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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

24 Febbraio 2020

E, accanto ai templi, su pendii di rocce, tra cavea e tribune, sorsero i nuovi teatri. Perché il sacro convivesse col profano

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

La nascita dei primi teatri in legno e, successivamente, di pietra, coincide con la nascita della civiltà occidentale, quando verrà sovvertita la concezione tribale del rito, per dare spazio, alla nascente societas, di convivere con apparati di intrattenimento sociale, per i quali saranno necessari le codificazioni delle leggi, delle religioni e anche dei teatri, concepiti come luoghi di rappresentazione e di dibattito pubblico. A dire il vero, anche le società tribali avevano una loro idea di spettacolo, fondata sull’uso del corpo e della danza e su un ‘non spazio’, poiché questo era disignato direttamente dai loro movimenti ritmici.

Il ‘nuovo teatro’ si distinse non solo per l’uso della parola, ma anche per le forme architettoniche che utilizzavano pendii di roccia dai quali si ricavavano le tribune, la cavea, l’orchestra e la scena. Erano costruiti accanto ai templi, affinché il sacro e il profano potessero convivere in una sorta di dialettica tra il rituale e il sociale. Questi luoghi si distinsero, non certo per il prestigio della polis, ma per il senso di appartenenza a una cultura comune.

Nicola Savarese, a cui dobbiamo un fondamentale studio su Teatro e spettacolo tra oriente e occidente (Laterza), e che ha contribuito al progetto del libro, nella sua introduzione, ne elenca più di mille, di cui 881 documentati, restaurati e conservati, oltre che visibili, e ben 124 identificati e localizzati, utilizzando fonti letterarie, iscrizioni, etc. A questi vanno aggiunti 257 anfiteatri e, più o meno, 60 circhi. Si tratta di un patrimonio immenso che è anche testimonianza delle civiltà che si sono susseguite e che, pur con notevoli cambiamenti architettonici, testimoniano una forma di necessità, quella di vedere rappresentata la storia dell’umanità sullo sfondo di rivolgimenti politici, sociali, religiosi, poetici che hanno trovato, sulla scena, il luogo di divulgazione.

Vincenzo Blasi ha raccolto queste testimonianze in un volume, edito da Cue Press: Teatri greco-romani in Italia, utilizzando l’ordine alfabetico, città per città, fornendoci un dizionario di circa 250 monumenti adibiti a spettacoli teatrali, segnalando quelli già accertati, oltre quelli identificati su basi epigrafiche o letterarie. Si tratta di un libro prezioso, una specie di vademacum tra il colto e il popolare che permette al lettore di conoscere le particolari costruzioni, grazie a una puntuale iconografia sui teatri esistenti, arricchita da ‘schede’ che mettono in risalto le differenze architettoniche, oltre che estetiche. Il volume contiene una terminologia specifica e una bibliografia che riguarda le fonti cronologiche delle costruzioni. Si va da Acerra a Zagarolo, con i loro teatri, anfiteatri, circhi, odeon, con le varianti che li hanno contraddistinti, tra spazi grandi, come quello di Siracusa, e spazi piccoli, come quello di Palazzolo Acreide.

Parecchi di questi sono da ritenere ‘preziosi’ o ‘stravaganti’, come quelli raccolti da Michele Roberto e Liliana Chiari, riguardanti i teatri italiani costruiti dopo l’Olimpico di Vicenza, quando, tra il 1500 e il 1600, furono realizzati, su modelli antichi, teatri come quello di Sabbioneta, del Farnese di Parma, o quelli ricavati da Ville reali, da Fortezze, da Chiese o da Palazzi signorili.

Tra questi vorrei segnalare il teatro intestato a Rosso di San Secondo, di Caltanissetta, costruito all’interno del Palazzo Moncada, sorto nel 1650, su progettazione dell’architetto Carlo D’Angelo, in stile barocco, con influssi rinascimentali, dove si può ammirare una Scena Frons tutta in pietra d’epoca, una vera e propria scenografia seicentesca con ampie finestre che Paolo Mandala ha voluto rimanesse sempre tale nella sala grande del Teatro, mentre nei corridoi si possono ammirare dei portali, sempre d’epoca, che costituiscono quella ‘preziosità’ o ‘stravaganza’ che caratterizza un simile spazio, assente dalla nostra storiografia e che meriterebbe che vi entrasse con tutti gli onori.

