Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

1 Gennaio 2018

L’esplosione di graffi teatrali di fine Novecento

Doriana Legge, «L’Indice», XXXV-1

ll libro di Hans-Thies Lehmann, a leggerlo come non avesse già la maggiore età, ci parla di una serie di urgenze che il teatro, nel finire del XX secolo, ha esibito sullo sfondo di un paesaggio in rovina. È per lo più un testo che si interroga sull’approccio semiotico dello spettacolo e si concentra sulla centralità della scena, ma senza nascondere uno slancio interdisciplinare che si mostra ancora autorevole a quasi vent’anni di distanza. Pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1999 (Postdramatisches Theater, Verlag der Autoren, 1999) tradotto qualche anno dopo in inglese (Postdramatic Theatre, Routledge, 2006), arriva dopo troppi anni nella sua edizione italiana, che si affida alla traduzione della drammaturga Sonia Antinori. Colma questo curioso vuoto la giovane casa editrice Cue Press che negli ultimi anni sta portando avanti un lavoro encomiabile nel panorama teatrale italiano, con belle riedizioni e qualche nuova uscita.

Lehmann parla di postdrammatico a proposito di quelle forme di teatro che, dalla seconda metà del Novecento fino a oggi, hanno modificato il nostro modo di percepire lo spettacolo concentrandosi sull’aspetto dinamico e simultaneo della scena. Le pagine di Lehmann fanno pensare a qualcosa di metodico, ma in realtà è difficile trarre le idee basilari da quella esuberante sequela di artisti e approcci che sul finire del XX secolo hanno irrimediabilmente modificato la scena teatrale che conosciamo oggi. Al teatro postdrammatico Lehmann associa i nomi di Tadeusz Kantor, Heiner Müller, Robert Wilson, The Wooster Group, The Builders Association, Richard Foreman, Big Art Group, Jan Fabre, Jan Lauwers and Needcompany, Frank Castorf, Josef Szeiler/TheaterAngelusNovus, Elfriede Jelinek, Heiner Goebbels, Verdensteatret, Forced Entertainment, Teater Moment, Apocryphal Theatre e Socìetas Raffaello Sanzio. Mancano molti nomi in questo elenco, ma molti ne mancano anche nello stesso testo di Lehmann, eppure è una rassegna necessaria per individuare un tracciato che riempia di segni (chiamiamoli piuttosto graffi) un’ipotetica cartina teatrale mondiale. Da Berlino a Cracovia, New York e Londra, Vienna, Francoforte, Riga e poi l’Italia: la forza di questi graffi sta non tanto nell’intreccio delle traiettorie quanto nel volume che fanno. Sono stati questo volume e la sua portata a permettere oggi una complessità di ragionamento che evidenzia piuttosto le distanze e non le affinità tra pratiche molto diverse, eppure tutte all’interno della categoria che Lehmann identifica come postdrammatico. Se quindi oggi possiamo dare per assimilato il discorso e l’approccio semiotico che è alla base del ragionamento dell’autore, è anche questo il momento per attivare le nostre sensibilità di spettatori verso l’eredità che ci ha lasciato.

Lehmann, che è allievo di Péter Szondi (autore della Teoria del dramma moderno, 1880-1950, Einaudi, 2000) risente inevitabilmente della lezione del maestro e dedica ampia parte della sua riflessione alla crisi del dramma come forma e alla progressiva epicizzazione dei testi drammatici. Quando il modello brechtiano – o più largamente inteso modello epico – iniziò a non sostenere più l’impianto drammaturgico novecentesco e le complessità che lo riguardavano, il teatro postdrammatico ha cominciato a camminare sulle rovine rimaste, chiedendosi cosa davvero volesse dire una messinscena. Lehmann iniziava a parlare di postdrammatico come di una categoria fluida in cui riconoscere alcune pratiche già attive nella cultura teatrale, per dar voce a qualcosa di cui già si percepiva la forma, in maniera forse ancora poco cosciente per chi quella scena la viveva, e anche per chi la praticava. Oggi l’edizione italiana del libro innesca un rovesciamento con cui guardare la memoria storica teatrale, dopo il momento sempre problematico per gli studi che porta a sistematizzare in sequenze e correnti artistiche una storia che non è mai lineare. È a noi spettatori di oggi che è richiesta una complessità di ragionamento che evidenzi più le distanze che non le affinità tra pratiche molto diverse, che hanno saputo vivere il tempo intermittente e sincretico della vita umana e raccontarlo lontano dal logocentrismo.

Dinamicità e pluralismo abitano la scena mondiale sul finire del Novecento, pensiamo a taluni cortocircuiti: nel 1997 Dario Fo riceve il Premio Nobel per la Letteratura in qualità di drammaturgo; un altro tipo di teatro di narrazione conosce i suoi vertici negli stessi anni. Il libro di Lehmann si concentra sull’esplosione dei segni teatrali come rottura dell’impianto gerarchico che ne cristallizzava la forma. C’è un paesaggio teatrale nuovo e sfaccettato sul finire del Novecento: Lehmann cerca di sistematizzarlo, lasciando però aperte fessure da cui entrare.

10 Dicembre 2017

Le 2 (3, 4…) Americhe di De Capitani

Laura Zangarini, «Corriere della Sera»

«Fino agli anni Settanta le contraddizioni della società americana non erano le nostre, dagli anni Ottanta e con la globalizzazione non possiamo che rispecchiarci in essa per decifrare questo nostro complesso presente». A parlare è Elio De Capitani, attore e regista che con Ferdinando Bruni guida la tribù dell’Elfo di Milano, sul cui palco porta in scena dall’8 gennaio, in prima nazionale, L’acrobata di Laura Forti.

Il testo ricostruisce la vita tragica e avventurosa di Josè Valenzuela Levi, nome di battaglia Comandante Ernesto, un cugino dell’autrice, che nel 1986 organizzò il fallito attentato contro Pinochet. Il dittatore cileno si vendicò con brutale ferocia: José, che in famiglia affettuosamente tutti chiamavano Pepo, fu assassinato (disarmato, gli spararono alle spalle) nel giugno 1987 da agenti della Seguridad.

Dice De Capitani: «Quando la storia pubblica si intreccia con quella privata, quando due attori spariscono dalla scena per lasciare il posto alla vita vera, a qualcosa di crudo e straziante, allora si realizza la felicità del regista. Quella che ti fa diventare uno spettatore qualunque, che si siede ed entra nel viaggio dei protagonisti con l’immediatezza delle emozioni e senza nulla più sapere della sua opera, che nasce come nuova davanti a lui. Questo è quello che ho provato vedendo L’acrobata per la prima volta tutto di fila alle prove. Ho visto nascere qualcosa che mi apparteneva profondamente eppure non mi apparteneva più».

Con questa nuova regia, De Capitani sposta sull’America del Sud quello sguardo critico che per circa un decennio ha tenuto puntato sugli Usa di metà Novecento. Uno sguardo critico analizzato anche in L’America di Elio De Capitani (Cue Press, 2016), minuzioso saggio in cui Laura Mariani ha indagato il lavoro di attore di De Capitani intorno a due grandi personificazioni del potere americano, il presidente Richard Nixon, messo alle strette dal conduttore televisivo David Frost sullo scandalo Watergate (Frost/Nixon di Peter Morgan, 2013); e Roy Cohn, il fanatico avvocato di destra, l’assistente del senatore McCarthy all’epoca della caccia alle streghe anticomunista, ricattatore e mestatore politico, morto di Aids a 59 anni nel 1986; uno dei primi mentori di Donald Trump negli anni Settanta, quando l’attuale presidente Usa non era che il rampollo un po’ sguaiato di un impero immobiliare (Angels in America di Tony Kushner, 2007; per il ruolo di Cohn, De Capitani è stato premiato con l’Ubu come Migliore attore non protagonista); oltre a un personaggio cardine della letteratura americana, il loser per definizione, il Willy Loman di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller.

