Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

31 Ottobre 2018

Anna Barsotti, Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile

Giovanni Antonucci, «Teatro contemporaneo e cinema»

Anna Barsotti, ordinario di Discipline dello Spettacolo all’Università di Pisa, ha dedicato a Eduardo De Filippo una parte importante della sua attività, sia come autrice di alcune importanti monografie che come curatrice di una fortunata edizione della Cantata dei giorni dispari e della Cantata dei giorni pari. Ora ripubblica uno dei suoi saggi più significativi, Introduzione a Eduardo del 1992, accompagnandolo con alcune nuove pagine, dedicate da una parte alle edizioni e varianti del teatro eduardiano, dall’altra a un breve saggio, particolarmente interessante, che chiarisce il nuovo titolo, Leitmotiv della comunicazione difficile.

Chi non conosce le precedenti monografie, troverà un’analisi attenta e mai datata di tutta l’opera eduardiana, dalle prime farse scarpettiane ai capolavori del primo dopoguerra fino alle commedie-testamento degli ultimi anni. La Barsotti analizza l’evoluzione del teatro di Eduardo come una sorta di romanzo dove ogni commedia ha il suo posto e il suo significato, in un work in progress che è proprio di un autore-attore che vive ogni giorno la realtà del palcoscenico.

Il nuovo capitolo approfondisce il discorso, inserendo la sua drammaturgia in una linea che va da Pirandello, punto di riferimento fondamentale per Eduardo, ai due più illuminanti autori del teatro dell’assurdo, Beckett e Ionesco. Sottolinea lucidamente la Barsotti: «[De Filippo] marca il problema dei rapporti comunicativi fra individuo e società al punto da inventare per il suo protagonista un linguaggio privato (Sik-Sik, l’artefice magico) e a spingerlo fino alla solitudine estrema dell’afasia (Gli esami non finiscono mai); il filo rosso che collega le sue diverse commedie è lo stesso che attraversa, con il leitmotiv del difetto di dialogo, la drammaturgia europea del Novecento».

Tuttavia c’è una differenza importante in Eduardo.

Nei suoi testi le parole hanno ancora un senso, possono essere usate come armi di offesa e difesa, anche e soprattutto quando vengono a mancare: anzitutto grazie alla matrice partenopea dell’attore, al suo bagaglio di abitudini generative, a quel repertorio che contamina livelli e generi di spettacolo come in un teatro della memoria. D’altra parte, quando il discorso del protagonista non viene inteso dagli altri personaggi, il personaggio in più, il pubblico lo comprende.

«L’esempio più radicale di comunicazione difficile, come la definisce l’autrice, è certamente l’ultimo testo di Eduardo, Gli esami non finiscono mai, destinato a diventare un detto popolare, ma importante per molti aspetti. Una commedia concepita nel 1953, ma elaborata e poi rappresentata venti anni dopo, che la Barsotti inserisce nel panorama internazionale, citando questa volta Thornton Wilder, autore di quel capolavoro che è La piccola città, oltre a Beckett».

Anche qui c’è una differenza con questi autori: «In Eduardo, il protagonista che non riesce a comunicare, né con i componenti della propria famiglia né con una società che si rivela spesso antagonistica, vive con sofferenza questa condizione di isolamento. Quindi per lui abbiamo preferito parlare di comunicazione difficile, anche perchè, in alcuni casi, la situazione si risolve positivamente nel finale. Ciò non avviene in La grande magia, e soprattutto in Gli esami non finiscono mai dove Gugliemo Speranza (il protagonista) approderà a un muto isolamento di cui avverte il peso sin dall’inizio».

21 Ottobre 2018

L’ossessione di Eduardo nel creare i suoi personaggi, le loro storie di miserie, di sofferenze e di solitudini. E i loro silenzi

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Anna Barsotti, da vent’anni, lavora al teatro di Eduardo. Ha curato, per Einaudi, la nuova edizione della Cantata dei giorni dispari (1995) e della Cantata dei giorni pari (1998), precedute da una monografia: Eduardo drammaturgo (1988).

