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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.
Lettere, August Strindberg: una sana follia
Con la rigorosa introduzione di Franco Perrelli, la Casa Editrice Cue Press ha dato alle stampe una parte (delle diecimila!) Lettere di August Strindberg, con note a margine, indice delle opere e indice dei nomi .
Uno scrittore è tale quando scrive. Quando non scrive è un cittadino qualunque. Questo vale anche per lo scrittore di lettere. Le parole non appartengono al genere codificato fisso. Non sopportano travasi e adattamenti tecnicistici. Non entrano nella letteratura.
Con Strindberg siamo nel campo aperto della sperimentazione linguistica. Perrelli precisa con espressione felice che il drammaturgo svedese «si rivolge in termini liberatori alla nostra più sana follia». E aggiunge: «La mia esistenza ha sempre la caratteristica di assumere la forma dei romanzi, senza che sappia dire propriamente perché».
Dunque, è un campo aperto quello della sperimentazione linguistica. E se la mia esistenza assume «la forma dei romanzi» vuol dire che diventa lingua e linguaggio in autonomia con la specificità del ‘come’ fondamentale del dialogo (non del monologo) che consente all’autore delle lettere la verifica continua del reale e della propria condizione.
Nella creazione artistica ci può essere verità senza meraviglia e scandalo? No. Non si può certo dire che la vita di Strindberg non sia stata avventurosa e per certi aspetti travagliata. Fantasia e immaginazione, finzione e realtà. Perrelli attribuisce alle Lettere «la quintessenza del metodo della rappresentazione dal momento che producono una vera molteplicità nelle differenti proiezioni che ciascun corrispondente suscita», saldandosi – come si è detto – al monologo piuttosto che al dialogo.
Furono probabilmente alcuni amici a condurre August nei luoghi facili del divertimento giovanile. Siccome il fratello Omar non intendeva finanziare – sulle orme di Theodore Parker – le spese per la vita mondana, August fu costretto a dare ripetizioni per far fronte alla situazione debitoria. «Ma ogni volta, in primavera, scopriva la straordinaria bellezza dell’arcipelago di Stoccolma», che fungeva da stimolo della creatività letteraria da una parte e dell’attività pittorica dall’altra.
«Non capivo quello che vedevo. Il mare azzurro sembrava il cielo, e l’arcipelago assomigliava a un bianco di nubi galleggianti in quell’azzurro! Caddi in estasi e ruppi in lacrime. Non era la terra, era altro! Cos’era? Una memoria ancestrale! Chissà! Ma in seguito ne ho avuto sempre nostalgia. E continua, nonostante tutto!» Sulle orme del predicatore Theodore Parker integrate con le teorie degli studiosi di teologia critica Rydberg e Broström, Strindberg approdò a Rousseau.
Sulla misoginia si è scritto molto e sono state fatte molte illazioni, però, non suffragate dai fatti. A sentire i suoi amici c’è da credere che non avesse niente di misogino, ma un’alta considerazione della donna. Nel mese di maggio del 1869 si propone di prendere la laurea in medicina: tenta l’esame di chimica, ma è bocciato. Decide allora di diventare attore e si presenta al Teatro Reale. Dopo alcune comparsate, fu il drammaturgo Frans Hedberg a scoprire in lui ‘la scintilla’ nascosta del teatro.
Nel gennaio 1895 Langen pubblicava L’autodifesa di un folle su «La revue Blanche», mentre usciva la traduzione di Littmanson su L’infériorité de la femme che mise Strindberg al centro dei grandi dibattiti parigini. «Detestare le donne? Io non le detesto quando sono semplici e naturali. È l’artificio che non riesco a sopportare: sembra che siano le donne e quel satana di Cristo a dominare il mondo iper-civilizzato, come l’ambiente editoriale. Mi avvio a diventare ateo in un mondo governato da folli. Quindi Dio è un folle».
Dall’11 al 31 gennaio lo scrittore venne ricoverato all’ospedale per una psoriasi di cui soffriva da tempo e che si era forse aggravata con la manipolazione dei reagenti chimici. «Recentemente lei ha scritto che si cerca: Lo Zola dell’occultismo. Io avverto la chiamata. Ma in tono grandioso. Un poema in prosa: intitolato Inferno. Lo stesso tema di Sul mare aperto. La rovina dell’individuo allorché si isola. Salvezza attraverso il lavoro senza riconoscimenti o oro, il dovere, la famiglia, di conseguenza – la donna – la madre e il figlio. Rassegnazione attraverso l’individuazione del ruolo assegnato a ciascuno dalla Provvidenza».
La fragilità del rapporto con Edlund, la relazione con un artista inglese, l’abbandono della scienza e dell’alchimia, le insufficienti disponibilità finanziarie, le manie di persecuzione attribuite ai parenti che immaginava fossero intenzionati ad avvelenarlo rendevano la sua vita tutt’altro che tranquilla.
«Ho quarantotto anni e non ho mai visto l’arrivo delle rondini. Com’è che arrivano, sì, ma mai passando in stormi. Una sola volta, in Danimarca, ho visto tremila rondini riunite per la migrazione. Un paio di ore dopo erano regolarmente sparite. Avevano preso il volo. Quando penso ai nibbi in primavera che si spingono ad una grande altezza e si avvitano giù a spirale mi sembra come se si sprofondino dall’alto e come se si abituino alla nostra atmosfera, prima di cadere giù».
«Stanotte, entrando nella nuova stanza, ho spalancato la finestra, ho guardato fuori e ho visto l’Orsa Maggiore e la Stella Polare. Mi sono chiesto: sarà a nord che devi andare. Non so ancora cosa voglia Dio da me! Devo recarmi a Istat dove mi aspetta l’ospedale di Lund? Devo forse attraversare anche questo Golgota? Per fare cosa? Per essere ancora istruito…».
Se vuoi imparare a conoscere l’invisibile, osserva a occhi aperti il visibile… è una regola… «La mia scrittura è una ricerca della verità. Forse in sé idiota perché la verità è solo convenzionale. Si concorda in massa che una cosa è vera, così l’altra diventa falsa». E dimmi, perché scrivi…? «Scrivo per me stesso… per chiarire i miei pensieri e liberarmi…»
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Animali da Bar
«Nasciamo e moriamo. Bene, lei non crede che, forse, bisognerebbe dare un minimo di importanza a quello che succede nel mezzo? E quella roba lì si chiama vita, caro amico. Vita!«
L’affermazione è di Colpo di frusta, un uomo così soprannominato per le conseguenze dalle violenze domestiche subite da parte della moglie piuttosto aggressiva; inoltre è un buddista inetto e impegnato nella lotta per la liberazione del Tibet. Soprattutto è un assiduo frequentatore di un bar squallido e lascivo in cui si ritrovano, quasi a formare una comunità, anime solitarie tormentate: sono gli Animali da Bar come recita il titolo della commedia di Gabriele Di Luca.
In questo microcosmo di umanità disperata ed emarginata agiscono altri personaggi emblematici e fortemente connotati che ruotano intorno alla barista Mirka, donna ucraina dal passato difficile e dal presente altrettanto complicato. Come non si fa mancare frequenti e abbondanti bevute di vodka, così arrotonda lo stipendio affittando l’utero. Per lei il destino non sarà felice. Il proprietario del fatidico bar è un vecchio malato, razzista e misantropo, tanto che nel testo la sua voce risulta posizionata fuori campo.
Altro personaggio indicativo, nonché sorta di epicentro narrativo, è Swarovski, uno scrittore nichilista alle prese con la stesura di un improbabile romanzo dedicato alla Grande Guerra che poi si scoprirà essere lo stesso copione di Animali da Bar, in cui si riveleranno le prospettive esistenziali dei protagonisti. La sua passione per i drink, quale segno di dissoluzione, lo avvicina idealmente a Charles Bukowski, dal quale deriva la storpiatura del suo nome.
