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La sfida di Achab
12 Febbraio 2023

La sfida di Achab

Elisabetta Raimondi, «Fata Morgana Web»

Nell’occuparsi di tutti gli aspetti relativi al complicato intreccio di relazioni interne ed esterne al lavoro registico e attoriale, il grande maestro Peter Brook parla di «rappresentazione nascosta» per definire «la rete invisibile di rapporti tra personaggi e temi» che gli attori sviluppano nelle fasi di prove degli spettacoli, creando dentro di sé forme autonome rispetto alla «rappresentazione esterna» che vedono gli spettatori. La citazione si trova nel libro di Laura Mariani L’America di Elio De Capitani, uscito per Cue Press in un’edizione aggiornata ed ampliata dopo quella del 2016, nella quale la storica e docente universitaria di Storia dell’Attore prende in esame l’intera carriera artistica dell’attore e regista milanese, co-direttore del Teatro Elfo-Puccini di Milano insieme a Ferdinando Bruni, soffermandosi in particolare sul suo percorso di esplorazione della società e della drammaturgia americana.

Chiedendosi se il critico e lo storico debbano guardare «non solo allo spettacolo in sé» ma «anche alla cultura che lo produce» ed entrare «nei processi di lavoro degli artisti» invece di «mantenere la distanza», Mariani condivide l’importanza di tale compito con Peter Brook e con il drammaturgo e critico Claudio Meldolesi, «che ricorda ‘i muti e ossessivi dialoghi fra il proprio inconscio e la scatola magica, i dialoghi fra sé e sé’ con cui Tommaso Salvini (considerato il più grande attore italiano dell’Ottocento) si preparava a entrare in scena, che tanto colpirono Stanislavskij». Con il suo libro, tra i cui intrecci di temi, fonti, analisi e perfino genesi multiple degli spettacoli presi in considerazione spiccano le interviste fatte negli anni a Elio De Capitani – molte delle cui «risposte sono simili a momenti del ‘monologo interiore’ di Salvini» – Laura Mariani dimostra a pieno titolo come il teatro raccontato possa essere estremamente appassionante.

Nell’edizione precedente Mariani si fermava a Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller che De Capitani, interprete del commesso Willy Loman, diresse da solo nel 2016 dopo le co-direzioni con Ferdinando Bruni delle due parti di Angels in America di Tony Kushner (Si avvicina il millennio nel 2007 e Perestroika nel 2009), in cui vestiva i panni del famigerato avvocato Roy Cohn, e di Frost/Nixon (2013) di Peter Morgan, tratto dal famoso duello televisivo tra il giornalista britannico David Frost (Bruni) e l’ex-presidente Richard Nixon (De Capitani). Il volume ora in libreria include il bellissimo e corposo capitolo sull’ultimo capolavoro americano di De Capitani, che ha debuttato l’anno scorso a Milano e Torino. Si tratta di quel Moby Dick alla prova, ora in tournée in Italia fino al 26 di febbraio, che Orson Welles – cui l’autrice dedica un lungo paragrafo – scrisse, diresse e interpretò nel 1955, spinto dal consueto impulso di lanciare a se stesso sfide impossibili, impulso cui anche De Capitani non è affatto estraneo.

Soffermandosi dettagliatamente su tutte le fasi dell’allestimento – comprese le prove fatte quando i teatri erano chiusi al pubblico per il Covid e la nutrita ciurma della baleniera Pequod, nel rispetto quotidiano di regole, tamponi e mascherine, si addestrava sul palco in un’atmosfera tanto concreta quanto surreale – l’autrice evidenzia come questo imponente e strabiliante primo allestimento italiano di Moby Dick – Reharsed fosse quasi inevitabile per De Capitani. L’artista ne ha fatto «Una sorta di preludio grandioso o, viceversa, una summa. Mostra con la potenza dell’epica antica il ‘cuore di tenebra’ degli Stati Uniti, l’altra faccia del suo mito, incarnata dal capitano Achab e da Moby Dick al tempo stesso: oltre l’amore per il lavoro e la spinta capitalistica, lo spirito d’avventura e il vitalismo, il materialismo e la religiosità, fino a trasformare la lotta contro il Male, vero o presunto, in distruzione della natura e di se stessi. (…) L’America che ha sterminato le balene e i bisonti insieme agli Indiani si mostra qui in tutta la sua potenza, affascinante e pericolosa: l’Achab di De Capitani ne è espressione drammatica compiuta, lui e la sua nave, in cui potremmo trovarci anche noi, anzi ci troviamo».