Il testo Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile era stato pubblicato da Laterza nel 1992, col titolo: Introduzione a Eduardo, ormai introvabile. Mattia Visani, l’editore che pubblica con continuità testi teatrali, lo ha ristampato per le edizioni Cue Press, con degli aggiornamenti bibliografici, oltre che con un capitolo di esegesi sulla comunicazione difficile.

Da che cosa nasce la comunicazione eduardiana? Certamente dal suo spirito di osservazione tanto implacabile quanto instancabile, direi ossessivo, col quale egli costruisce i suoi personaggi con le loro miserie, solitudini e sofferenze. Il suo problema consiste nel mettersi in relazione con loro e nella capacità di comunicare i loro drammi al pubblico, al quale si rivolge con i ben noti monologhi-dialogo. Egli si pone, pertanto, nei panni dell’analista, tanto da ritenere la comunicazione come un sinonimo di cura, in particolare per le tante coppie che hanno smesso di dialogare. Assumendo il compito del terapeuta, Eduardo va in cerca delle «voci di dentro», ovvero di quelle voci che abitano nella nostra mente e che stanno a base del nostro dialogo interiore, proprio quello che non riusciamo a trasmettere agli altri, perché, pur essendoci le parole adatte, preferiamo distorcerle o caricarle di ambiguità, come osserva Michele, protagonista di Ditegli sempre di sì.

Anna Barsotti ripercorre tutto il teatro di Eduardo, in otto capitoli, il primo dei quali: Il teatro che comunica è propedeutico alla sua particolare lettura. È chiaro che quanto Eduardo comunica nella Cantata dei giorni pari sia ben diverso da quanto comunica nella Cantata dei giorni dispari, anche perché ci sono di mezzo le due guerre. Nella produzione del primo dopoguerra, Eduardo va cercando un proprio linguaggio attraverso delle sperimentazioni che alternano il dialetto con la lingua nazionale. Perverrà a questa dopo il dissolvimento del dialetto stesso, utilizzando, nel secondo dopoguerra, la lingua nazionale con forza dirompente, quando il teatro assume su di sé un duplice compito, quello di essere accreditato come istituzione (Teatri Stabili) e quello di trovare un linguaggio scenico capace di rappresentare la nuova società, martoriata dal disastro bellico, che va in cerca di una nuova categoria (che Luigi Squarzina definirà: teatricità).

L’uomo del dopoguerra viveva in uno stato di shock, tale da trovarsi incapace di comunicare persino la propria disperazione. Il problema del linguaggio si trasforma, in simili casi, in quello della comunicazione difficile, tanto che, spesso, il dialogo risulta incomprensibile, favorendo la forma monologante, i famosi a tu a tu di Eduardo con il proprio dirimpettaio in Questi fantasmi. La tensione monologante la troviamo nei grandi riformatori come Pirandello o Beckett, ai quali Eduardo maggiormente si accosta con la Cantata dei giorni dispari, dove pone la famiglia al centro del dibattito, sulla quale si è abbattuto il silenzio a cui Eduardo affida l’ultima parola, quella di Zio Nicola, che comunica soltanto coi fuochi di artificio. Questa parola è quella del cuore, «Io mi comunico col silenzio», diceva Ungaretti. Quali sono, allora, le valenze del silenzio? Quali le sue complicità in un rapporto di coppia? Il silenzio è diverso dal tacere, il primo è attraversato da riflessioni interiori, il secondo è una scelta, una interruzione. Il silenzio appartiene ai grandi mistici, forse anche Eduardo lo era, magari senza saperlo.

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12 Ottobre 2018

Il mondo nel corpo dell’attore

Ilaria Angelone, «Hystrio», XXXI-3

Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, registi e performer, rivelano la dote preziosa di saper raccontare le pratiche del proprio lavoro e il loro senso. Stracci della memoria è un progetto internazionale di ricerca e formazione nelle arti performative nato insieme alla compagnia Instabili Vaganti nel 2006, «trasfigurando in modo creativo la precarietà» di un mestiere sempre in bilico tra arte, artigianato ed economia.

