Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

15 Maggio 2020

Lettere di August Strindberg

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Ha il ritmo narrativo di uno splendido romanzo epistolare questo volume curato da Franco Perrelli, illustre studioso di teatro scandinavo, che impagina le Lettere di August Strindberg seguendo un assemblaggio finalizzato a intrecciare la corrispondenza epistolare con la vita e il percorso creativo dello scrittore. È lo stesso drammaturgo e romanziere svedese a suggerire questo procedimento: il suo contatto con la letteratura avviene infatti attraverso la stesura di lettere che lo accompagnano per tutta la vita. In esse si riconosce lo stile martellante e sperimentale da lui stesso definito ‘telegrafico’. Perrelli sceglie con cura e maestria i documenti tra i tanti raccolti nell’edizione svedese dell’epistolario contenuto in venti volumi e non ancora completata.

Simili a un monologo interiore desideroso di una platea di lettori, queste lettere sono indirizzate a colleghi e editori, famigliari e anche a molti compagni di scuola e di gioventù. Raccontano, vicino a qualche momento luminoso, soprattutto travagli esistenziali, aspre polemiche, tensioni intellettuali e visioni che poi emigrano nella sostanza psicologica e morali di molti personaggi teatrali e romanzati.

Con rigore scientifico e abilità letteraria, Perrelli divide il libro in cicli storici, a partire dal periodo 1849-1874 coincidente con l’attività di Strindberg in qualità di amanuense malpagato (il denaro sarà un altro capitolo doloroso) presso la Biblioteca Reale di Stoccolma, con gli esordi come scrittore e drammaturgo alle perse con la promozione di Mastro Olof nei circuiti teatrali e letterari.

La crisi psichica provocata dall’amore per l’attrice Siri von Essen, sua futura prima moglie; l’amicizia con l’influente critico Georg Brandes e la stesura de La sala rossa costituiscono le tematiche portanti dal 1875 al 1883.

Il biennio successivo, 1884-1886, si presenta dominato dal rapporto difficile e controverso con lo scrittore Bjorson e dall’accusa di blasfemia e misoginia presenti nei racconti contenuti in Sposarsi. Il processo provoca ulteriore destabilizzazione e rabbia sociale in Strindberg. Le stesure e le rappresentazioni teatrali de Il padre e de La signorina Giulia, unitamente al romanzo Autodifesa di un folle, sono gli argomenti ricorrenti nelle corrispondenze del 1887-1891.

Stati di angoscia e di pessimismo quasi apocalittico abbondano nelle lettere scritte nel 1892-1894, quando l’autore di Danza di morte divorzia con Siri per legarsi alla giovane Frida Uhl, mentre Lugné Poe firma un trionfale allestimento parigino de Il padre.

Nel titolo del celebre romanzo autobiografico Inferno si sintetizza la sostanza di un’esistenza che non muta rotta nel triennio successivo, durante il quale viene alla luce la trilogia di Verso Damasco, la sua opera teatrale dalla concezione indubbiamente più spudorata.

Completano questo articolato percorso gli anni 1899-1906. Le lettere rivelano un intellettuale attento alla famiglia – scrive molto alle figlie e alla terza moglie, Harriet Bosse, dalle quali traspare l’avvicinamento della morte; emerge inoltre l’immersione nello studio della filosofia e delle religioni in parallelo all’attività al Teatro Intimo per il quale scrive e rappresenta i suoi atti unici.

Queste lettere, accompagnate dal limpido e esaustivo testo di Perrelli e da adeguato apparato iconografico, diventano prezioso strumento di approfondimento per la conoscenza di una delle figure più inquietanti e geniali della cultura europea.

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13 Maggio 2020

Giuseppe Verdi a Napoli

Francesco Bracci, «Verdiperspektiven»

La figura di Giuseppe Verdi è stata in diverse occasioni oggetto di lavori teatrali. Un certo successo lo ottenne negli anni Ottanta After Aida di Julian Mitchell, che metteva in scena la tortuosa genesi di Otello e i rapporti fra Verdi e Boito. In tempi più vicini e venendo all’Italia, nel 2013 è andato in scena alla Terme di Caracalla a Roma Un bacio sul cuore, le donne nella vita e nella musica di Verdi, con Michele Placido e Isabella Ferrari. Lo spettacolo seguiva abbastanza da vicino The man Verdi di Frank Walker e Placido-Verdi recitava lettere realmente scritte dal compositore. Questi esempi, insieme a molti altri provenienti dalla televisione, mostrano il fascino che il più celebre operista italiano continua a esercitare sull’immaginario del pubblico, e dal punto di vista del musicologo permettono di osservare la permanenza e l’evoluzione di luoghi comuni che sono parte integrante della storia della ricezione verdiana.

Su questo sfondo ci si può avvicinare a Giuseppe Verdi a Napoli di Antonio Tarantino, andato in scena a Roma (Teatro Vascello) nel 2017 e a Milano (teatro I) nel 2018, con regia di Sandra De Falco e musiche di Azio Corghi, poi pubblicato dalla casa editrice Cue Press, con introduzione di Renzo Francabandera. Questa recensione si occupa del testo pubblicato e non dello spettacolo. Coerentemente con questa limitazione, non verrà tentata una valutazione dei meriti letterari del lavoro di Tarantino o della sua riuscita in teatro.

La pièce racconta una visita immaginaria di Verdi a Salvadore Cammarano nel 1848, durante la composizione della Battaglia di Legnano, e soprattutto durante la fase iniziale del biennio rivoluzionario. A disagio in presenza del musicista ricco e famoso, Cammarano non ha il coraggio di reclamare il denaro che Verdi non gli avrebbe versato per le loro precedenti collaborazioni. È la domestica Caterina, schietta popolana napoletana, a fronteggiare il musicista. Dopo momenti di tensione in cui il rapporto tra musicista e librettista e quello tra poeta e cameriera sembrano sul punto di rompersi, la vicenda ha esito positivo con l’entrata in scena dell’impresario Flauto, che porta una borsa piena di denaro come ricompensa per l’opera che deve ancora essere scritta. Verdi, placato, lascia il denaro interamente a Cammarano, rinunciando anche alle correzioni del libretto che aveva richiesto in maniera pignola nella prima parte.

In maniera evidentemente programmatica, Tarantino non punta a una ricostruzione storica accurata. In alcuni casi gli anacronismi sono esibiti, come quando Verdi parla di «contratti a termine» (28), gettando un ponte tra la precarietà del poeta ottocentesco e quella odierna. In altri casi si è in dubbio se l’anacronismo sia voluto o no: si parla ad esempio «Austroungarici» (27; designazione valida solo a partire dal 1867: nel 1848 l’Ungheria non era ancora una nazionalità dominante dell’impero e si stava anzi ribellando contro il dominio austriaco). Le principali licenze poetiche di Tarantino riguardano non sorprendentemente l’opera: La battaglia di Legnano fu scritta per la Roma in quel momento repubblicana e non per Napoli, dove il soggetto non avrebbe mai superato la censura. Anche il rapporto tra musicista e librettista è rappresentato in maniera quantomeno singolare, in quanto il Verdi storico esercitava un controllo molto più stretto sull’intero processo di composizione e non avrebbe rinunciato alle sue idee come fa nello spettacolo.

