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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

15 Novembre 2023

Non si può mettere un punto alla scrittura del Premio Nobel Jon Fosse

Enrico Montanari, «Il Libraio.it»

Lo scorso 5 ottobre è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura del 2023 allo scrittore e drammaturgo norvegese Jon Fosse «per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile». Un riconoscimento che ha risvegliato l’interesse per le opere di narrativa dell’autore (nato a Haugesund il 29 settembre 1959), oltre che per i testi teatrali per cui era già apprezzato (non a caso è stato definito «il Samuel Beckett del XXI secolo»). A questo proposito, per chi volesse recuperare la bibliografia di Fosse, tra le pubblicazioni a sfondo saggistico e drammaturgico segnaliamo tra le prime uscite Teatro («Editoria e Spettacolo», 2006, a cura di Rodolfo di Giammarco) e Tre drammi («Titivillus», 2012, traduzione di G. Perin e F. Ferrari), passando poi a Saggi gnostici (2018, a cura di Franco Perrelli), Caldo (2019, a cura di Franco Perrelli) e Teatro (2023), volumi editi dalla casa editrice delle arti e dello spettacolo Cue Press.
Per quanto riguarda invece le opere di narrativa, lo scrittore è stato proposto in un primo momento da Fandango con Melancholia (2009, con la traduzione di C. Falcinella) e Insonni (2011, traduzione di C. Falcinella). Due pubblicazioni a cui ha contribuito lo scrittore Sandro Veronesi, che in un’intervista a il Libraio.it ha affermato, tra le altre cose, che «alla fine il tempo ha dato ragione alla grande opera di Jon Fosse». Delle dichiarazioni esultanti a cui sono affiancate quelle di Elisabetta Sgarbi, che con La nave di Teseo pubblica attualmente l’opera narrativa del Premio Nobel («Mi sono commossa», ha raccontato in seguito alla vittoria). La casa editrice milanese ha infatti tradotto le ultime uscite di Fosse, tra cui Mattino e sera (2019), L’altro nome (2021) e Io è un altro (2023). Inoltre, dal 5 dicembre ritorna disponibile, in una nuova edizione curata da La nave di Teseo, Melancholia, uno dei libri più evocativi e magnetici del premio Nobel per la Letteratura 2023. Questi ultimi due volumi fanno parte della Settologia, il romanzo-mondo strutturato in sette parti di Jon Fosse, da molti considerato il suo capolavoro. Una mastodontica impresa che fonde diversi generi e linguaggi, realizzando un ibrido tra letteratura e forma teatrale, dove il flusso di coscienza regna sovrano (anche dal punto di vista stilistico, dove non sono presenti punti fermi a interrompere la narrazione). «No, devo ritrarre l’immagine in modo tale che si dissolva e sparisca, come se diventasse una parte invisibile e dimenticata di me stesso, della mia stessa immagine interiore».

In L’altro nome di Jon Fosse (primo capitolo italiano della Settologia, edita da La nave di Teseo, che presenta i primi due capitoli tradotti da Margherita Podestà Heir) un nuovo anno sta per concludersi ed Asle, un anziano pittore rimasto vedovo, è intento a ripensare ossessivamente alla sua storia come un novello – e più politicamente corretto – Barney Panofsky. Tra i fiordi norvegesi, le piogge incessanti e i tergicristalli che battono ritmicamente, l’uomo abbraccia una solitudine pressoché totale, spezzata soltanto dal suo vicino, Åsleik, e da Beyer, un gallerista che vive in città e che ospita le sue opere. Lì vive anche l’omonimo Asle, artista solitario consumato dall’alcol. Un doppio che segue il racconto nebuloso del protagonista come una vivida ombra, assieme all’angelica figura di Ales, l’amata da tempo perduta. Immerso nel suo soggiorno/atelier, il pittore rivive la sua arte, vera e propria estensione della sua persona, che lo accompagna da sempre con un morboso legame odi et amo. Un grimaldello per far leva sull’indicibile per «l’affrescatore di ricordi» Asle, grazie al quale realizza la sua personalissima e disordinata sinfonia. La prova lampante di questa ossessione si ritrova nelle prime fugaci apparizioni, dove il protagonista – appartato – fruga nel proprio passato alla ricerca di ricordi dolce amari della coppia Asle/Ales, alle prese con un amore giovane che si muove sulle ali della leggerezza adolescenziale. Dal timido dondolare sull’altalena ai candidi angeli nella neve fresca, i ricordi dei due emergono durante la lettura come fantasmi da un passato lontano.
Jon Fosse, attraverso una scrittura frenetica, vorticante e straripante come un fiume in piena, realizza un’esperienza sensoriale e sinestetica, dove non è ammesso un singolo punto fermo a interrompere il fluire della narrazione. «Una scelta non prevista, è successo da sé, per non bloccare il flusso. Non pensavo neppure a un testo così lungo. Cercavo semplicemente una prosa lenta, un’opera a cui non servisse l’intensità drammatica del teatro, spesso forte come l’epifania di una poesia» racconta l’autore in un’intervista al Corriere della Sera. Nel testo, incessanti domande scandiscono il soliloquio di Asle, dettando ritmo e pause del flusso di coscienza, come boe a cui affidarsi per non affondare in un mare di ricordi, dubbi e malcelate verità. «Nessuno vedeva, tranne me e forse qualcun altro, che ciò che dipingevo erano le ombre, il buio in tutta quella luce, la vera luce, la luce invisibile, ma qualcuno lo vedeva?».

Un passaggio che esemplifica perfettamente l’abilità innata del pittore: dipingere le ombre, laddove la gente vuole rifugiarsi in spaziose case inondate di luce. Allo stesso modo Jon Fosse ricerca la verità nei particolari, anche e soprattutto nei difetti, che spesso e volentieri rappresentano la parte migliore di un quadro. La scrittura del Premio Nobel per la Letteratura del 2023 attinge a piene mani dalla forma teatrale, presentando incursioni religiose su Dio, sul battesimo, e confrontandosi con l’inspiegabile tragedia della morte (e con la convivenza con quest’ultima). «Sono nato nella Chiesa luterana, da ragazzo mi ritenevo ateo, influenzato dal marxismo. Poi sono diventato più religioso – forse a causa del mistero della scrittura: da dove viene ciò che scrivo?», si domanda in un’intervista a la Repubblica, parlando di spiritualità e arte.
La scrittura ha per Fosse la funzione di una velatura atta a conferire luminosità anche ai colori più scuri, come riportato anche in questo frenetico passaggio: «E continuo così, a volte soltanto con il bianco, a volte soltanto con il nero, ma sempre con il colore a olio molto diluito, insisto fino a quando il buio comincia a brillare, dipingo nell’oscurità con il bianco o il nero e a un certo punto il buio diventa luminoso, sì sempre, sì, sì prima o poi il buio comincia a splendere».

Nel secondo volume della Settologia, Io è un altro (edito da La nave di Teseo con traduzione di Margherita Podestà Heir, che presenta i capitoli dal tre al cinque), nuovi fantasmi emergono dal mellifluo e nebuloso passato di Asle. In questo volume, tra amori fugaci, le prove per rock band e le prime sigarette, i destini dei due Asle sembrano destinati a incontrarsi. E perchè no, anche a scontrarsi… Attraverso leitmotiv ricorrenti come onde che si infrangono con fare ritmico sulla battigia (tra cui l’ultimo quadro di Asle, somigliante a una Croce di Sant’Andrea), il pittore si addentra in un mare di nebbia alla ricerca di volti familiari, sfruttando la sua arte come risacca che porta a riva conchiglie e rifiuti. Dalla confusa figura della sorella, legata a un trauma invalicabile, a Testa Pelata, un individuo dal fare viscido che segna il finale de L’altro nome, in Io è un altro viene presentato a lettrici e lettori un racconto più lineare – dove sembra attenuata la sbornia stilistica di Fosse – pur rimanendo all’interno del serrato flusso di coscienza di Asle. Il tutto però presentando un tratto ricorrente: la preghiera-sipario, ovvero la chiusura del capitolo con uno scorrimento dei grani del rosario che – come lo scorrimento di un grande velo – detta ombra sul palcoscenico. Un’ombra fatta di «luminosa oscurità», che nelle opere dell’autore – attraverso una scrittura ispirata e irrefrenabile – è fonte di straripante ricchezza e vitalità. D’altronde, non si può mettere un punto alla scrittura del Premio Nobel Jon Fosse.

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12 Novembre 2023

Ikisaki intervista: Giacomo Calorio

Lorenzo di Giuseppe, «Associazione Ikisaki»

Giacomo Calorio, dottore di ricerca in Digital Humanities (Università di Genova), è attualmente ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione R. Massa dell’Università di Milano-Bicocca, CdS in Comunicazione Interculturale. I suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente intorno al cinema giapponese. Sull’argomento ha pubblicato, oltre ad articoli, saggi e recensioni, le monografie Horror dal Giappone e dal resto dell’Asia (2005), Mondi che cadono – Il cinema di Kurosawa Kiyoshi (2007) e To the Digital Observer – Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor (2019). Parallelamente svolge l’attività di traduttore di manga dal 2004.

Nella premessa di Ruggiti e silenzi: Mifune Toshirō scrivi che «questo libro parte da un altro libro, ma non è quel libro», riferendoti alla tua prima pubblicazione cartacea sull’argomento, Toshirō Mifune (2011).
Come e perché è nato l’interesse nella figura di Mifune all’epoca e in quale modo si è sviluppato fino a prendere forma nel tuo primo libro?

