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Dietro il microscopio la curiosità del critico
Rileggere, a oltre trent’anni di distanza dalla prima edizione (La Casa Usher, 1983), il volume Al limite del teatro aiuta a ricordare che studioso di razza ed esegeta brillante dei nuovi fenomeni fosse già all’epoca il giovane Marco De Marinis. E per chi non l’avesse finora mai incrociato – un po’ difficile perché, o sui banchi prima dell’Università di Macerata (per pochi anni) e poi nella lunga militanza all’ateneo di Bologna, oppure attraverso il corpo a corpo con i suoi libri, chi si occupa di teatro è destinato a intercettare il suo pensiero – questa ripubblicazione da parte di Cue Press, impreziosita da una prefazione di Moni Ovadia, fa risaltare almeno una caratteristica del De Marinis studioso: la curiosità per tutto ciò che di nuovo si muove agitandosi sulla scena, qualità che non è mai fine a sé stessa, ma si intreccia con la lucidità delle analisi e la capacità di mettere in relazione necessaria cose e concetti. Insomma, De Marinis, già in questo, che è uno dei suoi primi scritti, dimostra di non aver mai abbracciato le novità con aprioristico entusiasmo, bensì fa trasparire la sua adesione solo dopo aver sottoposto l’oggetto all’analisi del microscopio storico-critico.
E così puntualmente accade in Al limite del teatro, il volume in cui l’autore si occupa in presa diretta di ciò che accade sulle scene dal 1973 al 1982, vale a dire gli anni in cui si odono ancora gli echi del Sessantotto e che pongono al loro centro la stagione creativa dei movimenti del Settantasette. È l’epoca in cui collettivo e partecipazione, teatro politico e decentramento, laboratorio e animazione erano le direttrici su cui si muoveva il lavoro dei giovani gruppi. Fenomeni che, probabilmente, in Italia non hanno avuto eguali, pur somigliando, nelle motivazioni e nelle modalità organizzative, al bisogno di fare teatro che si respira oggi. Ma la lettura del saggio è anche un monito per i giovani a non ripetere gli errori dei loro padri: quella stagione infatti durò pochissimo, travolta dalle spirali autodistruttive di spaccature e scissioni.
Racconti del grande attore di Mirella Schino
Quel periodo della storia del teatro italiano denominato del ‘Grande Attore’ ha inizio con le rappresentazioni della Compagnia Reale Sarda all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1855. Le compagnie teatrali, in quella particolare temperie storica, erano solite appoggiarsi ad un attore di grande fama solitamente maschile, non necessariamente protagonista, per attrarre il proprio pubblico. Furono questi «interpreti di prima grandezza» a generare il teatro del Grande Attore.
Per i tipi di CUE (casa editrice italiana che si dedica alla produzione di libri che riguardano le arti e lo spettacolo) è uscito Racconti del grande attore della studiosa di Discipline dello spettacolo e docente presso l’Università di Roma Tre Mirella Schino. Un volume chiaro ma rigoroso nelle premesse e intrigante nel prosieguo che si avventura in una interessante analisi di quell’epoca del teatro italiano che ancora, forse, viene fraintesa, erroneamente interpretata. Schino scrive:
Per decenni, il teatro ottocentesco è stato guardato con gli occhi del teatro dominante, quello del Novecento. È stato giudicato sulla base di criteri, di sistemi di produzione, di valori che non gli erano propri. È stata persino dimenticata una verità evidente: che i capolavori teatrali della seconda metà dell’Ottocento, sono stati assai più spesso quelli creati dagli attori che non quelli degli scrittori.
Obiettivo del volume, dunque, entrare all’interno di questo sistema artistico per cercare di comprenderne a fondo le linee di trasmissione dell’esperienza, i meccanismi organizzativi profondi dello spettacolo, l’unità di misura di questo tipo di teatro «che nell’Ottocento non coincide con il singolo spettacolo, ma con insiemi più ampi, come il repertorio, il ruolo, o persino, nel caso di attori d’eccezione, la biografia artistica». Quello del Grande Attore, peraltro, si presenta come un fenomeno tipicamente italiano, nonostante all’interno di questa corrente vengano accolti numerosi nomi stranieri. Ed eccole, le celebrità che hanno incarnato l’essenza del teatro ottocentesco: August Iffland, Edmund Kean, Francoise-Joseph Talma, e poi Gustavo Modena, Rachel, Antonio Petito, Tommaso Salvini, Adelaide Ristori, Ernesto Rossi, Sarah Bernhardt, Henry Irving, Ellen Terry, Ermete Zacconi, Giovanni Grasso, Angelo Musco, Eleonora Duse.