De Capitani, come Orson Welles prima di lui, non interpreta solo Achab, ma anche Padre Mapple, che parla dalla sommità di una scala con la stessa potenza con cui Welles predicava dal pulpito della chiesa nel film di John Huston del 1956. E poi ci sono i due personaggi introdotti da Welles, vuoi per facilitare la messa in scena di ciò che era considerato irrappresentabile, vuoi per segnare la profonda relazione tra Melville e Shakespeare: re Lear e il capocomico di una compagnia di attori che, mentre si sta provando il dramma shakespeariano, decide di cambiare rotta e mettere in scena Moby Dick.

«De Capitani riattiva la riattivazione di Orson Welles, raddoppiando la sfida: conferma che il romanzo pulsa di tale vita da offrirsi a tutti i tipi di teatro, a operazioni tra le più diverse, senza perdere la potenza magnetica del suo nucleo drammatico».

Un nucleo drammatico che, passando dall’Ottocento di Melville al Novecento di Welles al Duemila di De Capitani, ingloba secoli di storia in un intreccio di relazioni in cui tutti gli artisti si rifanno fortemente a Shakespeare, ma dove per Welles pulsa anche il Kurtz di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, a cui De Capitani aggiunge il Marlon Brando di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.

Come si è detto, molti sono i temi che l’autrice affronta nel suo libro: ad esempio il rapporto del drammaturgo americano con i contesti da cui sono nati i testi, le successive scelte registiche teatrali e cinematografiche rispetto alle drammaturgie originali; gli apporti dei diversi attori che si accumulano nel tempo nelle interpretazioni di uno stesso personaggio; gli approcci più o meno mimetici che gli attori danno di personaggi realmente esistiti. Ne risulta insomma un’intricata tessitura che inevitabilmente genera dei punti di confronto con cui anche De Capitani e il suo gruppo di «elfi» devono fare i conti, soprattutto considerando la natura di De Capitani, attentissimo a tutto quanto riguarda le scelte registiche e profondamente convinto dell’importanza del «teatro dell’attore».

Parlando del suo lavoro e del suo doppio ruolo, De Capitani, racconta Laura Mariani, usa «L’espressione ‘alto artigianato’: senza sottovalutare l’appartenenza della regia al dominio dell’arte e dell’autorialità, intende così evidenziarne la natura concreta, pratica, processuale, dettagliata, umile oltre che dirigenziale, in connessione con le libertà dell’attore, il lavoro sul testo e la vita dello spettacolo. […] Bisogna essere registi forti, ma sapersi ritrarre sempre, aperti all’attore, alle contraddizioni dell’attore; saper stare in tutto e per tutto in un teatro dell’attore, assieme all’attore. Essere registi-attori aiuta moltissimo, ma quando stai fuori (e quindi dirigi soltanto) rischi di far vincere il regista e la voglia di controllo, di funzionamento, di composizione: forse perché la spinta che occorre per un teatro del ‘qui e ora’ richiede un attore molto, molto particolare, di grande esperienza e apertura, capace di improvvisazione quanto di controllo».