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18 Febbraio 2020

Sergio Blanco: Autofinzione. L’ingegneria dell’io e Teatro

Nicola Arrigoni, «Sipario»

«Nella scrittura dell’io trovo un’opportunità di dirmi, la possibilità di costruire il mio racconto e di andare incontro agli altri. Non smetterò mai di ripeterlo: scrivo su di me perché sono solo e ho bisogno di incontrare gli altri. Scrivo su di me nel tentativo di capire me stesso e gli altri. Scrivo su di me proiettandomi in situazioni immaginarie, ne tentativo di decifrare il mondo».

È quanto scrive Sergio Blanco nel volume Autofinzione. L’ingegneria dell’Io, volume pubblicato con fiuto e tempestività editoriali da CuePress di Mattia Visani insieme alla raccolta dei testi teatrali: Tebas Land, L’ira di Narciso e Il bramito di Dusseldorf. Quest’ultimo testo visto nell’edizione Vie del 2019.

I tre testi teatrali si richiamano, la scrittura di Blanco ha un suo andamento carsico, è come se alcune parole link, alcuni dialoghi facessero da collegamenti ipertestuali non solo fra le diverse drammaturgie ma anche e soprattutto nella costruzione di quell’autofinzione del sé che Blanco racconta nella sua riflessione saggistica. Nessuna pretesa di novità, l’autofinzione è un escamotage narrativo che ha i suoi illustri predecessori che Blanco chiama in causa nell’excursus storico/letterario che precede l’illustrazione della sua prassi di autofinzione, della necessità di raccontarsi mentendo e nella menzogna facendo emergere brandelli di verità, di autenticità. L’autore offre un excursus autorale all’insegna di autori che hanno fatto di loro stessi soggetti di autofinzioni, di biografie ideali, story teller di una vita destinata a farsi una, nessuna e centomila, di tutti e di nessuno. E allora Blanco spazia da San Paolo a Sant’Agostino, da Montaigne a Rousseau per arrivare a Rimbaud e Nietzsche, senza dimenticare Freud e prendendo come auctoritas Serge Dubrovsky quando scrive: «L’autofinzione è una finzione di fatti e avvenimenti strettamente reali». Tutto ciò ha una sua direzione precisa, un modus operandi che porta a cercare l’alterità in sé e il sé nell’alterità.

I due volumi mettono nero su bianco la poetica di Sergio Blanco, sono una lettura stimolante, a tratti prevedibile, ad altri tratti terrificante per l’insistenza su violenza e sesso, nel segno di una corporeità che punisce e resuscita al tempo stesso. Intrecci e storie che di volta in volta vengono smentite, le storie biografiche sono all’ordine nella narrazione di Blanco. Se Autofinzione. L’ingegneria dell’Io pone i presupposti teorici, anzi elabora la teoresi partendo dalla prassi, è nei testi che si svela e che si concretizza la capacità di incastrare storie, di spiazzare il lettore/spettatore e di costruire un dialogo su sé che trasforma Sergio Blanco e la sua opera in oggetti di narrazione e soggetti d’autore. Nel Bramito di Düsseldorf la presenza del drammaturgo alias Sergio Blanco è messa in crisi dalla morte del padre. Perché l’autore è a Düsseldorf? Per presenziare alla mostra dedicata all’omicida seriale Peter Kurten oppure per firmare il contratto in qualità di sceneggiatore di film porno? Tutto ciò è messo in crisi dalla morte (reale?) del padre… In tutto ciò s’inseriscono riferimenti a L’ira di Narciso, anche in quel caso serial killer e sesso vanno di pari passo, ma anche a Tebas Land, per l’interrogativo posto sulla figura paterna. Questo per dire che nel volume che riunisce i testi del drammaturgo franco/uruguaiano c’è la dimostrazione, la realizzazione di una estetica che gioca sul crinale della menzogna e della verità, sulla costruzione di un Sé che, per quanto autentico, è sempre sé costruito, riflesso di un mondo, degli incontri che si fanno, di quella irrefrenabile necessità di mentire a sé stessi e agli altri per essere il più credibili possibile.

La lettura dei tre testi è una lettura che a tratti infastidisce per la sua svergognata pornografia del sé, è una lettura che inquieta e che mostra come la realtà e con essa la verità siano un prisma dalle molte facce in cui è difficile venirne a capo. La sicurezza arriva solo dalla scelta di poter scegliere ciò che è vero, anche se vero non è, ciò che è reale anche se reale non lo è. Tutto può essere credibile e al tempo stesso, quando si crede di aver trovato un bandolo della matassa narrativa, arriva lo spiazzamento, nutrito dalla consapevolezza della finzione… questo accade nelle pièce del drammaturgo e regista franco-uruguaiano che, alla prova della pagina scritta, reggono e restituiscono l’acume di un artista che ha conquistato il pubblico l’anno scorso con El Bramito di Düsseldorf, uno spaccato dell’indefinibile realtà in cui lo spettatore è chiamato a riflettersi, sballottato fra essere e apparire, racconto e vita, verità e finzione.