Volute o no, queste imprecisioni contribuiscono a delineare un Ottocento immaginario, fuori dal tempo. I suoi caratteri principali sono la natura retorica dell’espressione poetica e letteraria, l’idea onnipresente (e molesta) della patria, l’idealismo limitato e in prospettiva storica fallimentare, l’inconciliabilità fra un nord prepotente e un sud arcaico, il ritardo storico rispetto ai paesi più avanzati d’Europa. Si tratta di una vulgata e di una visione politica ormai piuttosto stabile.

L’analisi del linguaggio di Giuseppe Verdi a Napoli conferma in maniera interessante questa tendenza. Nella parte iniziale, in cui i convenevoli nascondono a stento l’incomunicabilità tra i due personaggi, sia Verdi sia Cammarano parlano una lingua ironicamente vicina a quella dell’oratoria politica di età risorgimentale: «Cosa mi venite a toglier dal suo ricovero lo spinoso e oramai quasi politico argomento del censo, con tutta l’Europa in subbuglio e che dimanda a gran voce: suffragio universale!» (14; Verdi).

O: «Altrimenti quanto di pregiato in esso risiede vien via via avvilito da dimenticanze noncuranze trascuranze, sì che ove prima eravi – per universale riconoscimento – un talento, ecco che poi quella somma di virtù vien dimezzata e poi decimata e infine nullificata» (15; Cammarano).

Questo linguaggio di cartapesta si rompe quando la tensione sale, e a quel punto emerge un fondo dialettale napoletano che, con effetto comico, contagia anche Verdi.

In quanto protagonista di un’epoca contrassegnata, nella visione dell’autore, dal fallimento di un idealismo politico incapace di comprendere la realtà sociale, è inevitabile che il Verdi di Tarantino sia un personaggio piuttosto sgradevole, come il Verdi storico probabilmente non era. Il grande musicista appare come un uomo incapace di vedere i problemi della vita quotidiana di chi gli sta intorno, compreso un collaboratore come Cammarano. Questa valutazione negativa di Verdi si oppone a quella agiografica di un’abbondante letteratura, ma non è di per sé una novità, come non è una novità che il rapporto con il denaro sia un suo tema centrale.

C’è però un notevole cambiamento di prospettiva. Per i detrattori del passato, il musicista italiano rappresentava un affarista che metteva il successo economico sopra l’arte. Alfredo Casella, ad esempio, bollava nel 1913 Donizetti e Verdi come des hommes d’affaires. Nel testo di Tarantino invece Verdi diventa un (finto) ingenuo che dall’alto della sua posizione di successo non si interessa ai problemi materiali ed economici, affrontando l’impresario del San Carlo con una dichiarazione di principio che il lettore degli epistolari verdiani difficilmente riuscirebbe a immaginare in bocca a Verdi, anche al di là del linguaggio: «E a me che me ne fotte dei grani, dei tarì, delle lire, dei talleri e degli scellini! Commendator Flaùto: l’arte è libera dalle catene del denaro!» (30).

Questo ribaltamento di prospettiva è coerente con il sostanziale disinteresse per la figura storica di Verdi. Nel confronto con Cammarano, Verdi deve rappresentare le limitazioni di un artista benestante e superficialmente idealista: il ritratto viene di conseguenza. Al di là delle inesattezze storiche, giustificabili in un testo letterario, allo spettatore/lettore per cui Verdi è qualcosa in più dell’incarnazione di un’epoca e di un idealtipo questo ritratto sembrerà probabilmente ingeneroso.

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10 Maggio 2020

Riflessioni sull’essere attore. Un atto d’amore per il teatro

Diego Vincenti, «Il Giorno»

«Dopo trent’anni di pratica, il teatro mi appare ancora come un mistero. So soltanto che ci sono due modi per fare o considerare il teatro: alla superficie o il profondità, o meglio in altezza, voglio dire proiettato nella verticale dell’infinito».

Scriveva così Louis Jouvet nel 1943 da Medellín. Ennesima tappa di un giro sudamericano, intrapreso per sfuggire all’occupazione nazista. E proprio il concetto di mistero affiancato alla grammatica teatrale, è uno dei temi che torna con maggiore frequenza in Elogio del disordine, da poco pubblicato dalla Cue Press. Ormai prezioso il catalogo di questa piccola ma vivacissima casa editrice romagnola, diretta da Mattia Visani. Basti pensare alla recente pubblicazione del cult Il teatro postdrammatico di Lehmann o a Realismo globale di Milo Rau. Ma incuriosisce particolarmente questo volume antologico curato da Stefano De Matteis, dove vengono per la prima volta tradotti in italiano una lunga serie di annotazioni, pagine di diario, lettere di una delle più grandi figure del teatro d’inizio Novecento. Per altro molto caro qui a Milano dopo il fortunato Elvira di Toni Servillo al Piccolo (testo già in passato affrontato da Strehler). Riflessioni sul comportamento dell’attore recita il sottotitolo. E infatti Jouvet studia con sguardo inquieto la propria professione, mettendo al centro dell’indagine se stesso, in un processo ossessivo di quotidiana analisi del lavoro. Un atto d’amore per il teatro. Ma per chi legge anche la possibilità di riappacificarsi con un pensiero critico e teorico messo a dura prova dal periodo. La riflessione sulla pratica artistica si presta così ad essere una più vasta visione sull’uomo e il nostro essere animali sociali. Con quel viscerale bisogno di tornare presto a «riunirsi insieme in nome del sogno».

9 Maggio 2020

Moro a teatro

Ludovico Cantisani, «minima&moralia»

Martire. Eroe. Vittima. Devoto. Corpo. Cadavere. Voce. Servo dello Stato. Statista. A partire dal momento della sua violenta morte – se non da prima – la figura di Aldo Moro è stata scomposta e reinterpretata in molte e diverse declinazioni; la maggior parte di esse rispettava quel carico di compassione e indulgenza che, per tacito accordo, si deve a un morto, fino a sfociare, in molti casi, a una certa idealizzazione. Moro a teatro, Moro al cinema, Moro in TV, Moro nei reportage, Moro nella storia: Moro ovunque insomma, in breve tempo anche nei supermercati. E se solo in tempi recenti si è iniziato a fare chiarezza sul famigerato Lodo Moro, se le dinamiche dell’attentato, della prigionia e dell’esecuzione dello statista sono agli occhi dell’opinione pubblica ancora oscure e agli occhi di alcuni storici fin troppo chiare, sono innumerevoli gli spettacoli teatrali che hanno esplorato da diverse prospettive la figura di Moro e, soprattutto, la sua morte – destino ineluttabile per le figure pubbliche zittite in circostanze violente. Il cinema aveva iniziato appropriarsi della sua morte già alla fine degli anni ottanta, con Il caso Moro di Giuliano Ferrara; Dario Fo già nel 1979 aveva pensato di mettere in scena il sequestro e la morte dello statista come «la solita fottuta tragedia classica antica», ma alla fine non se ne fece nulla; è solo sul finire degli anni novanta, in occasione del ventesimo anniversario del delitto, che due spettacoli molto diversi fra loro aprono la strada alla teatralizzazione del delitto Moro: L’ira del sole del Teatro Biondo di Palermo, in cui era coinvolta anche Maria Fida Moro, la primogenita dello statista, e Corpo di Stato di Marco Baliani, realizzato prima in una versione televisiva trasmessa dal Foro Romano e poi in una versione teatrale. Molto apprezzato dai vertici della DC di allora fra cui lo stesso Andreotti, L’ira del sole era un atto unico che si soffermava essenzialmente sul vissuto famigliare, mostrando in scena Maria Fida e Luca Moro, nipote dello statista che aveva appena due anni al momento del delitto, condurre un dialogo ideale con Aldo, rievocato in scena attraverso voice over. Corpo di Stato invece assumeva una prospettiva ben diversa, quella di un ventenne che, militante di estrema sinistra, aveva addirittura brindato assieme ai compagni alla notizia del rapimento, credendo imminente un ribaltamento dello Stato borghese; ma il rapimento si prolunga e si fa sempre più concreta la possibilità che si conclude con la morte dell’uomo, e dentro la sua coscienza e quella dei suoi compagni di lotta l’ideale della violenza rivoluzionaria deve fare i conti con un corpo prigioniero, «spartiacque per scelte fino ad allora rimandate… non più risolvibili con slogan o con pratiche ideologiche».