Il senso della ricerca di sé caratterizza anche il profilo di Sciacallo, zoppo bipolare che svaligia le case ed è animato da una tensione particolare: riuscire a trovare la migliore forma di suicidio. Manifesta disturbi altrettanto inquietanti l’imprenditore cocainomane di pompe funebri per animali di piccola taglia. È infatti un ipocondriaco al quale non manca il desiderio di costruire una famiglia anche se il futuro sarà per lui la condanna alla solitudine.
Tutti questi soggetti cercano di dimenticare quel qualcosa da cui provare a riscattarsi e ricostruirsi. In questa tana-bar si animano dialoghi umani e folli, si vivono improbabili amori, si cullano viaggi mentali, si incrociano manifestazioni di debolezza e rabbia. Tra delicata comicità e velata denuncia sociale il testo di Di Luca si avvicina, anche nella struttura linguistica, al cosiddetto filone dei Nuovi arrabbiati di scuola anglosassone e irlandese rivisitati con il filtro antropologico e culturale italiano. Ma la sostanza non cambia: si racconta con umana sensibilità e senza retorica una situazione di disagio prodotta e connaturata al sistema. E questo non è poco.
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Il Teatro di Josep Maria Miró è di casa al Teatro di Rifredi
Il drammaturgo catalano Josep Maria Miró nel volume Teatro edito in Italia da Cue Press, ha pubblicato quattro delle sue opere teatrali, tra le più conosciute, Il principio di Archimede, Nerium Park, Dimentichiamoci di essere turisti, Tempi selvaggi: ed è quest’ultimo titolo ad aver vinto il Premios Max de Las Artes Escénicas (giunto alla ventiduesima edizione), ricevendo anche il Premio per la miglior regia consegnato a Xavier Alberti, direttore artistico del Teatre Nacional de Catalunya che lo ha prodotto. Un allestimento premiato dai giurati del Premios Max: il più importante riconoscimento in Spagna conferito dalla Fundación SGAE. I testi di Miró in Italia sono stati tradotti da Angelo Savelli, regista e codirettore artistico del Teatro di Rifredi, insieme a Giancarlo Mordini. Nel frattempo oggi, venerdì 24 maggio, ci perviene da Siena durante lo svolgimento di In – Box dal vivo, la notizia del Premio TOC 2019 consegnato a questo Teatro capace di aver creato una comunità tra gli spettatori, inclusiva non solo per l’offerta artistica, quanto e più importante, essere stati in grado di coltivare rapporti sociali e umani sul territorio della città di Firenze. Il cosiddetto «luogo deputato allo spettacolo» (in passato i teatri erano definiti anche così: «luogo in cui un’azione, un evento può realizzarsi o riuscire al meglio»), è diventato la seconda casa degli spettatori. Il Tavolo Etico di C.Re.S.Co conferisce al Teatro di Rifredi: «Il titolo di Teatro d’Origine Certificata 2019 per la cura che profonde quotidianamente nell’attuazione dei principi di trasparenza, concorrenza leale, dignità del lavoro e del lavoratore che sono le fondamenta del codice di responsabilità approvato dal coordinamento. Il premio è assegnato per conto di 407 operatori, organizzatori, artisti, compagnie su 756 votanti».
Riavvolgendo il nastro all’indietro è necessario ricordare, come la presentazione del volume Teatro a Firenze, sia stata resa possibile grazie anche alla collaborazione dell’Institut Ramon Liull di Barcelona. L’editore CuePress è un prezioso contributo per conoscere uno dei drammaturghi europei più conosciuti e affermati, capace di raccontare storie di ordinaria quotidianità virandoli sul piano delle relazioni umani: aspetti psicologici da svelare nella loro complessità. Nel Prologo del corposo testo, Xavier Alberti scrive: «Quattro architetture di parole che rispondono all’espulsione di un malessere, un malessere provocato dalla chiara presa di coscienza di aver abbandonato i tempi postmoderni e di star avanzando verso un’apocalisse che, come società, e probabilmente, anche delle nostre più elementari condizioni di sopravvivenza. L’abbandono della post modernità ha invalidato le funzioni meta culturali del teatro contemporaneo e gli imposto di nuovo l’urgenza di testimoniare un malessere».
Josep Maria Mirò è stato messo in scena per la prima volta in Italia dal Teatro di Rifredi nel 2018 con Il principio di Archimede nell’allestimento curato da Angelo Savelli. Uno spettacolo a cui la critica e il pubblico hanno decretato un successo unanime sia per la direzione registica che per la recitazione dei quattro eccellenti protagonisti: Giulio Corso, Monica Bauco, Riccardo Naldini e Samuele Picchi. Nel mese di marzo scorso Il Nuovo Teatro Sanità di Napoli il regista Mario Gelardi ha diretto al Teatro di Rifredi, Nerium Park con l’interpretazione di Chiara Baffi e Alessandro Palladino.
Josep Maria Mirò è nato a Vic in Catalogna nel 1977, si è diplomato in regia e drammaturgia all’Istituto del Teatro di Barcellona e in giornalismo all’Università Autonoma di Barcellona. Giornalista radiofonico è anche professore di drammaturgia all’Università di Girona e docente di arti sceniche alla Scuola Superiore di Cinema e Audiovisivi di Catalogna. Le sue opere sono tradotte in quindici lingue e vengono rappresentate in altrettante nazioni. Un drammaturgo capace di rappresentare le tante contraddizioni della contemporaneità. La paura irrazionale è il filo conduttore drammaturgico de Il Principio di Archimede visto a Rifredi dove il regista Angelo Savelli ne ha ha curato la traduzione dal catalano, con la collaborazione di Josep Anton Codina. Ne avevamo scritto nel 2018 dopo aver assistito alla rappresentazione a Rifredi.
Una scelta artistica di grande pregio e meritevole di essere riportato in scena per aver colto quanto sia attuale – nel nostro presente storico sociale – la necessità di scegliere un argomento all’ordine del giorno: la diffusione di notizie tramite i canali dei media e dei social network, facilmente manipolabili […] Il Principio di Archimede parla alla contemporaneità del nostro agire e vivere quotidiano, lacerato da profonde contraddizioni e inquietudini; causate in primis da una forma sempre più disgregante che colpisce le relazioni e i rapporti tra gli individui. Della forma ne scrive nel programma di sala dello spettacolo, (andato in scena in prima nazionale il 15 febbraio 2018 al Teatro di Rifredi, in esclusiva italiana e alla presenza dell’autore): «La rappresentazione si concentra sulle dinamiche interpersonali e sociali che si scatenano implacabilmente a partire da un evento la cui realtà o falsità diventa del tutto influente rispetto agli effetti che produce». L’occasione per rivedere e incontrare Josep Maria Mirò si palesa dopo Nerium Park: l’invito a rilasciare un’intervista viene accolto con la sua spontaneità che lo contraddistingue come persona ben distante da ogni forma di auto referenzialità.