Studiare, lavorare in dialogo con il mondo, per immaginarne altri possibili, se non per cambiare l’esistente attraverso l’arte più sociale che ci sia – il teatro – erano motori delle scelte dei due artisti. Da questo nasce il progetto che è insieme produzione artistica (la Trilogia della memoria), percorso formativo, viaggio nel tempo e nello spazio, in costante dialogo con le molte culture del mondo che ne han fatto parte. Se il tema del viaggio è noto anche ai nostri lettori, per i quali da tempo Nicola Pianzola racconta dal Cile, dall’India, dal Messico, il volume raccoglie il percorso del progetto Stracci della memoria, riportando preziose testimonianze del suo nascere, evolversi, del suo essere in progress. Nella prima parte prendono forma le tre fasi della Trilogia della memoriaLa memoria del corpo, Il canto dell’assenza e Il Rito – in cui chiari si svelano i fondamenti di una pratica artistica e pedagogica che ha in Grotowski e nel Bauhaus i maestri e che converge, nell’ultima parte del volume, nel racconto delle sessioni internazionali del progetto formativo, con escursioni in India, Messico, Italia, Corea, Tunisia, Cina.

Un discorso sul metodo di ricerca, radicato nelle azioni fisiche, nel corpo dell’attore, nella potenza ispiratrice degli spazi. Un mondo intero di culture, inscritte nei corpi dei performer, emerge dai racconti di Nicola e Anna. Bellissimi, nella loro frammentaria complessità, i brani dei diari di lavoro conservati in circa dieci anni di viaggio. Completano il volume un essenziale repertorio fotografico e una cronologia delle fasi di un progetto che, dopo oltre dieci anni, non ha ancora esaurito la sua forza vitale.

1 Ottobre 2018

Strindberg femminista? Beh, non la pensava certo come Ibsen. Il rapporto tra i sessi? La via più facile per l’inferno

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nel 1986, Franco Perrelli, uno dei più accreditati studiosi di Strindberg, oltre che traduttore, pubblicò, per l’editore Olschki di Firenze: Sul dramma moderno e il teatro moderno, dove figuravano alcuni saggi dell’autore svedese: Omicidio psichico, Prefazione alla Signorina Giulia, Sul dramma moderno e il teatro moderno che dava il titolo al volume citato, il Memorandum del regista per i membri del Teatro Intimo, e, in Appendice, Osservazioni sull’arte dell’attore.

Quel volume è introvabile, quindi ha fatto bene Mattia Visani a pubblicarlo, per Cue Press, con un nuovo titolo: Scritti sul teatro, che raccoglie, oltre i saggi citati, altri che riguardano testi di Shakespeare e di Goethe, autori che scelse come modelli della sua drammaturgia.

Perrelli fa precedere i testi dei saggi con delle sue introduzioni alla lettura, che suddivide per annate, alle quali fa corrispondere i momenti più innovativi della produzione strindberghiana.

Si va dagli anni 1869 al 1912, durante i quali, assistiamo alle difficoltà degli inizi, alla necessità di trovare un teatro per mettere in scena i suoi testi e per potere anche sperimentare una sua idea di teatro e di recitazione che andasse contro le normative dei teatri di Stato, tipici osservanti della tradizione e delle convenzioni, a vantaggio di un teatro concepito come dibattito di idee, con temi che attenessero al concetto di libertà o a quello riguardante il femminismo, allora agli inizi, che lo vide mettersi in contrapposizione a Ibsen, difensore della libertà delle donne, idea per nulla sposata da Strindberg che vide, nel rapporto tra i sessi, tema costante del suo teatro, la via più semplice per accedere all’Inferno.

Nei saggi, egli si scontra con il Naturalismo, al cui teatro fisiologico contrappone quello psicologico, tanto da inscenare omicidi o suicidi psichici, a dire il vero, già presenti in Rosmersholm di Ibsen, da lui stesso accertati, ma sottoposti a una specie di analisi clinica. Nel suo teatro c’è poco spazio per i sentimenti che riteneva superflui, così come riteneva inutili i ‘caratteri’, essendo l’animo umano alquanto complesso, la cui psiche era difficile da decifrare.