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13 Febbraio 2020

Famiglie arcobaleno prendono la scena

Francesca Saturnino, «Hystrio», XXXIII-1

Giugno 2016. Era da poco stato approvato il decreto Cirinnà quando, nel teatro di Castrovillari, al festival Primavera dei Teatri, debuttò o, per meglio dire, deflagrò l’anteprima nazionale di Geppetto e Geppetto, lavoro prezioso e delicatissimo di e con Tindaro Granata, Angelo Di Genio e un gruppo di attori affiatati, che racconta in maniera estremamente semplice e reale la situazione delle famiglie omogenitoriali e le loro vicissitudini. Lo spettacolo in questi anni ha riscosso grande successo di pubblico in tutt’Italia, spesso accompagnato da dibattiti pubblici con autore e compagnia. Mentre Familiae, raccolta inedita dei testi Antropolaroid e Invidiatemi come io ho invidiato voi e la prima edizione di Geppetto e Geppetto di Tindaro Granata, è uno dei libri teatrali più richiesti nelle grandi librerie. Da qui la decisione da parte della Cue Press di rieditare la raccolta con l’aggiunta della versione definitiva della fortunata drammaturgia Geppetto e Geppetto. I tre testi, accompagnati dall’introduzione di Damiano Pignedoli e la postfazione di Carmelo Rifici, sono un tuffo nell’universo drammaturgico del talentuosissimo auto-attore siciliano: dal monologo in dialetto stretto, ritmico e cantilenante di Antropolaroid, al parlato scomposto di una lingua naufragata in Invidiatemi come io ho invidiato voi, fino al linguaggio quotidiano, emotivo e reale del nucleo familiare di Luca e Tony, i due padri di Geppetto e Geppetto. Al centro delle diverse scritture che presentano stili e dispositivi drammaturgici diversi, il perenne incontro/scontro tra identità, famiglia, società e il dispiegarsi lieve e lirico di esistenze in bilico e al limite, tra libertà e necessità, spinta vitale e dogmi, che sono alla base di quello che chiamiamo Teatro.

29 Gennaio 2020

Anni incauti: l’invenzione di Dom

Attilio Scarpellini, «Qui si comincia — Rai Radio 3»

Antologia della rivista Ampio Raggio. Esperienze d’arte e di politica: Rivista semestrale diretta da Bruna Gambarelli per la Compagnia Laminarie, la rivista del quartiere Pilastro di Bologna pubblicata per festeggiare i dieci anni di insediamento dell’iniziativa.Ampio Raggio accompagna le attività del teatro Dom la Cupola del Pilastro, gestito a Bologna dalla compagnia Laminarie (Premio Ubu 2012), con l’intenzione di contribuire alla sua storia e alla sua attività, focalizzata su una pratica di teatro in dialogo con la necessità.

Gli interventi che compongono questo libro sono di artisti studiosi cittadini che hanno attraversato le pratiche teatrali della compagnia Laminarie da quando, dieci anni fa, si è insediata al Pilastro per fondare lo spazio Dom. Gli autori dei testi sono stati invitati a rileggere gli articoli pubblicati nella rivista Ampio raggio. Esperienze d’arte e di politica che hanno accompagnato la costruzione di un luogo di pratiche e riflessioni in una terra di confine. E a riprendere il filo di alcuni tra quei contributi, quasi come spartiti da variare e arricchire di temi e motivi ulteriori, tanto il materiale di partenza è ricco di possibilità espressive. Ne è venuta una concertazione di singolare ampiezza e ricchezza che riceviamo come un dono.

La rivista, già a partire dal titolo, vuole riflettere ad ampio raggio sull’arte e inseguire una luce viva e sottile, diretta a illuminare di volta in volta un sito e i suoi paraggi. Una rivista piccola da portare in tasca, che inviti alla collaborazione, alla ricerca, allo scambio, a stretto contatto con i movimenti, le associazioni, gli abitanti del quartiere e della città di Bologna, nonché con persone affini e diverse di altri luoghi e città.