La lunga conversazione si rivela densa di contenuti e spunti critici per affrontare non solo l’argomento strettamente legato al suo percorso artistico teatrale, quanto una disamina sulla cultura che caratterizza la nostra società. «Il mio è un teatro di parole che rompe lo schema del metateatro per tornare a quello che da valore al linguaggio e alla drammaturgia, come aveva scritto Pier Paolo Pasolini nel suo Manifesto per un nuovo teatro (pubblicato nel 1968 per polemizzare con il teatro borghese ufficiale definito teatro della chiacchiera e con gli spettacoli d’avanguardia teatro del gesto e dell’urlo, a difesa dello scrittore della parola, ndr). La traduzione in italiano dei miei testi la considero un onore perché è una lingua sorella della mia e voglio ringraziare Angelo Savelli e Giancarlo Mordini che mi hanno dato l’opportunità di ascoltare le mie opere in italiano, così come dico grazie anche a chi ha deciso di rappresentarle in altre lingue. Questo mi permette di essere più generoso e di vedere un altro modo di mettere in scena gli spettacoli. Il testo drammaturgico è una partitura fino al momento finale della messa in scena non si capisce cos’è; il teatro è parola ed è viva perché la lingua evolve in continuazione. Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita, affascinato dalla possibilità di creare attraverso il linguaggio una creazione. Noi inventiamo storie, le manipoliamo, le travestiamo ma poi in teatro cerchiamo di raccontare la verità attraverso la parola agita e l’emozione. È importante che il risultato, per come sono strutturate le battute, sia quello di creare una comunicazione con degli essere umani, toccando il loro stato d’animo e i loro pregiudizi. Nel mio teatro la cosa più importante è la parola, la materia prima del mio teatro. Per quanto quotidiana possa sembrare, la parola in teatro si struttura come una precisa partitura con implicazioni ideologiche ed emotive. Io stesso scrivo drammaturgie di cui non ho una risposta ma quando inizio a farlo è un’esperienza meravigliosa per aprire una discussione su questi temi che non hanno risposta. Una seconda fase è quella della riflessione condivisa e la terza è rappresentata dal debutto – ci spiega Josep Maria Mirò -, il momento in cui consegniamo questa domanda allo spettatore. Io non mi azzarderei mai a fare un teatro che dia una risposta, perché io non ne possiedo. Il teatro borghese è quello dove lo spettatore va a vedere per quello che lui pensa di dover partecipare come cittadino. Parafrasando Xavier Alberti posso dire che un teatro che inizia con una domanda ha tutto il tempo per trovare una risposta.»
Tempi Selvaggi vincitore del Premios Max è ambientato in una zona residenziale composta da quattro appartamenti con prato e piscina dove ci abitano quattro coppie. Ivana è uno dei personaggi la quale chiede: «Questo è un bel posto da viverci?». Mirò spiega che è una delle frasi: «Passata in tutti i miei testi. Non parla di architetture né di paesaggi. Parla di alcuni intangibili diritti/doveri che dobbiamo costruire attraverso l’etica e il dialogo e che hanno a che fare con i nostri stessi valori e patti di convivenza con gli altri. Vuole chiedere se noi come esseri umani siamo riusciti a costruire uno spazio migliore in cui vivere. Anche io mi chiedo se abbiamo generato un posto bello per vivere in un territorio dove muoiono migliaia di persone cercando di attraversare i nostri mari; dove viviamo con il costante e doloroso conteggio di vittime della violenza maschilista; dove ci sono cittadini di prima e seconda categoria; dove si preferisce salvare le banche piuttosto che le persone; dove non c’è separazione di poteri; dove c’è chi viene privato di libertà per pensare e difendere certe idee; dove c’è gente della cultura alla quale si nega loro un diritto fondamentale come la libertà di espressione e di creazione. È una domanda che mi pongo come cittadino pure io: dov’è un posto in cui vivere? Il Mediterraneo cristallino e azzurro dove cercano di rifugiarsi migliaia di rifugiati? È un posto bello dove vivere? In un paese dove le persone vengono incarcerate per le loro idee è un bel posto dove vivere?»
Anche Xavier Alberti cita questa frase assunta quasi a dichiarazione d’intenti del drammaturgo, spiegando nel Prologo del volume Teatro. I testi di J.M.Mirò di aver visto stampato su una maglietta indossata da Mirò la frase «È un bel posto per vivere questo?», regalata dalla Compagnia in occasione del debutto di Tempi Selvaggi. E la conversazione ad un certo punto vira anche sul teatro italiano. Mirò ammira in particolare uno dei drammaturghi più celebri.
Che idea ha della drammaturgia teatrale italiana. Quali sono gli autori che preferisce e che conosce meglio?
Eduardo De Filippo è stato un grande costruttore di teatro attraverso il linguaggio. Ne ho parlato anche con Josep Benet I Jornet, (considerato uno dei massimi autori del teatro spagnolo e il padre della drammaturgia catalana, ndr) al quale ho detto che l’uomo artista italiano che ho amato di più è De Filippo perché aveva la capacità di fare teatro di alta qualità popolare. Sapeva affrontare temi importanti senza mai escludere nessun spettatore – cittadino seduto in platea. La sua lingua veniva riconosciuta universalmente da tutti e il meccanismo sul quale ha lavorato di più è stata la parola. Il teatro è una cosa meravigliosa perché noi siamo capaci di costruire una menzogna, e lo spettatore che sa di andare a vederla incontrerà anche la verità e le emozioni suscitate dallo spettacolo. A volte qualcuno sta male per quello che vede ma questo non va bene. Se riusciamo a discutere insieme agli spettatori questo significa che il teatro ha anche una funzione di politiche culturali. Siamo una collettività che condivide sentimenti e valori. Andare a teatro è una revisione intima e collettiva nel partecipare alla visione di una ‘favola’.
E lei come autore drammaturgo teatrale come si definisce?
Quando mi chiedono il mio punto di vista come autore so di avere una mia versione personale ma non possiedo la verità in quello che scrivo. Bisogna invece costruire i personaggi attraverso le loro verità. Nel Il Principio di Archimede tutti e quattro i personaggi possono avere ragione, dire la loro verità. In Nerium Park si parte da una coppia che ha una visione condivisa, ma al momento che inizia la scansione dei mesi iniziano ad evidenziarsi delle divisioni tra la società e loro stessi. In un primo momento si pensa che sia una coppia dotata di affinità elettive, poi nel momento in cui non riescono a trovare delle intese tra di loro, non realizzeranno un progetto di vita comune. Mi viene da pensare alla politica che è dialogo se ascoltare l’altro. Per me è importante riuscire a fare un teatro dove sia possibile sollecitare una riflessione condivisa mentre la politica non è capace di far nascere progetti di integrazione. Io insisto nel dire che è necessario fare un teatro capace di suscitare un pensiero e sviluppare occasioni per incontrare l’altro e non espellerlo. Stiamo vivendo un momento storico dove la politica vede tutto bianco o nero e si assiste ad una polarizzazione ad una cultura del populismo. Il fascismo è un fenomeno sempre più globale e non locale.
L’attesa di rivedere un altro testo di Mirò è paragonabile ad un momento di suspense prima di una gara: non vedi l’ora di come vada a finire tanto è la sua capacità di coinvolgerti nell’azione drammaturgica della storia costruita per continui cambi di registro. Il claustrofobico appartamento di Nerium Park è abitato da una giovane coppia la cui vita condominiale sembra iniziare nel miglior e dei modi ma dall’idillio iniziale si passerà ad una sorta di incubo, fino ad una separazione dal tragico finale. Da subito si percepisce però una dicotomia tra la scrittura teatrale e la resa registica: le scene evolvono seguendo le didascalie previste: 12 scene per altrettanti mesi di convivenza in cui non si riesce quasi mai a dinamizzare – vivacizzare meglio l’apparente staticità della relazione che complica sempre più il rapporto della coppia. Il teatro di Mirò verte sempre su tematiche di denuncia sociale capaci di infiltrarsi nei rapporti privati ed intimi dei suoi personaggi. È sempre presente la paura, il fattore ansiogeno e lo spavento per qualcosa che deve o potrebbe accadere. Il senso di colpa può assumere la responsabilità di sentirsi vittima ma anche carnefice di se stesso e viceversa. I confini labili dell’inconscio umano sono permeabili ad un interrogativo di fondo che si instilla nelle menti di chi assiste: che sia la società di cui facciamo tutti parte a renderci cosi? Vittime o colpevoli? Il drammaturgo non da risposte (come viene confermato dalle sue parole rilasciate nell’intervista) ma lascia sempre allo spettatore la libertà di decidere e scegliere da che parte stare. Ci si smarrisce alla fine vedendo Nerium Park in cui non emergono quelle emozioni dettate dall’empatia necessaria affinché i due protagonisti riescano a coinvolgere lo spettatore affidandosi ad una recitazione molto convenzionale, se pur fedele al dettato registico ma che avrebbe potuto esaltare maggiormente le tante sfumature psicologiche presenti nel testo.