Il libro di Mirella Schino prende le mosse dall’opera di tre studiosi italiani che del fenomeno oggetto del libro sono stati anche testimoni: Silvio D’Amico (1887-1955, critico e teorico del teatro italiano), Mario Apollonio (1901-1971, storico del teatro) e Vito Pandolfi (1917-1974, critico e regista italiano).
Nelle pagine successive, una serie di racconti e testimonianze che suggeriscono la misura esatta del fenomeno fornendo anche la cornice entro cui vanno inquadrati i vari protagonisti del teatro del Grande Attore: Rachel e la sua interpretazione della Fedra di Racine nel racconto di Charlotte Bronte, testimonianze di Colette, della stessa Eleonora Duse, dell’attore e regista Konstantin Stanislavskij. Ulteriori capitoli riguardano Tommaso Salvini e il suo rapporto con il personaggio shakespeariano di Otello, Henry Irving raccontato da Gordon Craig (1872-1966, regista teatrale e teorico della regia), Sarah Bernhardt, grande interprete di ruoli maschili e, ancora, Eleonora Duse.
Illuminante e avvincente, la lettura di questo volume che non può mancare nella biblioteca di ogni amante del teatro
Il Neorealismo è la lingua nazionale del nostro cinema
«Il Neorealismo è l’italiano del cinema, la lingua nazionale che forse non sappiamo più parlare, perché ormai la koinè europea o planetaria è più utile o obbligata. Ma è l’unica che si possa ancora studiare a scuola, l’unica che ci consenta di fare bella figura in società e che ci dia un’identità all’estero».
Così scriveva Alberto Farassino nel 1989, nel saggio introduttivo al volume da lui curato Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, che all’epoca uscì come catalogo del Festival Cinema Giovani di Torino, a fianco di un’ampia retrospettiva.
Tutti a scuola si intitolava quell’attualissimo saggio, «poiché il Neorealismo sembra una materia di scuola – scriveva Farassino – un sapere istituzionale che solo una scuola attardata come la nostra può non contemplare nelle discipline di insegnamento». A distanza di quasi trent’anni, quel fondamentale libro-catalogo con le voci, tra gli altri, di Michael Cimino, Werner Herzog, Andrzej Wajda, Giorgio Strehler, è stato appena rieditato (Cue Press, pag. 303, euro 24,99) con una nuova prefazione di Tatti Sanguineti. La presentazione è avvenuta al recente Festival di Bellaria, che è stato dedicato proprio a Farassino, a testimonianza di quanto restino vive le idee e la lezione di questo studioso scomparso nel pieno della maturità nel 2003, docente a Trieste per vent’anni e sempre più considerato uno dei più autorevoli critici italiani del dopoguerra.
Come osserva Gianni Rondolino nella premessa a quel volume, Farassino aveva la capacità di analizzare il cinema «con l’occhio rivolto contemporaneamente ai grandi film e a quelli minori, ai registi prestigiosi e ai mestieranti, alle questioni tecniche e a quelle produttive». Del Neorealismo, per esempio, Farassino fece emergere l’aspetto regionalistico fino ad allora trascurato, con film girati lontano da Roma e anche dalle nostre parti come Cuori senza frontiere, La città dolente e Donne senza nome. Ieri come oggi, sia l’uscita, sia la riedizione del libro risultano utilissime per cogliere la complessità, la continuità e l’attualità del nostro movimento cinematografico più importante e famoso. Ma nel 1989, alla fine di un decennio in cui il cinema italiano aveva visto il tramonto dei grandi autori, e che era stato dominato dai nuovi comici e da generi di ogni tipo, il Neorealismo sembrava un argomento «un poco velleitario, forse inutile, fuori moda», come osservava sempre Rondolino.