Riflette De Capitani: «Cohn, Nixon e Loman disegnano il volto dell’America, un mondo che attrae con il suo ‘sogno’, tanto vitale quanto devastante, e per questo capace di produrre sofferenze e sconfitte durissime».

Sognare, fingere, immaginare. Aggiunge De Capitani: «L’uomo ha bisogno di simulare ma al tempo stesso rischia di rimanere schiavo della menzogna. Mentire diventa necessario come l’aria per respirare. Specchiarmi nella complessità della menzogna come riflesso in negativo dell’umano istinto di conservazione, mi sembra una necessità di questi tempi, anche se è da sempre la nostra malattia nazionale. Si mente agli altri e soprattutto a sé stessi, per allontanarsi dai propri fallimenti».

Angels in America, un testo che nel 1993 parlava di maccartismo, fanatismo religioso, preoccupazioni ecologiche, «è diventato improvvisamente e tragicamente concreto, comprensibile. Questo è stato il significato del riportare a teatro dieci anni fa un testo ambientato negli anni Ottanta e scritto nei Novanta». Nell’America di oggi – l’America di Trump che, ne è certo De Capitani, «Willy Loman avrebbe votato» – ci si torna a interrogare, come ai tempi dello scandalo Watergate, «sul superamento dei limiti morali del potere affrontati in Frost/Nixon, un testo scritto nel 2006 che ben rappresenta la nostra idea di teatro contemporaneo, un teatro capace di comunicare contenuti complessi e vicende importanti». L’11 settembre ha azzerato le distanze tra noi e l’America: «Il mondo si è bizzarramente ‘rimpicciolito’, mostrando con forza che tutto quello che riguarda gli Stati Uniti ci tocca da vicino. Oggi, con la crisi e il lento ma inesorabile smantellamento del welfare, l’american way of life, la più grande e dinamica delle religioni monoteistiche, si mostra per quel che è: un sogno avvelenato».

1 Dicembre 2017

Il teatro postdrammatico

Alfio Petrini, «LiminaTeatri»

La prima edizione del libro risale al 1999. La progettazione a dieci anni prima. Con la traduzione di Sonia Antinori e la postfazione di Gerardo Guccini, la casa editrice Cue Press ha compiuto un’opera meritoria, pubblicando il saggio di Hans-Thies Lehmann Il teatro postdrammatico (Bologna, 2017). In una breve antologia di osservazioni e dialoghi figurano alla fine delle 235 pagine del libro i contributi di Giorgio Degasperi (Un teatro post-epico), Marco De Marinis (Il teatro postdrammatico: un superamento della rappresentazione e della messa in scena), Lorenzo Mango (Crisi di segni e drammaturgia della visione), Antonio Attisani (Un panorama, in realtà, neoaristotelico e neodrammatico), Cristina Valenti (Crisi della personalizzazione drammatica e crisi dell’individuo come agente del conflitto sociale), Marco Martinelli (Il futuro del teatro saranno i piccoli gruppi). Il libro è ricco di contenuti. Non è tuttavia esaustivo, come sostiene lo stesso autore. Il linguaggio – a tratti ideologico – è legato alle idee. Forse troppe.

L’autore getta nel crogiuolo della lettura una serie innumerevole di nomi, con riferimento a periodi storici, gruppi, istituzioni culturali, artisti e movimenti artistici che si sono succeduti nel gigantesco arco temporale che va dal predrammatico a Grotowski, attraverso il drammatico, l’epico, le Avanguardie storiche, il postdrammatico e la performance.

Lehmann non è l’inventore della cosa, come giustamente afferma De Marinis, ma del nome che dà il titolo al libro. Si presume che la raccolta di recensioni, articoli di giornale e riflessioni occasionali sia stata effettuata nel corso degli anni. Non ha alcun tono profetico, anche perché non vuole fare alcuna profezia. E mi pare che abbia ragione Attisani quando, nella breve antologia finale, sostiene che l’opera offre in sostanza un «panorama evocato più che accuratamente analizzato, neoaristotelico e neodrammatico, perché le avanguardie hanno ripreso l’idea fondamentale di Aristotele circa il teatro inteso come estrazione e presentazione delle azioni essenziali, anche a scapito delle tradizionali nozioni di conflitto e di personaggio».

Si ha l’impressione di conoscerlo il libro, e di averlo già letto. Forse, con il passare degli anni, ha perso un po’ di mordente. Superando le resistenze classificatorie che mi sembrano conclusioni inconcludenti, ritengo di poter dire che non sia un genere di teatro ma una metodica di lavoro che l’ipotetico regista e il gruppo stabile dei suoi collaboratori utilizzano per una scrittura scenica incardinata nella relazione fondamentale, interattiva e ineludibile che vive tra palcoscenico e platea, dove conta solo una cosa: lo spettacolo come esperienza individuale e collettiva del gruppo di lavoro. Infatti solo l’esperienza ci può cambiare. Ed è per questo motivo che gli attori più capaci e sensibili, entusiasti del loro lavoro, imparano ad applicare la tecnica per la gestione dell’atto performativo e si pongono come coautori dell’oggetto artistico.

È ragionevole dire che non esiste il teatro, ma tanti modi di fare teatro per tante tipologie di pubblico. Ed è bene che sia così. La cosa importante è che tra palcoscenico e platea accada qualcosa che non provochi noia e quindi uno sgradevole effetto respingente. Vado a teatro per divertirmi e per provare emozioni, non per apprendere concetti. Un po’ più difficile è dimostrare che la crisi del dramma si accompagna alla crisi del conflitto sociale. «Ci troviamo – scrive Cristina Valenti nell’antologia posta alla fine del libro – di fronte alla incapacità di pensare la realtà come connotata dal conflitto».

Dipende allora dalla mia salute mentale la visione di un mondo pieno di conflitti! Ne vedo un’infinità, grandi e piccoli: tra individui, gruppi sociali, comunità nazionali. Il teatro drammatico – a dispetto delle mie predilezioni (orientate verso le forme di teatro totale) – vivrà e sopravviverà a lungo, forse ancora per molti secoli: chi lo può dire?

Ho letto e riletto il libro di Lehmann più volte. Una marea di parole e di racconti. Volevo, per presunzione forse, possederlo per intero: per sentirlo come fosse mio, per poterlo amare e non amare allo stesso tempo. Così ho deciso di chiosarlo, sottoponendo a ragionevole disamina i passaggi che mi sembravano di maggiore interesse e problematicità, provando ogni volta una sincera vicinanza o lontananza dalle idee dell’autore. E conto sulla sua benevola comprensione per la mia eventuale, non auspicabile vaghezza culturale.

Nel capitolo dedicato a Dramma e teatro, Lehmann sostiene che «il teatro moderno ha messo in discussione il modello obsoleto del dramma». Cosa arriverà – si è chiesto – dopo il dramma? Alla domanda ha risposto Szondi, ipotizzando che alla ‘crisi del dramma’ sarebbe seguita una epicizzazione che avrebbe fatto del teatro epico una sorta di chiave universale degli sviluppi futuri. Oggi, questa risposta non basta più. Si fa strada allora una nuova tendenza, incentrata sulla dialettica tra forma e contenuto, e sulla elaborazione della «teoria del dramma moderno» che induce Szondi a sostenere la seguente tesi. «Poiché lo sviluppo del teatro moderno porta oltre lo stesso dramma, non si può evitare di affrontarlo attraverso un concetto opposto: quello di epico». Da allora questo concetto antitetico, con l’aggiunta dell’autorità di Brecht, ha determinato il «blocco totale della percezione e un generale quanto frettoloso consenso su tutto quello che si considera teatro moderno».

E a proposito della ‘cecità’ di Roland Barthes, l’autore del libro sostiene che il semiologo francese non riusciva a vedere l’intero solco del nuovo teatro – da Artaud e Grotowski fino a Wilson –, pur apprezzando il valore delle sue riflessioni di semiotica «sull’immagine, sul senso ottuso, sulla voce, importantissime per questo nuovo tipo di teatro». Dopo Brecht sono nate molte forme di teatro che sfuggono all’indagine del vocabolario dell’epico. Sta nei fatti che ci sia un teatro con dramma e un teatro senza dramma. Ma esiste un genere di teatro che va oltre i generi? Ci sono i teatri della vita e i teatri della scena. I teatri della vita che vengono messi in scena e i teatri della scena che vengono messi in vita.

