Enriquez: trent’anni di successi, dalla prosa all’Opera. I primi debutti al Piccolo. Poi in TV. E la Compagnia dei Quattro
Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»
Franco Enriquez (1927- 1980) è nato sei anni dopo Strehler, eppure, quando collaborò con lui, come assistente, credette di avere a che fare con un vecchio maestro, avendone intuito la grandezza. Era stato anche assistente di Visconti, ma lui si sentiva più vicino al fondatore, insieme a Grassi, del Piccolo Teatro, dove potrà vivere i suoi anni di «Accademia» e dove debutterà, come regista, a soli ventiquattro anni, con Cesare e Cleopatra di Shaw (1952), con la Compagnia Ricci-Magni.
Sempre al Piccolo, l’anno successivo, metterà in scena: Le veglie inutili di Giancarlo Sbragia, attore, ma anche autore, di cui si ricorda un bellissimo testo, Il fattaccio di giugno, 1967, andato in scena, sempre al Piccolo, con la sua regia.
Enriquez fu subito notato dai direttori della Rai, appena nata, scritturato per una serie di spettacoli teatrali che dovevano essere trasmessi dalla Televisione. Accettò, con la consapevolezza di utilizzare spazi e tecnologie diverse, tanto che le sue messinscene non potevano non risentire della sua formazione prettamente teatrale.
Nel 1954, primo anno di trasmissione della Rai TV, realizzò ben sei spettacoli, di autori come Goldoni, Shakespeare, Dostoevskij, Pirandello, ottenendo dei risultati sorprendenti, fino a raggiungere 18 milioni di spettatori.
Un volume, a cura di Paolo Larici, Franco Enriquez e il teatro di regia, edito da Cue Press, raccoglie una serie di testimonianze e di saggi critici che riportano al centro della storiografia teatrale la figura dell’artista fiorentino che seppe dare un notevole contributo a quella «regia critica» che, oltre a Visconti, Strehler e De Bosio, vantava dei continuatori proprio in Enriquez, Missiroli, Puecher, Tolusso, Cobelli, Puggelli, Pagliaro, e, successivamente, in Ronconi, Calenda, Castri, Lavia, Andò, Andrée Shammah.
Per trent’anni, libero da pregiudizi estetici, attento alla creazione di uno stile personale, Franco Enriquez è stato protagonista della scena italiana, imponendosi come un battitore libero, tanto da vederlo impegnato, oltre che negli spettacoli televisivi, anche nel teatro d’Opera, in Festival come quello del Dramma Antico di Siracusa, dove ha realizzato ben quattro tragedie: Le Fenicie (1968), Ippolito ed Elettra (1970), Medea (1972), il cui successo fu tale da essere insignito col Premio Eschilo d’oro, o in Festival come quello di San Miniato, dove realizzò Abelardo ed Eloisa (1978), con Glauco Mauri e Valeria Moriconi che ebbe un successo straordinario, tanto che Enriquez propose, per la stagione successiva, Conversazione con la morte di Testori, impresa impossibile, perché la morte lo colse l’anno dopo.
A Enriquez, dobbiamo alcuni spettacoli memorabili, a cominciare da La rosa di zolfo di Aniante, che debuttò al Festival di Venezia, al Rinoceronte di Ionesco, una novità straniera che fece esauriti in tutti i teatri d’Italia, grazie al quale, la critica gli riconobbe uno stile personale, oltre che un gusto particolare, per la sua capacità di alternare autori classici con autori moderni. De Monticelli scrisse: «Valeva la pena scendere quasi tutta la penisola per andare a vedere a Napoli Il rinoceronte di Ionesco che ha fatto registrare il tutto esaurito per diverse sere al Mercadante. È un risultato sorprendente, lo spettacolo è assai efficace nella sua rigorosa semplicità».
Enriquez vive, sulla pelle, il decennio 1968-78, con La Compagnia dei Quattro, con cui mette in scena altri autori poco noti, come Horvarth, Valle Inclan, Wescher, Durrenmatt, Max Frisch, il cui Andorra, una scelta controcorrente, visto il tema dell’antisemitismo, divenne una specie di consacrazione critica, poiché gli veniva riconosciuto anche il coraggio delle scelte. Dino Villatico, nel suo intervento, sostiene che Enriquez riusciva a dare un tocco universale alle sue messinscene ed aggiunge che «nel teatro di parola l’andamento sembra musicale, mentre in quello musicale sembra alludere al teatro di parola».
Michele Mirabella ricorda i suoi inizi accanto a Enriquez, come assistente alla regia, nel Macbeth, che ritiene una delle regie più belle, ammettendo che, grazie a lui, ebbe modo di capire la tragedia di Shakespeare, pur avendo letto e riletto le pagine del testo.
A Paolo Larici, curatore del volume, dobbiamo l’analisi delle varie versioni della Bisbetica domata, in particolare della prima edizione, quando Enriquez portò in scena la Compagnia dei Quattro su una Balilla, alludendo a un segnale critico e irriverente nei confronti del regime; la Balilla divenne il «moderno cavallo di raggiro, la perfetta trasposizione di una burla».
Giovanni Antonucci inquadra, storicamente, tutte le regie teatrali realizzate da Enriquez per la televisione, attribuendogli il merito di aver trovato un ritmo narrativo e drammaturgico che divenne uno stile, oltre che un modello, per altri registi televisivi. Claudio Di Scanno lo definisce un regista che ha sempre amato il rischio perché scavalcava «il confine della realizzazione scenica».
Il libro, oltre che riconoscere in Enriquez un maestro di regia, tanto che Riccardo Muti, all’inizio del volume, lo definisce «uno dei più grandi registi italiani», si caratterizza per I Diari del Premio Nazionale a lui dedicato e per una ricca iconografia.
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