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Zombitudine
Dal clima surreale e sospeso del beckettiano En Attendant Godot a un tumultuoso e pauroso En Attendant Zombie: è questo il segno del trapasso proprio della poetica maligna e spiazzante di Zombitudine di Elvira Frosini e Daniele Timpano. Come in Beckett, alla semplicità dello sviluppo narrativo, regolato dal principio secondo il quale tutto o nulla succede, corrisponde un fitto reticolato di metafore capaci di tracciare la prospettiva di una visione del mondo.
La cornice ambientale del testo è fortemente emblematica. In una sala teatrale si sono barricati due attori in scena, un LUI e una LEI, e il pubblico per difendersi dall’invasione planetaria degli zombie. Poco importa sapere se questi esseri mostruosi e puzzolenti sfonderanno veramente le porte dell’edificio. Forse sono un incubo o un’allucinazione espressa da dialoghi brevi e pungenti che alternano panico e rassegnazione, sorpresa e mistero. Sta di fatto che è questa la prima grande metafora intorno alla quale si sprigionano riflessioni e denunce sulla condizione sociale e culturale dell’attore che cerca di resistere ai morsi inesorabili degli uomini-zombie.
Il teatro inteso come spazio comunitario è visto come un cimitero vivente. Rivolgendosi al pubblico, LEI dice: «Venendo a teatro questa sera – anche se non lo sapevate – siete diventati dei ‘rifugiati’, siete entrati nel novero di quello che (forse) ce la faranno».
A fare cosa non si sa, perché la visione della morte vivente diventa l’essenza dell’uomo nelle sue diverse manifestazioni dell’essere uno zombie, a partire dai suoi bisogni primari. Per esempio all’inizio di Zombitudine i due personaggi si nutrono di carne umana cruda appartenente ai corrispettivi genitori. La scena raccapricciante e disgustosa anticipa la metamorfosi finale dei due, quando di fatto si mangeranno a vicenda. Il grottesco intrecciato a questi gesti cannibaleschi assurge a codice di un percorso connesso alla vita stessa, qui rappresentata nella sua simbolica decomposizione quotidiana.
A questo punto il discorso è chiaro. Gli zombie non esistono perché siamo noi gli zombie stessi, sono uno specchio alterato e deforme del nostro vivere nella società della rivoluzione digitale e dei social network, delle competizioni cannibalesche provocate dalla precarietà invasiva e dalla mercificazione umana che non esclude nessuno. Significativamente la moda parafrasa l’essenza e le caratteristiche dell’uomo-zombie. Questi morti viventi decerebrati, si legge nel testo: «Sono belli e sono fashion […]. Hanno la pelliccia Gucci. I jeans Trussardi. La t-shirt Cavalli. Tutte cose noi non potremo permetterci mai, mai mai. […] Hanno le mutande di Calvin Klein!! Appunto! Questo è il problema! […] Avete capito? Non c’è da fidarsi!»
In Zombitudine non c’è né apocalisse né nichilismo. I dialoghi apparentemente semplici e costruiti con il ricorso ad una pregevole leggerezza espressiva, rivelano un sottotesto puntellato di rimandi filosofici e sociologici dai quali muovere riflessioni sulle mostruosità dell’uomo moderno. Non c’è molto da ridere o da sorridere, anche se alla lettura dell’intrigante testo del duo Frosini-Timpano il divertimento non manca.
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I teatri di Pasolini, recensione di Paolo Pizzimento
Con I teatri di Pasolini, Stefano Casi ripropone l’omonimo volume del 2005, che a sua volta aveva portato a compimento uno studio comparso in Pasolini un’idea di teatro (1990). In questa nuova edizione sono state operate numerose integrazioni, chiarimenti formali e concettuali e aggiornamenti sulle messinscene italiane delle opere di Pasolini, che arrivano ora fino al gennaio 2019. Il volume consta di cinque parti: Teatri della formazione (Bologna, 1938-43), Teatro della polis, Teatro dell’io (Casarsa, 1943-49), Teatri capitali (Roma, 1950-65), Un nuovo teatro: le tragedie (1965-66), Un nuovo teatro: la teoria e la pratica (1966-69), Teatri dell’esistenza (1970- 75). Seguono due cospicue ed assai utili sezioni su Pasolini in scena e sulla Teatrografia pasoliniana.
Casi mostra come la fascinazione del teatro in Pasolini risalga all’infanzia, con la sua partecipazione agli spettacoli della filodrammatica di Casarsa. A Bologna, poi, l’adolescente Pasolini vive il teatro come «un concreto percorso per testimoniare il proprio impegno culturale in diretta comunicazione con la società» (cap. 1 § 1), interessandosi alla recitazione e, soprattutto, alla direzione. Tant’è: egli pare sentirsi pronto per il teatro ben prima che per la poesia e nel 1938 licenzia il dramma in tre atti La sua gloria, con il quale partecipa al concorso studentesco Ludi Iuveniles. Tentativo ancora acerbo, certo, e fortemente letterario; ma che manifesta un’etica del sacrificio che si scontra con la chiassosa e ridondante retorica fascista sull’intervento in Spagna e, soprattutto, un’idea già matura del «teatro come messinscena del conflitto esistenziale» (cap. 1 § 1).
Negli anni universitari, Pasolini approfondisce la sua vocazione teatrale: conosce e apprezza i testi di Synge, Yeats, Joyce, Wilde, Calderon de la Barca, Lorca e O’Neill; legge Freud, la cui teoria ritiene «una griglia consapevole di riferimento per costruire autobiografisticamente molte opere» (cap. 1 § 2). Emerge già, del resto, una propensione a riflettere sull’inevitabile questione della riforma del teatro e sui meccanismi non solo drammaturgici dell’esperienza scenica – e lo documentano l’attenzione e i commenti da lui riservati alla messinscena di Enrico Fulchignoni di Piccola città. Se il tentativo pasoliniano di quegli stessi mesi di creare un gruppo teatrale si risolve in un niente di fatto, la sua riflessione teatrale lo pone nelle condizioni di approfondire al meglio la questione centrale della sua poetica, che darà i suoi frutti già con Poesie a Casarsa (1941): non tanto l’enunciazione orale della poesia quanto il suo contrario, la trascrizione letteraria di una voce. Né è per caso che la scoperta del friulano, della concreta e viva lingua parlata, si concretizza nell’approdo di Pasolini alla regia, proprio a Casarsa, con Un angelo peccatore di Isnardo Sartorio. Come sostiene Casi, già in questa fase «il dialogo, cioè il grado minimo di scrittura teatrale al confine con la scrittura poetica (o viceversa: un’articolazione complessa della scrittura poetica al confine con la drammaturgia), incarna la forma più aderente a restituire una drammaticità interiore ed esistenziale che la monodia non è in grado di sostenere» (cap. 1, § 2). Di ciò è ulteriore riprova la sacra rappresentazione La domenica uliva, che costituisce la seconda parte di Poesie a Casarsa a metà tra misteri medievali e laude iacoponiche e sperimentazione in opposizione al teatro borghese.