Kurosawa e Mifune sono stati per me, come per mezzo mondo qualche decennio prima, le due figure attraverso le quali, da adolescente, ho conosciuto il cinema giapponese e mi ci sono appassionato, e per questo motivo occuperanno per sempre un posto privilegiato nel mio cuore di cinefilo.
Detto ciò, devo ammettere che la prima versione del libro non fu affatto una mia idea: in realtà mi fu proposto, perché avrebbe dovuto essere il primo anello di un’ambiziosa collana sugli attori e le attrici del cinema asiatico curata da Dario Tomasi ed edita da L’Epos. Il progetto era intrigante, ma in un primo momento mi spaventò: non avevo idea di cosa scrivere a proposito di un attore, e ancor meno di come farlo, e l’idea di lavorare su un nome così grande mi sembrò una responsabilità che non sapevo se ero in grado di sostenere. Presto comunque mi appassionai davvero all’idea, e man mano che mi documentavo e che scoprivo o riguardavo i suoi film, il libro prese forma da sé. La struttura del resto era abbastanza semplice, anche se, nella prima versione, un po’ sbilenca, a causa del ruolo importante assunto dallo stesso Kurosawa nella carriera dell’attore e della mancanza di alcuni tasselli importanti della filmografia di quest’ultimo; che, coi mezzi e il tempo a disposizione di appena una dozzina d’anni fa, non ero riuscito a reperire: non solo film importanti di registi che con Mifune avevano instaurato relazioni proficue, come Taniguchi Senkichi, Inagaki Hiroshi e Kumai Kei, ma anche di veri e propri maestri della storia del cinema quali Naruse Mikio e Kinoshita Keisuke, più alcune perle a sé stanti come Kettō kagiya no tsuji (Vendetta for a samurai) di Mori Kazuo e Bakurō ichidai (Life of a Horse Trader) di Kimura Keigo, che molto ci dicono del Mifune dei primi anni Cinquanta nei due ambiti del jidaigeki e del gendaigeki. Negli anni, queste mancanze, insieme a quelle sul versante bibliografico, hanno fatto nascere in me un crescente senso di insoddisfazione che ha poi portato alla nascita di Ruggiti e silenzi.

Concentrandoci specificatamente su Ruggiti e silenzi, da lettore, appassionato e ricercatore-indipendente-alle-prime-armi, ho apprezzato particolarmente la struttura del libro, molto chiara, precisa e analitica nel delineare una figura complessa su cui si è scritto tanto.
Come è stato il processo di riscrittura e ri-progettazione del libro?

Da lettore amo la chiarezza, quindi cerco di scrivere cose che io per primo sarei in grado di comprendere. Per certi versi, la struttura complessiva del nuovo libro rispecchia quella del vecchio, ma l’ampliamento del primo e degli ultimi due capitoli mi ha permesso di accorpare i due che avevo dedicato a Kurosawa in uno solo. Questo, credo, rende la struttura di Ruggiti e silenzi più logica e sensata, ma soprattutto più equilibrata a livello di contenuti, prima eccessivamente sbilanciati sul versante del grande mentore.
La riscrittura si è basata innanzitutto sull’utilizzo delle fonti giapponesi, assenti nel libro del 2011, che mi sono state utili sia per integrare il testo con nuove e preziose testimonianze e prospettive critiche, sia per colmare almeno in parte, attraverso informazioni di seconda mano, pochi buchi tuttora rimasti rispetto ai film realmente visti e analizzati di persona. Negli ultimi due capitoli del nuovo libro compaiono quindi non solo intere sezioni dedicate ai film che all’epoca non ero riuscito ad analizzare – peraltro tutti di considerevole interesse per un motivo o per l’altro, e che nel tempo intercorso ho rimediato, guardato e studiato – ma anche informazioni più dettagliate relativamente a film tuttora irreperibili. Per le stesse ragioni, anche la filmografia finale è molto più completa e precisa. Non si tratta però solo di semplici aggiunte, perché tutte queste nuove informazioni mi hanno spinto anche a rivedere a livello più generale l’immagine che mi ero fatto di Mifune e delle evoluzioni della sua carriera, costringendomi a operare a livello più sistemico, rivedendo diversi passaggi o ri-orientandone il senso. Infine, col passare degli anni, anche i miei gusti rispetto alla scrittura sono cambiati, quindi i due libri risultano un po’ diversi anche sul piano stilistico.

Ritieni che il rapporto con Kurosawa Akira – visto nella sua totalità – sia una sorta di unicum all’interno del cinema giapponese o pensi che sussistano altre «coppie» regista-attore di questo tipo?
A me vengono in mente quella Kurosawa Kiyoshi-Yakusho Kōji e quella Kitano Takeshi-Ōsugi Ren, ma forse non hanno la stessa forza mediatica dei primi due…

Il cinema giapponese è ricco di collaborazioni solide e longeve tra un regista e uno o più attori. Lo stesso Mifune, come scrivo nel libro, instaurò relazioni proficue anche con altri cineasti, e in realtà il regista con cui lavorò di più fu Inagaki, non Kurosawa. Viceversa, quest’ultimo instaurò relazioni importanti e durature anche con altri interpreti: penso ovviamente a Shimura Takashi. Sull’altro versante, esistono senz’altro coppie regista-interprete altrettanto iconiche nella ricca storia di questa cinematografia: su due piedi penso a quella di Ozu con Hara Setsuko e Ryū Chishū, a quella di Naruse e Kinoshita con Takamine Hideko, a quella di Mizoguchi con Tanaka Kinuyo e Yamada Isuzu, a quella di Masumura con Wakao Ayako, a quella di Shindō con Otowa Nobuko, a quella di Kobayashi con Nakadai Tatsuya, a quella di Yoshida con Okada Mariko, a quella di Suzuki con Shishido Joe… e via dicendo, fino ad arrivare ai contemporanei che tu citi, ai quali aggiungerei forse anche i ruoli – non molti ma pregnanti – di Kiki Kirin per Koreeda. Detto questo, un po’ per le circostanze storiche a cui accennavo all’inizio, un po’ per l’effettiva estensione, la continuità, la solidità, la varietà, l’esposizione mediatica internazionale, ma anche per l’intensità e la caratura dei ruoli di quelle sedici collaborazioni, la coppia Mifune-Kurosawa rappresenta in effetti davvero una sorta di unicum, e non per niente i due sono associati sin dal titolo in più pubblicazioni monografiche incentrate sulla loro relazione, sia di lingua giapponese che inglese.

Oltre alle illuminanti intuizioni sulla filmografia kurosawaiana di Mifune, molto interessante risultano le parti dedicati ai jidaigeki oltre Kurosawa e i film ad ambientazione contemporanea.
Se ti dicessi di consigliare 3 film meno conosciuti al pubblico in cui Mifune è protagonista, quali sceglieresti e perché?

Faccio sempre difficoltà quando si tratta di scegliere. A ogni modo, volendo operare una scelta ragionata (per quanto estemporanea) basandomi su un titolo per categoria, direi innanzitutto, tra quelli di ambientazione contemporanea, il suo primo film, Ginrei no hate (Snow Trail) di Taniguchi, in cui Mifune offre un’interpretazione senz’altro acerba ma selvaggia che lascia ben intuire come mai l’attore si impose subito come un nuovo tipo di star nel clima dell’immediato dopoguerra. Tra i jidai-geki mi trovo parecchio indeciso ma, senza nulla togliere a quelli di certo più significativi e in linea coi tempi, diretti negli stessi anni da Kobayashi e Okamoto, mi sento di consigliare Furin kazan (Samurai Banners) di Inagaki, un kolossal di impostazione piuttosto classica ma importante perché rappresenta il canto del cigno sia del cinema del regista, sia della Mifune Productions, la casa di produzione fondata dall’attore. È un film da cui traspare un grande amore per una stagione del cinema (e di un genere) ormai al tramonto, girato e interpretato con una passione e un trasporto contagiosi – almeno per me.
Tra i film girati all’estero, infine, consiglierei senza il minimo dubbio Animas Trujano (The Important Man) di Ismael Rodriguez, il primo film girato da Mifune all’estero e quello di cui più andava giustamente orgoglioso. Il ruolo di quest’antieroe messicano ingenuo, alcolizzato e brutale gli calza addosso alla perfezione, e anche se per ovvie ragioni l’attore giapponese fu doppiato, resta la sua interpretazione migliore fuori dal suo paese (tra le poche davvero significative, a dirla tutta).
Se posso aggiungere un quarto titolo, direi Tōkyō no koibit (Tokyo Sweetheart) di Chiba Yasuki, una commedia romantica che fa emergere un Mifune, qui al fianco di Hara Setsuko, meno rude, selvaggio e granitico di quanto siamo soliti immaginare, ma che rispecchia effettivamente altri ruoli simili interpretati nella prima metà degli anni Cinquanta.

All’interno del panorama cinematografico dinamico e digitale attuale, che hai benissimo descritto nel tuo precedente libro To the Digital Observer: il cinema giapponese contemporaneo (2019), sembra che Ruggiti e silenzi sia una sorta di manifesto teso a indagare il cinema del passato e l’importanza di studiarlo per comprendere il presente, dentro e fuori lo schermo.
È così oppure c’è dell’altro?