«È una rivista di piccolo formato, composta da contributi brevi, puntuali e antidemagogici, seguiti da un sunto in inglese, impaginati dalla grafica mossa di Alex Weste, e intervallati da foto che sembrano frammenti d’uno specchio da ricomporre a fine lettura.
Si chiama Ampio Raggio, e la produce il gruppo teatrale delle Laminarie, diretto da Bruna Gambarelli e insediatosi al Pilastro sotto la cupola del Dom. La sede, adiacente alle scuole, è diventata presto un punto di riferimento sia per questa periferia sia per movimenti culturali di portata internazionale. […] I temi sono tanti, ma il filo che li tiene insieme è chiaro. Radicandosi nel quartiere più ‘difficile’ di Bologna, le Laminarie si chiedono come organizzare una cultura che sia aperta ma non pubblicitaria, rigorosa ma non di casta: e Ampio Raggio è già una nutriente».

27 Gennaio 2020

Vizi e difetti dell’italica mediocrità. Servilismo vigliaccheria corruzione. Cinecampionario di tipologie. Cioè Alberto Sordi

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Mentre per il centenario della morte (15 giugno 1920) è annunciata una grande mostra a Roma, a cura di Vincenzo Mollica, Alessandro Nicosia, Gloria Satta (7 marzo – 29 giugno), l’Editore Cue Press pubblica un volume di Maurizio Porro, Alberto Sordi, in edizione riveduta e ampliata: un’occasione per riflettere su come gli storici del cinema e del teatro debbano accostarsi a un ‘fenomeno’ che ha caratterizzato persino la vita sociale di un popolo.

Compito degli studiosi, infatti, è quello di sezionare, separare, distinguere, individuare le fonti, chiarire le loro funzioni in rapporto agli eventi storici in cui ‘il fenomeno’ ha iniziato a farsi conoscere.

Maurizio Porro, oltre che cronista, è anche uno storico. Non per nulla, Alberto Bentoglio, Direttore del Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell’Università degli Studi in Milano, lo ha voluto come docente di Storia della Critica dello Spettacolo alla Statale. Uno storico che dispone di innumerevoli documenti nella sua ricca biblioteca, ma è stato ed è anche un testimone di quello che scrive.

Nel suo Alberto Sordi, prima di approfondire il grande attore cinematografico, Porro ha voluto ricercarne le ‘fonti’ teatrali, individuando in esse le invenzioni di quei ‘caratteri’, di quell’arte di arrangiarsi, tipici dei cittadini italiani. Sordi, come attore, nasce e Milano, iscrivendosi alla scuola dei Filodrammatici, frequentata da Giorgio Strehler e Franco Parenti, dalla quale non viene accettato per il suo accento troppo romanesco. A Milano era andato per lavorare come assicuratore (stipulava polizze per la vita). Egli, però, voleva fare ben altro, magari lavorare nella Rivista.

Porro ci racconta il primo incontro importante della sua vita professionale con l’impresario Angelo Muzio che gli propose di realizzare uno sketch comico in uno spettacolo di balletti, grazie al quale debuttò al Teatro Dal Verme. Fece presto a farsi notare, tanto da essere scritturato (1938-1939) dalla Compagnia Riccioli-Primavera, con cui cominciò a imparare il mestiere, iniziando a conoscere i meccanismi di ricezione del pubblico, quel pubblico a cui dedicherà tutta la sua vita d’attore e che sempre ringrazierà perché diceva di dovergli tutto.

Seguiranno gli anni dell’avanspettacolo, recitando nella nuova edizione di Za-Bum nel 1943, con uno sketch in cui dimostrava come un pazzo potesse diventare dittatore. La prima grande occasione gli fu offerta da Garinei e Giovannini che, nel 1945, lo scritturarono per Soffia so’. Intanto, vanno segnalati due successi particolari: la vittoria al concorso indetto dalla MGM per doppiare Oliver Hardy e la scrittura alla Radio con una trasmissione che si intitolava Vi parla Alberto Sordi. La radio, a quei tempi, sanciva il successo di un attore, oltre che la notorietà. Basterebbe ricordare le trasmissioni di Franco Parenti (Anacleto il gasista), Tino Scotti (Buon giorno Buonasera) e Dario Fo (Poer nano) che, grazie ai loro sketch esilaranti, poterono accedere al grande pubblico. Sarà ancora Milano a offrirgli una ulteriore opportunità: Remigio Paone lo scelse come partner di Wanda Osiris in Gran Baraonda (1952), con la regia di Garinei e Giovannini. Sordi veniva da un fiasco clamoroso dovuto allo Sceicco bianco (1951) di Federico Fellini, diventato successivamente un film cult.