Condivido il richiamo al meticciato e alle pratiche differenziate, non solo tecnologiche, delle aree intermediali e sinestetiche applicate alle forme della variegata comunicazione teatrale. Per quanto riguarda la pluralità dei segni e le miscele linguistiche eterogenee, non appare scontata la consapevolezza relativa alla dualità della natura e della cultura umana. E allo stesso tempo la visione del reale – negli aspetti della sostanza materiale e/o immateriale, visibile e/o invisibile – di cui si nutre l’azione individuale e collettiva degli artisti agenti nel contesto performativo della scrittura scenica.

La parola interdisciplinare è ambigua. Le discipline – dotate di vita nominale – non possono interagire. Lasciamo la dizione agli assessori alla cultura dei Comuni d’Italia. Interagiscono invece i codici espressivi (di natura verbale, sonora, oggettuale, spaziale, eccetera, eccetera), e gli attori/performer che «non esistono senza gli altri» (Antonio Attisani, Filofisica teatrale, 2017) e che stanno in scena come «collettivo di coscienza» (termine proposto da Giuseppe Vitiello). Un paese civile dovrebbe riconoscere loro il ruolo di co-autori e il beneficio del diritto d’autore per la partecipazione al lavoro di scrittura scenica fondata sulla combinazione di codici che non rimangono separati e distinti, ma producono un valore aggiunto di natura poetica. Un’opera multimediale non è intermediale. Un’opera intermediale è multimediale intertestuale e sinestetica.

Tra le ‘questioni’ aperte si avverte la necessità di fare alcuni approfondimenti. La prima. Fare un teatro civile per un paese incivile, oppure un paese civile per un teatro incivile? La questione è rilevante.

La seconda. Ancora con Attisani sulla nozione di coscienza, che implica «un materialismo di tipo nuovo» sul quale gettare nuova luce. La meditazione è decisamente affascinante. «Non è puramente mentale, è propria di tutto l’essere umano». «L’offerta filosofica» è di Carlo Sini e «rappresenta una novità sostanziale». «In un mondo in cui non bastavano l’economia, la filosofia e la scienza, è nato il teatro. Prima del teatro c’erano le arti dinamiche fuse in un tutt’uno e poi separate. E prima delle arti dinamiche c’era – e c’è – il corpo». Quella segnata da Sini è una svolta che realizza un sostanziale superamento del pensiero occidentale basato soprattutto sul modello di meccanica classica. Per Sini, tutte le cose, compresi i pensieri e le parole sono da considerarsi non come realtà a sé stanti ma come i ‘significati’ che essi assumono con l’interazione con le altre cose, e la filosofia diventa una scienza della interrogazione, anche di se stessa, tra l’altro unificando il paradigma occidentale della terza persona con quello orientale della prima persona. «A me stesso – prosegue Attisani – dico che quella di Sini è una filosofia quantistica, applicando e sviluppando la quale si può stare meglio e più consapevolmente in un mondo visto non come un solido che sta nello spazio e si evolve nel tempo, bensì come un insieme di campi quantistici la cui interazione genera ciò che denominiamo tempo, spazio, particelle, onde e luce. Voglio dire che con Sini si libera il materialismo critico dai lacci della dialettica e dello storicismo in cui è impastoiata per esempio la disciplina teatrale più avanzata, senza ignorarli, ma utilizzando le due categorie in un contesto assai più vasto che, per utilizzare i concetti della fisica quantistica, potremmo definire indeterminismo e relazionalismo . L’indeterminismo è la constatazione che il futuro non è determinato univocamente dal passato, ma è sostanzialmente imprevedibile. Il concetto di relazionalismo nasce dalla constatazione che la realtà è relazione: ogni velocità è relativa a un’altra, ogni ritmo a un altro, tutte le caratteristiche di un oggetto esistono in relazione a un altro oggetto. Il passaggio dal montaggio meccanico alla ‘composizione quantistica’ dell’opera teatrale avviene a. quando una compagnia è un’associazione di individui attivi nel processo creativo; b. quando i suoi componenti provengono da differenti tradizioni; c. quando il lavoro comune comprende il laboratorio (formazione, esercizio e sperimentazione) e, molto importante, d. laddove consapevolmente o meno, si procede verso una riunificazione delle arti dinamiche (poesia, musica, danza, canto e recitazione)».

E ancora. Il tema del rapporto tra palcoscenico e platea, altrimenti conosciuto come drammaturgia dello spettatore, pur risultando pratica ineludibile, allo stato delle cose risulta poco nota, poco conosciuta e ancor meno praticata. Le istituzioni culturali pubbliche dovrebbero impegnarsi seriamente nella trasformazione delle brutte parole – come promozione del pubblico e diffusione della cultura teatrale – in progetti di bella e concreta fattualità. Meno politica, dunque, e più politiche per l’uso sociale del bene culturale teatro. E a proposito delle ‘questioni’ aperte trova accoglimento la via di fuga che assegna alla ricerca teatrale valori di natura non solo filosofica, come abbiamo potuto constatare, ma – in senso critico – anche sociale. Le cose cambiano. Le cose sono sostanzialmente cambiate. Il teatro politico ha cambiato nome: è diventato teatro d’impegno sociale, oppure teatro che cura, percorrendo strade poco fantasiose. Ma il teatro d’impegno sociale deve essere sociale o a-sociale? Questo è il punto. Per quanto ho sperimentato nel corso degli anni credo che debba essere a-sociale. E pertanto barbarico. Più dice meno dice. Più spiega, più descrive, più è edificante, più si allontana dalla poesia della scena.

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23 Ottobre 2017

Il teatro postdrammatico di Lehmann. Un paesaggio di rovine?

Doriana Legge, «Teatro e Critica»

Vent’anni fa parlare di postdrammatico suggeriva il riferimento a una categoria fluida in cui riconoscere alcune pratiche già attive nella cultura teatrale, dare voce a qualcosa di cui già si percepiva la forma, in maniera forse ancora poco cosciente per chi quella scena la viveva. L’edizione italiana del libro di Hans-Thies Lehmann (con la traduzione di Sonia Antinori), che arriva con imperdonabile ritardo dalla sua prima pubblicazione nel 1999, ha il pregio di poter innescare un rovesciamento della memoria storica teatrale – dopo il momento sempre problematico per gli studi che porta a sistematizzare in sequenze e correnti artistiche una storia che non è mai lineare. Sono allora le distanze e non le affinità tra pratiche diverse che ci restituiscono la complessità di un periodo in cui le stelle del teatro non cadono più dal cielo, piuttosto nascono dalle rovine.

Ragioniamo allora sul rapporto tra passato e presente del postdrammatico come un periodo incandescente e ancora in atto, ma con delle sacche di resistenza importanti di cui sarebbe anche d’obbligo parlare. Due anni prima dell’uscita del libro – nel 1997 – Dario Fo riceve il Premio Nobel per la Letteratura, lo riceve in qualità di drammaturgo. Cortocircuiti, eppure spie di un pluralismo di cui la scena di fine Novecento ha saputo godere. La fecondità di un post esplosione quando i segni teatrali rompono l’impianto gerarchico per avanzare «verso la pienezza di nuove possibilità, la creazione dopo il crollo».

Ne I giganti della montagna, Pirandello immagina una recita organizzata da una compagnia sbandata, non più in grado di trovare teatri pubblici per i propri lavori. Lo spettacolo si conclude con il sacrificio e la morte dell’attrice Ilse, mentre tutti gli altri attori sono aggrediti da un pubblico indifferente alla scena. Pirandello ci parla del teatro in un tempo schiacciato da forze negative. Ci parla di una frattura, provocata da nuove dinamiche socioculturali che hanno costretto il teatro a mutare il proprio ruolo nella società. La definisce «cavalcata d’un’orda di selvaggi» quella dei Giganti che scendono dalla montagna, che marciano sulle rovine, per andare a inebriarsi di un altro rito, che non è quello teatrale, ma la celebrazione di nozze importanti.