Ti ringrazio per la fiducia, ma in tutta onestà questo libro non nasconde ambizioni tanto grandi. La genesi è quella che ti ho raccontato, ed è semplicemente un testo la cui stesura mi ha progressivamente appassionato. Allo stesso tempo, però, mentre lo scrivevo mi sono reso conto che le testimonianze e le considerazioni su Mifune in esso contenute raccontano, seppur indirettamente e a sprazzi, anche diverse cose del mondo in cui egli emerse e si mosse. Quindi, in effetti, ho pensato che poteva essere un tassello utile a conoscere non solo qualcosa sull’uomo, l’attore e il divo, ma anche su ciò che gli stava intorno (registi, colleghi, produttori, sceneggiatori, studi cinematografici, il clima e la mentalità del Giappone dell’epoca, i metodi di lavorazione, le evoluzioni del cinema – o almeno di una sua parte -, i suoi rapporti con gli altri media…). Ecco, se potesse servire anche a questo e interessare non solo i fan di Mifune e Kurosawa, mi farebbe senz’altro piacere.

Guardando alla schiera di ottimi interpreti maschili che il Giappone ha portato alla luce negli ultimi anni, anche globalmente, (Yakusho Kōji, Asano Tadanobu, Abe Hiroshi, Matsuda Ryūhei, ecc.), secondo te Mifune ha lasciato degli eredi a livello di tecnica interpretativa, carisma e attitudine?
Se sì, chi e perché?
Se no, pensi possa succedere?

Il cinema giapponese ha avuto e ha tuttora una schiera invidiabile di attrici e attori straordinari.
Mifune è stato per certi versi l’interprete ideale di un preciso periodo storico, e in effetti un po’ ha fatto scuola nei decenni immediatamente successivi al suo esordio nel delineare un nuovo tipo di eroe dinamico e selvaggio prima, più riflessivo poi, e un tipo di recitazione spontanea, istintiva e per certi versi dilettantesca (unita però a una dedizione e a una professionalità quasi ossessive). Nel suo caso sono in particolare il personaggio di Sanjūrō e la sua caratterizzazione a essere serviti da modello per tanti altri spadaccini erranti dagli anni Sessanta in avanti. Onestamente non so dire se oggi possano ripetersi le stesse circostanze, perché è il cinema stesso (giapponese e non) a essere radicalmente cambiato, così come la società e il mondo circostanti. Anche la storia personale di Mifune, come quella di molti attori che hanno vissuto la guerra, le ristrettezze postbelliche e il successivo boom economico, non trova paralleli nel mondo di oggi. Sicuramente si produrranno altre e diverse alchimie in futuro che porteranno alla ribalta dello scenario internazionale un determinato attore o una determinata attrice giapponese.
Il caso di Asano a cavallo dei due millenni presenta senz’altro dei punti in comune con quello di Mifune, anche se in un contesto più cult e meno esteso, mentre Yakusho, un interprete molto diverso, occupa certamente un posto altrettanto grande nel cinema giapponese degli ultimi trent’anni.
Aggiungerei alla lista dei nomi da te citati anche quello di Sanada Hiroyuki per via delle sue numerose interpretazioni all’estero. Il punto è che ognuno di essi rappresenta solo una diversa parte di ciò che Mifune rappresentò invece nella sua totalità. Ma questo, credo, è dovuto unicamente alle circostanze, non alla indiscussa bravura degli attori citati. Il futuro non so cosa possa riservarci, però se penso ad attrici emerse in questo millennio che hanno dato vita ad alcune interpretazioni particolarmente ruvide e intense, quali Andō Sakura (Love Exposure, 100 Yen Love…), Kishii Yukino (Small, Slow but Steady) e Miura Tōko (Drive My Car)… chissà, forse saranno loro a raccogliere il testimone?

Cosa consiglieresti a chi oggi vuole scrivere di cinema giapponese?

Io per primo sono in cerca di consigli che ricavo leggendo i libri scritti dagli altri, e non sono abbastanza sicuro e soddisfatto di ciò che faccio per poter rispondere a questa domanda, quindi mi limito a qualche considerazione. Scrivere di cinema giapponese oggi è per certi versi più semplice di un tempo perché la mole di opere, informazioni, testi e nuovi approcci disponibili, e la facilità con cui tutto ciò si può raggiungere, consente di farsi un’idea più completa del tutto. Ci sono anche più opportunità per studiare la lingua (o farsi aiutare dalla tecnologia, che evolverà sempre più) e andare sul posto, e quindi avere informazioni di prima mano. Chi scrive oggi può e deve approfittarne, senz’altro, e questa è una responsabilità in più rispetto a un tempo, perché potenzialmente consente di scrivere cose migliori e quindi ci sono meno «scusanti», diciamo. Ma il rovescio della medaglia è che la stessa sovrabbondanza di materia prima può scoraggiare e distrarre, quindi magari finisce che non approfittiamo di tutto ciò. E infatti ho qualche dubbio sul fatto che oggi scriviamo davvero cose migliori. Siamo umani, abbiamo dei limiti e dobbiamo trovare il tempo e la concentrazione per focalizzarci su una cosa e svilupparla con cura, precisione e chiarezza nonostante tutto, tenendo al contempo in considerazione il contesto più ampio che la circonda.
Lasciando invece i consigli a voci più autorevoli della mia, e quindi prendendoli come suggerimenti rivolti a me stesso, penso da un lato a André Bazin che, in riferimento a Rashōmon, ribadiva l’universalità del linguaggio cinematografico, ammettendo tuttavia con estrema umiltà di non avere gli strumenti per cogliere alcune specificità culturali dell’opera; dall’altro a Yomota Inuhiko che, parafrasando, in tempi più recenti ha evidenziato come, per capire appieno il binomio «cinema giapponese», si debbano conoscere sia «il cinema» che «il Giappone». Credo che si possa tranquillamente scrivere di cinema giapponese conoscendo solo uno dei due poli della locuzione, e anche ricavarne articoli o libri interessanti.
Per farlo davvero con cognizione di causa e non incorrere in equivoci sarebbe però meglio avere una minima conoscenza di entrambi. Altrimenti si rischia, da un lato, di scrivere di cinema con scarsa proprietà di linguaggio e in maniera approssimativa, senza sapere cosa esso è realmente e come funziona un film (e quindi cosa esprime la sua grammatica), né come contestualizzarlo nella storia del cinema mondiale (non dimentichiamo che la storia del cinema giapponese è improntata all’ibridismo dalla sua nascita sino a oggi, e non ha mai davvero viaggiato da sola). Viceversa, senza una minima conoscenza del Giappone si rischia di scrivere di un oggetto che nasce in seno a una cultura specifica (attenzione, non unica né isolata: specifica), senza comprenderne i riferimenti (estetici, sociali, intra- e intermediali, eccetera), e anche questo può portare ad approssimazioni, esagerazioni, esotismi vari, interpretazioni errate. È una banalità ma, come dicevo, più che un consiglio è un proposito.

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4 Novembre 2023

Strade maestre. I cardini della drammaturgia europea

Valeria Ottolenghi, «Gazzetta di Parma»

Quest’estate ai festival si è parlato spesso di maestri. Le coincidenze stimolano pensieri. Da diversi anni – quindici se non si va errando – a Radicondoli, nel bel territorio senese, viene nominato un Maestro di Teatro, con una giuria che decide tra i nomi indicati dal mondo dello spettacolo, che comprende anche gli spettatori. Nel bando questa la domanda: «Ci sono stati/ci sono maestri di teatro che vi hanno aiutato a crescere, figure particolarmente disponibili, capaci di ascoltare, di mettersi a confronto con generosità?». Anche il nome di Gigi Dall’Aglio in questa sorta di albo d’oro.

Da qualche edizione il glorioso Kilowatt dedica un tempo speciale – con spettacoli, dialoghi, video – a una figura importante per il teatro: lì, a Sansepolcro, in territorio aretino, abbiamo incontrato, con Pippo Del Bono, alcune sue opere, nell’ultima edizione invece Antonio Latella, non a caso già Maestro a Radicondoli. Non solo: da un paio d’anni Paola Pedrazzini con Bottega XNL ha fatto nascere a Piacenza, su modello di Fare Cinema, di cui è responsabile (maestro di riferimento Marco Bellocchio) anche Fare Teatro, facendo incontrare ogni anno un gruppo di attori con un maestro, con cui viene allestito uno spettacolo, il corso gratuito, le giornate di rappresentazione (pagate), il debutto a Veleia.

Ma al di là di Radicondoli, di Sansepolcro e della Bottega piacentina, il motivo di questo ritorno tematico, che subito accendeva gli animi, rendeva effervescenti i pensieri, era il libro Strade maestre di Corrado D’Elia e Sergio Maifredi, ed. Cue Press. Un vero viaggio per incontrare, interrogare – e moltiplicare, quindi, quesiti, confronti, ipotesi – i Maestri del teatro contemporaneo, nove nomi importanti; primo tra questi Peter Stein, che da poco aveva ricevuto il gran titolo a Radicondoli.
Limpida la sua poetica: i veri creatori sono gli autori, a cui è necessario restare fedeli, unica condizione per fare teatro d’arte. Un’affermazione netta che, se fosse vera, sottrarrebbe valore a molto teatro italiano. Ma fortunatamente sono possibili le convivenze. E comunque lo stesso Stein sa essere potente visionario, specie nella creazione di spazi per le messe in scena. Ma il rigore – anche se per vie diverse – è anche di Eugenio Barba, raggiunto attraverso l’esperienza dell’impegno manuale. Ampia la sua narrazione d’esperienza di vita, fondamentale l’incontro con Grotowski.

