Quando Luca Ronconi si cimentò con il teatro di andamento favolistico
Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»
È possibile andare in cerca della felicità, come fanno i due protagonisti di L’uccellino azzurro (1909) di Maurice Maeterlinck, edito da Cue Press, recuperando la traduzione di Luca Ronconi, pubblicata da Emme Edizioni nel lontano 1979, quando il regista la portò in scena in una persino eccessiva produzione dell’ATER? Oggi è possibile rileggerla con Prefazione di Luca Scarlini e con la riproposta della introduzione dello stesso Ronconi.
Alberto Arbasino, in occasione del debutto (1979), scrisse: «Forse è stato lo spettacolo più bello della mia vita e, certamente, uno dei più strepitosi dell’Art Nouveau». Non tutti i critici, però, furono d’accordo con Arbasino. Roberto De Monticelli sulle pagine del «Corriere» sottolineò una certa «monotonia», dovuta anche alla durata dello spettacolo di oltre quattro ore. In verità, Ronconi volle cimentarsi con la favola, cercando una nuova strada nel Teatro per i Ragazzi; una favola che egli destinava anche a un pubblico adulto. Non solo per le qualità simboliche del testo che, come tali, avrebbero dovuto raggiungere tutti, ma perché si trattò di uno spettacolo tipicamente ronconiano, che cercò di andare oltre il valore mitico ed esortativo del fiabesco, per puntare direttamente alla forza dell’irrazionale, oltre che dell’inconscio.
In quegli anni fu pubblicato da Feltrinelli Il libro incantato di Bettelheim (1976), uno studio sulla fiaba e l’inconscio che Ronconi aveva letto, avendo intuito che la fiaba comunica su due livelli: quello della coscienza e quello dell’inconscio. Così il viaggio iniziatico che i due figli del boscaiolo, Tytyl e Mytyl, compiono attraverso i misteri della Notte, della Morte, della Natura, del Tempo – accompagnati dalle essenze che sono più vicine al loro mondo quotidiano: il Fuoco, l’Acqua, il Pane, lo Zucchero – diventa un viaggio nel proprio mondo interiore. Ai due viaggiatori sarà concesso di incontrare la Fata, a cui riveleranno i loro pensieri, mentre la Luce sarà la loro guida nel territorio dei ricordi, dove intravedono le figure del nonno e della nonna, che sembrano addormentati, ma che riprendono vita quando i due nipoti si avvicinano. Arriveranno, nel frattempo, nel Palazzo della Notte, dove incontreranno il Sonno e la Morte. Quando fanno tappa nella Foresta, viene loro ricordato quanto male l’uomo abbia compiuto nei suoi confronti. Solo verso la fine giungeranno nel Giardino della Felicità, dove le Grandi Felicità si mostrano in tutta la loro seduzione, ma non sono le sole, perché esistono le Piccole Felicità, le Felicità Domestiche, la Felicità di star bene in salute e, infine, la felicità dell’Amore Materno.
È chiaro che il viaggio di Tytyl e Mytyl è un viaggio onirico, ed ecco la difficoltà di portare in scena il mondo dei sogni. Come non pensare a Il sogno di Strindberg, che lo stesso Ronconi metterà in scena alcuni anni dopo? Nell’Uccellino azzurro, la storia riguarda il mondo dell’infanzia; solo che questo mondo non può non coinvolgere i grandi, ovvero i genitori, i docenti, gli psicologi. Per questo motivo, Ronconi eviterà di costruire uno spettacolo didattico, puntando su un viaggio di conoscenza che non vuol essere, certo, un viaggio edificante.
Lo spettacolo, come ricorda lo stesso regista, fu concepito utilizzando la tecnica tradizionale del teatro, con fondali dipinti, e con molteplici trasformazioni e cambiamenti a vista, avendo come fine la maniera più semplice per realizzare, su un palcoscenico, il sogno di tutti: quello di cercare la felicità col ricorso all’infanzia, perché grazie ad essa può accadere, come sostiene Luca Scarlini, che si possa escludere la violenza, perché con l’infanzia al potere si viene a creare un antidoto alle idee forsennate delle nazioni che, in quegli anni, si preparavano alla corsa agli armamenti e al primo conflitto mondiale. A Milano, lo spettacolo fu programmato al Teatro Nazionale (1980). Fortemente voluto da Giordano Rota, tra i tanti protagonisti ricordiamo Franco Branciaroli, Regina Bianchi, Mauro Avogadro, Marisa Fabbri, Fabio Grossi e Piero Di Iorio. La Stagione 1979/80 dell’ERT fu molto felice. Ricordiamo, oltre L’uccellino azzurro, Il Gabbiano, con la regia di Lavia; Come le foglie, regia Giancarlo Sepe; Edipo tiranno, regia Benno Besson, con uno straordinario Vittorio Franceschi; Antonio Ligabue, regia Memè Perlini. Quando il teatro non si perdeva in chiacchiere o in fatue teorizzazioni.