Compito del teatro, fin dalla sua nascita è stato quello di relazionarsi con l’Altro
Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»
Secondo Claudio Bernardi, il Teatro Sociale non era altro che la «nuova frontiera della scena internazionale», da intendere come una summa del potere relazionale. In verità, si può affermare che compito del teatro, fin dalla sua nascita, è stato quello di utilizzare il palcoscenico per mettersi in relazione con l’Altro, evidenziando la sua funzione sociale che, però, è ben diversa dal vivere una relazione di tipo sociale.
Il Teatro Sociale, a cui fa riferimento Giulia Innocenti Malini nel volume, pubblicato da Cue Press, è un «genere» che si afferma, nel secondo Novecento, durante la rivoluzione sessantottesca, la stessa che registrò la nascita di forme teatrali alternative a quelle degli Stabili che perseguivano il carattere artistico e, pertanto, estetico nelle loro produzioni.
Tra i nuovi generi, il Teatro Sociale si occupò di relazioni, senza però ricorrere con continuità alle esigenze della messinscena e del palcoscenico tradizionale. C’è da dire che, su questo argomento, ha lavorato molto l’Università Cattolica attraverso una serie di ricerche pubblicate sulla prestigiosa rivista Comunicazioni sociali; e attraverso gli studi di Bernardi, Cuminetti, Dalla Palma, Cascetta. In questa sede insegna Giulia Innocenti Malini, che è anche Operatrice e Coordinatrice del corso di Alta Formazione per Operatori nel Sociale. Cercare le origini di questo genere è il traguardo a cui tende l’autrice, convinta che, al di là degli obiettivi artistici o estetici, il Teatro Sociale possegga altri meriti che esercita con metodologie diverse, in particolare nel campo terapeutico ed educativo, da cui sono derivate delle discipline come la Teatroterapia, l’Educazione alla teatralità e il Drama-therapy, crogiolo di parecchie attività performative che utilizzano il gioco, il rito, la festa, il ballo, utili per creare delle interazioni che permettano al Teatro Sociale di intervenire nelle comunità, nei gruppi e persino nei singoli che soffrono forme diverse di disagio nelle case di cura, nelle scuole, nelle periferie, nei campi profughi, nelle carceri. Sulla spinta di questa necessità nacquero il Teatro di Animazione, che ebbe in Franco Passatore il suo punto di forza, esercitato nelle scuole o negli ospedali psichiatrici, ed ancora il Teatro di Base, i cui operatori diedero il loro apporto, anche politico, alle esigenze delle masse popolari.
Ci si imbatte in esperienze eterogenee, libere da esigenze professionistiche e proiettate verso l’essenza primordiale del teatro, sempre più concepito come Laboratorio, con obiettivi non artistici, ma terapeutici e pedagogici. Si tratta di Laboratori diversi da quelli di Grotowski o Barba, citati dalla Malini come fonte ispiratrice di un lavoro che verrà esplicato con attitudini diverse, perché fuori dal teatro, onde venire incontro a chi ne avesse bisogno.
Forse, il modello più giusto è quello di Giuliano Scabia con le sue «Azioni teatrali», con l’uso di grandi pupazzi per rappresentare i problemi delle nuove generazioni e la «disumanità» della vita metropolitana, pupazzi che facevano il verso a quelli di Peter Schuman e del «Bread and Puppet», con i suoi complessi spettacoli di strada. Di Scabia, inoltre, bisogna ricordare il suo lavoro accanto a Franco Basaglia e l’esperienza di Marco Cavallo, nata come opera collettiva e integrata dalla partecipazione degli stessi ammalati, con un lavoro molto approfondito, come quello di Armando Punzo nelle Carceri di Volterra, anche se esercitato con maggiore volontà e voluttà artistica.
L’autrice divide il suo lavoro in tre periodi, quello dello Stato nascente, durante il ventennio 1958-78, quello del Periodo rivoluzionario che coincide con gli anni 1978-2008, per concludere con alcune considerazioni che riguardano il presente, dove manca qualsiasi riferimento al lavoro svolto da Nanni Garella con i pazienti della USL di Bologna, con i quali, dopo lunghi percorsi di formazione, ha realizzato alcuni spettacoli, fra i quali il bellissimo Fantasmi (2002), primo abbozzo di Pirandello dei Giganti della montagna, con notevoli risultati artistici, che ebbe grande successo di pubblico e di critica, con i malati applauditi come veri e propri attori. Se vogliamo citare ancora un grosso nome, anche Robert Wilson nel 1968 si conquistò la fama di «terapista» sperimentale per il suo lavoro con un sordomuto e un malato di cerebropatia, per i quali creò delle vere e proprie pièces teatrali.