«Il modo in cui prepari l’attore è un marchio che gli resterà tutta la vita. Non è un problema di sacralità… si tratta di cultura del lavoro». Una sorta di artigianato? Ma poi nella narrazione c’è molto di più. L’antropologia teatrale, il training, anche lui con le sue verità; essenziale il contribuito ideativo, fisico degli interpreti, vita e teatro intensamente connessi. Aperte le modalità di agire di Stefan Kaegi e Rimini Protokoll: qui a un nucleo stabile si aggregano via via persone che collaborano per la scena, teatro di comunità. «Io non parlo mai di arte». E quasi dialogando a distanza con Stein spiega: «L’origine del teatro non dovrebbe essere il testo ma l’esperienza».

Indimenticabili gli spettacoli di Thomas Ostermeier, sempre grandiosamente pulsanti. E qui vengono citati Amleto, Riccardo III, superbe rielaborazioni shakespeariane. «Il teatro si salva facendo del buon teatro». Il prossimo appuntamento con Re Lear. Limpida la visione di Milo Rau alla ricerca di un nuovo teatro popolare. Nel suo Manifesto viene sottolineato il valore del processo creativo plurale ancor più dell’esito. Essenziale la vicinanza, la conoscenza del particolare per arrivare all’universalità. «Il mito universale deve realizzarsi nei singoli corpi, nei singoli luoghi. Senza divisione tra ragione e sentimenti, due aspetti che non dovrebbero mai essere divisi, riunirli è compito dell’arte».

Impossibile l’incontro con Lev Dodin, magnifiche le sue opere viste in Russia e in Italia. Ci sono però alcune sue parole, sconvolto da quanto sta accadendo, il ritorno della guerra: questo secolo peggiore del precedente? Come sempre carico di molteplici sollecitazioni il pensiero di Antonio Latella, ogni suo spettacolo pulsante d’assoluta energia con echi che restano a lungo. «Oggi sono più giovane di prima. Di sicuro non ho più paura di essere dolce. E non è poco». Interessante il confronto con la Germania, dove Latella ha una casa e lavora spesso. I Maestri? «Quelli che hanno avuto il dono di creare un codice che ha poi fatto la differenza», il nome d’esempio Pina Bausch. Krzysztof Warlikowski: a Palermo il dialogo con il regista polacco. «La finzione che non è finzione… ho fatto uno spettacolo sull’impossibilità di raccontare l’Odissea». Bisogna pensare anche al pubblico, avere fiducia nel teatro. Da discutere la sua visione del teatro italiano.

Resta ultima, in questo percorso a tappe tra i grandi del teatro, la Maestra – sì, grandissima – Ariane Mnouchkine: il teatro come arte del presente. «Cerco di creare lo spettacolo che mi piacerebbe vedere e mi fido delle mie emozioni». Come sempre radicalmente autentico il suo discorso sul teatro. Per la forma della creazione, per la sua funzione, ricordando alcune parole che ritornano all’interno del Théâtre du Soleil: «Il tempo si vendica sempre di ciò che facciamo senza di lui».

Gli autori di Strade maestre informano, registrano le parole degli artisti incontrati, aggiungono note. Ora il discorso è aperto, infinite le domande, sulla preparazione degli attori, i modelli di regia, il training. Qualcuno forse potrebbe chiedere motivo di alcune assenze. Ma va bene: ora è importante arricchire il dibattito, magari in più sedi. Non si è più «figli d’arte» come un tempo, ora ci sono percorsi da conquistare: come? Con chi? Quali errori evitare? Bella l’idea della Bottega a Piacenza; come un tempo l’allievo guarda, imita, sperimenta, per allontanarsi infine in autonomia lungo la sua strada. «Il teatro viene dal malessere, viene per aiutarti. Credo che per questo sia apparso nella mia vita». Storie vere?

1 Novembre 2023

Le strade maestre del teatro contemporaneo

Antonio Tedesco, «Proscenio», VIII-1
Faccia a faccia. Incontrare le persone. Percepirne la presenza fisica. Gli sguardi, gli umori. Esplorare e «sentire» i luoghi in cui vivono, in cui lavorano. Partire dalle origini della loro esperienza («I tuoi primi ricordi…», «La prima volta in teatro…»). In un mondo che va sempre più smaterializzandosi, dove è la norma effettuare interviste via telefono o email, Corrado d’Elia e Sergio Maifredi hanno deciso, invece, di mettersi in viaggio. Le loro Strade Maestre (edito da Cue Press – pp. 222, € 24,99) coincidono, quindi, con le strade che portano «ai» Maestri. E più specificamente ai Maestri della scena teatrale contemporanea che i due autori, entrambi registi e uomini di teatro di solida e riconosciuta esperienza, hanno incontrato uno a uno raggiungendoli nei loro luoghi di vita e di lavoro. Instaurando con essi un dialogo che va oltre la pura e semplice intervista. Arricchito in qualche caso anche da momenti di convivialità e scambi di doni. Per raccontare «dal vivo», come si addice al teatro. Un’operazione complessa che ha richiesto passione e tempi lunghi. E che si è avvalsa della produzione della Compagnia Teatro d’Elia e del Teatro Pubblico Ligure. E che ha il respiro ampio della testimonianza diretta, dell’esperienza vissuta, del contatto umano. Uno studio sul campo della creatività, teatrale, ma non solo, attraverso le sue espressioni contemporanee più alte e significative. Qualcosa che ricorda il grande lavoro svolto nella seconda metà del Novecento dalla rivista letteraria americana «Paris Review», con le lunghe e minuziose interviste che i suoi redattori hanno realizzato incontrando di persona i massimi scrittori del loro tempo. Così Maifredi e D’Elia si sono confrontati con personalità del calibro di Eugenio Barba, Lev Dodin, Stefan Kaegi, Antonio Latella, Ariane Mnouchkine, Thomas Ostermeier, Milo Rau, Peter Stein, Krzysztof Warlikowski. Viaggiando, spostandosi per luoghi e città a loro volta fortemente rappresentative per l’arte e la cultura contemporanea. Roma, Berlino, Palermo, il borgo umbro di Stein, Tolosa. Il risultato è un libro prezioso. Una testimonianza che restituisce non solo il pensiero e l’arte dei Maestri, ma la loro umanità, il loro modo di essere nel mondo. Trasformando le interviste in narrazioni. Descrivendo luoghi, persone, emozioni. Le stesse esperienze di viaggio degli autori. Il piacere, e a volte la fatica, di raggiungere i luoghi. Un lavoro di ricerca, in ogni senso. Per tentare di definire come possa intendersi, ancora oggi, nell’arte e nel teatro in particolare, il concetto di Maestro. Che viene anche messo in discussione, e qualcuno degli intervistati ne prende le distanze. Il libro, molto ben curato, è corredato da un ricco apparato fotografico che documenta gli incontri e aiuta il lettore a visualizzare la «fonte», per così dire, delle parole che legge. Così come ogni capitolo è corredato da un breve testo introduttivo, e da una riflessione finale nella quale gli autori descrivano le impressioni e le sensazioni che ogni singolo incontro ha suscitato in loro. Un’ulteriore testimonianza dell’importante lavoro svolto, oltre che della propria sensibilità e del proprio senso dell’arte.
30 Ottobre 2023

Mario Monicelli: il grande regista torna a parlare

Giuseppe Costigliola, «Globalist»

Personaggi come Mario Monicelli mancano come il pane all’Italia di oggi, alla cultura, all’arte, agli stitici rapporti umani di questi stracchi tempi. Manca il regista, la sua capacità di osservazione, la volontà di rendere la realtà senza compromessi né pregiudizi, per indurci alla riflessione sui nostri buchi neri, sociali e individuali: un’attività maieutica che ci ha aiutati a formarci una coscienza più critica e avvertita di noi stessi. Manca anche l’uomo Monicelli, le sue battute da toscanaccio, il suo spirito caustico, la tensione morale che lo contraddistingueva, la libertà che ha sempre affermato con le proprie scelte. Accogliamo dunque con particolare piacere la riedizione di un libro che ci restituisce la ‘viva voce’ del grande regista, dal titolo suggestivo e ammiccante, Così parlò Monicelli, curato da Anna Antonelli e riproposto da una delle case editrici più attente alle arti del cinema e del teatro, nelle loro dimensioni teoriche e biografiche, Cue Press, che tra l’altro annovera nel suo catalogo il recente premio Nobel per la letteratura Jon Fosse.

Il volume è impreziosito da una prefazione di Goffredo Fofi, che traccia le coordinate dell’arte e della personalità di Monicelli, «uomo libero e chiaro nei principi», il quale «rispondeva alla propria coscienza e ai doveri che gliene venivano», portatore di convinzioni limpide e nette maturate nei duri anni della guerra e nell’esperienza resistenziale, sposate alla «vocazione di cineasta popolare in decenni in cui il cinema era il principale divertimento delle masse». Insomma, un individuo «insofferente di estremismi ideologici, innamorato della libertà e della verità», capisaldi della civiltà ormai superati nel mondo del neocapitalismo ipertecnologico e globalizzato in cui viviamo.

