Le visioni spietate
Luca Scarlini, «La Falena»
Il Premio Nobel per la Letteratura assegnato a Jon Fosse
Gli onori non sono mancati a Jon Fosse, assai prima del Premio Nobel gli è stato concesso l’onore di risiedere come artista nazionale nel castello di Grotten dalla corona di Norvegia e nel 2007 il governo francese gli ha assegnato il cavalierato per l’Ordre National du Mérite. Proprio Parigi è stata la città che gli ha tributato i primi riconoscimenti: la casa editrice L’Arche, eccellente per le proposte nel repertorio contemporaneo, ha tradotto quasi tutta la sua produzione, spesso per le cure sapienti di Terje Sinding, che ha lavorato a lungo con l’autore. Risuonava subito, per la critica d’Oltralpe, un evidente legame con il teatro simbolista, e specialmente con il repertorio di Maurice Maeterlinck, scrittore che sembra più rilevante come fonte di meccanismi scenici, rispetto al connazionale Ibsen e a Beckett, che sono diventati centrali nella «vulgata» internazionale.
Fondamentale è stato l’impegno di Claude Régy (scomparso nel 2019) per la diffusione della sua opera. Non per caso aveva firmato un’edizione magistrale de La mort de Tintagiles del maestro fiammingo delle attese e dei silenzi nel 1996 e da lì era passato nel 1999 al lancio di Fosse con una regia magistrale di Qualcuno verrà, testo magnifico, intriso di minacce metafisiche, in cui si narra la presenza inquietante, presso una dimora, di forze oscure che sono in agguato e che stanno per attaccare. Delle produzioni seguenti del regista francese è stata memorabile anche Variazioni di morte (2003), uno dei punti massimi dell’opera dello scrittore norvegese. Sempre Régy ha rivelato al pubblico francese l’altro drammaturgo norvegese di grande rilievo, assai meno noto da noi, Arne Lygre, autore di apocalittiche saghe familiari, tra i Buddenbrook e Festen, di cui ha realizzato Homme sans but nel 2007 (che Jacopo Gassmann ha allestito con il titolo L’uomo senza meta).
L’opera di Fosse nasceva in primo luogo in confronto con il doppio registro della lingua norvegese, scegliendo le suggestioni minimali del nynorsk o neonorvegese, versione essenziale della lingua, praticata in origine nelle aree rurali, ma poi utilizzata da numerosi intellettuali e contrapposta al più complesso idioma bokmål, parlato dalla maggioranza della popolazione. Usare il neonorvegese è una scelta polemica, contro la tradizione recente della cultura canonica.
I primi testi lo dichiarano: l’affermazione dello scrittore nel suo paese arriva con Il nome nel 1995. Una dinamica familiare tesa, intorno alla gravidanza della figlia, induce scontri continui sul nome da dare al nascituro, che è l’innesco per la denotazione di un’intera serie di conflitti. La determinazione di quell’appellativo concerne identità turbate, agitate, che trovano se stesse solo nello scontro.
La sintesi estrema dei percorsi linguistici scelti deriva anche dall’intensa frequentazione giovanile del mondo rock come chitarrista. Fosse suonava in una band e ha sempre ribadito la centralità dell’esperienza musicale per la sua scrittura. Nel mondo di Fosse teatro e narrativa hanno le stesse forme: identico ritmo, non per caso spesso i romanzi trovano la via della scena.
Il maggiore tra i lavori narrativi ad oggi è Melancholia 1 e 2, uscito in Italia da Fandango nel 2009. Si tratta di un monologo disperato e fratturato dalla follia, che porta al centro l’identità dolente di Lars Hertervig, tra i massimi artisti norvegesi all’epoca del Romanticismo, che dopo gli studi a Düsseldorf, divenne preda della follia, e venne rinchiuso in manicomio, terminando la sua esistenza ramingo, vivendo di elemosina. Basti citare l’esordio, nella traduzione di Cristiana Falcinella: «Düsseldorf, pomeriggio, tardo autunno 1853: sono sdraiato sul letto, indosso il mio abito di velluto color malva, il mio bellissimo abito, e non voglio incontrare Hans Gude. Non voglio sentire Hans Gude dire che non riesce a farsi piacere il quadro che sta dipingendo».
La prima parte della produzione, fino a una dichiarata conversione al cattolicesimo nel 2012, spesso è segnata da una visione spietata, quasi nichilista, dell’impossibilità della comunicazione, dello scambio di energie per tramite di parole, come dichiara la tormentosa ricerca ne Il nome, in cui ogni appellativo proposto è specialmente problematico.