È però solo con il nuovo millennio che la figura di Moro diventa stabilmente protagonista di un numero considerevole di film e fiction TV, fino ad arrivare, nel 2011 e nel 2016, alla messa in scena di due opere liriche incentrate sui suoi ultimi giorni; sul versante teatrale, iniziano a prendere la parola attori e drammaturghi che al momento dei fatti erano ragazzi o a malapena bambini e, più che parlare del delitto Moro in sé, si interrogavano sui suoi effetti, sulla sua ricezione e sulla sua eredità. L’ultimo, in termini cronologici, è Con il vostro irridente silenzio, spettacolo di e con Fabrizio Gifuni che dopo una prima presentazione al Salone del Libro di Torino nel 2018 ha debuttato lo scorso anno a Pordenone ed è passato di recente sul palcoscenico del Teatro Vascello di Roma. Quello di Gifuni è senza dubbio uno dei lavori più interessanti ed originali, nella sua aderenza al testo del Memoriale; ma può essere fecondo confrontare Con il vostro irridente silenzio con altri spettacoli teatrali del nuovo millennio che siano ‘esemplari’ di un diverso modo di relazionarsi con la morte dello statista; fra di essi vanno sicuramente annoverati moro – i 55 giorni che cambiarono l’Italia di Ulderico Pesce, attore e drammaturgo lucano fra i principali esponenti del teatro civile contemporaneo, e Aldo Morto, tragedia satirica di Daniele Timpano, entrambi presentati nel 2012-2013 in occasione del trentacinquesimo anniversario della morte e tuttora rappresentati in giro per l’Italia.

moro – i 55 giorni che cambiarono l’Italia – con la “m” minuscola per evidenziare l’analogia lessicale fra Moro e morire – al pari di buona parte degli altri spettacoli di Ulderico Pesce ha la forma di un semplice monologo, rappresentabile in un teatro quanto in una piazza, in un parco quanto in un centro sociale. Se anche Timpano e Gifuni si sono avvalsi di consulenti scelti fra i principali studiosi del caso Moro – Francesco Biscione il primo, Biscione, Miguel Gotor e Christian Raimo il secondo – qui Ulderico Pesce ha scritto a quattro mani il testo del suo monologo assieme al giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro. Una frase sintetizza l’intero spettacolo: «Non l’hanno ucciso solo le Brigate Rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi anche dallo Stato».

Nel corso del suo accalorato monologo, Pesce dà voce all’instancabile ricerca della verità condotta – nella finzione scenica – da Ciro Iozzino, fratello di uno dei membri della scorta di Moro morti nell’agguato a via Fani; insospettito dalla versione ufficiale dei fatti e supportato anche da Arianna, sorella di un’altra delle guardie del corpo di Moro, Ciro arriva a parlare con lo stesso Giudice Imposimato, ma i nodi non vengono al pettine, sì moltiplicano: perché pochi mesi prima di via Fani nasce l’UCIGOS, organismo di polizia speciale alle dirette dipendenze di Cossiga? E perché quasi contemporaneamente viene smantellata la squadra antiterrorismo di Santillo? Perché Imposimato non riceve l’incarico di condurre le indagini sul sequestro immediatamente dopo l’attentato a via Fani, come prescriverebbe il Codice penale, ma addirittura nove giorni dopo la morte di Moro? La risposta finale che il lungo e sentito monologo di Pesce dà si rifà alle rivelazioni di Steve Pieczenik, psichiatra americano mandato dal governo USA in Italia a gestire il caso Moro che quasi trent’anni dopo i fatti avrebbe rivelato che furono essenzialmente Cossiga, e probabilmente anche Andreotti, a decidere – d’accordo con lui, con lo Stato italiano e con lo Stato americano – che Moro doveva morire prima che rivelasse nelle sue lettere dalla prigionia gravi segreti di Stato. Lo spettacolo di Ulderico Pesce e Ferdinando Imposimato programmaticamente non tratta della figura di Moro statista se non in termini marginali, per quanto è necessario sapere sul compromesso storico per poter seguire adeguatamente il discorso messo in bocca a Ciro Iozzino; questa decisione da un lato rende moro – i 55 giorni che cambiarono l’Italia un buon sunto di tutte le teorie e le supposte cospirazioni che hanno fatto da sfondo al caso Moro, dall’altro lato rischia – consapevolmente – di ridurre Aldo Moro a un semplice ‘morto’, un omicidio di Stato su cui è dovere civile fare luce e chiarezza senza che ciò comporti anche un recupero autentico e a trecentosessanta gradi della figura dello statista, il cui pensiero e la cui prassi politica sono stati inevitabilmente messi in ombra dall’omicidio. E la verità finale, forse ovvia, di certo urlata, risuona, nel bene o nel male, come il compianto – che al pari di ogni canto funebre non può non idealizzare il caro estinto – su un uomo di Stato ucciso dal suo stesso Stato.

«Desolato, io non c’ero quando è morto Moro. Aldo è morto senza il mio conforto. Era il 9 maggio 1978. Non avevo ancora quattro anni. Quando Moro è morto, non me ne sono accorto… Che un certo Moro fosse morto l’ho scoperto alla televisione una decina di anni dopo, grazie a un film con Volontè. Un film con Aldo morto. Ci ho messo un po’ a capire fosse tratto da una storia vera. Oh, mio Dio! Hanno ammazzato Moro? E quando? Perché? E come?»