Molti decenni dopo, il postdrammatico prende in carico questa frattura tra la scena e chi la dovrebbe osservare e la fa diventare un’urgenza molto prolifica. Robert Wilson, Gertrude Stein, Heiner Müller, Heiner Goebbles, Robert Lepage, Jan Fabre sono i Giganti – non più indifferenti – che dalle rovine di una società hanno saputo trascendere ogni interpretazione razionale della vita, e portare sulla scena il caos. Hanno saputo vivere il tempo intermittente e sincretico della vita umana e raccontarlo lontano dal logocentrismo. I Giganti hanno costruito nuovi edifici e delle macerie hanno fatto fondamenta di strutture che albergano più in aria che sulla terra.
Invece di attardarci sugli impianti stabili di una proposta che è ormai teoria, bisognerebbe allora cogliere l’invito di Lehmann a pensare il postdrammatico come «un nuovo teatro nel quale le figurazioni drammatiche potranno ritrovarsi, dopo che Dramma e Teatro si sono tanto allontanati» (p. 161).

ll libro di Lehmann, ancor più oggi, ci pare il tracciato che uno storico puntuale e preciso, eppure visionario, ha delineato per individuare il postdrammatico come categoria teorica dai confini mobili. L’invito allora è quello a mettersi in ascolto di quello che sta accadendo attorno. Pensiamo ad esempio a quanto oggi i codici narrativi siano sfruttati nel pubblico come nel privato, attraverso uno storytelling che è risultato del racconto quotidiano di noi stessi. A quanto la narrazione delle azioni sembri fagocitare l’esperienza delle azioni stesse. E come questo possa essere l’ennesima spia di una parola che davvero non basta più. Persino a immaginarla così rapidamente ci pare che questa sia già un’altra storia, di cui presto riconosceremo nuovi Giganti.

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13 Ottobre 2017

Oltre la performance

Francesco Ceraolo, «Fata Morgana»

La pubblicazione in italiano de Il teatro postdrammatico di Hans-Thies Lehmann è un avvenimento di grande rilevanza che la teatrologia italiana non può assolutamente sottovalutare. Si tratta, senza dubbio, del più importante studio sistematico sul teatro contemporaneo post-drammatico (cioè puramente performativo) della seconda metà del Novecento, che ha influenzato una generazione di studiosi e che, con estremo ritardo (l’edizione originale tedesca è del 1999), arriva finalmente anche da noi.

Leggendo a distanza di tanti anni dall’uscita il testo proposto da Cue Press nella traduzione italiana di Sonia Antinori, fosse anche unicamente per una coincidenza temporale, non si riesce a non mettere in relazione quanto scritto da Lehmann sul finire dello scorso secolo e quanto, più o meno negli stessi anni, opponendosi radicalmente alla deriva performativa del teatro contemporaneo analizzata e valorizzata da Lehmann, ha proposto Alain Badiou nel corso della sua personale ricerca filosofica sulla singolarità dell’evento teatrale. Le ragioni che hanno portato Badiou a tale posizione le ritengo valide, perché contestano la possibilità stessa di definire la singolarità teatrale sulla scorta del concetto fluido di performance, che al contrario, a partire da Schechner, ha ‘dissolto’ la prassi teatrale all’interno di un regime sociale ed estetico incapace di cogliere la sua unicità in relazione alle forme e ai linguaggi del mondo. Si tratta tuttavia di un nodo cruciale e problematico della teatrologia contemporanea che si cercherà nuovamente di riproporre e analizzare in questa sede.

Pur nella loro divergenza radicale, vi è un chiaro punto di coincidenza tra l’analisi di Lehmann e quella di Badiou: il riconoscimento di un’analogia formale tra prassi teatrale e prassi politica. Qui effettivamente si gioca una delle tesi più convincenti del testo di Lehmann: la fondamentale definizione di postdrammatico viene infatti fornita in relazione a quella che lo studioso tedesco definisce una «politica della percezione» (Wahrnehmungspolitik) e un’«estetica della responsabilità» (Ästhetik der Verantwortung). Secondo Lehmann la forza del teatro performativo e ‘senza testo’ – che ha caratterizzato il teatro sperimentale dalle Neoavanguardie degli anni Sessanta – consisterebbe nel fatto che, all’interno della ipermediatizzata società contemporanea dello spettacolo, scartando dal suo tradizionale referente letterario esso sia stato in grado di produrre un’esperienza etico-politica a partire da un coinvolgimento di «attori e spettatori nella produzione di immagini teatrali», rendendo dunque visibile quel legame spezzato dai dispositivi mediali tra esperienza personale e percezione.

Se per Badiou l’analogia del teatro con la politica si instaura nel contesto di una messa in relazione dell’eternità del testo con l’istante della situazione, per Lehmann la coincidenza tra teatro e politica trova forma proprio nel passaggio dal drammatico al post-drammatico, ovvero nel processo di superamento della concezione dell’evento teatrale quale semplice mediazione tra il testo e lo spettatore (come invece lo intende Badiou) e, conseguentemente, quale momento di affermazione della centralità dell’esperienza diretta e non mediata, in cui cioè colui che ‘invia i segni’ (il performer) e colui che li riceve (lo spettatore) sono sullo stesso piano. In altre parole, il teatro postdrammatico rappresenterebbe una sorta di forza residuale nel contesto dell’attuale orizzonte delle arti perché riaffermerebbe il valore dell’esperienza in quanto tale, della sua forza intimamente politica.

La prima, e più significativa, obiezione che si potrebbe muovere alla suggestiva tesi di Lehmann è però questa: il teatro, così inteso, diventa una prassi sociale, un indistinto coacervo di flussi e pratiche di vita in cui l’esperienza umana è interamente dispersa. Non un teatro inteso come luogo di una singolarità posta al cospetto e in relazione alla vita, ma un teatro che diviene momento indistinto della vita stessa, in cui la vita cioè non è sottoposta ad alcun processo di palingenesi semplificativa, ma è riproposta in quanto tale, senza scarti.

Proseguendo, a partire dall’analogia tra teatro e politica, troviamo un ulteriore punto di convergenza tra l’analisi di Lehmann e quella di Badiou, ed è la valutazione ‘critica’ dell’esperienza novecentesca che su quella analogia ha maggiormente lavorato: il teatro epico di Bertolt Brecht. Per Badiou infatti Brecht rimane il più importante esponente dell’apprensione ‘didattica’ dell’esperienza artistica (quella che, iniziando con Platone, ha negato un’autonomia dell’artistico in nome di una sua sottomissione al politico), mentre per Lehmann l’autorità di Brecht non è sufficiente a spiegare l’evoluzione del teatro nella seconda metà del XX secolo, poiché nonostante il suo enorme impatto sul concetto storico di performance, essa rimane incorporata all’interno di una concezione interamente drammatica dell’evento teatrale. Alla centralità della figura di Brecht, Lehmann sostituisce quella di Artaud, vero referente dell’emergere di quelle esperienze della neo-avanguardia negli anni sessanta (come gli Happenings, i Fluxus events, la video arte), che hanno portato al «dispiegarsi e la fioritura di un potenziale di disintegrazione, smontaggio e decostruzione nel dramma stesso», e in cui una rinnovata attenzione alla materialità della performance (e conseguente isolamento del testo a elemento secondario dell’evento teatrale) sono emersi in modo evidente.