Tra i tanti personaggi americani presi in considerazione ce n’è uno italiano, reale e per giunta vivente, cui Mariani dedica un capitolo, e non solo per l’opinione di Marlon Brando secondo cui «la preparazione di nessun attore può definirsi completa finché non ha fatto un film», ma per l’importanza che la costruzione di quel ruolo cinematografico ha avuto anche nella costruzione successiva di Cohn e Nixon. Si tratta del Silvio Berlusconi degli anni dell’ascesa (dalla progettazione di Milano 2 nei primi anni Settanta alla discesa in campo del ’94) che De Capitani ha interpretato nel 2006 nel film Il caimano di Nanni Moretti. Per il suo Berlusconi l’attore ha cercato quella sintesi, rappresentata dal personaggio, in cui vanno concentrati i plurimi aspetti dell’individuo reale, evitando dunque la pura mimesi esteriore. Scrive Mariani: «I personaggi di Berlusconi, Roy Cohn e Nixon formano una triade nell’esperienza di De Capitani. ‘Li ho studiati come uomini che hanno dentro diverse caratteristiche del vitalismo della destra, inteso non solo come teoria politica, come estensione antropologica del neoliberismo. Incarnano l’idea, che appartiene molto anche ai grandi personaggi shakespeariani, di prendere la vita e graffiarla con il proprio segno, non importa come, anche al di là dell’etica, purché questo segno resti’. Da attore, è arrivato a nutrire ‘una passione quasi malata’ per queste figure, per la sfida teatrale che gli hanno posto: assumere la loro umanità ‘nera’ dall’interno, mantenendo il riferimento a Brecht, alla sua cruda concezione della vita e alle sue efficaci rappresentazioni dei rapporti sociali».

Un altro degli aspetti interessantissimi del libro è l’analisi degli illustri predecessori, teatrali e/o cinematografici, dei vari personaggi interpretati da De Capitani, reali o di finzione che siano. Per Roy Cohn, Mariani cita James Woods in Citizen Cohn, con «una delle migliori interpretazioni» dell’attore americano e soprattutto Al Pacino, alle prese con le stesse scene di De Capitani nella miniserie HBO in sei puntate di Angels in America di Mike Nichols (2003). Pur dovendo fare qualche conto con Al Pacino, De Capitani si concentra sull’uomo di potere di destra «Che percepisce il mondo non come disastro ma come eccitazione […] ‘un carnivoro, uno che considera la storia una giungla’ e il male ‘qualche cosa di spaventosamente vicino alla natura umana’. Per un attore è ‘esaltante’ affrontare un personaggio così, dice De Capitani: ‘Mostrarne l’efferatezza ma al tempo stesso viverlo, riuscire a provare quei sentimenti, riuscire a non farli artificiali ma come cose che ha dentro chiunque’».

De Capitani porta anche «i tratti identitari dell’ebraismo e dell’omosessualità dentro il tema centrale del potere». Perché, come dice l’attore italiano, «il potere è una forma di emancipazione incredibile da ogni tipo di marginalità e dalla sudditanza al destino».

Per quanto riguarda Nixon – sul ricco repertorio di produzioni che lo riguardano, in particolare cinematografiche e televisive, abbiamo qui trattato in cinquant’anni di Watergate – Laura Mariani guarda all’Anthony Hopkins di Gli intrighi del potere di Oliver Stone (1995) e soprattutto al Frank Langella di Frost/Nixon, che l’attore ha interpretato sia a teatro sia nell’omonimo film di Ron Howard (2008), ottenendo una candidatura all’Oscar. Se Mariani vede in Hopkins un personaggio che, per decisione registica, viene relegato al suo essere il perenne «figlio del droghiere, un mastino tarchiato, volgare, incontrollato», lasciando trapelare la sua autorità presidenziale in pochissimi momenti, così non è per Frank Langella al quale De Capitani dichiara di essere debitore, pur non prendendo nulla dalla regia di Howard.