La vera storia di attore cinematografico, con pieno successo, la deve a I vitelloni, sempre di Fellini, che gli fece vincere il Nastro D’Argento a Venezia. Fu l’inizio di una carriera che durò fino al 1998.

A Sordi dobbiamo la trasformazione della maschera individuale in maschera sociale, avendo portato sullo schermo un campionario di vizi e difetti di tutte le tipologie di italiani: dal mediocre burocrate all’essere servile, anticipando Fantozzi, dal mammone allo scapolo, dal vedovo al borghese piccolo piccolo, dall’inetto all’imbroglione.

La maschera ‘Sordi’ non è quella ‘nuda’ di Pirandello che mette in gioco i flussi identitari: è la maschera del quotidiano che coinvolge l’uomo di potere e l’uomo della strada, è quella del vigliacco, del pavido, del corruttore e del corrotto, una maschera che si tinge di ironia, di sottile umorismo, comica e tragica contemporaneamente e che, in alcuni casi, attinge alla buffoneria.

Nel volume, Porro raccoglie una serie di giudizi di Comencini, Lattuada, Loy, Risi, Morandini, Montesano, Scola, e lo arricchisce con due sue lunghe interviste e con una iconografia ragionata.

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6 Gennaio 2020

La grande avventura d’un teatro minore. Amato dai Futuristi. Tra acrobati, giocolieri e chanteuses. Ecco il Café Chantant

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

A chi voglia conoscere la storia del Café Chantant in Italia, dalla sua nascita agli ultimi strascichi del secondo Novecento, consiglio di leggere il libro di Rodolfo De Angelis: Café-chantant, pubblicato da Cue Press, nella Collana «I saggi del teatro», a cura di Stefano De Matteis, a cui dobbiamo anche la pubblicazione nel 1980 di Follie del Varietà, 1890-1970 (Feltrinelli), coadiuvato nella curatela da Martina Lombardi e Marilea Somaré. Follie del Varietà, 1890-1970 costituisce una specie di arricchimento al libro di De Angelis, coinvolgendo, con brevi scritti di ricordi personali, impresari, comici, soubrettes, critici, tutti attenti a raccontare la grande avventura di ‘un teatro minore’ che ha poco da invidiare al teatro borghese del tempo.

Nella seconda metà dell’Ottocento, grazie a una nuova legge di liberalizzazione in materia teatrale, si affermarono nuovi generi che favorirono l’estensione dello spazio teatrale dal palcoscenico al Caffè, segnando il passaggio da un luogo di dibattito e di riflessione a un luogo di divertimento.

È chiaro che, ogniqualvolta nasce un genere nuovo, non basta indagarlo esteticamente, anzi diventa necessaria una indagine di tipo sociologico proprio perché, la diversità dei generi, presuppone pubblici diversi, con differenziazioni di classe sociale, alle quali corrispondono modalità fruitive a loro volta differenti dovute a forme di adesione al genere scelto che rispecchiano la formazione culturale dello spettatore. Basterebbe elencare i generi che si affermarono nel periodo indicato: dal Melò al Melodramma, dal Café Chantant al Varietà, dall’Avanpettacolo al Music Hall, per capire le preferenze di un pubblico che offrono uno spaccato dell’Italia liberale e, successivamente, di quella Umbertina e Giolittiana, con i primi successi dei socialisti. Il pubblico che frequenta il Café Chantant è quello di strada che non va in cerca della legittimazione sociale come quello dei teatri borghesi.

Al Café Chantant bastava una pedana, un pianoforte, una cantante e un’attrazione per far diventare complice lo spettatore, libero di intervenire, durante lo spettacolo, con approvazioni e disapprovazioni, col consenso e il dissenso. Il momento d’oro del Café Chantant coincide col primo decennio del Novecento, proprio quando inizia l’attività Rodolfo De Angelis che, da apprendista ragioniere, si vede catapultato sulle tavole di palcoscenici improvvisati.

Secondo De Matteis, De Angelis non fu né un grande comico, né un grande artista, bensì un buon cantante e, successivamente, un ottimo organizzatore, oltre che un testimone. Dobbiamo a lui il lungo racconto di questo genere, in particolare, di quanto avveniva nei locali di Napoli e Milano, con la capacità di farci rivivere le programmazioni dei Café Chantant, raccontandoci non solo degli artisti, ma anche dei tirasipario e dei portacesti, ai quali si doveva il successo o l’insuccesso dello spettacolo. Si sofferma, inoltre, sugli ‘ordini del giorno’, dove si leggeva: «Ogni minuto di ritardo sarà multato», sui vari ‘numeri’ che venivano eseguiti, sulla spartizione del repertorio. Indugia anche sul malcostume degli spettatori, spesso chiassosi e irriverenti, pronti a evidenziare i loro gusti sessuali, invocando l’artista tettona e ‘cicciuta’, con le divette che si dividevano gli spettatori, che, per loro, si trasformavano in un vero e proprio incubo.