Farassino invece ribadiva quanto esso non appartenesse solo agli anni Quaranta, ma fosse «un fenomeno per così dire eterno, una costante ricorrente dell’espressività cinematografica italiana». È la teoria del ‘fiume carsico’, la vocazione realistica del nostro cinema che dopo gli anni del muto riemerge prepotente nel dopoguerra ed è destinata a riemergere ancora, come nei primi anni Sessanta e come accadde alla fine degli anni Ottanta con film di svolta quali Mery per sempre di Marco Risi o Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.
E come aveva previsto Farassino, il ‘fiume carsico’ del Neorealismo riemerge ancora oggi. L’occasione può essere per esempio il quarantennale della morte di Roberto Rossellini, il regista del film capostipite, Roma città aperta, girato nell’estate del 1945 tra le macerie. Così vengono ora ripubblicate anche le memorie di Rossellini in Il mio dopoguerra, a cura di Goffredo Fofi (Edizioni dell’Asino, pag. 67, euro 8). E al padre del Neorealismo saranno dedicati due incontri domani e sabato, rispettivamente al Festival di Pesaro e al Cinema Ritrovato di Bologna.
Ma soprattutto, nelle sale italiane e nei festival internazionali, proprio nell’attuale stagione orfana degli incassi di Checco Zalone, troviamo un pugno di registi ostinati che resistono al disimpegno e descrivono gli umili e le periferie, personaggi dolenti e ambienti degradati. Che «lavano i panni sporchi in casa», come imputava al Neorealismo il giovane sottosegretario Giulio Andreotti nel 1948. Ecco allora, appena applauditi a Cannes, Fortunata di Sergio Castellitto, Cuori puri di Roberto De Paolis e L’intrusa di Leonardo Di Costanzo. Il primo racconta di una parrucchiera (Jasmine Trinca) della periferia romana e del suo coraggio, gli altri scavano in storie aspre e relazioni umane brucianti. In precedenza Daniele Vicari ci aveva mostrato, in Sole cuore amore, la barista Eli (Isabella Ragonese) con marito disoccupato e tre figli, che attraversa Roma facendo enormi sacrifici. Dice di questa ragazza lo stesso Vicari: «Eli è un personaggio neorealista».
Il corpo-mente di chi recita
«Il teatro raccontato può essere più appassionante di quello visto? Sì, può esserlo, perché il lavoro dell’attore contiene molte più cose di quelle che si vedono».
Scrive Laura Mariani nel suo studio sulle interpretazioni di Elio De Capitani in Angels in America, Frost/Nixon, Morte di un commesso viaggiatore (e nel film Il Caimano dove l’attore incarna Berlusconi, personaggio vicino al mito americano del successo e del potere).
Attraverso un interprete esemplare, l’autrice ci propone un racconto a più voci sulla pratica di lavoro di ogni attore: oltre alle parole del protagonista (interviste, scritti, persino un lungo sms) emergono testimonianze, memorie, considerazioni critiche di una miriade di attori, da Sarah Bernhardt a Gino Cervi, da Rina Morelli ad Al Pacino, presenze rese necessarie dall’accurata ricerca storica sui testi e sui loro allestimenti. De Capitani stesso rende conto del movimento caotico, intuitivo, che caratterizza la prassi dell’interpretazione, nelle cui suggestioni e stratificazioni compaiono attori del passato e del presente, del cinema e del teatro, pronti a fornire modelli a cui accostarsi o da cui prendere le distanze.