Ma è proprio attorno alla figura di Brecht che si gioca uno snodo critico fondamentale dello studio di Lehmann. Perché partendo dall’analisi del teatro epico brechtiano Lehmann intende fondamentalmente prendere le distanze dall’altro grande trattato sulla crisi del paradigma drammatico, la Teoria del dramma moderno di Péter Szondi, e in particolare dalla sua prospettiva che vede nell’opposizione dialettica tra forma e contenuto l’origine di tale crisi, di cui l’epicizzazione del teatro è stato il momento decisivo. Questa prospettiva, sostiene Lehmann, porta a una cecità verso quelle esperienze teatrali che esistono al di fuori della forma drammatica, non prendendo in considerazione la possibilità di una riorganizzazione ontologica dello statuto del teatro estranea alla sfera del testo.

Ora, se è sicuramente vero che la grande forza teorico-analitica dell’operazione di Lehmann è innegabile e che, se vogliamo, consiste proprio nel fatto che il suo impianto sfugga ad una classificazione precisa – com’è altrettanto vero che la straordinaria capacità sistematica e sintetica del suo lavoro rappresenti un esempio irrinunciabile in un’epoca in cui arrischiarsi nel campo della sistematicità sembra un’operazione sempre più scongiurata –, il rifiuto tanto dell’impianto dialettico szondiano quanto dell’asistematicità postmoderna, diviene paradossalmente il vero punto debole del lavoro di Lehmann, perché lo porta verso un ‘pensiero critico’ e negativo, verso l’impossibilità cioè del ripensamento etico-estetico del mondo a partire dalla prassi artistica, e invero fino a un sociologismo che ha in Adorno il più importante referente.

Ciò emerge, solo per fare un esempio, da uno dei passaggi teorici più significativi (il paragrafo intitolato Hegel 1: l’esclusione del reale), in cui Lehmann analizza e adotta la famosa tesi hegeliana del carattere passato dell’arte, individuando in essa i germi del decadimento del dramma. Dopo aver dato conto della riflessione di Christoph Menke sulla teoria hegeliana del dramma, Lehmann afferma che le contraddizioni all’interno del canone moderno, quali la riconciliazione tra bellezza e etica, manifestano già «quelle tensioni che aprono alla crisi, allo scioglimento e, infine, alla possibilità di un paradigma non-drammatico». In altre parole, Lehmann sostiene che già a partire dall’estetica di Hegel l’ideale di bellezza artistica intesa come «stratificata riconciliazione degli opposti, […] bellezza e etica» emergerebbe come irriconciliabile. L’ideale del dramma, conclude in modo significativo, si trasforma in una «palese crisi di un concetto etico di bellezza», aprendo ad una esperienza indissolubilmente conflittuale la cui portata ha condotto al necessario ripensamento del suo statuto.

In altre parole, è nella crisi della capacità di significazione dell’arte rispetto al mondo che risiede l’origine dello scarto verso il postdrammatico. È cioè nelle crepe di un’insanabile frattura tra opera e realtà che il teatro, incapacitato a costruire proposizioni ideali, ha ridefinito la sua natura attorno alla dimensione materiale del suo accadere, proprio per evitare la reificazione stessa del positivo, di una bellezza etica ormai compromessa. Questa forma di dialettica negativa porta nei fatti Lehmann a negare l’autonomia dell’evento teatrale, a ‘dissolvere’ nelle prassi reali la sua singolarità, non definendola più in relazione a quell’esterno – a ciò che esiste al di fuori delle forme teatrali stesse, alle forme di vita nel loro complesso –, che il teatro, nella sua unicità, dovrebbe invece essere in grado di cogliere e rappresentare.

La potenza dunque sistematica del lavoro di Lehmann, tanto il suo non aver accettato un compromesso al ribasso nell’analisi e nella capacità di gestione dell’immenso panorama di esperienze artistiche e performative di cui fa oggetto, quanto l’abilità di smarcamento dalle secche teoriche dei performance studies degli ultimi decenni, fanno della sua opera un punto di riferimento imprescindibile. Tuttavia, l’orizzonte intellettuale in cui si muove, i suoi riferimenti critico-teorici, misurati oggi, a distanza di tanti anni dalla sua prima apparizione, lo fanno apparire come l’ultima grande opera di un secolo che deve ormai essere considerato chiuso. Per questa ragione, il punto di arrivo della sua impostazione e prospettiva speculativa (e delle esperienze artistiche che analizza), la cui importanza è certamente innegabile, sembra essere giunto in Italia troppo tardi, proprio nel momento in cui andrebbe superato.

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1 Ottobre 2017

Hans-Thies Lehmann arriva in Italia

Diego Vincenti, «Hystrio», XXX-4

Alla sua prima edizione in italiano (finalmente), Il teatro postdrammatico di Lehmann è uno di quei pochi saggi che hanno davvero segnato il loro tempo. Un frame. Di una scena in profonda evoluzione a fine millennio. Teorica e pratica. Ma si ferma mai il teatro? Non che sia invecchiato dunque il libro di Lehmann, tre edizioni in Germania dal 1999. Ma forse ha perso un po’ di freschezza.

Intatta invece la lucidità d’analisi e la capacità di raccogliere in maniera perfino storico-compilativa l’orizzonte artistico maturato poi negli anni Novanta. Quella distanza sempre più ampia fra un teatro a base drammaturgica e una creatività più vasta, libera verrebbe da dire, dove il testo è secondario (quando non assente) a favore di una partitura scenica modulare. Con buona pace della parola. E basta fare un giro per palcoscenici metropolitani e festival estivi, per comprendere quanto il regno della drammaturgia sia stato scardinato dalla performing art, se non dall’arte contemporanea. Lehmann racconta tutto questo. Preziosa dunque l’edizione voluta da Cue Press, sempre solida e centrata nelle scelte, qui con una pubblicazione di grande utilità. E prestigio.

Traduzione di Sonia Antinori, che firma anche una nota a margine che ben sintetizza la portata profetica e perfino antropologica del volume, a fronte di un concetto base ormai acquisito. Come non condividere? Tanti invece gli spunti da ritrovare con rinnovato entusiasmo: dal non utile antagonismo fra ‘teatri’, alla tesi per cui le sperimentazioni anni Sessanta non abbiano in realtà trovato i propri modelli nelle avanguardie storiche d’inizio Novecento (per quanto andasse di moda affermare il contrario); dalla meticolosa lista degli autori del panorama postdrammatico, al confronto fra mainstream e sperimentazione, l’ampia digressione sul dramma e la sua evoluzione (con ramificazioni filosofiche e la centralità teorica dell’amato Brecht), l’analisi del concetto di performance e la volontà di andare oltre l’azione. Chiude il volume un intervento di Gerardo Guccini sul rapporto fra Lehmann e l’Italia, con un’antologia di osservazioni e dialoghi.

7 Settembre 2017

Il Neorealismo secondo Alberto Farassino

Stefania Parigi, «Fata Morgana»

Il trentacinquesimo Bellaria Film Festival ha ricordato, nel maggio 2017, Alberto Farassino, promuovendo la ripubblicazione di quel prezioso libro-catalogo che nel 1989 accompagnò la retrospettiva Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, curata da Farassino con la collaborazione di Sara Cortellazzo per il Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino.

Nella copertina dell’edizione originale, in bianco e nero, figura il dettaglio del volto di Anna Magnani, interprete di Il bandito (1946) di Alberto Lattuada, con una sigaretta in bocca. Un vivace tocco di rosso sul fotogramma, in corrispondenza dell’estremità accesa della sigaretta, attira lo sguardo e rende ancora più straniante una faccia già quasi irriconoscibile: quella dell’attrice senza le borse sotto gli occhi leggermente abbassati, con lunghe ciglia finte. Nel film di Lattuada la ‘diva’ neorealista gioca una parte molto lontana dall’icona della popolana che l’ha resa celebre un anno prima con Roma città aperta.

La scelta di quell’immagine truccata è già un segno dello sguardo innovativo e microscopico che Farassino intende ‘gettare’ sul Neorealismo, cercando di esplorare, al di là dei monumenti consacrati, le figure, le opere e gli spazi rimasti offuscati o controversi nelle varie visioni ufficiali che si sono succedute negli anni.