Nel Dopoguerra Pasolini, trasferitosi ormai stabilmente a Casarsa, seppur lontano dai centri della sperimentazione non lascia venir meno la propria riflessione teatrale. Nell’ambito della rivalutazione e della ricreazione artistica del friulano, Pasolini si confronta con i dialoghi di Ermes di Colloredo (1622-1692) e con la teatralità popolare. Frutto di questa stagione è I Turcs tal Friùl (1944) che, sebbene mai rappresentato né pubblicato, è considerato da Pasolini la miglior cosa che abbia scritto in friulano, «la prima opera profondamente politica di Pasolini, nel senso più proprio e strutturale del termine, perché assorbe i meccanismi stessi della creazione della tragedia ateniese e incide nel senso di appartenenza alla polis trasfigurata nel paìs di Casarsa – che vede rispecchiati, rivivificati e riproblematizzati i propri momenti fondanti e unificanti» (cap. 2 § 1). Con la creazione dell’Academiuta di lenga furlana, il teatro entra nella pratica pedagogica: nel luglio del 1945 Pasolini mette in scena la sua favola drammatica I fanciulli e gli elfi. Con La morteana, invece, egli si avvicina a una sorta di teatro dell’io: nuova fase e nuovo nume tutelare, Jean Racine, «che offre a Pasolini quell’orizzonte poetico e drammaturgico che, sotto il nitido segno della classicità, nasconde le più sconvolgenti turbolenze dell’animo umano» (cap. 2 § 3). Ma Pasolini si lascia penetrare anche dal teatro borghese e dalle atmosfere di Strindberg, in particolare con II cappellano e La poesia o la gioia (1947), che esplorano il problema della centralità dell’io, ora inquadrato nei suoi turbamenti sessuali, ora nella problematicità dei rapporti familiari e politici.
Con la fine burrascosa dell’esperienza casarsese e il trasferimento a Roma, da un lato Pasolini si dà all’«impegno esoreistico nei confronti degli anni friulani» (cap. 2 § 3), dall’altro rivede il suo ruolo di intellettuale e le sue nuove responsabilità gramsciane nei confronti della cultura e della società nazionali. La scoperta urbanistica e antropologica, sociale e politica di Roma e dell’Italia si fa strada nella sua opera grazie a nuove forme di scrittura destinate a culminare in tre pietre miliari nei rispettivi campi: nella prosa Ragazzi di vita (1955), nella poesia Le ceneri di Gramsci (1957) e nel cinema Accattone (1961). In questa fase, si può dire, il teatro si fa sentire per la sua assenza, sebbene non manchino sprazzi di riflessione: l’eco di un Racine mediato da Proust toma in Récit (1955), mentre sempre più si fa strada in Pasolini un’idea di tragedia come attacco al potere borghese.
Determinanti, in questa fase, sono i contatti con Laura Betti, Adriana Asti e Alberto Moravia che favoriscono un rinnovato sforzo di riflessione. Pasolini cerca la verità e la vita del teatro in un dialetto che non consista in accenni artificiosi e superficiali ma piuttosto in una forza espressiva tutta gestuale e corporea, un silenzio dialettale; e torna alla scrittura con l’atto unico Un pesciolino (1957). D’altro canto, il primo impatto attivo con il teatro avviene su una scena relativamente marginale e in sperimentazioni all’intemo di forme alternative che pongono le basi per l’avvento di un nuovo teatro: una di tali forme alternative è quella del recital, al quale Pasolini si dedica per conto di Laura Betti. Il vero esordio teatrale di Pasolini, però, avviene nella stagione 1959-1960 con Vittorio Gassman: questi gli richiede una traduzione dell’Orestiade per il neonato Teatro Popolare Italiano: punto di partenza di Pasolini non è, però, il greco di Eschilo ma la propria lingua poetica, con la quale egli «interpreta la trilogia come il passaggio da una società primitiva, istintiva e uterina, a una società moderna, razionale e virile, in cui nascono l’assemblea e il suffragio» (cap. 3 § 3). Il successo dell’Orestiade lancia Pasolini tra i protagonisti del teatro italiano e, al contempo, gli fa apparire il teatro come «uno dei luoghi possibili della sua grande offensiva intellettuale» (cap. 3 § 4). È in questa fase che egli rilancia il vecchio testo, riveduto e corretto, de II cappellano, col titolo di Storia interiore; che, tuttavia, riceve poca attenzione e un perentorio rifiuto da parte di Calvino e torna nel cassetto, in attesa di tempi migliori. Ciò non basta a frenare il rinnovato interesse teatrale di Pasolini, che si esplicita ne II Vantone, traduzione del Miles Gloriosus in romanesco, sempre per conto del Tpi. La traduzione sarà rappresentata solo nel 1963 dalla Compagnia dei Quattro e costituirà un esito manieristico, senza reali innovazioni rispetto alla precedente Orestiade. Eppure, qui, «Pasolini si costringe a inoltrarsi in questioni che non avrebbe mai affrontato con Eschilo, quelle sul ‘fantasma ontologico del teatro’. […] L’attualizzazione del testo, splendida e riuscita intuizione della traduzione eschilea, viene qui subordinata a una non meglio identificata ontologia teatrale che finalmente lo conduce a trovare il registro giusto per la scelta linguistica, che non è né letteraria né dialettale: l’avanspettacolo» (cap. 3 § 5).
Il 1963 è un anno fondamentale per Pasolini: anzitutto, segna il culmine della sua folgorazione brechtiana, «basata su un proficuo fraintendimento o, se vogliamo, su una personalissima reinterpretazione del drammaturgo tedesco» (cap. 3 § 6); ma è soprattutto l’anno di una profonda crisi ideologica ed esistenziale essenziale per l’evoluzione dell’opera stessa di Pasolini, che ora si interroga sull’essenza stessa della lingua quale strumento capace di rappresentare la realtà. Italie magique (1964), costituirà l’estremo tentativo di sperimentazione del codice nel teatro di Pasolini e inaugurerà la stagione antibrecthiana del Nostro, ormai lontano dalla figura dell’intellettuale ‘gramsciano’. Il congedo da Brecht non avviene però in teatro bensì nel cinema, con Uccellacci e uccellini (1965), che «dialoga con le analisi su Brecht e sulla fine del ‘mandato degli scrittori’ e consente a Pasolini di portare al massimo grado di coscienza ed efficacia la rappresentazione della crisi delle ideologie, con un’ipotesi di rifondazione di quel ‘mandato’» (cap. 3 § 8).
Frattanto, Pasolini ha ripreso Storia interiore su interessamento di Sergio Graziani; il testo, però, è sentito ormai poco praticabile rispetto alle nuove meditazioni pasoliniane sul teatro come problema linguistico. Pasolini, allora, scrive una stesura definitiva dell’opera col titolo di Nel ’46! Anche qui «rimane centrale la riflessione sulle origini della parola teatrale come espressione di una sofferenza dovuta all’irriducibilità che contrappone libertà dell’individuo e regole sociali: il teatro assume così l’incarico di rappresentare la denuncia dell’eresia e della diversità in chiave politica-soggettiva» (cap. 3 § 9).
Gli anni dal 1964 al 1967 registrano il «corteggiamento reciproco fra teatro italiano e letterati» (cap. 4 § 1) che sarà non a caso oggetto della celebre inchiesta di Maria Rusconi per «Sipario». Pasolini risponde affrontando di petto la questione della lingua, registrando la frattura tra la lingua parlata sulla scena e quella della vita quotidiana e, persino, dei romanzi: è dunque necessario «togliere la lontananza tra teatro e realtà, parlando la stessa lingua della realtà attraverso un’attenzione alla pronuncia ma anche al corpo e al gesto» (cap. 4 § 1).