Il cammino che lo portò alla nascita del Teatro Intimo, dove, in tre anni, realizzò 24 allestimenti per 1147 rappresentazioni, passò attraverso l’esperienza negativa del Teatro sperimentale scandinavo che ebbe vita breve per mancanza di mezzi economici e per una modesta organizzazione. Egli sognava uno spazio simile a quello del Theatre Libre di Antoine, del Theatre de l’Oeuvre di Lugne Poe, della Freie Buhne di Otto Brahm, dello Hebbel Theatre di Berlino, mentre teneva come punto di riferimento, per la regia, Max Reinhardt, che aveva messo in scena La signorina Giulia, Il legame e Delitto e delitto. Quando, finalmente potrà dar vita al Teatro Intimo, con 160 posti e un palcoscenico 6×4, nel Memorandum ne espose le idee guida: niente intrighi né sviluppi sentimentali, ricerca di una realtà interiore, abbandono di ogni virtuosismo, niente scene parapettate, sostituite da proiezioni, anticipazione delle ‘lanterne magiche’. Preferenze per testi brevi, magari di un quarto d’ora, sulla linea del Futurismo, che portassero in scena conflitti d’anime, da recitare con naturalezza, senza enfasi, con attenzione alla parte, per il pubblico e non contro il pubblico. Insomma, un teatro da camera, ricondotto all’essenza del testo e dell’attore.

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25 Settembre 2018

Dal tragico al dramma borghese. E infine il postdrammatico. Un nuovo modo di fare teatro. Che valorizzò anche gli eretici.

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Il teatro postdrammatico di Hans-Thies Lehmann, fu pubblicato nel 1999; in Italia arriva oggi con un ritardo impensabile, grazie a Mattia Visani, editore di Cue Press e alla traduzione di Sonia Antinori. Il ritardo non ha intaccato per nulla il lavoro di Lehmann che è la diretta prosecuzione di quello di Peter Szondi, autore di Teoria del dramma moderno (1980), e di quello di Richard Schechner, Teoria della performance (1988), studi che stanno all’inizio di quello che diventerà il postdrammatico.

Diciamo subito che il dramma è di matrice europea, che nasce dopo la dissoluzione del tragico, quando, all’interno di un salotto borghese, si potevano risolvere razionalmente anche le cose più scabrose. Al contrario, il postdrammatico appartiene a una cultura senza confini che attraversa le Americhe per approdare in Europa, dove trova un giusto collocamento.

In che cosa consiste, allora, la differenza tra dramma e postdrammatico? Certamente in una percezione diversa del tempo e del luogo scenico, dovuta, come in certe avanguardie del passato, all’intrusione di concetti come simultaneità e multiprospetticità che favoriscono una diversa lettura del linguaggio scenico da intendere, non più come conseguenza del dialogo tra i vari personaggi, bensì come elemento teatrale indipendente a cui corrisponderebbe una nuova logica estetica che si contrapporrebbe a quella dell’illusione mimetica.

Come dire che dal 1968 sia nata una nuova costellazione, nell’ambito teatrale, che ha messo in discussione alcune certezze metodiche, fondate sulla declamazione o illustrazione del testo, senza accorgersi delle diverse esigenze degli arsenali scenici che hanno raccolto i nuovi ritrovati della tecnologia e che hanno permesso, al corpo e ai gesti, di trovare nuove potenzialità espressive.

Lehmann orienta il suo campo d’indagine verso gli eretici della scena internazionale, da Wilson a Fabre, a Goebbels, a Vassiliev, a Pina Bausch, Peter Brook, Grotowski, Barba, Kantor, Nekrosius, Foreman, senza dimenticare alcune realtà italiane come Raffaello Sanzio, Falso Movimento, Barberio Corsetti.