Con questo affastellarsi di interrogativi inizia Aldo morto, spettacolo del drammaturgo e attore romano Daniele Timpano, classe 1974; lo spettacolo è stato presentato nel 2012 per poi ricomparire in una particolare versione nel 2013, in occasione del trentacinquesimo anniversario della morte di Moro, quando il performer trascorse cinquantaquattro giorni rinchiuso in una stanzetta sul palco del Teatro dell’Orologio grande quanto la cella di Moro, in costante diretta streaming col Web. Se lo spettacolo di Pesce assumeva la prospettiva di un personaggio indirettamente coinvolto nel caso Moro per ragioni famigliari, nel corso del suo one-man-show Daniele Timpano muta camaleonticamente voce, movenze e punto di vista, come tipico anche degli spettacoli realizzati in coppia con la compagna Elvira Frosini, per portare sul palco le più disparate opinioni su Aldo morto: ora è un fittizio figlio di Moro, ora è un brigatista non pentito, ora è un integrato del sistema, ora è Renato Curcio che indossa la maschera di Mazinga. Aldo Morto, terzo e ultimo episodio della Storia cadaverica di Italia iniziata con il resoconto delle vicende del cadavere di Mussolini (Dux in scatola) e proseguita con un excursus risorgimentale su Mazzini (Risorgimento pop), è una feroce critica – a volte travestita da inno – al feticismo post-mortem o post-Mor(t)uus, con un’automobile rossa onnipresente sul palco con la quale il cangiante protagonista tradisce un rapporto morboso, quasi infantilistico. Non sorprende allora la sfilza di ‘vaffanculo’ indirizzata ad una lunga serie di altri autoproclamati esegeti – fra cui Marco Bellocchio e lo stesso Ulderico Pesce – che, al teatro o al cinema, hanno trattato la figura di Moro in termini agiografici, come se fosse – è questa la parola chiave del lavoro di Timpano – un santino. Con la sua satira analitica, con il suo dirompente sguardo simil-sociologico, Aldo Morto – al pari del successivo Acqua di Colonia del 2016, forse il capolavoro dei Frosini-Timpano – riesce pienamente a inquadrare un problema, la sostanziale rimozione di una riflessione seria e ponderata su Moro come figura a favore di uno sciacallaggio a tratti morboso e a tratti opportunista su Moro come corpo morto e sanguinante; di certo si esce di sala con l’interesse a conoscere lo statista, la sua vita e la sua morte in una maniera meno agiografica, meno banalizzante – ma laddove Pesce straripava di informazioni, con la sua prospettiva multiforme e quasi modernista Daniele Timpano sembra puntare a far emergere nello spettatore un’inquietudine, un bisogno di sapere di più – quasi un sospetto alla Ricoeur – secondo una modalità di narrazione apparentemente più confusa, forse più fine.

Lo spettacolo di Gifuni sembra localizzare, e risolvere in partenza, alcune delle tensioni che avevano animato i due precedenti spettacoli. Onde evitare ogni agiografia, ogni vittimismo, ogni re- e sovra-interpretazione, Gifuni si attiene strettamente al testo del Memoriale e delle Lettere dalla prigionia, effettuando giusto i tagli e gli spostamenti necessari per condensare gli scritti di Moro in un monologo di un’ora e mezza. Forte della sua cultura umanistica, con echi espliciti dal Cicerone delle Epistulæ e ancor di più delle Catilinarie, nei due mesi scarsi della sua prigionia Moro era andato componendo un corpus di testi di grande pregio stilistico oltre che di elevatissima levatura politica ed etica, ‘inspiegabilmente’ rimasto ignoto ai più anche dopo il suo avventuroso ritrovamento e la sua pubblicazione nel 1990. Non più santino, Con il vostro irridente silenzio mette in scena Moro come voce di nuovo viva, e corpo che ritorna a vivere fintantoché le luci del palco restano accese. Ascoltiamo così i suoi appelli, le sue richieste, le sue invettive, le sue preghiere, i saluti accalorati ai famigliari, incluso il sofferto ma inevitabile abbandono della Democrazia Cristiana e la dura quanto sintetica descrizione di Andreotti. Laddove Daniele Timpano scomponeva la voce narrante in un’infinità di personaggi, storici e immaginari, Gifuni dando voce al solo Moro si rivolge a un gran numero di interlocutori diversi, i vari destinatari delle lettere mandate dallo statista prima dell’esecuzione. La prospettiva dello spettacolo resta dunque ‘limitata’ a Moro, a Moro che nello spazio angusto della sua celletta riflette sull’Italia dei suoi giorni, sui rapporti di potere all’interno della NATO, sulla sua stessa esperienza umana e politica – una prospettiva parziale, ma onesta e lucida come il periodare delle lettere. La dialettica che si consuma sulla scena fra Moro e i suoi interlocutori è chiaramente sbilanciata a favore di Moro; le (spesso laconiche) risposte dei destinatari degli appelli di Moro non sono riportate, tutt’al più sono inferibili dalle parole dello statista, come nel punto in cui amaramente fa cenno a quanti ritenevano le sue lettere manipolate solo in virtù della sua grafia un po’ incerta. La vera dialettica che si consuma nello spettacolo di Gifuni è fra Moro e il mondo di oggi, di cui lo statista aveva anticipato diversi elementi – anche i più impensabili, come lo strapotere dei gruppi editoriali; Con il vostro irridente silenzio di Gifuni si staglia allora chiaramente ad indicare che più che continuare sulla scena la retorica ricerca di una verità ormai relativamente chiara nei suoi punti essenziali, si deve discutere sull’eredità di Aldo Moro e sulle ragioni che hanno portato a un suo parziale nascondimento. Forse, più che individuare una contrapposizione di vedute, può essere proficuo collocare questi tre spettacoli, variamente rimaneggiati negli anni dai loro stessi autori, nell’ambito di un’ideale e progressiva ricerca comune. E se Ulderico Pesce si era approcciato alla morte di Moro quasi seguendo la scia di sangue che continua tuttora a scorrere dal suo cadavere, se Daniele Timpano aveva invece denunciato questa attenzione verso Aldo morto a scapito di un sincero interrogarsi sul senso della sua vita e della sua morte, se Fabrizio Gifuni infine ha riportato in vita Moro per ridargli voce e corpo, un organico proseguimento di questa ricerca a più voci dovrebbe contemplare l’idea di una drammaturgia sul Moro vivente.

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3 Maggio 2020

Indagine sul Verga ‘fiorentino’ quando Verga sceglie la solitudine

Andrea Bisicchia, «Libertà Sicilia»

Quando, nel 1972, uscì il saggio di Siro Ferrone Il teatro di Verga, oggi riproposto dalle Edizioni Cue Press, la bilbiografia verghiana vantava i nomi di Sapegno, Momigliano, Flora, Russo, tutti attenti a esplorare le Opere narrative.

L’operazione di Ferrone si rivelò innovativa, non solo perché Il teatro di Verga divenne oggetto di una monografia, ma perché esso fu indagato alla luce di quanto accadeva sulla scena italiana dopo l’unità d’Italia precisamente dopo il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, che vantava già una cattedra di Letteratura drammatica (1859), affidata a Francesco Dall’Ongaro, e una Scuola di Declamazione, diretta da Filippo Berti, alla quale seguirà quella di Luigi Rasi nel 1882.

Ferrone non ha dubbi nel dichiarare Firenze ‘Capitale del teatro borghese’, non perché si oppone al provincialismo di coloro che accettavano, passivamente, l’imitazione del dramma romantico di Dumas, Scribe, Sardou, ma perché si sforzò di promuovere una drammaturgia capace di educare il gusto del pubblico della nuova Italia, promuovendo concorsi, dibattiti teorici che vedevano impegnati, oltre che il Dall’Ongaro, Lorenzo Trevisani e Luigi Capuana, diventato critico drammatico della Nazione.