Nel 1966 Pasolini inizia a comporre le tragedie destinate a costituire il culmine della sua scrittura teatrale: Orgia, Pilade, Affabulazione, Bestia da stile, Porcile e Calderón.
Progressivamente, gli assilli metalinguistici lasciano spazio al cuore tematico e ideologico di un tragico che – tramontate le classi e le ideologie e superati con esse i modelli di Gramsci e Brecht –oppone alla borghesia il corpo-corpus quale «unica dimensione umana possibile rimasta» (cap. 4 § 9). «Non è l’azione che si fa poesia, ma è la poesia che si fa azione. E la poesia che si fa azione è prima di tutto teatro, spazio che consente di gettare fisicamente il corpo nella lotta, metafora ideale del corpo nella scena» (cap. 4 § 9). Tragedie borghesi, quelle di Pasolini, che tuttavia sono motivate da un intento dichiaratamente antiborghese in un’idea un teatro ormai diventato strumento par excellence con cui addentrarsi nel terreno ignoto e nemico della classe dominante, l’arma fisica scagliata dal suo autore contro gli stessi spettatori. Recupera qui, Pasolini, una tensione pedagogica che gli viene dalla lettura dei dialoghi platonici; è un passo fondamentale, poiché il procedimento platonico «si traduce nella previsione dello spettatore all’interno delle tragedie stesse, non in quanto soggetto interpellato, ma in quanto oggetto reale del procedimento gnoseologico che sottende l’opera» (cap. 4 § 9). È pur vero che le tragedie di Pasolini non vengono recepite né dal nuovo teatro né dal teatro tradizionale: sono semplicemente ignorate.
Nella seconda metà del 1960, Pasolini rimane relativamente lontano dalla pratica teatrale. Eppure, «la predominanza assoluta di temi e segni teatrali nella cinematografia pasoliniana conferma la centralità del teatro come spazio di innovazione e pertinenza artistica per Pasolini; e a ogni modo fa emergere in più occasioni riflessioni su un teatro la cui elaborazione è in pieno svolgimento» (cap. 5 § 1). Frattanto, i tempi sono maturi per un’esposizione più diretta nel dibattito teatrale: ecco comparire su «Nuovi Argomenti» il Manifesto per un nuovo teatro (1968), progetto politico e culturale che presenta un’idea di teatro «sotto la forma della provocazione, cancellandone in partenza qualsiasi elemento ancora assoggettabile a un eventuale compromesso con l’establishment teatrale, e calcando la mano sulle proposte più spiazzanti, con la certezza dell’impraticabilità delle proposte stesse» (cap. 5 § 2). Parimenti si pone in Pasolini la ricerca di un pubblico che non sia più indifferenziato ma precisamente selezionato in base alla sua responsabilità intellettuale. Quello tra teatro e pubblico, perciò, è teorizzato come un rapporto paritetico fra intellettuali «come in un agit-prop borghese illuminato» (cap. 5 § 2). Senza peraltro alcuna complicità: se il teatro si rivolge alla classe borghese odiata da Pasolini, a questa rimane di registrare la catastrofe in atto messa in scena dal teatro stesso senza alcuna possibilità operativa. In questo processo, fondamentale sarà il ruolo dell’attore, chiamato ora ad essere un intellettuale armato di una reale e profonda coscienza delle trasformazioni sociali, impegnato politicamente, ma anche l’officiante consapevole di un rito arcaico di evocazione del mito e dei suoi personaggi.
La riflessione teorica si accompagna a una febbrile attività di composizione, una vera e propria «iperattività drammaturgica, anche se più progettuale che operativa» (cap. 5 § 3). Nel 1968 Pasolini dirige un proprio testo, Orgia, per lo Stabile di Torino – ma nello spazio decentrato e underground del Deposito d’Arte Presente che si presenta «come l’opera prima a tutti gli effetti di un regista con almeno due decenni di assenza dalle scene, e in un certo senso mostra in alcuni passaggi il lato più ingenuo della sua concezione» (cap. 5 § 3), ciò che spiega in parte il fallimento dello spettacolo. Tentativo non riuscito e frainteso dai critici, Orgia, ma riuscito come esperimento che sancisce «una sostanziale incomunicabilità fra l’autore e il pubblico, accentuata dall’ostracismo dei critici e degli addetti ai lavori, uniti quasi unanimemente nel tentativo di respingere l’intellettuale scomodo e il suo imbarazzante teatro politico fuori dal loro campo di controllo» (cap. 5 § 3). D’altro canto, l’interesse teatrale di Pasolini, mai domo né arreso, è riversato in campi contigui come il cinema, che ne riassorbe l’oralità (basti pensare a Porcile e Medea, veri e propri dirottamenti del teatro nella pellicola) e nella poesia che ne riassorbe la scrittura.
Nell’ultimo capitolo del volume, Casi analizza l’ultimo lustro della vita di Pasolini, segnato dalla fuga da ogni convenzione artistica, dalla costante ricerca di una forzatura dei confini e di un’opera che, sulla scia dei drafts di Pound, sia programmaticamente impura, incompleta, aperta. «Assumono centralità come mai era accaduto prima d’ora la voce, il corpo, le azioni dell’autore che non è più soltanto garante dell’opera, ma inizia a essere parte oggettiva e sofferta dell’opera stessa» (cap. 6 § 1). In questa fase di esasperata rottura degli schemi il teatro pare scomparire; e non per caso il 1971 sarà l’anno delle dichiarazioni liquidatorie dell’esperienza-utopia teatrale. Certo: restano spazi aperti, possibilità come la prima mondiale di Affabulazione oder der Königsmord al festival austriaco Steirische Herbst per la regia di Peter Lotschak, che tratta Pasolini non solo come un drammaturgo vero ma persino come un classico. Ma dopo il 1968 il mondo del teatro è in pieno fermento con le sperimentazioni che travolgono ogni dogma della teatrabilità. Pasolini si reinventa per l’ennesima volta come il polemista corsaro che dalle pagine del «Corriere della Sera» oppone un passato felice a una modernità tragica. Il teatro – un teatro tragico, mentale, esistenziale, sempre più coincidente con la realtà – toma a riproporsi in Pasolini quale metafora dell’esistenza. «Avvertendosi come eroe di una tragedia senza più alcun orizzonte catartico o almeno interpretativo, Pasolini decide di rappresentarsi mettendosi in scena nel tragico ‘grande teatro dell’esistenza’» (cap. 6 § 1). In questi anni, però, Pasolini riprende in mano le tragedie, tra cui Bestia da stile, con la quale egli si propone di costruire una nuova forma, tragica e frammentaria. Il teatro, ancora, sta alla base del film Salò o Le centoventi giornate di Sodoma e ne costituisce «la cornice rivelatrice» (cap. 6 § 1).
Stefano Casi, con questo prezioso volume, coniuga un’agile (e tutt’altro che facile) lettura diacronica dell’avventura teatrale di Pasolini con una minuziosa analisi degli snodi decisivi e persino delle opere più rilevanti dell’autore. Offre inoltre una chiara visione dei rapporti di Pasolini con le personalità di spicco del teatro del tempo e dà rilevanza a tutti i progetti che la febbrile attività pasoliniana avviò senza mai portarli a termine. Emerge un’immagine completa di Pasolini per il quale il teatro non fu incontro occasionale, ma pensiero – e talvolta rovello – continuo, quasi un’impalcatura della sua intera produzione letteraria, che del teatro e della teatralità costituisce un continuo e mai esausto dirottamento.