Intenzione dichiarata dell’autrice, quella di «ritrovare nel presente l’attore italiano, la solidità del suo mestiere, la capacità di raccontare storie», e di analizzare il lavoro dell’interpretazione, «come se entrassimo nel corpo-mente di chi recita». È impresa ardua raccontare il percorso di un interprete, poichè si tratta di «individuare e descrivere gli spazi di creazione autonoma in rapporto al testo e alla regia»; inoltre, De Capitani testimonia una varietà di approccio e una libertà di avvicinamento ai diversi personaggi che va al di là delle metodologie (e quindi delle terminologie) teatrali codificate, dai maestri russi fino allo Lee Strasberg del cinema americano: anche in sede di tecniche attoriche torniamo alla relazione proposta dal titolo del saggio, ossia quella tra un attore italiano e la cultura teatrale americana. E tra gli elementi ‘di tradizione’ dell’attore italiano, ampio spazio è dedicato all’eterno corpo a corpo con la nostra lingua. A tal proposito, De Capitani sottolinea i suoi ‘litigi’ con le traduzioni, in un senso inconsueto rispetto all’approccio letterario al problema: l’attore deve costruire un percorso di biunivoca relazione tra parole e immagine, sempre da verificarsi in scena, in rapporto cioè all’atto fisico del dire e alla organicità con gli altri segni.
Tramite il lavoro di De Capitani, inoltre, siamo condotti all’interno della storia del Teatro dell’Elfo (e di quarant’anni di teatro italiano) da cui emergono sia la magmatica – e non scontata – capacità di integrare forze giovani, sia il gruppo dei fondatori e collaboratori storici (Ferdinando Bruni, Cristina Crippa e Ida Marinelli) nel loro continuo e dialettico scambio di ruoli, attorale e registico. Da qui un’attualissima riflessione su queste due funzioni, la cui ridefinizione è cruciale: De Capitani si presenta infatti come ‘neo-interprete’, un attore cioè che continua a lavorare in termini di personaggio e di situazioni drammatiche, ma essendosi misurato a livello teorico e pratico con le novità della regia novecentesca. E Laura Mariani, in un ritratto riassuntivo, delinea un modello possibile dell’attore del futuro: drammaturgo, regista, organizzatore, vicino per sensibilità al professionista ottocentesco ma capace di rilanciare mestiere e tradizione a partire dalla relazione con il pubblico di oggi.
Come è cambiato il teatro secondo De Marinis
Un altro titolo non soltanto per gli addetti ai lavori, ma anche per gli appassionati di teatro, è stato appena ripubblicato da Cue Press. La casa editrice imolese, fondata e diretta da Mattia Visani, ha infatti recentemente messo sul mercato Al limite del teatro. Utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni Sessanta e Settanta, testo di Marco De Marinis, uno dei più importanti esegeti del cosiddetto ‘nuovo teatro’, oltre a essere un maestro per generazioni di studenti universitari. La pubblicazione rientra nel progetto editoriale di riproposizione della nuova teatrologia italiana, cioè di libri fuori commercio che ormai sono dei classici (la prima edizione di Al limite del teatro uscì con La Casa Usher).
De Marinis, così, d’impatto, cosa ricorda di quella stagione?
L’esplosione del teatro di gruppo, un fenomeno giovanile gigantesco che non ha avuto eguali.
Il teatro di quegli anni era una forma di identità collettiva. Oggi cosa resta?
Molto, non tanto sul piano delle estetiche e dei modelli, bensì sul duplice livello delle motivazioni e delle modalità organizzative. Oggi, in condizioni meno favorevoli per la creazione, molti giovani si dedicano al teatro, scegliendolo come stile di vita, per dare spazio e corpo alle inquietudini giovanili.
Quel periodo fu anche segnato da spirali autodistruttive…
Certamente le divisioni e le spaccature nei gruppi fecero sì che quella stagione durasse pochissimo e fosse effimera. Era un teatro di cultura e pedagogia, così quando si trattò di passare alla produzione molti non ebbero gli strumenti e sopravvissero in pochi.
Qual è l’attuale situazione a Bologna?
Non la possiamo scindere da quella della regione, che continua a essere estremamente ricca di realtà teatrali, condizione determinata soprattutto dai gruppi romagnoli. Bologna è stata meno feconda. Indubbiamente ospita molti attori interessanti, ma la presenza di teatri storici ingombranti ha forse impedito che si consolidassero realtà alternative. Con due importanti eccezioni: il Teatrino delle Moline al tempo di Luigi Gozzi e la presenza di Leo De Berardinis, dal 1983 al 2001, che ha prodotto capolavori e una nuova leva di attori; per la loro attività e funzione oggi vanno segnalati i Teatri di Vita e l’Itc di San Lazzaro.