Ferrone inizia la sua indagine sul Verga ‘fiorentino’, quando questi partecipa a un concorso, nella neocapitale, con un testo, I nuovi tartufi (1865) che però non ebbe successo, anzi fu bocciato; lo si può leggere nella versione curata da Carmelo Musumarra per la Nuova Antologia, con prefazione di Giovanni Spadolini.

Si può dire che, proprio in quell’anno, nacque in Verga l’amore per il teatro, che diventerà oggetto del romanzo Una peccatrice, dove il protagonista è un drammaturgo appassionato che sedurrà la contessa Narcisa Valeri, grazie alla notorietà dovuta al suo dramma Gilberto che aveva ottenuto un grande successo.

Firenze era diventata non soltanto il centro della vita politica ma anche di quella culturale e teatrale grazie alle sue undici sale, alle Accademie, agli impresari e agli intellettuali che volevano riformare tutto.

Nel 1869, durante il secondo periodo fiorentino, Verga proverà ‘un’attrazione fatale’ per quell’ambiente, pertecipando a tutti i dibattiti, durante i quali i critici si interrogavano sulle nuove soluzioni estetiche, più attente alla ricerca del vero o di quel ‘genere rusticale’ tanto caro al Dall’Ongaro.

La spinta verso la realtà comportava una diversa articolazione dei Caratteri, sia a livello narrativo che teatrale; Capuana distingueva i caratteri ‘permanenti’ da quelli ‘transitori’ , se non addirittura di ‘carne viva’. L’obiettivo era quello di estinguere il realismo sentimentale per sostituirlo con la ricerca del vero, oltre che di un nuovo sistema di valori che prediligesse l’oggettivazione della realtà, affinché l’arte si rivolgesse non al cuore ma ai sensi. Occorreva, pertanto, una nuova Riforma che andasse oltre la materia romantica e intimista, per sperimentare forme e linguaggi diversi, magari pesando all’uso del dialetto, anche se Capuana si oppose perché lo considerava inferiore sia per i mezzi che usa sia per le stesse intenzioni artistiche, benché esprimesse parole di lode per Monsu travet di Berserzio (1863) e benché altri testi dialettali si rivelassero, successivamente, dei capolavori come Cavalleria rusticana (1884), Miseria e nobiltà (1888), El nost Milan (1893).

Simili considerazioni diventeranno, per Ferrone, materia dei suoi tre volumi sul Teatro borghese dell’Ottocento, editi da Einaudi nel 1979.

Partendo da queste premesse lo studioso ci introduce alla ‘lettura’ dei testi teatrali, da Rose caduche a Cavalleria rusticana, da In portineria alla dissoluzione del verismo con La lupa, fino alla incompiuta Duchessa di Leyra che rappresenta il fallimento del disegno ciclico, dopo I Malavoglia e Mastro don Gesualdo.

Nel secolo che stava per finire, Verga sceglie la solitudine, benché continuasse a ricercare, nel teatro, alcuni punti di fuga, un teatro meno corale, come in Caccia al lupo e Caccia alla volpe, due bozzetti andati in scena nel 1901, o più attento ai problemi sociali, come Dal tuo al mio.

Per Siro Ferrone si tratta di ‘passi indietro’, di ‘rinunzia alla diretta immolazione di sè’ che gli aveva dato più soddisfazioni in sede narrativa che teatrale. Il volume è corredato da una ricchissima bibliografia.

1 Maggio 2020

Il teatro di Claudio Morganti

«Persone — Radio India»

Nella rubrica curata da Daria De Florian, l’ospite è Claudio Morganti, attore e regista di lunga esperienza nel panorama teatrale italiano.

Insieme alla conduttrice, Morganti dialoga sui temi affrontati nei suoi due volumi: La grazia non pensa (Cue Press, 2018) e Il serissimo metodo Morg’Hantieff (Edizioni dell’Asino, 2011).

Durante la conversazione, l’autore ripercorre la genesi di questi testi e ne approfondisce i contenuti, offrendo una panoramica sul suo approccio alla creazione scenica, sul senso della grazia nell’arte performativa e sul metodo di recitazione che ha sviluppato nel corso della sua carriera.

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27 Aprile 2020

Milano come Berlino? Una singolare comparazione. Non solo Deutsches Theater e Piccolo. Ma Stabili, Off & Co

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Sotera Fornaro è una studiosa di Letteratura greca e Letteratura comparata, all’Università di Sassari, ma con notevole esperienza all’interno di Università tedesche come Friburgo e Luneburg. Ha frequentato i teatri berlinesi, tanto da dedicare loro un volume: Berlino tra passato e futuro, edizioni Cue Press, ormai la sola casa editrice che pubblica libri di teatro e dello spettacolo. Non si tratta di una guida, bensì di un racconto di quanto è avvenuto, avviene e avverrà nei teatri di questa città.

Vorrei adoperare anch’io il metodo comparativo, visto che cercherò di tracciare un parallelo con quanto è accaduto e accade a Milano. La Fornaro distingue la funzione dei teatri prima della Repubblica di Weimar, durante Weimar, e dopo Weimar, per riportarci alla tragica situazione del periodo nazista e, infine, per tratteggiare la situazione di oggi.

Anche Milano ha vissuto un simile tragitto che si è concluso con la nascita del Piccolo Teatro. A Berlino, lo sviluppo urbanistico del dopoguerra è stato parallelo a quello dei Teatri Stabili, di quelli alternativi, degli Off e degli spazi industriali dismessi, convertiti in spazi teatrali. Anche Milano ha vissuto simili traslochi, in particolare dopo il 1968, quando, improvvisamente, si moltiplicarono gli spazi alternativi.

L’autrice ci informa come Berlino, proprio per i suoi teatri, sia diventata una città turistica, poiché li si visita così come si visitano i musei, per questo la definisce ‘città in transito’. Pur nelle sue brevi note, la Fornaro ricorda i grandi del passato, da Piscator a Brecht, a Muller, a Castorf, a Klaus Dort, colui che ha avviato al successo il teatro performativo, diventandone il paladino, anzi, decretandone il primato, benché, sottolinea l’autrice, parecchi spettacoli abbiano rasentato la banalità, come, del resto, è avvenuto per molti spettacoli performativi in Italia.

L’autrice dedica più spazio al Berliner Ensemble dopo Brecht, fino alla gestione Peymann, durante e dopo gli anni del terrorismo, che coincideranno con quelli del terrorismo italiano, durante i quali, si scoprirono nuovi spazi, soprattutto, in periferia, come capannoni industriali, vecchi cinema in disuso, chiese sconsacrate, palazzine abbandonate, luoghi nei quali si concretizzarono le rivendicazioni sociali, con la conseguente critica al capitalismo, che non era ancora quello finanziario e disumano di oggi. Come dire che il teatro è sempre stato ed è specchio delle società in evoluzione, pur con le loro contraddizioni.