Monicelli è stato preziosissimo narratore della sua epoca anche quando smise di girare film, continuando ad essere «testimone di una diversità, di una verità, di un’etica del giudizio sui fatti del giorno», con interventi pubblici e dibattiti televisivi, interviste e presentazioni di vecchie pellicole. O anche, per rimanere nella più stringente contemporaneità, con documentari come quello girato oltre vent’anni fa, Lettere dalla Palestina, sulla vita nei territori soggetti al dominio israeliano.

Il suo «parlar chiaro e antico e per questo nuovo, nel chiacchiericcio mediatico del tempo», la «franchezza delle sue idee, la salda misura dei suoi giudizi» si ritrovano con immutata freschezza nelle pagine di questo libro, una raccolta di opinioni, giudizi, confessioni messe insieme spulciando con intelligente sagacia le più svariate fonti da Anna Antonelli, che il regista ben conobbe. La prima parte del volume è divisa in capoversi organizzati per idee e argomenti, in cui si raccoglie il Monicelli-pensiero. Vi compaiono suggestivi ricordi d’infanzia, come la Versilia degli anni Venti, piena di colori e di sapori. con le rotonde di legno e gli splendidi chalet in stile liberty, la dominante presenza del mare («me lo porto sempre dentro»), le tragiche esperienze della guerra, quando «l’orrore diventa normalità», la Roma liberata dagli alleati, le riflessioni sulla storia e la politica nazionale, su passaggi fondamentali come il Sessantotto, su temi come l’amore, la sessualità, la famiglia, la paternità, la religione, la morte, lo spirito di rivolta, l’importanza dell’ironia e del riso, il coraggio di dire la verità, la lotta contro l’ingiustizia sociale («Un altro mondo è doveroso, non solo possibile»), il costante impegno civile e politico («Io rivendico al nostro lavoro una vera e propria funzione civile»), gli amori letterari («Mi piaceva Flaubert, avrei voluto scrivere come Dostoevskij»), l’esperienza totalizzante del suo lavoro («Il cinema è stata la sola grande passione della mia vita»). Al lettore pare di ascoltare la voce piana, quasi monocorde, ma sempre sorprendente in quel che articolava del grande artista – che però non si definiva tale: «Nel cinema c’è una mistura che ha poco a vedere con l’arte».

Segue poi la sezione più spiccatamente cinematografica, Una vita, che ripercorre la straordinaria carriera, dagli inizi nel 1934 al legame con Pietro Germi, al sodalizio con Steno e tutti i passaggi fondamentali, i film realizzati e le schiere di attori con cui ha lavorato, sino al tragico epilogo, quando in una piovosa notte di novembre del 2010 decise di togliersi la vita lanciandosi dal quinto piano dell’Ospedale San Giovanni di Roma: «Aveva avvisato. Prima della filmografia, che chiude il volume, vi è poi una chicca: il soggetto di un film irrealizzato, L’omo nero, che il regista scrisse con Suso Cecchi D’Amico e Piero De Bernardi, sul tema ancor oggi attualissimo del rapporto con culture differenti dalle nostre, che ci troviamo ad incontrare e di cui ignoriamo tutto» scriveva Monicelli. «Vorrei fare un buon film». Che l’avrebbe fatto, ci sono pochi dubbi.

Al rammarico per un’opera che non ha mai visto la luce segue però la consolazione che queste dense pagine recano a chi ama il cinema, la vita, la libertà e la giustizia sociale. Il libro è dunque di fondamentale importanza per chi desideri approfondire le preziose vicende della settima arte italiana, magari provare a capire qualcosa di più su noi stessi, sulle nostre tradizioni, sulla nostra storia recente e passata, illuminate dalle argute e lucide frasi di Mario Monicelli.

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29 Ottobre 2023

Jon Fosse, un ritratto del Nobel per la Letteratura

Anna Puricella, «Repubblica Bari»

Jon Fosse è un monumento della drammaturgia, uno dei più rappresentati in tutto il mondo, eppure in Italia è tutt’ora poco conosciuto. Lo scrittore di prosa, drammaturgo e poeta norvegese diventa così il cuore di un incontro in programma domani alle 18 alla libreria Laterza di Bari, in compagnia di Franco Perrelli, docente universitario ora in pensione – ha insegnato a Torino e a Bari – ed esperto di teatro e letterature nordiche. Perrelli è stato anche traduttore di Fosse. Per Cue Press ha pubblicato Saggi gnostici – «un po’ la sua autobiografia personale e intellettuale», dice – e il dramma Caldo. «L’Italia lo conosce poco perché il suo è un tipo di scrittura apparentemente sperimentale, in realtà un po’ mistica. È quel tipo di scrittore che spaventa l’editore commerciale». E non va meglio con il teatro, nel Paese: «Il sistema teatrale italiano è molto conservatore e non dà grande spazio ad avventure che non si sa dove possono andare a finire».

Eppure Jon Fosse è una pietra miliare della produzione contemporanea a livello globale, in Svezia è stato premiato «per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile». Più di dieci anni fa Fandango ha pubblicato alcuni suoi lavori tradotti in italiano – fra cui Melancholia – La Nave di Teseo ha adesso in catalogo anche i primi volumi di Settologia. «Da Laterza racconterò chi è Jon Fosse e soprattutto cosa pensa e come costruisce la sua scrittura, un procedimento molto interessante e appassionante» annuncia Franco Perrelli. Non leggere Jon Fosse è in fin dei conti un peccato: «Chi non lo fa si perde un’esperienza di carattere spirituale. La lettura di Fosse è un tentativo di rapporto con il divino, se una persona ha bisogni spirituali forse li soddisfa, se invece cerca trame banali non fa per lui».

Ingresso libero.

29 Ottobre 2023

Per capire qual è o quale sarà il teatro del terzo millennio

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Mi sono, più volte, chiesto perché il teatro del Terzo Millennio non sia stato oggetto di analisi storiografica e ho anche indicato vari motivi, che vanno dalle superproduzioni al proliferare di compagnie indipendenti, magari con un solo attore che, utilizzando la formula del Teatro dell’Oralità, riesce a fare delle brevi stagioni, muovendosi ai margini del teatro ufficiale. Ebbene, è appena uscito un volume di Lorenzo Donati, pubblicato da Cue Press: Scrivere con la realtà. Oggetti teatrali non identificati 2000-19, che si può considerare un punto di partenza per una possibile teorizzazione di quanto è accaduto, nel primo ventennio del 2023, sui palcoscenici italiani e di cosa possa intendersi per Nuovo Teatro, dopo le teorizzazioni fatte da Marco De Marinis e dopo l’apparizione di Oggetti non identificabili. Donati, oltre che uno studioso è un frequentatore assiduo dei teatri. Questa sua duplice attività è ben evidente nella ripartizione della sua ricerca, essendo, una di tipo teorico e l’altra di tipo pratico, entrambe utili per cercare di capire il passaggio dal Nuovo Teatro ai Nuovissimi.
Il suo punto di partenza coincide con la crisi dell’interpretazione attoriale e registica, ovvero di ciò che ci è stato tramandato, per continuare su come relazionarsi col teatro, quello che viene dopo il Post-drammatico, con la consapevolezza che il teatro che ci è stato tramandato non debba considerarsi un rimedio che possa fare capire meglio il teatro non identificabile – essendo, quest’ultimo, sempre in cerca di qualcosa di non lineare – e, pertanto, frammentaria, tale da rifiutare i Generi, affidandosi al caso. In questo ventennio il teatro, secondo Lorenzo Donati, è andato in cerca di estetiche non definite, essendo il suo percorso in continua evoluzione, sempre attento alla realtà, pur nelle sue continue mutazioni, tanto che si sono aperti nuovi campi di osservazione, nuovi metodi di indagini, anche attraverso testimonianze dirette degli artisti e attraverso i loro spettacoli, che caratterizzano la seconda parte del volume, quella che appartiene alla «pratica» del teatro. Non contento, l’autore fa riferimento al rapporto passato-presente, poiché il passato ritorna con tutte le sue invenzioni, che, in alcuni casi però, vengono offerte in olocausto, perché generate da un teatro in crisi, che comporta, a sua volta, una crisi dell’immaginazione.
Sono tante le giovani compagnie che si muovono tra «ruderi e rovine», che consumano i «detriti» del teatro del passato, che, a suo tempo, fu anch’esso un «Teatro dei mutamenti», come lo definì negli anni Settanta Sisto Dalla Palma. Solo che ogni mutamento teatrale presuppone un mutamento sociale.
A questo punto, Lorenzo Donati sfodera una bibliografia che fa capo a storici del teatro, da De Marinis a Guccini, da Taviani, a Meldolesi, Cruciani, Allegri; storici di un teatro che non c’è più, con i quali è necessario confrontarsi per capire il teatro che c’è, quello «non identificabile». Bibliografia che arricchisce con l’apporto di sociologi come Bauman, Remotti, Castells ed altri.
Donati, in fondo, si chiede se esista una scrittura scenica diversa da quella precedente, se sia in grado di possedere delle strategie linguistiche, ma, per esserne certi, a suo avviso, bisogna partire dall’osservazione, ovvero dalla partecipazione agli spettacoli per tentare, successivamente, un approccio teorico. Le sue «osservazioni» vanno dal 2000 al 2019, anni durante i quali ha partecipato a spettacoli di gruppi noti e meno noti: dal Teatro delle Ariette, alla Fortezza, a Babilonia Teatri, Fanny e Alexander, Collettivo Cinetico, Omini, Motus, Dom, Teatro delle Albe, Teatro Sotterraneo, Kleper-452, Clessidra Teatro, Milo Rau, Rimini Protokoll, Roger Bernart, gruppi che hanno dato uno scossone al teatro tradizionale con l’utilizzo di apparati elettronici e tecnologici che diventano parte attiva del linguaggio della scena e della sua trasformazione. Sono queste le vere tracce, utili per un successivo lavoro storiografico; senza di esse, la stessa storiografia ne rimarrebbe marginalizzata.

