Indagine sul Verga ‘fiorentino’ quando Verga sceglie la solitudine
Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»
Quando, nel 1972, uscì il saggio di Siro Ferrone Il teatro di Verga, oggi riproposto dalle Edizioni Cue Press, la bilbiografia verghiana vantava i nomi di Sapegno, Momigliano, Flora, Russo, tutti attenti a esplorare le Opere narrative.
L’operazione di Ferrone si rivelò innovativa, non solo perché Il teatro di Verga divenne oggetto di una monografia, ma perché esso fu indagato alla luce di quanto accadeva sulla scena italiana dopo l’unità d’Italia precisamente dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, che vantava già una cattedra di Letteratura drammatica (1859), affidata a Francesco Dall’Ongaro, e una Scuola di Declamazione, diretta da Filippo Berti, alla quale seguirà quella di Luigi Rasi nel 1882.
Ferrone non ha dubbi nel dichiarare Firenze ‘Capitale del teatro borghese’, non perché si oppone al provincialismo di coloro che accettavano, passivamente, l’imitazione del dramma romantico di Dumas, Scribe, Sardou, ma perché si sforzò di promuovere una drammaturgia capace di educare il gusto del pubblico della nuova Italia, promuovendo concorsi, dibattiti teorici che vedevano impegnati, oltre che il Dall’Ongaro, Lorenzo Trevisani e Luigi Capuana, diventato critico drammatico della Nazione.
Ferrone inizia la sua indagine sul Verga ‘fiorentino’, quando questi partecipa a un concorso, nella neocapitale, con un testo, I nuovi tartufi (1865) che però non ebbe successo, anzi fu bocciato; lo si può leggere nella versione curata da Carmelo Musumarra per la Nuova Antologia, con prefazione di Giovanni Spadolini.
Si può dire che, proprio in quell’anno, nacque in Verga l’amore per il teatro, che diventerà oggetto del romanzo Una peccatrice, dove il protagonista è un drammaturgo appassionato che sedurrà la contessa Narcisa Valeri, grazie alla notorietà dovuta al suo dramma Gilberto che aveva ottenuto un grande successo.
Firenze era diventata non soltanto il centro della vita politica ma anche di quella culturale e teatrale grazie alle sue undici sale, alle Accademie, agli impresari e agli intellettuali che volevano riformare tutto.
Nel 1869, durante il secondo periodo fiorentino, Verga proverà ‘un’attrazione fatale’ per quell’ambiente, pertecipando a tutti i dibattiti, durante i quali i critici si interrogavano sulle nuove soluzioni estetiche, più attente alla ricerca del vero o di quel ‘genere rusticale’ tanto caro al Dall’Ongaro.
La spinta verso la realtà comportava una diversa articolazione dei Caratteri, sia a livello narrativo che teatrale; Capuana distingueva i caratteri ‘permanenti’ da quelli ‘transitori’ , se non addirittura di ‘carne viva’. L’obiettivo era quello di estinguere il realismo sentimentale per sostituirlo con la ricerca del vero, oltre che di un nuovo sistema di valori che prediligesse l’oggettivazione della realtà, affinché l’arte si rivolgesse non al cuore ma ai sensi. Occorreva, pertanto, una nuova Riforma che andasse oltre la materia romantica e intimista, per sperimentare forme e linguaggi diversi, magari pesando all’uso del dialetto, anche se Capuana si oppose perché lo considerava inferiore sia per i mezzi che usa sia per le stesse intenzioni artistiche, benché esprimesse parole di lode per Monsu travet di Berserzio (1863) e benché altri testi dialettali si rivelassero, successivamente, dei capolavori come Cavalleria rusticana (1884), Miseria e nobiltà (1888), El nost Milan (1893).
Simili considerazioni diventeranno, per Ferrone, materia dei suoi tre volumi sul Teatro borghese dell’Ottocento, editi da Einaudi nel 1979.
Partendo da queste premesse lo studioso ci introduce alla ‘lettura’ dei testi teatrali, da Rose caduche a Cavalleria rusticana, da In portineria alla dissoluzione del verismo con La lupa, fino alla incompiuta Duchessa di Leyra che rappresenta il fallimento del disegno ciclico, dopo I Malavoglia e Mastro don Gesualdo.
Nel secolo che stava per finire, Verga sceglie la solitudine, benché continuasse a ricercare, nel teatro, alcuni punti di fuga, un teatro meno corale, come in Caccia al lupo e Caccia alla volpe, due bozzetti andati in scena nel 1901, o più attento ai problemi sociali, come Dal tuo al mio.
Per Siro Ferrone si tratta di ‘passi indietro’, di ‘rinunzia alla diretta immolazione di sè’ che gli aveva dato più soddisfazioni in sede narrativa che teatrale. Il volume è corredato da una ricchissima bibliografia.