Non meno spazio, la Fornaro dedica al Deutsches Theater, riaperto nel 1945, mentre da noi, due anni dopo, veniva inaugurato il Piccolo di Milano. Non poteva mancare il riferimento alla ‘via sacra’ di oraziana memoria, ovvero la Unterdenlinden (Unter den Linden, una delle strade più eleganti di Berlino), che divenne il titolo di un testo di Roberto Roversi, pubblicato da Rizzoli nel 1965 e realizzato al Piccolo nel 1967, con la regia di Raffaele Maiello, protagonista Gianrico Tedeschi, novello Adolfo, un uomo coi baffi che tramava ancora, non solo contro se stesso, ma anche contro chi si illudeva di vivere con le proprie illusioni.

Era il tempo dell’impegno politico dei teatri e, a questo, proposito, l’autrice cita il Maxim Gorki Theater, un teatro polivalente, come il Franco Parenti o Teatro dell’Elfo, le cui scelte evidenziavano l’aspetto politico della sua programmazione, alquanto aggressiva, pur mantenendo una qualità artistica elevata, sotto la direzione di Armin Petras, che lo ha reso unico nel suo genere.
Il volume è preceduto da una introduzione di Andrea Porcheddu che sottolinea come la città di Peter Stein, Thomas Ostermeier, Sasha Waltz, abbia conquistato un ruolo centrale nel panorama del teatro internazionale.

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27 Aprile 2020

L’Ottocento a teatro tra commedie borghesi e drammi veristi

Lorena Vallieri, «Drammaturgia»

Grazie alla casa editrice imolese CUE press sono nuovamente disponibili in formato cartaceo e digitale alcuni dei primi contributi di Siro Ferrone dedicati al teatro dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento: Il teatro di Verga (1972), Commedie e drammi borghesi (1979) e gli atti dei convegni Teatro dell’Italia unita (1980). Pagine pioneristiche, scritte in anni in cui la Storia dello spettacolo stava muovendo i suoi primi passi come disciplina autonoma, ma in cui già si trova quell’attenzione puntuale alla messinscena, al pubblico e, soprattutto, all’attore e alle prassi recitative che caratterizzerà gli scritti successivi di Ferrone.

Il primo volume rivaluta la drammaturgia di Giovanni Verga a fronte di una critica letteraria che la considerava ‘superflua’ rispetto alla comprensione dello scrittore anziché «un laboratorio parallelo e funzionale alla pratica narrativa, ma anche sezione autonoma dello scrivere verghiano in rapporto alle premesse particolari di quel genere» (p. 7). Ferrone guarda anzitutto al contesto storico, sociale e culturale in cui i singoli drammi furono pensati, a partire dal soggiorno fiorentino del maggio-giugno 1865 (pp. 10-36). Nella città toscana, appena diventata capitale del Regno d’Italia, erano attivi una decina di teatri, solidi di una forte tradizione ma aperti a tutti i generi: dall’opera lirica alla commedia, dai concerti musicali alla farsa. Quei foyer erano animati da vivaci dibattiti sulla creazione di un teatro nazionale che fosse in grado di educare il pubblico ai nuovi ideali di una moralità laica e liberale. La ‘riforma’ partiva dalla consapevolezza che il problema centrale del nostro teatro era la mancanza di testi formalmente rilevanti, ‘decorosi’, come lo erano ai tempi di Goldoni e Alfieri. In questo clima va pensata la scrittura del romanzo Una peccatrice, in cui si trovano le prime tracce dell’interesse di Verga per il teatro, «sia inteso nelle sue valenze sociali come rapporto fra autore e pubblico all’interno della società borghese, sia considerato teoricamente, sia pur con osservazioni disordinate e implicite, nei suoi problemi espressivi» (p. 16).

Occorre però attendere il secondo soggiorno fiorentino (1869) perché Verga diventi un assiduo frequentatore dei palchi dei migliori teatri cittadini, nonché amico di impresari, attrici e critici, in primis Francesco Dall’Ongaro e Luigi Capuana. Degli uni e degli altri il siciliano parla a lungo nelle lettere ai propri familiari. Una fonte preziosa per ricostruire la vita culturale dell’epoca. A quello stesso anno risale anche la notizia secondo la quale Verga starebbe scrivendo una commedia. Sappiamo che quella sua prima drammaturgia ottenne il parere positivo dell’influente Dall’Ongaro: «Mi piace assai […] e garantisco io del successo».

Ma la mancanza di indicazioni relative al titolo e al contenuto hanno suscitato perplessità fra gli studiosi circa la sua identità. Ferrone, grazie a inedite evidenze documentali, la identifica in via definitiva con la prima versione di Rose caduche, pubblicata postuma, nel 1928, sulla rivista Maschere di Catania. Un dramma che molto deve al modello di Alexandre Dumas figlio e al già ricordato romanzo Una peccatrice, a cui la lega un rapporto di stretta dipendenza. Come dimostrano le varianti e le derivazioni strutturali e stilistiche accuratamente rilevate. Dalla narrativa alla scena (pp. 38-64).

La trattazione prosegue in senso diacronico. Nelle pagine successive vengono affrontati i cosiddetti drammi veristi: da Cavalleria rusticana (1884) e In portineria (1885) – che seguono le più mature creazioni narrative di Vita dei campi (1880), Malavoglia (1881) e Novelle rusticane (1883) e che risentono del clima culturale che si respirava a Milano, dove Verga si era trasferito nel 1872 (pp. 66-131) –, alle complesse vicende redazionali de La Lupa, riletta in maniera originale attraverso i sei copioni attualmente disponibili (pp. 132-174). Un’esperienza che segna Verga. Dopo le fatiche della tournée parigina del 1908-1909 si registra un suo progressivo allontanamento dai palcoscenici, che rifugge anche come spettatore. L’attenzione si concentra sulla stesura dell’incompiuta Duchessa, dal cui laboratorio nascono i bozzetti scenici Caccia al lupo e Caccia alla volpe (1901), seguiti dal dramma Dal tuo al mio (1903) (pp. 176-212). Chiude il volume una appendice con un primo censimento delle principali rappresentazioni dei drammi verghiani tra il 1884 e la morte del drammaturgo, avvenuta il 27 gennaio 1922 (pp. 214-216).

L’antologia Commedie e drammi borghesi, divisa in tre tomi, venne pubblicata per la prima volta nella importante collana Teatro italiano diretta da Guido Davico Bonino per la casa editrice Einaudi. Si apre con una Introduzione in cui si ripercorrono le trasformazioni – che Ferrone ritiene tempestive rispetto alla storia e alla politica contemporanee – del repertorio, del rapporto tra differenti generi (tragedia, commedia e farsa), dell’organizzazione delle compagnie, della recitazione e della stessa teoria drammaturgica in un arco cronologico che va dalla Rivoluzione Francese alla Prima Guerra Mondiale (pp. 6-43). Decenni in cui il teatro fu l’arte che più rapidamente raccolse i segni dei tempi, convertendoli in elementi formali e tematici nuovi, e armonizzandoli con la tradizione, fino a manifestare, al termine del periodo in questione, un volto e una identità profondamente mutati rispetto a quelli di partenza.