Fondamentale il capitolo che De Angelis dedica alle attrazioni, elencandole quasi tutte: si va dagli acrobati, ai danzatori sul filo, al giocoliere, all’uomo serpente, al ventriloquo, al fachiro, al lanciatore di coltelli, al trio ciclistico, fino ai Quadri plastici che tanto piacevano ai Futuristi, con i quali De Angelis iniziò una collaborazione, non solo come autore insieme con Marinetti e Cangiullo del Teatro della sorpresa, di cui si possono leggere, nel libro, i Manifesti, ma anche come organizzatore della Compagnia del Teatro Futurista che, a dire il vero, non ebbe lunga vita.

Negli anni Trenta, De Angelis registrò un successo travolgente con la canzone: Ma cos’è questa crisi, che lo fece vivere un po’ di rendita, dato che il Café Chantant mostrava già il suo declino.

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2 Gennaio 2020

Teatro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Dice Jordi: «…ho paura».

Risponde Anna: «…siamo tutti spaventati».

Queste battute poste a chiusura de Il principio di Archimede (2012) costituiscono il sottile filo conduttore che attraversa il Teatro del catalano Josep Maria Mirò raccolto in questo prezioso e importante volume di Cue Press.

I due personaggi, rispettivamente un giovane estroverso istruttore di nuoto e la severa direttrice, affiancati dal riservato e composto Hector, agiscono nello spogliatoio degli istruttori di nuoto di una piscina che all’improvviso si trova al centro di uno scandalo per colpa di un innocente bacio dato da Jordi a un bambino spaventato dall’acqua. La diffusione della notizia attraverso i social network si trasforma in accusa di pedofilia da parte dei genitori degli allievi, di cui è portavoce David, fino a diventare psicosi collettiva. Il testo de Il principio di Archimede assorbe l’elemento tragico e lo diluisce in una griglia di dialoghi di natura psicologica che bene disegnano la precarietà delle dinamiche interpersonali e sociali quando chiamate a confrontarsi con un fatto destabilizzante. Realtà e falsità si confondono e liberano la paura dell’irrazionale. È questo il male oscuro, secondo Mirò, dell’uomo moderno.

Il gioco capriccioso e inquietante dei timori mina il perbenismo e il conformismo della giovane coppia protagonista di Nerium Park: il loro lussuoso appartamento appena acquistato in un quartiere residenziale di nuova costruzione si trasforma in una cella delle torture fino al tragico epilogo. Mirò costruisce un testo oscillante tra commedia familiare e thriller contaminata da elementi vagamente kafkiani per radiografare gli effetti della crisi economica che mette in difficoltà i progetti di Bruno e Anna sempre più tormentata dal sentirsi spiati dai vicini, minacciata dalla presenza di uno strano individuo accampato abusivamente nel caseggiato che incuriosisce l’uomo al punto da diventarne amico mentre ciò aumenta il panico nella donna. Il fattore ansiogeno destabilizza le labili certezze dell’inconscio.

Il principio di Archimede e Nerium Park sono stati tradotti da Angelo Savelli e presentati con successo in prima nazionale al Teatro Rifredi di Firenze. Rimangono invece inediti per le platee italiane Dimentichiamo di essere turisti e Tempi selvaggi, commedie composte da Mirò nel 2017. Sono, questi, testi molto interessati e di pregevole spessore letterario perché articolano l’analisi del disagio/turbamento come vissuto dai personaggi in un certo ambiente. Può essere familiare come la zona residenziale composta da quattro appartamenti con prato e piscina in cui abitano le quattro coppie di Tempi selvaggi; oppure diventano i luoghi argentini incontrati dagli spagnoli Carme e Martì durante un loro viaggio che da evasivo si trasforma in ricerca di identità e di memoria come raccontato nel sorprendente Dimentichiamo di essere turisti.