23 Ottobre 2023

Un collettivo a Gent dopo Rau, per abbattere le mura del teatro e prendersi cura del pubblico

Paolo Martini, «Dramaholic»

Ci vuole un occhio di riguardo per quel che succede nei teatri e tra le compagnie del Belgio, dove vivono molti dei protagonisti di primo piano nel mondo delle arti performative: si possono così intuire o veder nascere nuove mode o veri e propri trend, com’è stato per il cosiddetto «post-drammatico».
Perciò ha fatto una certa impressione l’annuncio di un’uscita di scena dal NT Gent, seppur non traumatica e totale, dell’autore e regista Milo Rau.
Si è già esaurita, dopo un quinquennio da direttore, la carica innovativa delle sue idee riassunte in un manifesto che è stato paragonato a quello del movimento Dogma per il cinema? A ben vedere, era forse un esito prevedibile per chi ha seguito con attenzione la parabola artistica di questo eclettico e prolifico intellettuale, di formazione filosofica e sociologica, nato a Berna nel 1977.

Un nuovo «Manifesto di Vienna»?

Già intorno ai 40 anni Rau era considerato un riverito maestro e dal Belgio aveva pure lanciato il suo decalogo, di cui tanto s’è parlato, per un teatro neo-post-brechtiano: la rappresentazione deve indagare la realtà con la realtà, fino al fondo più oscuro; deve essere leggera e trasparente, ovvero mostrare al pubblico il meccanismo stesso; deve andare fuori dal teatro, nelle zone più disagiate del mondo, e così via (vedi i suoi scritti tradotti in italiano nel volume Realismo globale, Cue Press 2023). Ora Rau cambia vita per trasferirsi a Vienna ed entrare ancor più nel ruolo di organizzatore culturale, prendendo in mano il ricco programma del Wiener Festwochen, festival interdisciplinare di grande prestigio e di considerevole budget. Come i grandi eventi del genere, anche quello viennese finanzia nuove produzioni e cerca di riunire il meglio della scena europea. Vedremo se anche da questa sede elaborerà un programma pubblico e di quale indirizzo. Poco prima della nomina, Rau aveva aperto con successo l’edizione 2023 proprio con Antigone in Amazzonia, l’ultimo spettacolo della sua Trilogia dei miti, un ciclo di classici attualizzati, ovvero di attualità viva riletta attraverso i classici. E, ovviamente, un po’ anche da qui, ossia da quel che si vede in scena, bisogna partire per valutare il senso di una svolta che non riguarda soltanto il «dietro le quinte» del teatro europeo.

Meno scena, più lotta

Con un’immagine internazionale ormai da guru, Rau aveva raggiunto un punto apicale di perfezione della sua proposta con La reprise. Histoire(s) du théâtre (I), autentico e inarrivabile gioiello, del 2018, l’anno stesso della sua nomina a Gent e del relativo Manifesto. Uno spettacolo, La reprise, che ovunque vada in scena per il mondo mantiene intatta la sua carica originaria, al punto che le prime rappresentazioni in Brasile sono costate a Rau e alla compagnia la censura e la messa al bando da parte delle autorità all’epoca di Bolsonaro. Episodio del 2020 che ha originato il contatto con il Movimento dei Senza Terra brasiliani e l’attrice militante Kay Sara, protagonisti di un’Antigone che nasce per denunciare i danni ecologici e la violenza di un trust del business globale dell’agricoltura per l’industria alimentare, con tanto di relativa petizione internazionale. Negli anni è come se la proposta di Rau si fosse andata sedimentando sempre più verso il pur ammirevole terreno dell’impegno, con una spiccata attenzione sul piano del linguaggio alla parte per così dire non teatrale, casomai cinematografica e documentaristica. Una svolta non dichiarata che è costata le prime critiche, pur in punta di penna, com’è successo per l’appuntamento romano con Antigone in Amazzonia. Ha scritto, per esempio, una giovane critica italiana che sul teatro di Rau aveva curato la monografia di Stratagemmi, Camilla Lietti: «Si percepisce una sorta di sbilanciamento tra ciò che accade attorno allo spettacolo e quello che il pubblico vede di fronte ai propri occhi. La messa in scena appare quasi come un momento di restituzione dell’azione politica che la muove«.

Ancora una mano, Ursina

D’altro canto, quando non è Rau a tirare i fili personalmente, l’impianto del ciclo seriale di Gent sul teatro sembra potersi un po’ perdere per strada – vedi l’episodio III di Miet Warlop – lasciandosi alle spalle le regole stesse del Manifesto. E a lungo andare il successo del teatro di Rau ha pure creato una schiera di imitatori, che ne hanno in qualche modo cristallizzato la carica innovativa in una formula di linguaggio misto, o più formule similari. Persino un critico più istituzionale e addetto ai lavori, come Alessandro Iachino, dopo la prima di Antigone in Amazzonia a Gent, aveva accennato al «rischio del format, del dispositivo funzionale a ogni tragedia contemporanea, che sembra lambire pericolosamente questo palcoscenico»… La valutazione che consegue a questa analisi della parabola Rau-Gent è varia; ovviamente gli invidiosi tendono a usarla per sminuire l’importanza del personaggio. Senza nemmeno prendere in considerazione anche solo l’impatto oggettivo di un teatro civile così schietto, che sfida, come in quest’ultima occasione, le multinazionali alimentari più potenti (Agropalma, Danone, Ferrero, Nestlè, Unilever…) come mai nessun media di rilievo ha osato. Chi preferisce lo sguardo freddo può arrivare persino a sostenere che Rau dovrebbe forse avere il coraggio di tornare indietro, verso il teatro-teatro più tradizionale, nel quale metterebbe facilmente a frutto la sua bravura. In fondo si poteva già notare quanto lui stesso considerasse l’idea di cambiar strada, nella breve parentesi post-Covid, quando si è unito alla straordinaria attrice sua conterranea Ursina Lardi per confezionare una versione attualizzata e al femminile, davvero emozionante, del grande classico Everyman.

Una svolta, dieci capifila

Ma c’è un’altra notizia, successiva, che arriva da Gent, ancor poco seriamente pesata dagli addetti ai lavori, ed è la nomina di un trittico di direttori artistici al posto del solo Rau (il quale firma comunque la prossima stagione, per poi non chiudere del tutto subito la sua esperienza belga, restando sulla carta coinvolto come regista e autore).
Il comunicato ufficiale di NTGent sul dopo Rau recita con enfasi quanto sia importante l’obiettivo di una leadership multivoiced, specificando che i tre nuovi condirettori Barbara Raes, Yves Degryse e Melih Gençboyaci «saranno congiuntamente responsabili della politica artistica nei prossimi anni», ma dovranno pure considerare quanto NTGent si sia «evoluto da teatro cittadino con un’ensemble fissa, a una casa di creatori con diverse voci e pratiche artistiche. Questo porta una ricca tavolozza di domande, sfide e prospettive».
Ufficializzando i nomi dei tre prescelti, il consiglio d’amministrazione del teatro parla addirittura di «un piano politico ambizioso con forti house-makers» (Luanda Casella, Lara Staal e Milo Rau), artisti in residenza (Ontroerend Goed, Miet Warlop e Action Zoo Humain), e un nuovo produttore, il gruppo Berlin (ovvero Bart Baele e lo stesso Degryse, che s’immagina lasceranno sia Anversa sia il Centquatre-Paris, dove si erano accasati per il loro lavoro d’avanguardia sui linguaggi teatrali). Ma c’è un’altra notizia, successiva, che arriva da Gent, ancor poco seriamente pesata dagli addetti ai lavori, ed è la nomina di un trittico di direttori artistici al posto del solo Rau (il quale firma comunque la prossima stagione, per poi non chiudere del tutto subito la sua esperienza belga, restando sulla carta coinvolto come regista e autore).

Rituali e cura della città

Non è finita con una semplice svolta dalla monocrazia al collettivismo: NT Gent vuole ribadire la vocazione internazionale e di formazione di nuovi artisti, e specifica pure che la nuova leadership multivoiced ha come obiettivo anche «rivendicare la città stessa come un importante spazio accanto al teatro/palco», puntando a curare più luoghi «di incontro in città in cui il pubblico, gli interessi, le storie, le lingue e le varie realtà sociali possano interagire fianco a fianco, con e per l’altro». Da una precisazione sull’orizzonte temporale dei nuovi direttori (Yves Degryse e la singolare «ritualista» Barbara Raes inizieranno a lavorare part-time, Melih Gençboyaci sarà a tempo pieno da subito e curerà in particolare la formazione), si evince che potranno firmare come prima nuova stagione il 2025-2026, mentre la prossima procede con il cartellone di Rau. Quindi se ne riparla tra più di un anno; ma è davvero curiosa e indicativa la prima anticipazione ufficiale: «quella stagione si aprirà con un rituale di fuoco nella nostra città di Barbara Raes», ovvero uno spettacolo pubblico itinerante proprio sul tema dell’accettazione della morte, del superamento di uno stadio della vita, insomma del cambiamento. Non a caso Raes, nel nuovo gruppo dirigente, ha proprio la vocazione di garantire che «la guarigione, la connessione e la cura siano una parte importante e di impatto del NTGent del futuro».