Teatro d’origine
Che Angela Demattè sia, da un lato, nata e cresciuta in Trentino e, dall’altro lato, sia anche un’attrice, lo si capisce bene dai testi antologizzati in questo prezioso volume che significativamente porta il titolo di Teatro d’origine, che per l’autrice significa un dialogo con i pilastri della propria identità, dal dialetto ai valori della famiglia imbevuti di rigore morale e di cristianesimo controriformista, alla mentalità popolare calata in un preciso contesto socioculturale. Il mestiere dell’attore (la Demattè ha interpretato i testi in questione) emerge dalla padronanza di una scrittura assai comunicativa, priva di fronzoli, capace di connotare i personaggi attraverso una sottile rete di sfumature nei piccoli gesti e nelle battute finalizzate all’esplorazione quasi intima di ciò che non appare. Perché i Trentini sono così: rudi e semplici esteriormente, delicati e sensibili interiormente.
I testi della Demattè condividono il tema del conflitto linguistico inteso come metafora della dialettica tra conservazione innovazione, tra patrimonio della tradizione e modernità.
In Avevo un bel pallone rosso domina la drammatica evoluzione del rapporto tra il padre, prototipo dell’uomo semplice e convenzionale, e la figlia Margherita Cagol cofondatrice con il compagno Renato Curcio delle Brigate Rosse. L’emancipazione della ragazza ribelle passa anche attraverso l’abbandono del dialetto trentino, mantenuto invece dal padre lungo un intreccio narrativo che inizia nel 1965, quando Margherita è brava e obbediente liceale, attraversa le rivolte del 68 e termina nel 1975 con la lettura del comunicato del nucleo armato comunista in cui si dà notizia della morte della donna in uno scontro con le forze dell’ordine. Tuttavia nella penultima scena, Margherita racconta al padre un sogno: sta facendo la guardia a uno che «somigliava al Aldo Moro» chiuso in una «camera, picola picola, con en linzòl [lenzuolo] ros sul mur», per poi scoprire «che te eri ti papà» e dice che «Me dispias, me dispias papà…». In questa dolorosa battuta finale la brigatista recupera il sentimento paterno del dialetto. Il legame con la sua terra rimane perciò indissolubile.
Di ambientazione storica è anche il successivo L’officina. Storia di una famiglia, testo imbevuto di riferimenti autobiografici che si articola, attraverso dialoghi rapidi e brevi quadri, dal 1926 al 2011. All’evoluzione del mestiere del fabbro, dalla dimensione artigianale della bottega all’officina industriale, corrispondono nella sua trasmissione generazionale i segni del declino di un’epoca e l’affermazione di un’altra nella concezione del lavoro e nella sfera delle relazioni umane e famigliari. Così al dialetto trentino, simbolo del patrimonio della tradizione e di una società patriarcale, prima si affianca e poi si afferma l’uso della lingua italiana.
Nel terzo testo, il recente Mad in Europe, la Demattè capovolge l’assunto: dall’abbandono-rifiuto della lingua delle origini proprio dei due testi precedenti si vira verso il suo tormentato recupero, in una sorta di ritorno uterino. Cambia anche il linguaggio, ora asciutto, monologante, oscillante tra realismo e simbolismo, a tratti astratto. Mad, la protagonista, è una deputata del Parlamento europeo che impazzisce e riduce la propria via alla condizione di mendicanza. Le diverse lingue da lei conosciute progressivamente diventano un folle miscuglio delle stesse fino ad assomigliare ad un lucido grammelot, dal quale si sprigiona e poi si afferma la ricerca della lingua d’origine e dell’eredità religiosa prima combattuta. La volontà di ricomporre la propria frammentazione interiore parafrasa, in termini squisitamente allusivi, la situazione di sradicamento delle tradizioni locali provocata dalle politiche comunitarie in linea con i processi della globalizzazione.
Carmelo Rifici, regista di Avevo un bel pallone rosso e de L’officina. Storia di una famiglia per il Teatro Stabile di Bolzano, nell’Introduzione al volume così si esprime: «Il suo teatro […] si pone il complesso compito di entrare nella bestia, nell’intricato e viscerale mondo degli affetti, provare a comprenderli da dentro l’intestino, lì dove nasce il linguaggio originario».
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Itinerario indimenticabile nel teatro italiano fra Ottocento e Novecento. Quando il ‘fenomeno’ Duse diventò leggenda
Cesare Molinari scrisse L’attrice divina nel 1985, anticipando il volume, più volte annunziato, di Gerardo Guerrieri che, da circa un trentennio, aveva svolto una serie di ricerche attorno all’attrice, culminate in alcuni saggi, in uno spettacolo teatrale: Immagini e tempi di Eleonora Duse, e in una monografia pubblicata nei Quaderni del Piccolo Teatro nel 1962. Solo dopo la sua morte, Lina Vito curò, per Bulzoni, raccogliendoli in un volume, i nove saggi scritti da Guerrieri.
Per chi voglia addentrarsi, però, nella conoscenza della Duse, ovvero del personaggio che sconvolse la storia dell’attore di fine Ottocento, non può fare a meno dei testimoni che le sono stati accanto, di Luigi Rasi, a cui dobbiamo la prima biografia che arriva al 1901, anno di pubblicazione del suo libro, di Eduard Schneider che scrisse sull’ultima Duse (1924), di Olga Signorelli che si sforzò di offrire una biografia completa (1938), di Silvio D’Amico che le dedicò tre capitoletti in Il tramonto del grande attore. Cito ancora, per ricordare il mio maestro: La Duse di Mario Apollonio (1948), che stava per essere rappresentata al Piccolo Teatro, cosa che non avvenne dopo tanto tergiversare con Paolo Grassi.
Perché questo preambolo? Perché Cesare Molinari utilizza la biografia come pretesto, essendo il suo studio proiettato oltre, ovvero verso quanto era accaduto nel teatro italiano fra due secoli, che è il sottotitolo di L’attrice divina, ristampato da Mattia Visani per Cue Press, con introduzione di Elena Bucci.
Il percorso storico di Molinari, che svolge in sette capitoli, parte da Napoli, dal 1879, dopo l’avvento della Sinistra al potere, caratterizzato dal trauma dell’unificazione, dalla miseria e di come i teatri proliferassero in un momento in cui c’era bisogno di ben altro.
In questo scorcio di secolo, iniziarono a imporsi le prime attrici, dopo il dominio dei mattatori. Tra queste, le più famose erano state: Adelaide Tessero, Virginia Marini, Giacinta Pezzana e la Duse che, proprio in questo anno, per averla in Compagnia con la Pezzana, furono versati, dall’impresario, cinquemila lire di penale, per poter sciogliere un contratto firmato precedentemente dalla Duse. Sempre da questa data, tutti i giornali cominciarono a parlare di lei con le firme di Cafiero (con cui la Duse ebbe una relazione), di Bracco, della Serao, di Boutet, che fecero ricorso a molteplici aggettivi sulla sua recitazione: attrice moderna, versatile, sublime, ecc.
Molinari accompagna il lettore in un itinerario indimenticabile, utilizzando la Duse come compagna di viaggio all’interno della nostra drammaturgia, un po’ avvilente rispetto a quella francese o a quella nordica, di un Ibsen, per esempio, ma anche all’interno delle Compagnie Stabili (stanziali), di quelle itineranti, avendo a che fare con agenti parassiti e speculatori. Non manca un viaggio all’interno della terminologia teatrale del tempo, per sottolineare la distinzione tra il ‘ruolo’ e la ‘parte’, e, soprattutto tra i ‘generi’, col passaggio dalla tragedia storica al dramma borghese, a quello popolare, fino al teatro di poesia di D’Annunzio. Il tutto attraverso il ‘fenomeno’ Duse che, nel tempo, diventerà leggenda, come ebbe a scrivere Reinhardt: «Aveva cinquant’anni ed era già leggenda».
