L’ossessione di Eduardo nel creare i suoi personaggi, le loro storie di miserie, di sofferenze e di solitudini. E i loro silenzi
Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»
Anna Barsotti, da vent’anni, lavora al teatro di Eduardo. Ha curato, per Einaudi, la nuova edizione della Cantata dei giorni dispari (1995) e della Cantata dei giorni pari (1998), precedute da una monografia: Eduardo drammaturgo (1988).
Il testo Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile era stato pubblicato da Laterza nel 1992, col titolo: Introduzione a Eduardo, ormai introvabile. Mattia Visani, l’editore che pubblica con continuità testi teatrali, lo ha ristampato per le edizioni Cue Press, con degli aggiornamenti bibliografici, oltre che con un capitolo di esegesi sulla comunicazione difficile.
Da che cosa nasce la comunicazione eduardiana? Certamente dal suo spirito di osservazione tanto implacabile quanto instancabile, direi ossessivo, col quale egli costruisce i suoi personaggi con le loro miserie, solitudini e sofferenze. Il suo problema consiste nel mettersi in relazione con loro e nella capacità di comunicare i loro drammi al pubblico, al quale si rivolge con i ben noti monologhi-dialogo. Egli si pone, pertanto, nei panni dell’analista, tanto da ritenere la comunicazione come un sinonimo di cura, in particolare per le tante coppie che hanno smesso di dialogare. Assumendo il compito del terapeuta, Eduardo va in cerca delle «voci di dentro», ovvero di quelle voci che abitano nella nostra mente e che stanno a base del nostro dialogo interiore, proprio quello che non riusciamo a trasmettere agli altri, perché, pur essendoci le parole adatte, preferiamo distorcerle o caricarle di ambiguità, come osserva Michele, protagonista di Ditegli sempre di sì.
Anna Barsotti ripercorre tutto il teatro di Eduardo, in otto capitoli, il primo dei quali: Il teatro che comunica è propedeutico alla sua particolare lettura. È chiaro che quanto Eduardo comunica nella Cantata dei giorni pari sia ben diverso da quanto comunica nella Cantata dei giorni dispari, anche perché ci sono di mezzo le due guerre. Nella produzione del primo dopoguerra, Eduardo va cercando un proprio linguaggio attraverso delle sperimentazioni che alternano il dialetto con la lingua nazionale. Perverrà a questa dopo il dissolvimento del dialetto stesso, utilizzando, nel secondo dopoguerra, la lingua nazionale con forza dirompente, quando il teatro assume su di sé un duplice compito, quello di essere accreditato come istituzione (Teatri Stabili) e quello di trovare un linguaggio scenico capace di rappresentare la nuova società, martoriata dal disastro bellico, che va in cerca di una nuova categoria (che Luigi Squarzina definirà: teatricità).
L’uomo del dopoguerra viveva in uno stato di shock, tale da trovarsi incapace di comunicare persino la propria disperazione. Il problema del linguaggio si trasforma, in simili casi, in quello della comunicazione difficile, tanto che, spesso, il dialogo risulta incomprensibile, favorendo la forma monologante, i famosi a tu a tu di Eduardo con il proprio dirimpettaio in Questi fantasmi. La tensione monologante la troviamo nei grandi riformatori come Pirandello o Beckett, ai quali Eduardo maggiormente si accosta con la Cantata dei giorni dispari, dove pone la famiglia al centro del dibattito, sulla quale si è abbattuto il silenzio a cui Eduardo affida l’ultima parola, quella di Zio Nicola, che comunica soltanto coi fuochi di artificio. Questa parola è quella del cuore, «Io mi comunico col silenzio», diceva Ungaretti. Quali sono, allora, le valenze del silenzio? Quali le sue complicità in un rapporto di coppia? Il silenzio è diverso dal tacere, il primo è attraversato da riflessioni interiori, il secondo è una scelta, una interruzione. Il silenzio appartiene ai grandi mistici, forse anche Eduardo lo era, magari senza saperlo.
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