«Il teatro sono gli uomini e le donne che lo fanno» (Eugenio Barba, I 5 continenti del teatro).
Tra i più avvertiti addetti ai lavori non manca chi fa subito spallucce, e dice: è da tempo che si sente parlare di teatro fuori dal teatro… Che novità sarà mai? Anche nei giornali c’è sempre chi è pronto a tagliar corto su qualunque proposta con la liquidatoria sentenza: di questo ne abbiamo già parlato. Certo, anche le più ammirate avanguardie degli anni Settanta andavano volentieri per strada, ma come ricorda il grande Eugenio Barba è una perdita di tempo star lì a discutere troppo di edifici, imprese e istituzioni a proposito del teatro. «Il teatro sono gli uomini e le donne che lo fanno», semplicemente, anche se in effetti ci sono luoghi particolari, pietre e mattoni della storia del teatro che di per se stessi suscitano le emozioni di uno spettacolo.

Com’è lontana l’Italietta

Ora, è ovvio che possa essere un bel rischio sostituire, seppur gradatamente, un nome internazionale di spicco come Milo Rau con un gruppo così ampio e variegato di protagonisti non ancora altrettanto noti e di diversa estrazione. Del resto nella danza e nel teatro di mezza Europa è facile notare quanto siano le compagnie e i collettivi a garantire l’innovazione. E non solo a Gent varano la direzione multivoiced ma addirittura la allargano in qualche modo ai tre più sperimentati autori di casa e a tre nuovi residenti di profilo davvero deciso, che sono l’artista Miet Warlop, già della covata Rau, gli stralunati e innovativi Ontroerend Goed e la compagnia di Chokri Ben Chikha, autore d’origine tunisina che, tra l’altro, in quanto a controversie non si lascia scappare nulla. E certo è assai significativa la scelta stessa di accompagnare la collettivizzazione delle responsabilità a una svolta d’indirizzo altrettanto radicale, per provare a uscire dalle mura del teatro verso la città e a far riscoprire le radici pubbliche e la vocazione originale del teatro stesso alla città. Vada come vada, fa veramente impressione guardare a Gent dall’Italietta delle lottizzazioni e delle lobby, blindata nei salotti dei nostri polverosi grandi teatri pubblici, per lo più in mano a personaggi di tutt’altra pasta, anche solo umana… Immaginate uno qualunque dei nostri enti, fondazioni o istituzioni teatrali, con alla testa un’amorevole studiosa di rituali dell’elaborazione del lutto, come la Raes, o un «immigrato turco e operaio teatrale queer» come si definisce Gençboyaci? Pensate a un direttore artistico d’impostazione teatrale tradizionale dei nostri, uno a caso: non riuscirebbe nemmeno a sognarsi un impianto innovativo come quello usato per i Sei gradi di separazione, che ha reso famosi i Berlin di Yves Degryse, con trenta spettatori davanti ad altrettanti schermi, piuttosto che il similare Nachlass dei Rimini Protokol (altro gruppo – guarda caso – oggi capofila del nuovo teatro-fuori-dal-teatro…).

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23 Ottobre 2023

Uno studio illuminante di Lorenzo Donati: teorico e pratico, attento alle mutazioni della realtà tra estetiche non definite

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Mi sono più volte chiesto perché il teatro del Terzo Millennio non sia stato oggetto di analisi storiografica ed ho anche indicato vari motivi, che vanno dalle super-produzioni al proliferare di compagnie indipendenti, magari con un solo attore che, utilizzando la formula del Teatro dell’Oralità, riesce a fare delle brevi stagioni, muovendosi ai margini del teatro ufficiale. Ebbene, è appena uscito un volume di Lorenzo Donati, pubblicato da Cue Press: Scrivere con la realtà. Oggetti teatrali non identificati 2000-19, che si può considerare un punto di partenza per una possibile teorizzazione di quanto è accaduto nel primo ventennio del 2023 sui palcoscenici italiani e di cosa possa intendersi per Nuovo Teatro, dopo le teorizzazioni fatte da Marco De Marinis e dopo l’apparizione di Oggetti non identificabili.
Donati, oltre che uno studioso, è un frequentatore assiduo dei teatri. Questa sua duplice attività è ben evidente nella ripartizione della sua ricerca, essendo una di tipo teorico e l’altra di tipo pratico, entrambe utili per cercare di capire il passaggio dal Nuovo Teatro ai Nuovissimi. Il suo punto di partenza coincide con la crisi dell’interpretazione attoriale e registica, ovvero di ciò che ci è stato tramandato, per continuare su come relazionarsi col teatro, quello che viene dopo il Post-drammatico, con la consapevolezza che non debba considerarsi un rimedio che possa fare capire meglio il teatro non identificabile – essendo, quest’ultimo, sempre in cerca di qualcosa di non lineare – e, pertanto, frammentaria, tale da rifiutare i «Generi», affidandosi al caso. In questo ventennio, il teatro, secondo Lorenzo Donati, è andato in cerca di estetiche non definite, essendo il suo percorso in continua evoluzione, sempre attento alla realtà, pur nelle sue continue mutazioni, tanto che si sono aperti nuovi campi di osservazione, nuovi metodi di indagini, anche attraverso testimonianze dirette degli artisti e attraverso i loro spettacoli, che caratterizzano la seconda parte del volume, quella che appartiene alla «pratica» del teatro. Non contento, l’autore fa riferimento al rapporto passato-presente, poiché il passato ritorna con tutte le sue invenzioni, che in alcuni casi, però, vengono offerte in olocausto, perché generate da un teatro in crisi che comporta, a sua volta, una crisi dell’immaginazione.
Sono tante le giovani compagnie che si muovono tra «ruderi e rovine», che consumano i «detriti» del teatro del passato che, a suo tempo, fu anch’esso un «Teatro dei mutamenti», come lo definì negli anni Settanta Sisto Dalla Palma. Solo che ogni mutamento teatrale presuppone un mutamento sociale. A questo punto, Lorenzo Donati sfodera una bibliografia che fa capo a storici del teatro, da De Marinis a Guccini, da Taviani a Meldolesi, Cruciani, Allegri, storici di un teatro che non c’è più, con i quali è necessario confrontarsi per capire il teatro che c’è, quello «non identificabile». Bibliografia che arricchisce con l’apporto di sociologi come Bauman, Remotti, Castells ed altri. Donati, in fondo, si chiede se esista una scrittura scenica diversa da quella precedente, se sia in grado di possedere delle strategie linguistiche; ma per esserne certi, a suo avviso, bisogna partire dall’osservazione, ovvero dalla partecipazione agli spettacoli per tentare successivamente un approccio teorico. Le sue «osservazioni» vanno dal 2000 al 2019, anni durante i quali ha partecipato a spettacoli di gruppi noti e meno noti, dal Teatro delle Ariette, alla Fortezza, a Babilonia Teatri, Fanny e Alexander, Collettivo Cinetico, Omini, Motus, Dom, Teatro delle Albe, Teatro Sotterraneo, Kleper-452, Clessidra Teatro, Milo Rau, Rimini Protokoll, Roger Bernart; gruppi che hanno dato uno scossone al teatro tradizionale, con l’utilizzo di apparati elettronici e tecnologici che diventano parte attiva del linguaggio della scena e della sua trasformazione. Sono queste le vere tracce, utili per un successivo lavoro storiografico. Senza di esse, la stessa storiografia ne rimarrebbe marginalizzata.