Quali sarebbero, allora, i confini e i limiti imposti dal dramma, compreso quello di Brecht, da superare? Come scoprire il teatro teatrale? Cancellando i confini tra i generi, per spingersi verso i margini della teatralità o verso la ricerca delle origini e aprire lo spazio del discorso a quello del teatro, alla sua indipendenza, alla sua specificità, alla sua visionarietà, ponendo, al centro della ricerca, una drammaturgia visiva, accompagnata da una vasta gamma di modalità performative, favorendo, in tal modo, il teatro del disturbo, dell’iterazione, del lavoro di gruppo, del collettivo, delle installazioni, della festa comunitaria. Per Lehmann, il futuro del teatro creativo non passa dalle grandi istituzioni, bensì dai piccoli gruppi autogestiti che negano la figura stessa del regista, preferendo proprio quella collettiva.

Si può, pertanto, affermare che il teatro postdrammatico non aspira a uno stile, a un genere, a una tipologia di forme affini, perché indirizza le sue preferenze verso il processo teatrale, scavalcando la composizione mentale dell’autore, virando la sua attenzione verso gli spazi virtuali o verso ordinamenti visivi che si impongono come nuovi linguaggi della scena.

L’edizione italiana del testo è corredata da una postfazione erudita di Gerardo Guccini e da interventi di Marco De Marinis, Lorenzo Mango, Antonio Attisani, Cristina Valenti, Marco Martinelli.

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17 Settembre 2018

I cent’anni che posero le basi di spazi, meccanica, costumi, luci, recitazione professionale. E nacque il teatro all’italiana

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nella ormai sterminata bibliografia sul teatro rinascimentale, il volume di Sara Mamone Il teatro della Firenze medicea, edito da Cue Press, può considerarsi un piccolo classico, non solo per la teorizzazione che l’autrice fa di quel periodo, ma anche per i documenti che ha utilizzato, parte dei quali si può leggere nel capitolo a loro dedicato.

Il periodo preso in esame è quello che va dal 1536 al 1636, lungo il quale, furono poste le basi, non solo del teatro all’Italiana, ma anche quelle che riguardavano l’uso degli spazi, della meccanica, delle luci, della costumistica, della recitazione professionale, grazie alla nascita delle Compagnie che, per mestiere, e non per diletto, scelsero di fare teatro.

Sara Mamone è una specialista dell’argomento, in particolare di quello che riguarda il rapporto tra città e teatro, tra testi e rappresentazioni, tra festa e spettacolo, tra politica e teatro, in un momento in cui il predominio artistico era valutato come fonte primaria del PIL, oltre che di contesa culturale tra i vari principati. Non fu certo solo Firenze al centro di un vero e proprio cambiamento di civiltà. Città come Ferrara, Roma, Mantova, Venezia, Padova furono consorelle di quella storica trasformazione dell’Italia, che riprendendo il mito della classicità, arginò il predominio di un’arte al servizio della Chiesa che aveva caratterizzato quella medioevale.

Nei cent’anni trattati dalla Mamone è il Principe il vero protagonista, nella figura di Cosimo, il mecenate che continuò l’opera intrapresa da Lorenzo dei Medici, confermando l’appellativo di Secolo d’oro, che vide il primato artistico in tutti i campi del sapere, con l’uso di un potere vigile e prudente che, a Firenze, fu rappresentato anche da artisti come Brunelleschi, Sangallo, Vasari, Buontalenti, veri pionieri dello spettacolo rinascimentale, inventori di spazi adibiti alla rappresentazione, di macchine sceniche, di raffinatezze tecniche, di apparati e di prodigi della scenotecnica e della scenografia, di un vero e proprio sistema urbanistico che si espresse attraverso la creazione dei teatri fiorentini, costruiti nei Cortili del Palazzo Mediceo, nella Sala del Palazzo dei Cinquecento, nel giardino di Palazzo Pitti, nel primo teatro stabile degli Uffizi.