Un percorso che si può seguire attraverso drammaturgie spesso poco note, qui riproposte in una edizione attenta agli aspetti materiali del teatro: L’Aio nell’imbarazzo di Giovanni Giraud (1807), La fiera di Alberto Nota (1817, 1826), Ludo e la sua gran giornata di Francesco Augusto Bon (1833) (to. I); L’opera del Maestro Pastizza di Edoardo Ferravilla (1880 ca.), Miseria e Nobiltà di Eduardo Scarpetta (1887), Cavalleria rusticana di Verga (1884), La moglie ideale di Marco Praga (1890), El nost Milan: la povera gent di Carlo Bertolazzi (1893), ’O mese mariano di Salvatore Di Giacomo (1900), Come le foglie di Giuseppe Giacosa (1900) (to. II); Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Paolo Ferrari (1851), La morte civile di Paolo Giacometti (1861), Le miserie d’Monssú Travet di Vittorio Bersezio (1863), I mariti di Achille Torelli (1867) (to. III). Ogni commedia è corredata da una nota biografica del drammaturgo in cui si forniscono anche notizie sulla pièce e indicazioni bibliografiche essenziali. Ciascun tomo si conclude con una utile Appendice che pone l’accento sull’organizzazione, la messa in scena, la recitazione e le teorie del teatro.

Ancora in corso di stampa il volume Il teatro dell’Italia unita, che raccoglie gli atti di due convegni organizzati dal Gabinetto G.P. Vieusseux tra il 1977 e il 1978. Due proficue occasioni di incontro e dibattito per rivalutare il rapporto tra prosa e lirica, principali espressioni dello spettacolo ottocentesco. Senza tralasciare considerazioni su alcuni aspetti chiave della recitazione, della ‘regia’, della scenografia e dell’economia dello spettacolo. Avremo modo di meglio approfondire non appena la pubblicazione sarà disponibile.

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27 Aprile 2020

Cultura non è star sopra un albero. Mejerchol’d e il teatro dell’avvenire

Angela Forti, «Teatro e Critica»

Il teatro è un’arma con la quale non si può scherzare, diceva Mejerchol’d. Un’arma pericolosa. Forse, potremmo aggiungere, innanzi tutto per sé stessi.

È il 1930, siamo in Russia. Lenin è morto da sei anni, ma il sogno del socialismo sovietico, il mito della grande Rivoluzione d’Ottobre, ancora vive, florido, nelle mani e nelle opere delle avanguardie artistiche. Ejzenstein già si dedica ai primi esperimenti cinematografici, Majakovskij morirà di lì a poco, ma per ora è ancora vivo, e la sua attività drammaturgica si è consolidata. In generale si parla di Costruttivismo: l’arte non ha più sé stessa come finalità ma deve farsi tramite e componente attiva nella costruzione del ‘nuovo mondo socialista’. Cue Press ha pubblicato, lo scorso gennaio, l’edizione rivista e ampliata de L’ottobre teatrale 1918-1930 con gli scritti di Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d a cura di Fausto Malvocati.

Mejerchol’d non si dedicò mai in maniera organica alla scrittura: quello che rimane sono interventi, lezioni, discussioni spesso concise e fulminanti, trascritte da uditori non meglio identificati. Se L’attore biomeccanico, sempre pubblicato da Cue Press, racchiude in un breve volume gli schematici appunti sulla teoria per cui questo autore è spesso e volentieri ricordato, la biomeccanica, il nuovo volume si prefigge, riordinando materiali così eterogenei, di gettare uno sguardo più ampio sulla poetica-politica dell’artista russo, tenendola saldamente in relazione al contesto in cui essa si sviluppa e va, via via, dettagliandosi. L’Ottobre Teatrale è la narrazione della rivoluzione – e del suo fallimento – attraverso gli occhi del teatro. Mejerchol’d non è soltanto uno degli autori e – anche se inconsapevolemente – teorici più influenti del suo tempo: la sua curiosità, il suo spiccato spirito critico, lo portarono a mantenere un contatto sempre costante e affiatato con le pratiche e le teorie contemporanee; ai suoi allievi, così come alle conferenze e nei teatri in cui è invitato, parla della Russia e dell’Europa, della Francia e dell’Italia (quest’ultima in particolare, lo vedremo); continuamente tende relazioni tra teorici come Craig e, ad esempio, la vecchia guardia sovietica: Stanislavskij. Il maestro dapprima rifiutato, certo, poi superato ma, infine, riscoperto e rivalutato. Il risultato è un quaderno di appunti folgorante, agile e variopinto, un compendio sottile per gli attori, ma anche incredibilmente prezioso per registi e critici.

Gli argomenti affrontati da Mejerchol’d nei suoi interventi sono numerosi, ma tutti hanno un denominatore comune: la rivoluzione. Non si può riflettere sulla sua opera senza considerarla nel contesto non tanto della rivoluzione sovietica (fondamentale invece per quanto riguarda i contenuti della sua poetica) ma, più in generale, nel contesto dello stato di rivoluzione: questo coinvolge, una dopo l’altra, le componenti della scena. Il lavoro sull’attore, la biomeccanica, è qui solo uno dei momenti, per giunta preliminare, di una ricerca tutta volta alla fondazione non di una nuova pratica, ma di una completamente nuova, dalla disposizione di poltrone e camerini all’ideologia e alla drammaturgia, in grado di farsi ‘piazza d’armi per la fondazione dell’uomo nuovo’.

Tra questi materiali ho scelto di concentrarmi sul capitolo La ricostruzione del teatro (1929-1930), una brossura che raccoglie una serie di interventi di Mejerchol’d inerenti ai problemi di progettazione e costruzione di un teatro, apparsi separatamente nel corso del 1929. Qui l’autore si concentra sulla rigenerazione del fenomeno teatrale, partendo innanzi tutto dal suo rapporto con un nuovo e pericoloso concorrente: il cinema. «Stiamo entrando in una fase nuova della drammaturgia, stiamo costruendo una nuova forma di spettacolo in cui il conflitto tra cinema e teatro è inevitabile. […] Nel cinema, il fascino esercitato dallo schermo sullo spettatore non è stato più sufficiente. […] Il pubblico ha preteso che l’attore, idolo del cinema muto, cominciasse finalmente a parlare». E conclude con parole anacronistiche: «Non vi sembra che dal momento in cui il film ha cominciato a essere parlato, l’importanza internazionale del cinema abbia cominciato a vacillare?» Egli non poteva davvero immaginare i problemi del nuovo millennio.

Il limite tra teatro e cinema non si pone tanto, per Mejerchol’d, sulla questione della presenza fisica delle parti, tanto meno sulla compresenza di spettatori – egli non può immaginare, infatti, l’esistenza di dispositivi che prevedano la fruizione individuale di qualsivoglia contenuto artistico. E il nodo della questione non è nemmeno, in realtà, la presenza fisica dell’attore, tant’è che l’evoluzione del cinema muto in cinema parlato rappresenta, per lui, un processo di teatrificazione dell’attore cinematografico. Il punto, per Mejerchol’d, sta nello spettatore in quanto individuo e in quanto co-attore dello spettacolo. Nel nuovo mondo comunista, l’operaio alimenta tramite l’arte il proprio bisogno di contribuire al progresso della società. È parte attiva, integrante e indispensabile, di questo processo. L’attore stesso è, ben prima di essere attore, operaio, e deve dedicarsi al teatro nella misura in cui anche lo spettatore si dedica ad esso. È chiaro come Mejerchol’d riprenda, mitizzandola, l’impostazione classica del teatro come spazio della società deputato alla costruzione e al miglioramento della società stessa, in cui ad agire, insieme, in maniera complementare, non sono attori e spettatori, bensì cittadini. In questo caso, proletari.