In Italia all’inizio Fosse è stato pubblicato da Editoria & Spettacolo, a cura di Rodolfo Di Giammarco, insieme a Titivillus, da Fandango per la narrativa. Ora invece l’edizione è curata da Nave di Teseo per i romanzi (Mattino e sera, agile e assai incisivo, e la complessa Settologia, riassunto di tutte le sue ricerche e enorme opera, di cui sono usciti intanto i due primi capitoli L’altro nome e Io è un altro, esplicita citazione da Rimbaud), in cui sono distillate all’estremo le ossessioni e le tematiche ricorrenti dello scrittore. Esce in questi giorni di novembre 2023 una ristampa necessaria di Melancholia, da molto tempo non più reperibile. Cue Press ha invece pubblicato i maggiori testi teatrali Caldo (nella bella traduzione di Franco Perrelli), un’antologia di Teatro, a cura di Vanda Monaco Westerståhl e gli interessanti Saggi gnostici (sempre a cura di Perrelli), scelta di testi dagli anni Novanta, in cui affronta i nodi principali della sua drammaturgia (differente dalla sua produzione più recente).
In un testo del 1992 dichiara il suo profondo legame con il nynorsk: «Sono uno di quelli che ha sempre scritto in nynorsk che ho imparato alla scuola elementare, media e superiore, con un’istruzione basata su principi tradizionali, e sono contento di aver ricevuto un’educazione tradizionale; la scuola non ha tentato d’insegnarmi a scrivere bene, ma più che altro correttamente, in modo che potessi tenere per me il piacere della scrittura letteraria, ed è stata una buona cosa, giacché andare a scuola non è mai stato e non sarà mai una cosa gradevole per tutti, trattandosi, al contrario, di un impegno che susciterà sempre riluttanza in alcuni studenti, come me, una resistenza che in parte si proietta anche sulle materie che vengono impartite. Per esempio può farmi ancora piacere usare in nynorsk certe parole di norvegese bokmål che gli insegnanti all’epoca segnavano in rosso, e mi fa piacere scrivere periodi lunghi e impossibili e via dicendo, ma, a onor del vero, dovrei pure ricordare che questo piacere è assai diminuito con gli anni».
La scelta dell’idioma e quindi la definizione del nome sono altrettanti elementi principali di una scrittura che scava all’estremo nella psicologia.
L’avventura scenica di Fosse in Italia è stata ricca di appuntamenti, ma con produzioni che talvolta non hanno lasciato il segno. In ogni caso l’autore è ormai tra i contemporanei più rappresentati, forse anche per l’ingannevole semplicità che propone: interni domestici, dialoghi scarni di solito orchestrati per pochi attori. Renzo Martinelli aveva firmato Il nome (1994), Sandro Mabellini Qualcuno arriverà (2001), Barbara Nativi (il magnifico, bergmaniano Sogno d’autunno nel Festival Intercity Oslo, 2001), Beno Mazzone (E la note canta, 2004) e Valter Malosti ha colto uno dei risultati più felici con Inverno, interpretato dal regista insieme a Michela Cescon (2003).
Il Nobel ha onorato un autore che ha saputo trovare una forma sintetica ed evocativa allo stesso tempo, per riportare in epoca postmoderna il discorso sull’anima, punto centrale di una corrente assai forte della produzione nordica dal simbolismo ad oggi, che agisce in dialettica con un’altra visione di realismo estremo, che pure si carica di risonanze simboliste. Non per caso, come scrive Fosse, per lui è stata centrale la visione di Comunione di Lars Norén, straordinario autore svedese, oggi poco frequentato da noi, di cui ha scritto in omaggio (sempre in Saggi gnostici): «In vita mia, ho avuto una grande esperienza teatrale ed è stata, a metà degli anni Ottanta, una cupa sera d’autunno, in una grande sala teatrale semivuota, alcune anime sedute sparse per la sala, alcuni attori sulla scena. E a un certo punto avvenne qualcosa, sulla scena, fra la scena e la sala, non saprei, qualcosa avvenne e ad accadere non era nessun particolare relativo al dramma, né altro che si possa indicare nella regia o nell’interpretazione, bensì il dramma nella sua durata si concentrava in un’esperienza intensa che posso ancora avvertire viva dentro di me. Allora e in seguito ho visto cattivo teatro, ma se una volta sola hai visto buon teatro, ti riscatta da tuto il cattivo in cui t’imbatterai».