1918: lezioni di teatro
Una splendida e impareggiabile (per capacità di sintesi storica e finezza culturale) introduzione di Fausto Malcovati ci racconta l’anno cruciale della Rivoluzione d’Ottobre (Russia, 1917) soprattutto nei suoi fondamentali risvolti teatrali, contestualizzando le quattordici lezioni di teatro di Mejerchol’d (giugno 1918 – marzo 1919), terminate con quella dal titolo profetico Il teatro del futuro è un teatro povero. Pagine ricche di intuizioni straordinarie, dense di riflessioni e di problemi, a distanza di quasi un secolo, tuttora aperti. L’indubbia importanza del libro si fa perdonare un vistoso refuso nel titolo del saggio malcovatiano: Mejerchol’d 1977. Esagerato!
Elio De Capitani, ritratto d’artista
Dieci anni d’artista. Dieci anni di un Elio De Capitani d’America. È questo il frammento di carriera (e di vita) su cui si sofferma lo sguardo di Laura Mariani, non nuova nel raccontare di grandi attori e delle loro quotidiane sfide. In un approccio che da tempo unisce meticolosità accademica e piacevolezza di lettura. Meno male.
E infatti scivolano veloci questi dieci anni che si aprono con il Berlusconi de Il Caimano. Scelta arbitraria. Ma condivisibile. Rappresentando Nanni Moretti un evidente punto di svolta nel percorso artistico di De Capitani. Era il 2006. Se si pensa che nel 2010 apre la nuova sede dell’Elfo Puccini e in mezzo ci stanno i due capitoli di Angels in America di Tony Kushner, si può immaginare che siano state annate piuttosto complesse… Dalla sua interpretazione dell’orrido Roy Cohn, l’avvocato anticomunista morto di AIDS, si apre il percorso americano in senso stretto. Che prosegue con l’altrettanto insopportabile Richard Nixon, messo in difficoltà dal conduttore televisivo David Frost (grande ‘duello’ attoriale con Ferdinando Bruni), per concludersi con Willy Loman, intensissimo commesso viaggiatore. Tre ruoli più uno. Tre occasioni per parlare di sé stesso, del proprio lavoro, del mestiere del teatro. Tre figure emblematiche dalle quali estrarre un’idea d’America. E pazienza per le altre ramificazioni di questo decennio. Riflessione d’ampio respiro. Ma che forse rimane come marginale di fronte alla curiosità di un De Capitani in bilico fra arte e vita.
Si rincorrono successi, dubbi, problemi, soluzioni, aneddoti. E così appare quasi fuorviante il titolo, per quello che rimane prima di tutto un corposo ritratto d’artista. D’attore. In cui ci s’incunea consapevoli di sacrificare nella scelta quella coralità che da tempo è aspetto peculiare (e preponderante) del Teatro dell’Elfo. Non a caso la Mariani sceglie in premessa di specificare dove si possono reperire informazioni sul percorso storico della compagnia. Un attimo prima di lanciarsi nel racconto individuale di una delle figure più carismatiche della scena contemporanea. A chiudere il volume, un’ampia intervista, immagini, biblio e sitografia.
Sotto il segno della Biomeccanica
Dalla collana I libri bianchi della Ubulibri del 1993 torna oggi in libreria per la Cue Press L’attore biomeccanico che si avvale di una doppia introduzione: la prima, del curatore Fausto Malcovati, ci invita a leggere il volume non dal primo capitolo ma dall’Appendice che, dell’attività pedagogica svolta nello Studio di via Borodinskaja (1913-17), diretto da Mejerchol’d, ci offre illuminanti e decisivi materiali didattici; la seconda, più decisamente storica e documentale, di Nicolaj Pesocinskij, il maggiore studioso russo del regista fucilato nel 1940.
Se tutto il Novecento teatrale ha avuto come Maestro indiscusso Stanislavskij, questo inizio di terzo millennio nasce sotto il segno dell’inventore della biomeccanica, una pratica dell’arte scenica che, felicemente, Malcovati definisce «formazione in grande stile dell’attore. Ma anche attore in grande stile». Infatti è l’attore il centro del suo interesse teatrale; ma, diversamente da Stanislavskij che concentrava il suo ‘sistema’ su motivazioni di tipo psicologico, Mejerchol’d lavorava essenzialmente sul movimento, sulla ‘scienza del corpo’: è da qui che scaturiscono le emozioni.