«Prima che un singolo presidente», scrive Mariani, De Capitani vuole incarnare «La Presidenza stessa degli Stati Uniti d’America, cioè un ruolo che comporta recitazione e pose. Dice De Capitani: ‘La cosa bellissima è che fai un personaggio che è un attore e quando fai Nixon, fai un attore che è a disagio, non sa recitare, e l’unica arte che ha è quella della parola, non solo nel senso che è bravo ad usarla: è un avvocato, è un leguleio, è bravo a immergersi nella ragnatela’».

Volendo restituire anche a Nixon tratti della grandezza tragica shakespeariana nella caduta finale, De Capitani dunque «punta sulle capacità seduttive e sulle abilità non solo oratorie di Nixon, contenute in un testo capace di raccontare epicamente la realtà» e che risponde «al bisogno di Bruni e De Capitani di costruire ‘un’archeologia del nostro presente, politico, sociale o nazionale’ attraverso particolari momenti della storia americana».

Nella costruzione di tale archeologia è fondamentale un personaggio di finzione come Willy Loman, vittima del sogno americano ma anche carnefice di sé stesso, «uno dei personaggi più potenti del teatro novecentesco […] fonte preziosa per studiare temi quali la famiglia e il sogno americano, mentre il potere si mostra a rovescio, dalla parte di chi non ce l’ha ma vorrebbe disperatamente il successo». Il Commesso, il cui sottotitolo Inside his head è un’anticipazione degli sdoppiamenti, delle visioni, dei ricordi che si alternano e si mischiano alla realtà nell’ultimo giorno di vita di Willy Loman, è anche «un punto di approdo» per De Capitani, che lo considera «il suo ‘manifesto dal punto di vista recitativo’, perché ha lavorato su più livelli a un grado di complessità mai raggiunto prima», riuscendo a «far transitare il testo dalla carta al palcoscenico, dove Stanislavskij incontra Brecht e la psicologia diventa presenza e azione scenica».

Moltissimi i commessi americani e italiani che Mariani e De Capitani passano in rassegna: dal pioniere Lee J. Cobbs, voluto da Elia Kazan per la prima messinscena del 1949 e interprete anche di una trasposizione TV del 1966; al Fredric March del primo film, diretto nel 1952 da László Benedeck; al Dustin Hoffman del film di Volker Schlöndorff del 1995; all’immenso e compianto Philip Seymour Hoffman in un allestimento teatrale di Mike Nichols nel 2012.

Tra i commessi italiani, oltre a Tino Buazzelli, Enrico Maria Salerno, Eros Pagni, Umberto Orsini, c’è naturalmente Paolo Stoppa, voluto da Luchino Visconti per il primo allestimento italiano del 1951, insieme a Rina Morelli per il ruolo della moglie Linda, che nello spettacolo di De Capitani è interpretata dalla brava attrice e regista Cristina Crippa, altra storica fondatrice dell’Elfo nonché moglie di De Capitani. La coppia Stoppa-Morelli è stata anche interprete della versione televisiva di Sandro Bolchi del 1968, nella quale recitava anche un giovane Umberto Orsini, a sua volta Willy Loman esattamente tre decenni dopo, «molto apprezzato da De Capitani per il suo Biff [il figlio minore di Willy] tormentato e problematico, che anticipa John Malkovich nel film di Schlöndorff».

Tornando circolarmente a Moby Dick alla prova, quasi fosse una sorta di De Capitani alla prova nel crescendo di sfide che l’attore-regista ‘elfo’ pone a sé stesso, concludiamo lasciando di nuovo la parola a Laura Mariani.

«In questa fase della carriera e della vita, alcuni grandi personaggi premono su De Capitani, sembra siano loro a convocarlo come attore oltre che come regista: Achab mette alla prova la sua sapienza e la sua inquietudine di artista, la sua esuberanza fisica e i suoi rovelli politici e intellettuali […] È come se Orson Welles avesse segretamente accompagnato tutto il percorso di Elio De Capitani e della sua ‘ciurma’ con la magia della sua arte e la radicalità della sua pratica della cittadinanza».

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