Sara Mamone, attraverso le cronache e gli epistolari del tempo, mette il lettore nelle condizioni di conoscere la lenta, ma progressiva trasformazione della città che, grazie all’investitura spettacolare, si presentava, a volte, come una ‘città travestita’, dal primato indiscutibile. Il periodo che vede protagonista Cosimo e i suoi figli segue quello della grande drammaturgia dell’Ariosto, del Ruzante, di Machiavelli, del Lasca, del Bibbiena, subordinata ai testi, con autori come Antonio Landi, Girolamo Bargagli, Francesco d’Ambra, Giovan Battista Gelli e altri che misero i loro testi al servizio di nozze imperiali, di feste, di conviti, di trofei e, soprattutto, degli Intermezzi, per i quali vennero sperimentati i prodigi della scenotecnica, oltre che della musica, preparando la grande stagione del melodramma e del balletto.

Nella cronologia, raccolta dalla Mamone, ho contato più di venticinque novità assolute, la nascita dei primi melodrammi e della poetica barocca, più attenta alla spettacolarità, che alimentava lo sfaldarsi della scrittura e della trama a vantaggio dei giochi prospettici, avendo subordinato tutto alla esibizione e alla creazione dello stupore.

Fra i documenti, il lettore si imbatte in cronisti poco noti, come Giovanni De Bardi, Domenico Mellini, Filippo Giunti, Bastiano De Rossi, Giovan Battista Cini, grazie ai quali si è potuta fare la ricostruzione di un secolo che il mondo continua a invidiarci. Come dire che, senza l’apporto della cronaca, non è possibile fare la storia del teatro, questo vale per ieri e per oggi.

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20 Giugno 2018

Vita di Hans-Thies Lehmann che inventò il teatro moderno

Andrea Bisicchia, «Libero»

Mentre si celebra il cinquantesimo anniversario del Sessantotto con pubblicazioni teoriche, mostre, dibattiti, il teatro lo ricorda come uno dei momenti più rivoluzionari del secondo Novecento, quando a un’idea ormai formalizzante dei teatri stabili, si contrappose quella di un teatro alternativo che riguardava, non più il testo, bensì la lingua scenica.

La crisi fu tale che Giorgio Strehler abbandonò il Piccolo Teatro per creare una nuova formazione, mentre altre realtà, come il Pier Lombardo, si imposero grazie alla inventiva di Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah, Giovanni Testori. Un ventennio dopo circa, Hans-Thies Lehmann coniò il termine Il teatro postdrammatico, che divenne un libro pubblicato nel 1999 e che in Italia arriva oggi, con un ritardo impensabile, grazie a Mattia Visani, editore di Cue Press e alla traduzione di Sonia Antinori. Il ritardo non ha intaccato per nulla il lavoro di Lehmann che è la diretta prosecuzione di quello di Peter Szondi, autore di Teoria del dramma moderno (1980), e di quello di Richard Schechner, Teoria della performance (1988), studi che stanno all’inizio di quello che diventerà il postdrammatico.

Diciamo subito che il dramma è di matrice europea, che nasce dopo la dissoluzione del tragico, quando, all’interno di un salotto borghese, si potevano risolvere razionalmente anche le cose più scabrose. Al contrario, il postdrammatico appartiene a una cultura senza confini che attraversa le Americhe per approdare in Europa, dove trova un giusto collocamento. In che cosa consiste, allora, la differenza tra dramma e postdrammatico? Certamente in una percezione diversa del tempo e del luogo scenico, dovuta, come in certe avanguardie del passato, all’intrusione di concetti come simultaneità e multi-prospetticità che favoriscono una diversa lettura del linguaggio scenico da intendere, non più come conseguenza del dialogo tra i vari personaggi, bensì come elemento teatrale indipendente a cui corrisponderebbe una nuova logica estetica che si contrappone a quella dell’illusione mimetica. Come a dire che dal 1968 è nata una nuova costellazione nell’ambito teatrale, che ha messo in discussione alcune certezze metodiche fondate sulla declamazione o illustrazione del testo, senza accorgersi delle diverse esigenze degli arsenali scenici che hanno raccolto i nuovi ritrovati della tecnologia e che hanno permesso, al corpo e ai gesti, di trovare nuove potenzialità espressive.