Molinari indaga il repertorio tra i due secoli presi in esame, che vedeva spesso la Duse a disagio dinanzi a commedie di nessun valore, che entravano in repertorio grazie alle sue interpretazioni, delle quali Molinari ricostruisce le metodologie, lo stile, i canoni, l’arte recitativa. Egli si sofferma ancora sul rapporto tra impresari e organizzatori, sul sodalizio con Boito, sull’incontro artistico con D’Annunzio, sulla polemica tra lei e il poeta, in occasione della pubblicazione del romanzo Il fuoco, dove veniva raccontata la loro storia d’amore senza veli e, infine, sui ruoli di madre che interpretò nell’ultima parte della sua carriera.
Dicevo che la Duse è un pretesto, dato che lo storico Molinari intende ritrarre la vita teatrale a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando il teatro, da solo, copriva il fabbisogno di una intera popolazione, quando le esibizioni erano appartenute al mattatore, una specie di performer ante litteram.
Ci informa inoltre che in Italia, con 29 milioni di abitanti, dopo l’unità, venivano registrati 1055 teatri in 775 Comuni, e che gli affari si aggiravano sui sette milioni di lire, grazie a 150 Compagnie drammatiche, ospitate nei teatri municipali, ma anche in Accademie private sparse per la penisola.
Ogni capitolo è seguito da una bibliografia e da una serie di immagini dell’attrice. Elena Bucci, nella sua accorata prefazione, fa notare quanto sia, oggi, impossibile conoscere la vera autenticità della Duse, pur essendo stata «il romanzo di un’epoca», convinta che i miti non siano altro che racconti straordinari.
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Le Lettere di Strindberg. A nudo il cuore del genio.
August Strindberg ha regalato alla storia della letteratura opere teatrali quali ad esempio Signorina Giulia, Un sogno, Danza di morte e Sonata di spettri, che hanno riscritto e riposizionato i confini e gli ambiti dell’espressione teatrale, tracciando il solco nel quale si sono poi inserite tutte le più importanti avanguardie del Novecento, in particolare l’espressionismo e il ‘teatro della crudeltà’ di Artaud, che non a caso fu un suo appassionato ammiratore nonché regista di alcuni suoi testi scenici.
Le opere di Strindberg, che fu anche un prolifico narratore (basti ricordare lo straordinario romanzo La sala rossa, l’autobiografia in quattro volumi Il figlio della serva e i sulfurei Autodifesa di un folle e Inferno), hanno inoltre contribuito a mutare la percezione che l’essere umano ha di se stesso, molto prima che la psicanalisi e la cosiddetta letteratura della crisi, nei primi decenni del Novecento, mostrassero fino a che punto l’io umanistico fosse in ultima analisi una mera entità volatile e provvisoria.
Genio in chiaroscuro
Ma con Strindberg, come con tutti gli scrittori scopertamente autobiografici, bisogna stare molto attenti, perché la vita riflessa nell’opera è in larga parte frutto di una reinvenzione che, secondo le parole dello stesso Strindberg, costruisce un mosaico con i tasselli forniti dalla vita e quindi «è opera di poesia e non menzogna», ma nemmeno una verità incondizionata. La verità vera di Strindberg – nella misura in cui di una vita umana possa esistere una verità vera – è invece contenuta nel suo vasto carteggio, del quale viene ora riproposta un’ampia scelta in versione italiana in un volume della collana I classici delle edizioni Cue Press (con l’aggiunta di un ricco apparato iconografico) a cura dello scandinavista Franco Perrelli.
È qui, infatti, in queste densissime pagine, che Strindberg si racconta in maniera diretta e senza reinvenzioni, dagli esordi al lungo esilio volontario in Svizzera, dall’esaltazione per Nietzsche alla contrastata amicizia con Edvard Munch, dagli anni di profonda crisi a Parigi fino al ritorno in Svezia e alla tarda utopia del Teatro Intimo.
Una verità dialettica
Nelle lettere di Strindberg ci sono tre matrimoni falliti, peripezie personali, fumisterie varie, perfino miserie, repentine accensioni e abissali disincanti, ma anche (o forse conseguentemente) una concezione assolutamente innovativa dei rapporti tra gli uomini e una lettura profondissima delle finzioni sociali.
Genio assoluto ma anche personaggio con molte ombre e poche luci (almeno secondo le ordinarie categorie di giudizio), Strindberg visse infatti una vita travagliata, sempre sul confine tra normalità e follia, ebbe tre mogli che trattò malissimo (e che a loro volta si servirono del suo sconfinato talento per scopi non propriamente nobilissimi), civettò con l’anarchismo e altri movimenti rivoluzionari e infine fu un inguaribile misogino. Questo, almeno, è quanto dice la vulgata, ma la verità che emerge dal carteggio è molto più sfumata, screziata e ricca di risvolti. E soprattutto è una verità dialettica, fondata sugli opposti.
Folle, certo, ma insieme lucidissimo (e cioè di una follia controllata e resa produttiva), razionalista e mistico, misogino e insieme adoratore dell’eterno femminino, quasi sempre eccessivo e sopra le righe ma incredibilmente profetico: Strindberg (che tra l’altro fu anche un discreto pittore) è stato davvero un genio universale, esattamente come il suo predecessore e modello Goethe, ma senza l’idea della continuità espressa nel ‘muori e diventa’ dello stesso Goethe. Ogni volta che è ‘morto’, infatti, Strindberg è ‘diventato’ un altro descrivendosi come dall’esterno, ed è proprio questa sorta di sofferto straniamento, che nel carteggio si profila con estrema chiarezza, a renderlo così vicino e attuale.
Bergman, uno specchio in bianco e nero
La bella immagine di copertina mostra un giovane Bergman in posa da divo di Hollywood, come il fotogramma in bianco e nero di un film di Frank Capra. Lui, che più lontano dalla mitologia del cinema americano del dopoguerra non poteva essere, profondamente radicato nel suo ambiente nord-europeo e nella cultura scandinava da cui traeva linfa e nutrimento per i suoi film e gli spettaco li teatrali, nonché per i tantissimi copioni scritti e diretti.
Quella foto parla di un Bergman insolito, per molti versi inedito, proprio come testimonia, riga dopo riga, il fondamentale volume-saggio di Leif Zern, il più autorevole e accreditato critico teatrale scandinavo e studioso del regista svedese, pubblicato meritoriamente ora in Italia. Si tratta della più importante biografia artistica, ma non solo, dell’uomo di teatro, di cinema e di televisione che, probabilmente più di qualunque altro cineasta, ha cambiato il nostro modo di guardare il mondo attraverso la relazione con gli altri (l’universo femminile, in particolare), di mostrarci il passato per capire il presente, di ‘vedere Bergman’ per scoprire nelle sue ossessioni, nelle sue fragilità, nei suoi incubi e nei suoi desideri raccontati senza veli, o reticenze, noi stessi.
Così, questo itinerario di Zern, nell’opera totale di Bergman, diventa per lo scrittore e il lettore una sorta di romanzo di formazione che segue, passo dopo passo, la straordinaria avventura artistica e umana di un genio del set cinematografico e della scena teatrale la arricchisce di fatti e di aneddoti curiosi, divertenti, mai banali, in un intreccio continuo di vita quotidiana ed esperienza artistica, necessario artigianato e persistenti problematiche filosofiche.
Non una riflessione organica su Bergman, ma uno studio complessivo fatto di lampi, intuizioni, di salti concettuali e temporali, per restituire, non la linearità di un percorso artistico, ma i frammenti, gli sbalzi, la devianza improvvisa, una particolare specie di creatività materiale.