Scritti sul teatro di Fadini
Andrea Bisicchia, «Il mondo», 1/2024
Non c’è dubbio che, per chi scrive per un giornale, debba rispondere alla ideologia del proprietario, e non c’è dubbio che, quando si è intervistati da una testata, di destra o di sinistra, bisogna, in parte, concedere qualcosa in cambio, per dare un senso di parte al titolo dell’articolo. Per quanto riguarda la figura del critico, si può dire che egli subisca di meno il rapporto di subalternità, specie oggi, visto che i direttori dei giornaloni, si interessano, soprattutto, di confezionare la prima pagina, poco interessandosi delle altre che non leggono neanche. Questo atteggiamento permette, ai pochi critici rimasti, di sentirsi più liberi e di non accettare nessuna velina.
Simili considerazioni mi sono venute in mente leggendo il libro dedicato a Edoardo Fadini (1928-2013): Scritti sul teatro. Interventi, recensioni, saggi, a cura di Armando Petrini e Giuliana Pititu, edito da Cue Press. Il volume raccoglie molte delle sue recensioni, apparse su «l’Unità» dal 1965 al 1969, su «Rinascita», dal 1966 al 1975, sul Trimestrale «Teatro», di cui era direttore insieme a Bartolucci e Capriolo, su «Sipario», 1968-76 e sulla rivista «Fuori campo» 1972, ai quali vanno aggiunti dei saggi che lo hanno impegnato nel periodo che va da 1987 al 2006.
Come è possibile intuire, dalle date, Fadini ha molto contribuito a chiarire certe situazioni assunte dal teatro italiano dal 1968 in poi, gli anni della rivoluzione culturale, quando fondò il Cabaret Voltaire, fino all’inizio del terzo millennio, e lo ha fatto con una serie di strumenti diversi, avvalendosi, in molti casi, della recensione, per poter fare delle considerazioni di carattere saggistico. I suoi presupposti teorici sono da ricercare negli autori, di scuola francese, da lui letti, come Blanchot, Barthes, Foucault, Lacan, Derrida, ai quali, un po’ tutti, ci siamo abbeverati, dato che aprirono un ampio dibattito sul linguaggio e sulla scrittura, oltre che sul ruolo della parola. Vengono in mente: Lo spazio letterario (1955) di Blanchot, il cui cammino saggistico si concluderà con La scrittura del disastro (1980), libri fondamentali per cercare di dare delle risposte a ciò che accadeva, non soltanto, nell’ambito della letteratura, ma anche del teatro.
Nel 1968, il teatro viveva una stagione di ripensamenti, di protesta contro le Istituzioni teatrali, diventate elefantiache, contribuendo a quel ‘disastro’, di cui parlava Blanchot, con le sue accuse contro le ideologie, ma anche con la convinzione di quanto fosse difficile salvare una umanità allo sbando, per la quale non basta la scrittura. Fadini parte proprio da qui, dal rapporto tra scrittura letteraria, quella che veniva utilizzata dai Teatri Stabili e scrittura scenica, quella utilizzata dai gruppi emergenti, dopo il Convegno di Ivrea, a cui egli dedica un saggio illuminante.
Il volume parte da una specie di ‘anno zero’ che, per quanto riguarda gli Stabili, coincideva con le dimissioni di De Bosio, a Torino, e di Strehler a Milano, dove, nel frattempo, nascevano nuove realtà come il Pier Lombardo e il Crt e dove Dario Fo iniziava la sua nuova avventura con La Comune, per arrivare al periodo del Decentramento, quello vero, e non «quello spostato in luoghi più o meno poveri», che aveva cambiato i rapporti tra scena e platea, tra testo scritto e testo agito.
Fadini non ha peli sulla lingua quando c’è da schierarsi anche contro Strehler, magari per evidenziare il lavoro di Mario Ricci, di Carmelo Bene, (benché non fosse amato dal Pc), di de Berardinis, di Quartucci, indicando metodi di lettura che non dovevano limitarsi a ‘vedere‘ cosa accadesse sulla scena, ma a capire quali emozioni essa fosse capace di suscitare, essendo, per lui, la scrittura una «forma di esistenza».
Per questo motivo, egli si schierò contro il vecchio concetto di regia, preferendo un nuovo approccio performativo al palcoscenico, motivo per il quale, concepì il teatro come ‘evento‘, persino politico, e non solo come espressione estetica. Riteneva necessario prima capire e, quindi, ‘decifrare’ tale scrittura, ed esortava, nello stesso tempo, a intendere il concetto di ‘mutamento’, lo stesso che Sisto Dalla Palma aveva suggerito nel suo volume: Teatro dei mutamenti. C’era bisogno, secondo lui, che il teatro si autodistruggesse per rinascere, attraverso un nuova carica sensoria, da contrapporre alla ricerca dei significati.
I libri
I libri menzionati nell’articolo corrente