In merito ai contenuti affrontati dal drammaturgo, il direttore artistico del Teatre Nacional de Catalunya Xavier Alberti sottolinea l’efficacia con cui trasferisce nel linguaggio teatrale «il malessere di persone, di personaggi, di verità da rappresentare, di emozioni che cercano un nuovo contesto ideologico, dei sopravvissuti che forse saremo, per tornare a convocare la tribù in assemblea e stipulare nuovi patti di convivenza, in cui il malessere occupi il posto che gli spetta in questa società instabile, in movimento, e che ogni tanto espelle quello che non è più capace di digerire» (p. 7).

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16 Dicembre 2019

Io, l’altro. Il teatro di Sergio Blanco

Alessandro Iachino, «Teatro e Critica»

Io. Soltanto la prima persona singolare, il soggetto che agisce o subisce, il cartesiano ego cogitante: solo l’io, nient’altro. Un territorio che trova il proprio confine – concreto, e ciò nonostante apparente – nel corpo, e che tuttavia sembra in costante e altalenante metamorfosi tettonica: ora in grado di accogliere e conquistare sconfinate porzioni di mondo, ora di restringersi e contrarsi in recessi di ombra. È tutto qui – ed è così immenso – lo spazio nel quale Sergio Blanco si muove e muove con sé una piccola folla di anime: un paesaggio che lo scrittore franco-uruguaiano, più che cartografare, di volta in volta inventa, edifica in atti e battute, in scene e prologhi che meticciano l’autobiografia con l’invenzione. Lungi dal costituire una declinazione inedita di un genere canonico, l’autofinzione – termine coniato da Serge Doubrovsky già nel 1977 per descrivere il proprio romanzo Fils – sembra però aver trovato, grazie a Blanco e alle sue tante creazioni, una peculiare legittimazione etico-politica, grazie alla quale tentare di schivare qualsiasi facile accusa di attitudine ‘ombelicale’ – invero più diffusa in ambito letterario che teatrale – e tradurre in «espressione del bisogno di sentirsi amati», in «urgenza dell’incontro con l’altro» l’ormai nota trasposizione sul palco di brandelli di vita vissuta: e sognata.

Pubblicato da Cue Press nella collana Gli artisti e tradotto da Anabella Caneddu, Autofinzione. L’ingegneria dell’io è il breve saggio – inteso dall’autore nel suo senso di «prova, luogo di dubbi, di quesiti e interrogativi» – con il quale Blanco offre ai lettori la propria interpretazione di tale dispositivo narrativo, individuando – forse con un approccio eccessivamente antologico e sommario – una serie di ‘scritture sull’io’ nelle quali riscontrarne le forme prodromiche e i primi tentativi di sistematizzazione: dalla Lettera ai Galati di San Paolo al Libro della Vita di Santa Teresa, dall’Ermeneutica del soggetto di Michel Foucault alle riflessioni di Virginie Despentes e Paul Ricoeur. È tuttavia nella sezione conclusiva del volume, intitolata Domande a me stesso: perché l’autofinzione?, che Blanco affonda lo sguardo nel processo creativo, giustapponendo a un ‘decalogo di un tentativo di autofinzione’ sezioni tratte dalle sue opere, in un inesausto scambio tra teorizzazione e risvolto scenico, tra idea e parola, tra scrittura e teatro. Se la narrazione dell’Io è «un semplice tentativo di capire me stesso per arrivare a capire gli altri», i drammi di Blanco – già insigniti di alcuni tra i più prestigiosi premi del settore – mettono al centro le infinite possibilità di un’esistenza quotidiana e riconoscibile: quella di uno scrittore di successo, dal doppio passaporto e dalla sessualità fluida, in un travaso che tuttavia confonde gli snodi reali e le vicende accadute con la loro affabulazione più fantasiosa. Al lettore e allo spettatore è impedito sapientemente di distinguere fra verità e finzione, tra romanzo e documento, in un rifiuto netto di qualsiasi dogmatismo dello sguardo, e in una nuova versione della verosimiglianza manzoniana che racconta l’oggi attraverso lo sguardo di un unico individuo, sia esso rivolto alla realtà o proiettato verso l’immaginazione.

