Il teatro del futuro di Georg Fuchs
Andrea Bisicchia, «Graphie», anno XXI, n. 88
Il teatro è soprattutto luce. In un momento in cui il teatro italiano si caratterizza per la sua inessenzialità, o meglio, per assenza di necessità, avendo abiurato alla sua funzione, per scimmiottare con le contaminazioni provenienti dalla tecnologia più sofisticata, dalla letteratura, dalla filosofia, forme considerate spurie, leggere II teatro del futuro di Georg Fuchs, che Mattia Visani ha pubblicato per Cue Press, è come abbeverarsi alla fonte. Nel senso che l’autore tedesco, scagliandosi contro il Naturalismo del suo tempo, propose una specie di secessione scenica, un po’ simile a quella del ‘Secessionismo’ pittorico, per il ripristino del teatro delle origini, in nome del quale, propose una ‘riteatralizzazione’, intendendo, con questo termine, un teatro capace di rinascere partendo proprio dalle sue fonti, ovvero dalle sue radici rituali, cultuali e orgiastiche, col recupero del Coro, delle Cerimonie, dell’idea di Sacrificio, e dallo spazio, concepito come recinto sacro e come luogo comunitario.
Per Fuchs il teatro è prima di ogni cosa ritmo, tanto da delegare l’attore a metterlo in pratica, ad assumere un compito di ‘traslazione’, rifiutando il compromesso con qualsivoglia forma di estetismo, da intendere come una specie di vuoto che l’attore dovrà riempire con la sua ‘esperienza vissuta’ (Erlebnis). Oggi assistiamo a un riscatto estetico della forma teatrale, creato da un efficace uso della tecnologia, magari con risultati sorprendenti dal punto di vista visivo, ma certamente nudi dal punto di vista concettuale, tesi a sottolineare il gusto della meraviglia, tipico della scena barocca, che Fuchs rifiutò considerandola puro ornamento, se non puro formalismo. Questo tentativo di analizzare ‘il teatro del futuro’, rapportandolo alla situazione attuale, per capire quanto sia necessaria la visione di Fuchs, oltre che il suo ostracismo nei confronti della letteratura e della narrativa che, oggi, abbondano sui nostri palcoscenici, vorrebbe dimostrare come, simili ricorsi, abbiano poco a che fare con l’essenza del teatro e con la sua stessa autonomia. Fuchs non nascondeva il suo disprezzo per il teatro convenzionale, che riteneva degradato, non amava quello intellettualistico, considerava fondamentale il ritorno alla ritualità, quella che sapeva far convivere la poesia con la danza, come accadeva nel teatro greco o in quello giapponese, per i quali, il movimento ritmico del corpo dell’attore, doveva svincolarsi da ogni dimensione coscienziale e tendere a una ‘magica euritmia’, a una sorta di trance, per andare in cerca della valenza catartica della messinscena. In fondo, diceva Fuchs, il dramma era nato dalla danza che prendeva quota nel suo movimento festoso e cerimoniale, nella capacità di fare rientrare la parola nella indicibilità del mistero. Per questa tipologia di teatro, era necessaria anche una nuova forma architettonica che egli realizzerà insieme a Litmann, con la divisione del palcoscenico in tre parti, formati da un proscenio, da un palco centrale e da un palco arretrato, in modo che lo spazio scenico risultasse suddiviso in tre paratie, con le due parti posteriori da utilizzare per veloci cambi di scena e per grandi scene di massa. Non servivano né graticce, né sottopalchi per macchinari, tutto doveva avere il segno dell’autenticità, senza nessuno effetto naturalistico che gli attori dovevano rifiutare a vantaggio di una interpretazione ritmica. Fuchs diceva: «Il teatro è, soprattutto, luce».
Il volume è preceduto da una introduzione di Eloisa Perone, studiosa del teatro Espressionista di cui, a suo avviso, Fuchs fu un anticipatore.