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16 Giugno 2022

Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot

Luca Ruocco, «InGenereCinema.com»

«Gli stivali vanno tolti ogni giorno, perché non mi ascolti?» «Perché non mi aiuti?» «Fa male?» «Ecco l’uomo. Dare agli stivali la colpa dei piedi. Una cosa inquietante». […] «E se te li provi?» «Ho provato di tutto». «Parlo degli stivali». «Sarebbe una cosa buona?» «Ci farebbe passare il tempo. Sicuro sarebbe un intrattenimento». «Un […]
8 Giugno 2022

Umberto Albini, Nel nome di Dioniso

Michele Olivieri, «La Nouvelle Vague Magazine»

Come si legge nel sito istituzionale della casa editrice di Imola: «[…] alla fine del 2012 intorno a Mattia Visani, ultimo autore della Ubulibri di Franco Quadri, nasce la prima casa editrice digital first interamente dedicata alle arti dello spettacolo.Un laboratorio di idee per costruire modelli nuovi per l’editoria e moderne modalità di produzione culturale. […]
7 Giugno 2022

Quaderni di regia e testi riveduti. Aspettando Godot

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

«Dare forma alla confusione» dice Beckett a proposito di Warten auf Godot che si accingeva ad allestire per lo Schiller Theater di Berlino nel 1975, ventidue anni dopo il debutto al Théâtre de Babylone di Parigi. Per l’edizione tedesca il drammaturgo-regista rivede e corregge il testo di Aspettando Godot adattandolo al pubblico e agli attori […]
26 Maggio 2022

Koltès, vocazione alla gioia

Fabrizio Sinisi, «DoppioZero»

Tra gli autori che somigliano alle proprie opere, Bernard-Marie Koltès è un caso particolare. Il tutt’uno con i suoi drammi è spontaneo, omogeneo, senza pose. Se c’è un primo dato da rilevare nell’epistolario di Koltès finalmente pubblicato da Cue Press – introdotto da Stefano Casi e tradotto da Giorgia Cerruti – è proprio questo: tra […]
18 Maggio 2022

Ostrovskij, Teatro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo On Line»

La cultura teatrale italiana ha instaurato un rapporto intermittente con il repertorio di Ostrovskij: in parallelo ai pochi e pregevoli allestimenti di fine Ottocento, preceduti da articoli e pubblicazioni di alcune commedie, e a quelli firmati dai grandi registi del Novecento (tra i quali Tatiana Pavlova, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, Guido De Monticelli), non è […]
13 Maggio 2022

Firmato Koltès. Drammaturgo maledetto

Angelo Molica Franco, «Il Venerdì di Repubblica»

A circa metà del dramma Roberto Zucco, l’ultimo scritto da Bernard-Marie Koltès (1948-1989) – ispirato alle vicende del serial killer veneziano Roberto Succo – in uno dei monologhi più toccanti della rappresentazione, dopo aver scaraventato il padre giù dalla finestra e strozzato la madre, il protagonista dice: «Io non sono un eroe. Gli eroi sono […]
6 Maggio 2022

I teatri di Pasolini

Cinzia Colzi, «ArteArti.net»

Il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini la cui eclettica produzione di intellettuale e artista viene declinata tra cinema, letteratura, dibattito pubblico e impegno politico. Figura tra le più emblematiche rappresenta, ancora oggi, un punto fermo della cultura italiana e internazionale per la sua capacità di leggere, e anticipare, le trasformazioni della […]
27 Aprile 2022

Vittorio Gassman, il mattatore di casa nel nostro teatro greco

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Le biografie e le autobiografie di attrici e di attori hanno permesso agli storici del teatro di ricostruire la nascita dei loro spettacoli, il momento storico in cui sono stati realizzati, e le difficoltà economiche, le ansie dei capocomici e dei produttori, i successi e gli insuccessi. All’interno si trovano memorie, segreti, manie, bugie, autoreferenzialità, […]
27 Aprile 2022

Il progetto esistenziale di Gian Maria Volonté, tra arte e impegno

Giuseppe Costigliola, «Globalist»

Nel panorama del cinema italiano non sono numerosi gli attori che hanno interpretato il proprio ruolo sotto il segno di un impegno politico e sociale fattivo, fondendo professionalità assoluta ed etica, la persona pubblica a quella privata. Tra essi, per qualità e ampiezza di risultati, incisività e impronta nell’immaginario collettivo, spicca senz’altro Gian Maria Volonté. […]
26 Aprile 2022

Bernard-Marie Koltès, Lettere

Gianni Poli, «Drammaturgia.it»

La raccolta delle Lettres, uscita nel 2009, forniva una fonte autobiografica su molti aspetti sconosciuti di Bernard-Marie Koltès, autore di Le nuit juste avant les forêts, Combat de nègre et de chiens e Roberto Zucco. La traduzione permette ora anche al lettore italiano di scoprire certi caratteri più intimi e segreti del drammaturgo, a confronto […]
19 Aprile 2022

Come gli alberi cambiamo le foglie, ma conservando le nostre radici

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Parecchi di noi hanno conosciuto Barba al tempo dei suoi spettacoli al CRT di Via Dini o al Teatro Quartiere, in occasione di «Milano Aperta», parecchi di noi posseggono i «Manifesti» di quel periodo, dove veniva teorizzato, dallo stesso Barba, come il «Terzo Teatro» e, da Sisto Dalla Palma, come il «Teatro dei mutamenti». Erano […]
17 Aprile 2022

Il libro che spiega il legame fra luce e teatro e non solo

Mauro Petruzziello, «Artribune»

Il filosofo José Xavier Zubiri Apalategui è in un’aula dell’Universidad Central de Madrid e sta spiegando le categorie di Aristotele. Alla lezione è presente Maria Zambrano, da poco uscita dalla tubercolosi e in lotta con una crisi, altrettanto feroce, che vorrebbe spingerla ad abbandonare lo studio della filosofia. A un tratto, un raggio di luce […]
11 Aprile 2022

Quegli indimenticabili anni Settanta. Tra tensioni e utopie. E il teatro avrebbe dovuto rigenerare il mondo. L’Odin di Barba

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Parecchi di noi hanno conosciuto Barba al tempo dei suoi spettacoli al CRT di Via Dini o al Teatro Quartiere, in occasione di «Milano Aperta», parecchi di noi posseggono i «Manifesti» di quel periodo, dove veniva teorizzato, dallo stesso Barba, come il «Terzo Teatro», e, da Sisto Dalla Palma, come il «Teatro dei mutamenti». Erano […]
7 Aprile 2022

Dostoevskij si racconta nelle «odiate» lettere

Massimo Bertoldi, «Alto Adige»

Fëdor Dostoevskij ha recentemente fatto parlare di sé in modo vergognoso e indecoroso: per effetto della guerra in Ucraina l’Università degli Studi Milano-Bicocca ha annullato un corso di Paolo Nori dedicato al grande scrittore russo. Il docente è anche autore di Sanguinare ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij (Milano, Mondadori, 2021), un pregevole romanzo […]
29 Marzo 2022

Jerry Lewis, la voglia matta

Mariuccia Ciotta, «Antinomie»

La «scrittura scenica», secondo Carmelo Bene, non si può insegnare; non ha a che fare con il testo, il plot, i dialoghi, la regia e neppure con la recitazione. È un ritmo che attraversa il corpo, si segmenta in cento scatti, fremiti di mani, mimica facciale, contorcimenti, salti logici espressivi. È la tavolozza di un […]
27 Marzo 2022

Beckett, gabbia teatrale di parole e gesti con attori in un grottesco viavai

Ivan Tassi, «Alias – Il Manifesto»

Dopo aver raggiunto Berlino per dirigere il nuovo allestimento di Aspettando Godot allo Schiller Theater, nei primi mesi del 1975, Samuel Beckett scrisse all’amico George Reavey confidandogli l’intenzione di apportare cospicue modifiche alla pièce: «Se questo non la purga, niente lo potrà fare». Il risultato delle operazioni di ripulitura si può apprezzare grazie al primo […]
22 Marzo 2022

Un grande avvenire dietro le spalle. Vittorio Gassman, autobiografia di un mattatore

Tiziana Cappellini, «Note Verticali»

Edito la prima volta nel 1981, Un grande avvenire dietro le spalle. Vita, amori e miracoli di un mattatore narrati da lui stesso di Vittorio Gassman è stato riproposto dalla casa editrice Cue Press arricchito dalla prefazione di Emanuele Trevi. L’intento dichiarato del volume è quello di restituire valore commerciale a opere che i consueti […]
21 Marzo 2022

Titina de Filippo, artefice magica della scena italiana

Simone Sormani, «Proscenio», VI-3

Attrice, poetessa, drammaturga, pittrice, Titina De Filippo è stata spesso trascurata dalla critica contemporanea e schiacciata dal ricordo dei suoi due grandissimi fratelli, Eduardo e Peppino. Complice anche una carriera interrotta prematuramente e prima dell’inizio dell’era dei media televisivi, e la conseguente scarsità di materiale audiovisivo che potesse testimoniarne la potenza delle interpretazioni teatrali. Il […]
14 Marzo 2022

Scrittore e attore, soprattutto mattatore. Cioè Gassman. Aneddoti, confessioni, amori, spettacoli. Infine, la depressione

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Le biografie e le autobiografie di attrici e di attori hanno permesso, agli storici del teatro, di ricostruire la nascita dei loro spettacoli, il momento storico in cui sono stati realizzati, le difficoltà economiche, le ansie dei capocomici e dei produttori, i successi e gli insuccessi. All’interno vi si trovano memorie, segreti, manie, bugie, autoreferenzialità, […]
13 Marzo 2022

Fausto Malcovati, Un’idea di Dostoevskij

Nicola Arrigoni, «Sipario»

La lettura di Delitto e castigo e l’ebbrezza di confrontarsi con il delirio della coscienza di Raskolnikov, il «due più due» dell’Uomo del Sottosuolo, le potenti riflessioni di Ivan Karamazov, di Alëša, il ricordo quasi fisico degli ambienti notturni, delle vie anguste, dell’umanità dolente nei Fratelli Karamazov oppure ne I demoni: immagini, sensazioni corporee che […]
13 Marzo 2022

I Quaderni di regia e i testi riveduti. Aspettando Godot

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Nell’ottobre del 1984, il pubblico milanese, (molti di noi, allora, erano presenti), poté assistere a qualcosa di insolito e di diverso, l’occasione fu data dalla messinscena di una trilogia, al Pier Lombardo, oggi Franco Parenti, formata da Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp, prodotta dal San Quentin Drama Workshop, diretto da Rick […]