Chissà se S, drammaturgo trentanovenne, ha realmente proposto al Teatro San Martín di Buenos Aires un progetto che avrebbe coinvolto Martín, un giovanissimo parricida. Chissà se è stato proprio di giovedì che Federico ha partecipato al provino per interpretare l’assassino a teatro. Chissà se il corpo del padre di Martín è stato realmente appoggiato al frigorifero dell’abitazione per un tempo così lungo, e se questa idea abbia davvero impressionato S. con tale forza. Tebas Land, candidato al premio UBU 2019 come miglior testo straniero messo in scena da compagnie o artisti italiani (nello specifico Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi, per la versione diretta da Angelo Savelli e portata in scena da Ciro Masella e Samuele Picchi), costituisce l’exemplum di una scrittura che gioca scopertamente con i piani temporali, accostando il racconto del passato con la sua immediata resa scenica, e che nella mistificazione di una vicenda di colpa e possibile redenzione trova l’occasione per un’indagine sul mito di Edipo e sul senso stesso del fare teatro. Proprio in occasione del debutto nazionale dello spettacolo, Cue Press ha raccolto in volume tre testi di Blanco nella traduzione firmata da Savelli: oltre a Tebas Land, L’ira di Narciso e quel Bramido de Düsseldorf candidato al premio UBU 2019 come miglior spettacolo straniero, presentato in Italia nella versione diretta da Blanco stesso. A Savelli dobbiamo una resa piana e accurata del dettato, esito collaterale di un pluriennale progetto di ricerca e scouting focalizzato sulla nuova drammaturgia contemporanea, in grado di trasformare progressivamente il palcoscenico di Rifredi nella casa, tra gli altri, di Eric-Emmanuel Schmitt, di Rémi De Vos, di Josep Maria Mirò: un luogo dove, direbbe Blanco, intraprendere una volta ancora quel «percorso che si snoda al di là di sé stessi per dirigersi verso un Altro».

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23 Novembre 2019

Premio Fiesole

Prestigioso riconoscimento conferito dal Comune di Fiesole

Cue Press ha ricevuto il Premio Speciale Fiesole 2019, un riconoscimento che celebra eccellenze e innovazioni nel panorama culturale.

Il Premio Fiesole è un prestigioso riconoscimento assegnato annualmente a personalità, istituzioni o realtà che si distinguono per il loro contributo innovativo e significativo alla cultura, all’arte e alla società.

Ideato per celebrare l’eccellenza in diversi ambiti, il premio evidenzia l’importanza di iniziative che arricchiscono il panorama culturale, promuovendo valori di creatività, tradizione e sperimentazione.

La giuria ha premiato la casa editrice per il suo straordinario contributo al rilancio dell’editoria teatrale, un settore spesso trascurato, con un approccio innovativo che coniuga tradizione e contemporaneità. L’uso di tecnologie editoriali avanzate ha permesso di unire agilità digitale e qualità del cartaceo, rendendo accessibili opere altrimenti dimenticate:

«Una casa editrice che ha solo sette anni di vita ma che sta riuscendo in un compito che sembrava impossibile: rilanciare l’editoria teatrale (Mattia Visani, anima e fondatore, proviene dall’esperienza di Ubulibri), non senza significative incursioni in campo cinematografico, con la pubblicazione a ritmo serrato di un ampio ventaglio di titoli. Guardando contemporaneamente – per quanto riguarda il teatro – ai testi classici dei grandi maestri e teorici del passato (Mejerchold, Stanislavskij, Appia, Vachtangov, Craig) e agli studi e saggi di studiosi che hanno lasciato il segno nell’indagine sulla storia e i linguaggi della scena, ma anche, con un occhio attento e vivace, agli autori, ai testi, ai teatranti di questi ultimissimi anni, entrando anche nel vivo nel dibattito teatrale di inizio millennio. E il campo di interesse sono al tempo stesso l’Italia e il resto d’Europa e del mondo. Il punto di partenza dell’attività di Cue Press è quello dell’editoria digitale: l’utilizzo di tecniche di produzione editoriale avanzate e a basso costo la cui agilità permette di raggiungere risultati pratici altrimenti impensabili ha consentito però anche il rapido ‘sbarco’ sul cartaceo, con libri tradizionali che affiancano le versioni eBook e digitale interattiva dei diversi titoli. Libri che apparentemente sembrano non concedere nulla alla ‘bellezza’ esteriore del prodotto ma che invece hanno un loro stile, lineare e rigoroso, in sintonia con quella che è la logica operativa di Cue Press. «Superare gli steccati che separano la produzione settoriale dalle logiche del mercato e dell’imprenditoria. Restituire valore commerciale ad opere che i consueti standard di produzione hanno condannato alla scomparsa»: questi gli obiettivi dichiarati della casa editrice Cue Press. Obiettivi anmbiziosi che Mattia Visani e il suo gruppo stanno rendendo raggiungibili e non più utopici come potrebbero sembrare».

Con il Premio Fiesole, Cue Press vede riconosciuto il proprio impegno nel dare nuova vita all’editoria teatrale, trasformando utopie in realtà.