Lehmann orienta il suo campo d’indagine verso gli eretici della scena internazionale, da Wilson a Fabre, a Goebbels, a Vassiliev, a Pina Bausch, Peter Brook, Grotowski, Barba, Kantor, Nekrosius, Foreman, senza dimenticare alcune realtà italiane come Raffaello Sanzio, Falso Movimento, Barberio Corsetti. Quali sarebbero, allora, i confini e i limiti imposti dal dramma, compreso quello di Brecht, da superare? Come scoprire il teatro teatrale? Cancellando i confini tra i generi, per spingersi verso i margini della teatralità o verso la ricerca delle origini e aprire lo spazio del discorso a quello del teatro, alla sua indipendenza, alla sua specificità, alla sua visionarietà; ponendo, al centro della ricerca, una drammaturgia visiva, accompagnata da una vasta gamma di modalità performative, favorendo, in tal modo, il ‘teatro del disturbo’, dell’iterazione, del lavoro di gruppo, del collettivo, delle installazioni, della festa comunitaria.

Per Lehmann, il futuro del teatro creativo non passa dalle istituzioni, bensì dai piccoli gruppi autogestiti che negano la figura stessa del regista, preferendo proprio quella collettiva. Si può, pertanto, affermare che il teatro postdrammatico non aspira a uno stile, a un genere, a una tipologia di forme affini, perché indirizza le sue preferenze verso il ‘processo teatrale’ scavalcando la composizione mentale dell’autore, virando la sua attenzione verso gli spazi virtuali o verso ordinamenti visivi che si impongono come nuovi linguaggi della scena.

L’edizione italiana del testo ha una postfazione erudita di Gerardo Guccini e interventi di Marco De Marinis, Lorenzo Mango, Antonio Attisani, Cristina Valenti e Marco Martinelli.

1 Aprile 2018

John Ford e la tragedia crudele

Laura Bevione, «Hystrio», XXXI-2

Nel 2003 Luca Ronconi ne offrì una doppia messa in scena: l’una con un cast misto, l’altra – filologicamente fedele e scenicamente assai efficace – con interpreti soltanto maschili. Peccato che fosse puttana è un dramma complesso e feroce, moralmente spregiudicato eppure percorso da un’indiscutibile ansia di rinnovamento radicale della società. Che è quella inglese della prima metà del Seicento, in cui il drammaturgo John Ford visse e lavorò. Ricostruire contesto storico e influenze letterarie e teatrali di quel play è uno degli obiettivi del volume curato da Pepe e Stevanato, che mirano, da una parte, a ricollocare nel corretto background culturale il teatro di Ford e, dall’altra, a svelare i motivi dell’oblio e poi della successiva riscoperta novecentesca di quel ‘fastidioso’ dramma che trattava di incesto ed efferatezze varie.

Ecco allora i saggi finalizzati a inserire il lavoro del drammaturgo inglese nella temperie barocca in cui egli operò e, poi, gli scritti che ne raccontano le riletture contemporanee, a partire da quella simbolista di Maeterlinck fino a quelle di Visconti e del succitato Ronconi.

1 Gennaio 2018

L’esplosione di graffi teatrali di fine Novecento

Doriana Legge, «L’Indice», XXXV-1

ll libro di Hans-Thies Lehmann, a leggerlo come non avesse già la maggiore età, ci parla di una serie di urgenze che il teatro, nel finire del XX secolo, ha esibito sullo sfondo di un paesaggio in rovina. È per lo più un testo che si interroga sull’approccio semiotico dello spettacolo e si concentra sulla centralità della scena, ma senza nascondere uno slancio interdisciplinare che si mostra ancora autorevole a quasi vent’anni di distanza. Pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1999 (Postdramatisches Theater, Verlag der Autoren, 1999) tradotto qualche anno dopo in inglese (Postdramatic Theatre, Routledge, 2006), arriva dopo troppi anni nella sua edizione italiana, che si affida alla traduzione della drammaturga Sonia Antinori. Colma questo curioso vuoto la giovane casa editrice Cue Press che negli ultimi anni sta portando avanti un lavoro encomiabile nel panorama teatrale italiano, con belle riedizioni e qualche nuova uscita.