Le armi che vengono suggerite per assicurare la vittoria del teatro sul cinema ci si presentano come inattese e imprevedibili: «Noi stiamo costruendo un teatro che farà concorrenza al cinema, lasciateci solo portare a termine la nostra ‘cineficazione’ del teatro, lasciateci sperimentare sulla scena i mezzi tecnici dello schermo cinematografico (non nel senso che appenderemo uno schermo in teatro), lasciateci preparare un palcoscenico attrezzato con la tecnica più moderna, in grado di risolvere tutte le esigenze di uno spettacolo teatrale e a quel punto, vi daremo degli spettacoli che attireranno un pubblico non inferiore a quello dei cinematografi».

Ebbene sì: per competere con il cinema, il teatro del socialismo sovietico, dell’ideologia marxista, deve necessariamente ricorrere all’industrializzazione dei propri mezzi. Mejerchol’d parla specificatamente di taylorizzazione del processo di produzione teatrale: se organizzato meticolosamente, secondo gli standard della razionalizzazione socialista, deve essere l’ambiente di lavoro dell’operaio, altrettanto deve esserlo il suo ambiente di riposo. Un teatro che voglia coinvolgere la grande massa deve saper utilizzare con maestria tutte le conquiste tecniche. Tecnologia e ideologia devono stare sullo stesso piano, «il come è importante quanto il cosa». ‘Cineficazione del teatro’: un’espressione che, se isolata dal suo contesto, in questo preciso momento storico potrebbe farci rabbrividire, suonare come forzatamente contro corrente e provocatoria. Questo processo, per Mejerchol’d, dipende da una riorganizzazione globale del teatro e, soprattutto, dell’edificio teatrale. Una nave, così gli architetti devono immaginare il nuovo teatro: una nave con tiri di carico agili, con scene meccaniche che permettano di accelerare i processi di rappresentazione. Una platea ad anfiteatro e, soprattutto, un palscoscenico aperto per rendere sensibile la compresenza di attori e spettatori, per facilitare il loro percorso di collaborazione. Mejerchol’d dimostra un’attenzione affettuosa nei confronti dei lavoratori: i cambi scena devono essere rapidi, il buffet deve essere sostituito con il bancone all’italiana e gli atti trasformati in episodi in modo che il pubblico non debba correre per poter prendere l’ultimo tram. I camerini, ampi e attrezzati con docce, devono essere adiacenti al palco per permettere all’attore di seguire l’azione scenica e, soprattutto, per evitare che l’attore ‘si stanchi il cuore’ correndo su e giù per le scale scoscese di un retropalco. Avveniristico, utopistico, senz’altro. Il teatro della parola e del movimento sarà competitivo solo quando avrà conquistato l’autonomia dei propri mezzi tecnici e, allo stesso tempo, ci dice Mejerchol’d – lasciando a noi non troppe speranze – si imporrà soltanto quando il sistema socialista si sostituirà a quello capitalista.

Nello stesso testo Mejerchol’d fa un appunto particolarmente interessante per quanto riguarda l’Italia – paese della cui tradizione teatrale, soprattutto rispetto alla Commedia dell’Arte (parteggiando per Gozzi e non per Goldoni), egli fu avido studioso e ammiratore. Dice: «Due o tre anni fa, viaggiando per l’Italia ho potuto constatare, con mio grande stupore, che in questo Paese, dove era nato lo splendido teatro dell’improvvisazione, […] oggi, il teatro non esiste. […] Le radici del teatro italiano sono sane, ma manca un’organizzazione capace di prendersi cura di questa tenera pianticella e di impedire che muoia soffocata».

Condanna Marinetti e il futurismo, il cui motto ‘Abbasso le tradizioni!’ tradisce quel bisogno di spettacoli, quella formula, panem et circenses che, secondo Mejerchol’d, è di forte attualità: «Chi, allora, ha sfruttato questa particolare inclinazione del popolo italiano per un teatro puro, per un teatro di strada, per una teatralità festosa dalle forti tinte? I rappresentanti della Chiesa».

È il Papa – qui non senza l’ironia di un socialismo che dalla Chiesa Cattolica era stato ufficialmente disconosciuto – il più grande e abile dei registi, autore di un teatro solenne e insieme triviale, sensazionale, «per il quale si spende tanto danaro». Il Papa e, in coda, Mussolini: il fascismo che tende la mano alla Chiesa, il duce che non ci pensa proprio a costruire teatri e stadi, che «è pronto ad alternare le sue parate militari alle processioni cattoliche. Non gli occorrono teatri, gli basta poter disporre di un ‘regista’ come il papa. I direttori dei teatri italiani potrebbero mai competere con uno spettacolo di questo genere? A chi serve un teatrino in un piccolo vicolo in cui c’è posto solo per qualche centinaia di persone?».

Abbiamo visto le immagini di Papa Francesco, solo nello sterminato piazzale berniniano, invocare la benedizione urbi et orbi; quelle immagini che sono state dichiarate tra le più potenti del nostro nuovo giovane secolo. E, del resto, il discorso del rapporto tra arte e potere e della politica trasformata in spettacolo è un discorso che certo, nel nostro Paese, non finisce con il fascismo (laddove si riesca a teorizzare una fine del fascismo). Basti pensare a come il rapporto tra spettacolarità e politica si è voluto partendo dai primi governi Berlusconi, fino alle piattaforme web, tipiche degli influencer, su cui gli attuali esponenti hanno trasferito le proprie performance elettorali.

Si virtualizza la politica, così come si virtualizzano le nostre relazioni e interazioni sociali. Può virtualizzarsi il teatro? Se, così come per Mejerchol’d il problema non risiede nel medium attraverso cui lo spettacolo passa, la presenza o meno di uno schermo, così potremmo assumere che forse la nostra esperienza culturale non dipende dal dispositivo che utilizziamo. La questione della cultura sembra qui essere, a tutti gli effetti, una questione di partecipazione. Il teatro, negli interventi mejercholdiani, coinvolge lo spettatore intellettualmente ma anche, e questo non va dimenticato, emotivamente. Lo spettatore è tale, e solo così può godere del proprio ruolo, non quando assiste ma quando partecipa attivamente e consapevolmente al completamento e alla realizzazione dello spettacolo. Mejerchol’d lo ricorda spesso, con insistenza, ai propri allievi: non è necessario che leggiate innumerevoli libri; anzi quando leggete, interrompete la lettura e cercate da soli di continuare la storia. Dovete viaggiare, che sia per il mondo o per le strade di Mosca, nel vero senso della parola. Cultura non è star sopra un albero: un’esperienza culturale non è acquisizione passiva di contenuti ma è partecipazione attiva, intellettuale ed emotiva: necessariamente corpo.

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