Ora sulla copertina della riedizione di Cue Press figura sempre la Magnani, ma in un’inquadratura di Roma città aperta, quando lancia un’occhiata di traverso al militare tedesco, poco prima della sua corsa dietro il camion che le porta via il promesso sposo. Corsa divenuta l’emblema più accreditato del Neorealismo: quasi un’immagine da francobollo, una sorta di ‘santino’ del cinema del dopoguerra.

Non voglio togliere alcun merito a questa riedizione che – per problemi finanziari, forse, o per pigrizia – ha steso, letteralmente, anche un velo di cataratta sull’atlante iconografico composto da Michele Mancini, il quale chiude i discorsi del libro-catalogo con una serie di fotogrammi rappresentativi delle varie dimensioni della vita quotidiana e dello spazio familiare e sociale durante il Neorealismo, mostrandoci mense e cibi, insegne sulle strade, graffiti sui muri, macerie e ricostruzioni, interni delle case, abiti, oggetti e vizi (come appunto la sigaretta), valigie e mezzi di trasporto, ecc.

Proponendo un mutamento di coordinate negli studi sul Neorealismo, Farassino lavora principalmente proprio su queste iconografie e topografie della cultura del Dopoguerra, mettendo in luce una molteplice serie di materiali inesplorati o poco conosciuti che comprendono immagini e discorsi, film ed echi della stampa popolare d’epoca. La retrospettiva torinese del 1989 pone accanto ai cosiddetti capolavori unanimemente riconosciuti della triade Rossellini, De Sica, Visconti e ai film consacrati di De Santis, Lattuada, Germi, Comencini e Zampa, una lunga lista di titoli in cui i segni del Neorealismo si depositano in impasti ibridi, dentro le vecchie dinamiche dei generi ereditati dall’epoca pre-bellica.

Ma cosa sono esattamente questi ‘segni’ del Neorealismo? Farassino li definisce tratti testuali, ovvero «strutture, isotopie e dinamiche che riflettono […] i fenomeni e i comportamenti più caratterizzanti del periodo». Tali tratti si trovano disseminati in una molteplicità di film del tutto dissimili e riguardano temi come la guerra, la resistenza, la vita individuale e sociale del dopoguerra, il lavoro, i problemi sociali, la corruzione, la criminalità, le condizioni dell’infanzia, la politica e lo spettacolo.

Il fulcro concettuale intorno a cui ruota l’analisi di Farassino è l’abbandono del vecchio paradigma storicista che ha contraddistinto i discorsi sul Neorealismo almeno fino alla mostra pesarese del 1974 in cui si tenta una prima revisione della mitica stagione del dopoguerra attraverso un coro di voci vecchie e nuove. Fra queste ultime compare anche quella del giovane Farassino che assieme agli amici e sodali del gruppo milanese Cinegramma (Francesco Casetti, Aldo Grasso e Tatti Sanguineti) propone, attraverso gli strumenti dello Strutturalismo, un nuovo modo di affrontare il rapporto tra il Neorealismo e il cinema prebellico. La conclusione a cui giunge il gruppo è un’idea di Neorealismo fondato sulla eterogeneità (a livello ideologico, produttivo, politico, tecnico, espressivo e critico), che comporta le contaminazioni tra i generi e i testi, l’abbandono del mito del purismo e del capolavoro, l’apertura moderna alle ricerche intermediali.

Una eco della ricerca collettiva di Cinegramma rimane, quindici anni dopo, nel libro-catalogo di Torino, a cui partecipano Aldo Grasso e Tatti Sanguineti, il quale firma anche la prefazione e la post-fazione dell’attuale riedizione, rievocando «la famigerata intervista» a Giulio Andreotti nell’estate del 1989, da cui partirà il suo lungo lavoro sull’onorevole democristiano, che si concretizzerà molti anni più tardi in due film di montaggio a lui dedicati.

Tra i quattro del gruppo, comunque, soltanto Farassino continuerà le ricerche sul Neorealismo, spostando sempre di più lo sguardo dai discorsi teorici alle analisi dei testi e delle condizioni materiali, culturali e sociali in cui prendono corpo. Nel libro-catalogo di Torino il suo saggio ha un titolo emblematico: Storia e geografia del Neorealismo. Attraverso la parola geografia egli identifica, in linea con le tendenze della storiografia francese delle Annales, una dimensione spaziale e materiale da contrapporre alle logiche temporali ed esclusive della visione storicista, che traccia un percorso lineare del Neorealismo, fissando un periodo di maturazione dell’‘evento’ accanto a un passato di anticipazioni e a un futuro di strascichi e riprese. Visto dalla prospettiva geografica, invece, il Neorealismo si configura come una sorta di atmosfera che circonda e si insinua, secondo differenti combinazioni, nei testi, nei discorsi, nei comportamenti, nell’immaginario collettivo di un’epoca.

È questa la ragione per cui Farassino contrappone al Neorealismo stretto e lungo della visione storicista (limitato a pochi capolavori e disteso lungo tutta la storia del cinema italiano) un Neorealismo corto e largo, che corrisponde al periodo 1945-1949. In questi anni, infatti, a suo giudizio, il Neorealismo si configura come «un affare di vita quotidiana» che permea i media e, insieme, l’esperienza individuale e sociale. Riprendendo la metafora scolastica del titolo del suo saggio (già utilizzata in campo letterario da un noto studio di Carlo Dionisotti, risalente alla seconda metà degli anni Sessanta) Farassino identifica il Neorealismo con una sorta di lingua nazionale: l’italiano del nostro cinema, attraverso cui passano i problemi identitari e la nuova cartografia del paese appena uscito dalla guerra.

Al privilegiamento dell’ottica spaziale su quella temporale e della sincronia sulla diacronia storicistica corrisponde l’adozione di un criterio quantitativo anziché qualitativo nella considerazione dei film, che rigetta l’idea di una mitica e mai raggiunta purezza neorealista, con il connesso paradigma dell’imprescindibile autorialità. Farassino unisce così le poche ‘opere neorealiste’, in linea con i principi di un ‘movimento’ spontaneo, che ancora non sono stati formalizzati dalla teoria, ai numerosissimi ‘film del Neorealismo’, in cui si sedimentano anche se in modo episodico i ‘tratti testuali’ neorealisti. Il panorama che ne deriva è quello di una eterogeneità che il Neorealismo tiene insieme con il marchio di un ‘prodotto d’epoca’, ‘qualcosa di analogo a uno stile di oggetti d’antiquariato’ che si dissemina su testi e discorsi fortemente diversi, finendo per ‘riguardare la vita di tutti’, nel suo continuo passaggio dai film alla realtà e dalla realtà ai film.

Questo circuito di rifrangenze e di corrispondenze si interrompe, secondo Farassino, intorno al 1948-1949, quando non a caso la parola Neorealismo entra in circolazione, cominciano le definizioni e le teorie del fenomeno, mutano gli assetti governativi, legislativi e industriali, iniziano a cambiare le condizioni di vita in Italia.

Attraverso una significativa analogia con il periodo preso in esame, Farassino decide, nel suo libro-catalogo, di rigettare le riletture teoriche, di abbattere la mitologia degli autori, di ricercare apporti che sfuggano all’istituzionalità del linguaggio critico, di dare spazio alle fonti più popolari e sconosciute. Il libro ricrea così, in linea con la visione ‘non aristocratica’ del Neorealismo che professa, uno spazio di esercitazione che non esclude la leggerezza, la provocazione, il gioco. Di qui nasce il piacere dei testi e delle fonti d’epoca, ma anche delle testimonianze di cineasti e non cineasti, italiani e stranieri, che aprono il volume e occupano infine la cornice conclusiva dedicata al Racconto dei nonni (De Santis, Lattuada, Lizzani, Mida e Gelosi della Lux Film). In mezzo a queste memorie e alle operazioni dei saggisti, che si muovono come immaginari cronisti immersi nel corpo e nella materia viva del passato, resta il sapore di tante microstorie ancora poco conosciute e in larga parte ancora da esplorare. Il discorso che Farassino formula nel 1989 rimane valido ancora oggi: tanti film, nomi, immagini, racconti attendono ancora di essere riportati alla luce e alla visibilità. Insomma, ci sono ancora spazi aperti nella lettura di un fenomeno su cui si è spesso ‘straparlato’, che costituisce un mythos e, insieme, un vulnus della nostra storia, non soltanto cinematografica.