Lehmann parla di postdrammatico a proposito di quelle forme di teatro che, dalla seconda metà del Novecento fino a oggi, hanno modificato il nostro modo di percepire lo spettacolo concentrandosi sull’aspetto dinamico e simultaneo della scena. Le pagine di Lehmann fanno pensare a qualcosa di metodico, ma in realtà è difficile trarre le idee basilari da quella esuberante sequela di artisti e approcci che sul finire del XX secolo hanno irrimediabilmente modificato la scena teatrale che conosciamo oggi. Al teatro postdrammatico Lehmann associa i nomi di Tadeusz Kantor, Heiner Müller, Robert Wilson, The Wooster Group, The Builders Association, Richard Foreman, Big Art Group, Jan Fabre, Jan Lauwers and Needcompany, Frank Castorf, Josef Szeiler/TheaterAngelusNovus, Elfriede Jelinek, Heiner Goebbels, Verdensteatret, Forced Entertainment, Teater Moment, Apocryphal Theatre e Socìetas Raffaello Sanzio. Mancano molti nomi in questo elenco, ma molti ne mancano anche nello stesso testo di Lehmann, eppure è una rassegna necessaria per individuare un tracciato che riempia di segni (chiamiamoli piuttosto graffi) un’ipotetica cartina teatrale mondiale. Da Berlino a Cracovia, New York e Londra, Vienna, Francoforte, Riga e poi l’Italia: la forza di questi graffi sta non tanto nell’intreccio delle traiettorie quanto nel volume che fanno. Sono stati questo volume e la sua portata a permettere oggi una complessità di ragionamento che evidenzia piuttosto le distanze e non le affinità tra pratiche molto diverse, eppure tutte all’interno della categoria che Lehmann identifica come postdrammatico. Se quindi oggi possiamo dare per assimilato il discorso e l’approccio semiotico che è alla base del ragionamento dell’autore, è anche questo il momento per attivare le nostre sensibilità di spettatori verso l’eredità che ci ha lasciato.

Lehmann, che è allievo di Péter Szondi (autore della Teoria del dramma moderno, 1880-1950, Einaudi, 2000) risente inevitabilmente della lezione del maestro e dedica ampia parte della sua riflessione alla crisi del dramma come forma e alla progressiva epicizzazione dei testi drammatici. Quando il modello brechtiano – o più largamente inteso modello epico – iniziò a non sostenere più l’impianto drammaturgico novecentesco e le complessità che lo riguardavano, il teatro postdrammatico ha cominciato a camminare sulle rovine rimaste, chiedendosi cosa davvero volesse dire una messinscena. Lehmann iniziava a parlare di postdrammatico come di una categoria fluida in cui riconoscere alcune pratiche già attive nella cultura teatrale, per dar voce a qualcosa di cui già si percepiva la forma, in maniera forse ancora poco cosciente per chi quella scena la viveva, e anche per chi la praticava. Oggi l’edizione italiana del libro innesca un rovesciamento con cui guardare la memoria storica teatrale, dopo il momento sempre problematico per gli studi che porta a sistematizzare in sequenze e correnti artistiche una storia che non è mai lineare. È a noi spettatori di oggi che è richiesta una complessità di ragionamento che evidenzi più le distanze che non le affinità tra pratiche molto diverse, che hanno saputo vivere il tempo intermittente e sincretico della vita umana e raccontarlo lontano dal logocentrismo.

Dinamicità e pluralismo abitano la scena mondiale sul finire del Novecento, pensiamo a taluni cortocircuiti: nel 1997 Dario Fo riceve il Premio Nobel per la Letteratura in qualità di drammaturgo; un altro tipo di teatro di narrazione conosce i suoi vertici negli stessi anni. Il libro di Lehmann si concentra sull’esplosione dei segni teatrali come rottura dell’impianto gerarchico che ne cristallizzava la forma. C’è un paesaggio teatrale nuovo e sfaccettato sul finire del Novecento: Lehmann cerca di sistematizzarlo, lasciando però aperte fessure da cui entrare.