzionario. A disagio in presenza del musicista ricco e famoso, Cammarano non ha il coraggio di reclamare il denaro che Verdi non gli avrebbe versato per le loro precedenti collaborazioni. È la domestica Caterina, schietta popolana napoletana, a fronteggiare il musicista. Dopo momenti di tensione in cui il rapporto tra musicista e librettista e quello tra poeta e cameriera sembrano sul punto di rompersi, la vicenda ha esito positivo con l’entrata in scena dell’impresario Flauto, che porta una borsa piena di denaro come ricompensa per l’opera che deve ancora essere scritta. Verdi, placato, lascia il denaro interamente a Cammarano, rinunciando anche alle correzioni del libretto che aveva richiesto in maniera pignola nella prima parte.
In maniera evidentemente programmatica, Tarantino non punta a una ricostruzione storica accurata. In alcuni casi gli anacronismi sono esibiti, come quando Verdi parla di «contratti a termine» (28), gettando un ponte tra la precarietà del poeta ottocentesco e quella odierna. In altri casi si è in dubbio se l’anacronismo sia voluto o no: si parla ad esempio «Austroungarici» (27; designazione valida solo a partire dal 1867: nel 1848 l’Ungheria non era ancora una nazionalità dominante dell’impero e si stava anzi ribellando contro il dominio austriaco). Le principali licenze poetiche di Tarantino riguardano non sorprendentemente l’opera: La battaglia di Legnano fu scritta per la Roma in quel momento repubblicana e non per Napoli, dove il soggetto non avrebbe mai superato la censura. Anche il rapporto tra musicista e librettista è rappresentato in maniera quantomeno singolare, in quanto il Verdi storico esercitava un controllo molto più stretto sull’intero processo di composizione e non avrebbe rinunciato alle sue idee come fa nello spettacolo.
Volute o no, queste imprecisioni contribuiscono a delineare un Ottocento immaginario, fuori dal tempo. I suoi caratteri principali sono la natura retorica dell’espressione poetica e letteraria, l’idea onnipresente (e molesta) della patria, l’idealismo limitato e in prospettiva storica fallimentare, l’inconciliabilità fra un nord prepotente e un sud arcaico, il ritardo storico rispetto ai paesi più avanzati d’Europa. Si tratta di una vulgata e di una visione politica ormai piuttosto stabile.
L’analisi del linguaggio di Giuseppe Verdi a Napoli conferma in maniera interessante questa tendenza. Nella parte iniziale, in cui i convenevoli nascondono a stento l’incomunicabilità tra i due personaggi, sia Verdi sia Cammarano parlano una lingua ironicamente vicina a quella dell’oratoria politica di età risorgimentale: «Cosa mi venite a toglier dal suo ricovero lo spinoso e oramai quasi politico argomento del censo, con tutta l’Europa in subbuglio e che dimanda a gran voce: suffragio universale!» (14; Verdi).
O: «Altrimenti quanto di pregiato in esso risiede vien via via avvilito da dimenticanze noncuranze trascuranze, sì che ove prima eravi – per universale riconoscimento – un talento, ecco che poi quella somma di virtù vien dimezzata e poi decimata e infine nullificata» (15; Cammarano).
Questo linguaggio di cartapesta si rompe quando la tensione sale, e a quel punto emerge un fondo dialettale napoletano che, con effetto comico, contagia anche Verdi.
In quanto protagonista di un’epoca contrassegnata, nella visione dell’autore, dal fallimento di un idealismo politico incapace di comprendere la realtà sociale, è inevitabile che il Verdi di Tarantino sia un personaggio piuttosto sgradevole, come il Verdi storico probabilmente non era. Il grande musicista appare come un uomo incapace di vedere i problemi della vita quotidiana di chi gli sta intorno, compreso un collaboratore come Cammarano. Questa valutazione negativa di Verdi si oppone a quella agiografica di un’abbondante letteratura, ma non è di per sé una novità, come non è una novità che il rapporto con il denaro sia un suo tema centrale.
C’è però un notevole cambiamento di prospettiva. Per i detrattori del passato, il musicista italiano rappresentava un affarista che metteva il successo economico sopra l’arte. Alfredo Casella, ad esempio, bollava nel 1913 Donizetti e Verdi come des hommes d’affaires. Nel testo di Tarantino invece Verdi diventa un (finto) ingenuo che dall’alto della sua posizione di successo non si interessa ai problemi materiali ed economici, affrontando l’impresario del San Carlo con una dichiarazione di principio che il lettore degli epistolari verdiani difficilmente riuscirebbe a immaginare in bocca a Verdi, anche al di là del linguaggio: «E a me che me ne fotte dei grani, dei tarì, delle lire, dei talleri e degli scellini! Commendator Flaùto: l’arte è libera dalle catene del denaro!» (30).
Questo ribaltamento di prospettiva è coerente con il sostanziale disinteresse per la figura storica di Verdi. Nel confronto con Cammarano, Verdi deve rappresentare le limitazioni di un artista benestante e superficialmente idealista: il ritratto viene di conseguenza. Al di là delle inesattezze storiche, giustificabili in un testo letterario, allo spettatore/lettore per cui Verdi è qualcosa in più dell’incarnazione di un’epoca e di un idealtipo questo ritratto sembrerà probabilmente ingeneroso.
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