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13 Agosto 2017

La Bibbia del teatro che racconta il nostro tempo

Maurizio Porro, «Corriere della Sera»

ll teatro postdrammatico, libro uscito e studiato in tutto il mondo (partendo dal 1999, tre le edizioni tedesche) dell’emerito professor Hans-Thies Lehmann, sta finalmente per comparire in Italia (la traduzione è di Sonia Antinori, uscita e presentazione a Roma a Short Theatre) con Cue Press, casa editrice digitale ideata dall’ex attore Mattia Visani nel 2014, specializzata nello spettacolo, Cue Press offre l’edizione digital oltre alla cartacea con l’intento di proporre novità, ma anche il recupero di testi illustri e dimenticati.

Questo volume di Lehmann – classe 1944, docente a Francoforte e altrove – studia quello specifico teatrale che va oltre il testo, si fa materia autonoma (per questioni di regia o altro) ed è una ricognizione delle nuove forme sceniche dagli anni Sessanta a oggi: un panorama dei mezzi estetici in divenire, con un’antologia di materiali tratti dalla pratica teatrale internazionale, vedi il lavoro di Heiner Müller e Bob Wilson (i cui destini si sono ora incrociati a Spoleto), Jan Fabre o il nostro Luca Ronconi che ha aperto le strade. Lehmann, presidente della società brechtiana (autore su cui ha molto scritto), specialista di teatro antico, fa il punto quindi sull’evoluzione del concetto di estetica del teatro e sui diversi suoi strumenti sempre di meno appartenenti all’era classica.

Cue, la parola inglese nel marchio Cue Press, significa battuta, attacco, suggerimento: la casa editrice fa ricorso anche alla piattaforma per intensificare il contatto col corpo teatrante del nostro paese, dove il palcoscenico vive un momento più vitale del cinema. Tra gli autori della casa: Attisani, Cruciani, Malcovati, Martinelli, Puppa, Spregelburd, Turroni, Zagarrio, Zorzi e Farassino, e altri per il cinema.

1 Agosto 2017

L’America di Elio De Capitani

Giovanni Azzaroni, «Antropologia e Teatro»

Il saggio di Laura Mariani si dipana in un arco temporale che va dal 1953 al 2015 ripercorrendo analiticamente e criticamente il percorso artistico di Elio De Capitani attraverso la lettura delle sue più recenti messe in scena e interpretazioni che ne hanno segnato significativamente la carriera. Si tratta di un ardito e intelligente tentativo di raccontare la storia di un attore, di un grande attore, leggendone le presenze sceniche in un afflato non eminentemente emico ma aspirando a un più generale respiro etico. L’analisi non si limita quindi allo studio della figura critica di Elio De Capitani ma introduce temi più generali che attengono alle problematiche dell’essere attore oggi con riferimenti anche all’essere attore nel passato, nell’Ottocento. Dopo una rapida e necessaria contestualizzazione – gli esordi della carriera e i primi spettacoli – l’autrice si sofferma su quattro magistrali interpretazioni (l’avvocato Roy Cohn in Angels in America, 2007 e 2009; Richard Nixon in Frost/Richard Nixon, 2013; Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore, 2014; Silvio Berlusconi in Il Caimano, 2006) arricchite da sette interviste (13 aprile 2014 – 6 dicembre 2015), nella visione di una filosofia che afferma come lo studio dell’attore non possa «prescindere dalla persona del singolo artista» ma comporti «un rapporto con il presente e con il sociale che va oltre l’individuo» (p. 15).

Angels in America di Tony Kushner, «fantasia gay su temi nazionali», è un testo potente e suggestivo, con protagonista l’avvocato Roy Cohn, egocentrico, assetato di potere, a soli ventisei anni consulente della Commissione permanente di indagine senatoriale con presidente Joseph McCarthy, anticomunista viscerale, incarnazione vivente del «male, il più famoso cacciatore di streghe americano del dopoguerra». Nel suo lavoro sul personaggio, rileva Laura Mariani, De Capitani si è calato in un mondo di relazioni, non ha isolato il suo personaggio ma al contrario lo ha connesso con tutti gli altri cercando al contempo di interagire con essi per comprenderli e farsi comprendere, privilegiando la teatralità.

Rilevante è stato il lavoro di De Capitani sulla traduzione per rendere il testo più facilmente comprensibile e le battute più incisive, al fine di renderlo più ‘teatrale’. Si tratta di una visione precisa che tende a proporre i testi in un linguaggio immediatamente intuitivo quando, spesso, la traduzione tende invece ad appesantirlo per rispettare il tessuto originale, che ovviamente è frutto della cultura dell’autore. Laura Mariani affronta questo problema proponendo diversi esempi e sottolineando come gli interventi di De Capitani siano sempre stati rispettosi dell’originalità testuale in una visione scenica complessiva. Un esempio significativo mi pare possa essere tratto dalla sesta scena, quinta e ultima presenza di Roy Cohn, quando incontra David Schine. L’attore traduce il «because I love you» del testo originale con «perché ti amo» e non con «perché ti voglio bene», come ha tradotto Cervio Gualersi, ripetendo la battuta, «non ha i toni dolci che le didascalie in qualche punto suggerirebbero, caso mai lascia intravedere il crollo. […] la prima volta che l’ho improvvisata – dice l’attore – ho visto un terrore autentico nei suoi occhi , credo che [Giammarini] sia rimasto davvero spiazzato. Avendomi sempre considerato un eterosessuale tranquillo e magari un po’ fobico nei contatti fisici tra uomini, quando mi sono buttato su di lui e l’ho baciato veramente – un real french kiss voglio dire –, cogliendolo di sorpresa, ha avuto un vero shock. Poi è stato possibile ripetere quell’effetto, ma con l’intensità, con il panico totale di lui la prima volta. […] io lavoro sempre sui poli e sui passaggi rapidi da uno stato d’animo all’altro» (p. 50). Da questa filosofia attoriale traspare una nota interpretativa di grande rilevanza, e cioè la diversità dello stato d’animo emotivo risultante da un’azione improvvisata e un’azione strutturata. Diversità di emozione, dice De Capitani, che predilige costruire la sua recitazione su poli opposti, che gli permettono sfumature e bellezze recitative ottenute con il passaggio da un «sentimento all’altro», in modo da non cristallizzare le situazioni emotive in modelli statici. Elio De Capitani, che l’autrice avvicina a un grande attore dell’Ottocento, nella definizione che ne ha data Claudio Meldolesi, non costruisce i suoi personaggi partendo dalla psicologia, ma al contrario li struttura attingendo dalle battute e dalle situazioni e collegandoli simbioticamente con gli altri personaggi: si tratta, mi sia consentito il riferimento orientalista, di un rapporto che passa attraverso i corpi degli attori e gli spazi nei quali agiscono in una visione zeamiana. Per De Capitani il suo teatro «non è mai un teatro di quarta parete e non è mai un teatro epico, se non quando lo deve essere; è un teatro che sta a cavallo fra queste due dimensioni: quindi c’è una schizofrenia fortissima fra dentro e fuori, fra controllo e completo abbandono, fra l’immedesimazione totale dentro l’attimo e la capacità di governare questa immedesimazione, fra cerchio d’attenzione strettissimo – sul me stesso introspettivo […] – e il fatto che nei teatri grandi bisogna continuamente ricordarsi che c’è una galleria, il quart’ordine lassù, dove spesso stanno i giovani, il pubblico più nostro. Avviene tutto insieme, è questa la difficoltà, per cui il gesto è guidato da una serie di impulsi opposti che potrebbero produrre caos» (p. 57).