Ogni esercizio biomeccanico ha un accompagnamento musicale che serve a ritrovare e scandire un ritmo interiore che servirà all’attore a fare diventare ‘infallibile’ il suo movimento in scena. Non solo attori eccezionali che sanno muoversi, ma soprattutto persone che sanno pensare; corpo e intelletto uniti per sviluppare al massimo le proprie potenzialità recitative. Un processo creativo che parte dal movimento per arrivare alla comunicazione col pubblico attraverso l’emozione e la parola. Training e improvvisazione sono i nuovi strumenti operativi del lavoro dell’attore che sono, poi, alla base di qualsiasi laboratorio di recitazione contemporaneo.
De Capitani, l’America e il ritratto d’artista
«La vita di ogni spettacolo si intreccia anche coi fatti di vita e con la quotidianità». Lo scrive a un certo punto Laura Mariani nel libro L’America di Elio De Capitani – edito da Cue Press cui si devono molte interessanti pubblicazioni di teatro ultimamente – il libro che documenta l’esperienza artistica dell’attore e regista, da quasi quarant’anni alla testa della compagnia dell’Elfo e del Teatro Elfo Puccini di Milano.
L’intersezione tra mestiere e vita, arte e realtà è il metodo di lavoro di Laura Mariani, docente di Storia del Teatro all’Università di Bologna, nel delineare i suoi ritratti di artista: cercare l’identità teatrale in questa mescolanza di tracce. Ed è così che vengono fuori riflessioni non banali e non convenzionali, ma anche è così che il risultato diventa un ‘racconto’, spesso anche avvincente, che guida il lettore in un percorso che dal teatro passa alla vita, dall’artista alla biografia.
Era stato scritto seguendo questo metodo il libro del 2012 su Ermanna Montanari, Fare-disfare-rifare (Titivillus): una narrazione che scavava nella vita passata e presente e nella storia artistica recuperandone i fili per orientarsi nella ricca e variegata personalità dell’attrice del Teatro delle Albe. Ora un simile viaggio si percorre con De Capitani e con la sua compagnia, concentrandosi però sul lavoro di costruzione di attore (attore sociale o primario seguendo la definizione dello stesso De Capitani: volutamente né performer, né attore) in particolare per alcune interpretazioni: quelle di Roy Cohn, Richard Nixon, Willy Loman, Mr Berlusconi, che sono anche punti di riferimento delle ultime stagioni del Teatro Elfo Puccini.
Lungo e approfondito il lavoro di riflessione che il libro sviluppa soprattutto su Angels in America di Tom Kushner, di cui si documentano la preparazione, le prove, i pensieri e i dubbi, le empatie e le idiosincrasie che man mano nascevano entrando nell’anima dei personaggi. La grande epopea sugli Usa anni Ottanta devastati dall’Aids, che tanto ricorda la cupa America di oggi, trovava in particolare nella figura di Roy Cohn, politico aggressivo, corrotto, reazionario, ipocrita, così simile a certi aspetti della nuova presidenza americana, un’espressione dei propri fallimenti e insieme diventava lo specchio per un’altra figura politica per noi importante, il più ‘contenuto’ Berlusconi del film di Nanni Moretti Il Caimano, altra interpretazione notevole di De Capitani. Interessante anzi confrontare le pagine dedicate alle prove fatte per entrambi i personaggi. Ma la costruzione del personaggio che diventa il ‘simbolo’ di un contesto storico e politico, trova un compimento anche esteticamente forte nel Willy Loman di Morte di un commesso viaggiatore, una delle più belle interpretazioni di De Capitani, il ‘caso’ che più esemplifica la ricerca di cosa sia intrecciare mestiere, tradizione, attenzione per la drammaturgia, lavoro sul testo, assunzione del personaggio. E di come tutto questo, nel caso di De Capitani, diventi tensione umana e morale.
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