In Frost/Nixon di Peter Morgan, Elio De Capitani interpreta il presidente statunitense che concede un’intervista al giornalista televisivo Frost, interpretato dall’altro attore-regista della compagnia Ferdinando Bruni, minaccioso e introverso il primo, scanzonato e scettico il secondo. Nella costruzione del suo personaggio De Capitani ha lavorato sull’interiorità e sull’introspezione psicologica disegnando un personaggio a tutto tondo che «nel teatro all’antica avrebbe chiamato in causa il ruolo del tiranno e del padre nobile» (p. 69). Non ha cercato di imitare Richard Nixon ma ne ha portato in scena la volontà di potere, la sua abilità oratoria, è un avvocato, e ne ha rivestito la figura fisica psicologicamente, curando in un approccio poligenetico il rapporto con lo spazio nel quale agisce e anche con gli altri attori. Per rappresentare il potere De Capitani si è ispirato a Craxi, Berlusconi e Formigoni, tre personaggi diversi che tuttavia incarnano la brama e l’avidità egocentrica per il successo: «Io ho fatto un Nixon tra museo delle cere e Oriente, perché questo mi dava quell’impatto che il potere ha» (p. 79). Nella sua interpretazione, rileva Laura Mariani, si nota una grande attenzione al camminare e alla gestualità, scelta che lo avvicina molto a una visione orientale della recitazione, che molto spesso privilegia la gestualità rispetto alla parola, esprimendo con la prima anche sensazioni e stati psicologici che le parole non sarebbero in gardo di svelare. L’attenzione di De Capitani alla gestualità è indirizzata alla costruzione meticolosa degli aspetti psicologici di Nixon, che deve sedurre, deve avere un’aria presidenziale. Sostiene De Capitani: «Ogni testo richiede un equilibrio diverso, ogni autore ti propone lui stesso un materiale su cui lavorare. Chi lavora in maniera più libera, più decostruttiva, di qualunque autore può fare materia per un suo esperimento, un autore lo può rivoltare come un calzino. Io invece cerco di ricostruire la particolare novità di quell’autore, di renderla di nuovo incandescente; anche come regista mi adatto molto di più all’autore di quanto non lo tiri dalla mia parte, perché mi incuriosice anche costruire il personaggio autore nel mettere in scena un testo» (pp. 80-81). L’equilibrio tra esteriorità e interiorità diventa essenziale nella realizzazione di un personaggio al fine di non alterarne le caratteristiche fisiche o psicologiche e renderlo simile a un manichino, a una caricatura. Al contrario bisogna ‘viverci dentro’, provare microemozioni necessitate dallo scorrere di scene frammentate, sostiene Laura Mariani, che rendono difficile raggiungere «un crescendo lineare».

Di rilevante interesse scentifico e critico mi paiono alcune considerazioni che l’autrice propone partendo dall’interpretazione del personaggio Nixon proposta da Elio De Capitani. E cioè il lavoro dell’autore sul testo, i dialoghi tra sé e sé, interiori, «muti e ossessivi» con i quali Tommaso Salvini si preparava a entrare in scena, come ha scritto Claudio Meldolesi, la necessità che il critico e lo storico si interroghino sulla cultura che produce lo spettacolo, in un necessario approccio antropologico; l’esigenza che ci si interroghi su tutto ciò che sta attorno a uno spettacolo, «il teatro in forma di libro» proposto da Ferdinando Taviani, che può essere esteso anche alla letteratura minore. «Il teatro raccontato può essere più appassionante di quello visto? Sì, può esserlo, perché il lavoro dell’attore contiene molte più cose di quelle che si vedono, anche se, alla fine, sono queste a contare e a entrare più vivamente nella memoria» (p. 86).

La regia e l’interpretazione di Willy Loman, protagonista di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, sono stati per Elio De Capitani un ‘punto di approdo’ per la sua carriera. Per portare sulle scene Loman, Elio De Capitani ha svolto un lavoro di introspezione su sé stesso – considera quel personaggio il «suo manifesto dal punto di vista recitativo» – ha costruito un modello di doppia recitazione, utilizza il linguaggio della psicologia. Prima del personaggio è il testo che ritma e determina la recitazione, perché bisogna lavorare sulla psiche sia del personaggio che su quella dell’attore. La vita di ogni spettacolo si intreccia inevitabilmente con quella degli attori che lo rappresentano. L’autrice ha conversato e intervistato De Capitani guardando il video del Commesso viaggiatore: sezionando il testo, scena dopo scena, ne è risultato un interessante racconto che ha permesso di precisare non solo le sue esperienze interpretative relative a Willy Loman, ma anche visioni che attengono al mondo dell’arte interpretativa in generale. De Capitani dichiara di non usare il mimetismo per i personaggi che interpreta, non imita, non cerca stereotipi, ma al contrario tende a trascendere i personaggi per attingere a una dimensione più stridente, quasi evocativa, nel senso di renderne manifesti pregi e difetti senza manifestarli esteriormente, ma proponendoli emozionalmente. La parola va connessa al pensiero del personaggio, alla sua interiorità e non «alla continuità discorsiva del testo scritto».

«La preparazione di nessun attore di teatro può dirsi completa finché non ha fatto un film», ha detto Marlon Brando, e così è stato per Elio De Capitani grazie al Caimano di Nanni Moretti (p. 115), film nel quale ha interpretato il ruolo di Silvio Berlusconi. I tre personaggi Roy Cohn, Nixon e Berlusconi presentano singolari analogie perché, secondo De Capitani, manifestano i germi del vitalismo di destra, smania per il potere e nessuna remora per raggiungerlo. De Capitani, scrive Laura Mariani, ha una particolare abilità nell’imitare i personaggi che porta in scena, ma la sua non è un’imitazione pedissequa simile alla caricatura, ma parte dall’interno, entra nell’interiorità del personaggio e ne mette in risalto le strutture psicologiche, anche quelle dell’immaginario, come direbbe Durand. Nel film De Capitani imita Berlusconi senza imitarlo, «si è messo a disposizione della visione di Moretti», non si è identificato in un ‘metodo’, ma «mescolando le pratiche: Stanislavskij e Brecht, il lavoro sull’esteriorità e quello sull’interiorità, l’imitazione e la reviviscenza, l’osservazione della realtà e la memoria di esperienze teatrali proprie e altrui. A teatro la ripetizione e il furto servono come basi di partenza per creare la propria individualità artistica, gli scarti nascono da processi di accumulazione, vita e teatro si confondono nel corpo e nelle memoria dell’attore» (p. 122).

Nel capitolo conclusivo del suo saggio, Laura Mariani si chiede che attore sia De Capitani e si risponde caratterizzandolo, con le sue stesse parole, «attore sociale» o «primario», un attore che analizza nella sua interpretazione sia le parole del testo che la vita interiore dei personaggi in una visione antropologica e lo definisce un po’ comédien e un po’ acteur. Tra le ultime affermazioni del libro scelgo queste righe che mi paiono il più lucido e sincero riconoscimento dell’arte di Elio De Capitani: «Nessuno poteva aiutarmi di più a capire l’identità del teatro italiano nel suo zoccolo duro – dichiara Laura Mariani – costituito dal mestiere e dalla tradizione, quello che definisce una civiltà teatrale nazionale» (p. 132).

Concludendo, mi piace accostare L’America di De Capitani a un altro bellissimo libro di Laura Mariani, Ermanna Montanari. Fare-disfare-rifare nel Teatro delle Albe, entrambi dedicati a due grandissimi interpreti della scena italiana, volumi che idealmente tessono un filo sottile che analitcamente congiungono il grande attore ottocentesco ai grandi attori dell’oggi. Occasioni per parlare di attori ma anche per inoltrarsi nel terreno della teatrologia in generale con approfondimenti e suggestoni di rilevante pertinenza scientifca e critica. Raccontando di attori, Laura Mariani analizza i testi dei quali sono interpreti, li seziona e li connette con la koiné della quale sono espressioni. Lavoro minuzioso, puntiglioso e affascinante che impreziosisce il suo lavoro e lo rende un importante contributo per la storia e la conoscenza dell’arte dell’attore e del teatro italiano.

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